Lo sapevate che...
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maggio 2006
1 giugno
Cgil, la sinfonia dei 100 anni
P. A.
Le note e il timbro della sinfonia
passano dai toni da socialismo sovietico a quelli dell'Intenazionale, fino
al jazz, quando sono stati evocati i morti di Chicago, i primi del Primo
maggio. Cento anni di storia raccontati con la musica e con le parole in un
fitto intrecciarsi di suggestioni, quasi di echi di un passato che sembra
lontano, ma è ancora quasi un presente. «In fondo - dice Vincenzo Cerami,
autore del testo - che cosa sono cento anni nella storia dell'umanità? La
Cgil è giovane e siccome è la cartina al tornasole della democrazia, noi gli
facciamo grandi auguri».
La sinfonia per il Centenario della Cgil, scritta da Nicola Piovani, è stata
eseguita domenica sera a Roma, nella sala grande Santa Cecilia
dell'Auditorium della musica. Rulli di tamburi e suoni che si sono mescolati
alle splendide voci soliste, due maschili (Pino Ingrosso e Alessandro
Quarta) e due femminili (Raffaella Siniscalchi e Gabriella Zanchi) e alla
voce ferma e perfino quasi commossa di un ispirato Gigi Proietti. Era il
primo ottobre 1906. Quel giorno nacque la Cgil. E' stata la frase finale,
prima del grande applauso di una sala stracolma che ha richiamato sul palco
i musicisti e i cantanti per parecchie volte, fino a convincere il maestro
Piovani a concedere un piccolo gradito bis.
Piovani si è sequestrato per quattro mesi per scrivere questa sinfonia
commissionata dalla Cgil, mentre Cerami ha scritto il testo senza tenere
conto di steccati o obblighi di cronologia. Si è inventato piuttosto una
sorta di volo sul mondo degli ultimi cento anni, per rivedere le peggiori
forme di schiavitù, di violenza e di rivincita del movimento dei lavoratori.
Testo e note di Piovani hanno lanciato anche più lontano le lianei della
storia, fino a ricorrere all'Ecclesiaste da cui è stato preso il filo
conduttore: meglio essere in due che soli, meglio essere in mille che in
due. Il valore della solidarietà, del compagno pronto a darti un aiuto
quando cadi. Una musica da sinfonia classica, un testo postmoderno, così
Proietti è diventato quasi il replicante di Blade Runner che ha visto la
storia del mondo passare davanti ai suoi occhi.
Nella sinfonia c'è anche l'eclisse del fascismo e c'è il ricordo della
storia di milioni di individui singoli che si sono messi insieme per essere
più forti. Non è questa, forse, la storia del movimento operaio?
Farmaci Cartello per dividersi il mercato L'Antitrust
multa nove società
L'Antitrust ha sanzionato per 3,7
milioni 9 imprese che operano nel mercato della fornitura di prodotti
antisettici e disinfettanti alle strutture sanitarie pubbliche.
L'istruttoria era stata avviata sulla base di una segnalazione della Guardia
di Finanza. Il Garante ha specificato di aver «accertato l'esistenza di
un'intesa, posta in essere tra il 1998 e il 2001, volta a ripartire il
mercato italiano della fornitura di prodotti antisettici e disinfettanti
alle strutture sanitarie pubbliche». Le società sanzionate sono Farmecl,
Nuova Farmec, AstraZeneca, Braun, Esoform, Ims, P Farmaceutici, Meda Pharma,
Sanitas.
Guantanamo
No al cibo per 75
Il numero dei detenuti che sono scesi in sciopero della fame
nel campo di Guantanamo è cresciuto ed ora coinvolge almeno 75 carcerati. Lo
ha riferito il comandante della marina militare statunitense Robert Durant.
Durant ha spiegato che il nuovo sciopero della fame può essere collegato ai
disordini scoppiati il 18 maggio nel campo di prigionia. Circa 460
prigionieri sono ancora a Guantanamo, molti dei quali catturati in
Afghanistan e detenuti da quasi 4 anni senza formale incriminazione da parte
delle autorità giudiziarie.
Usa, missili no-nuke che colpiscono in un'ora
Global strike, tutti nel mirino
Manlio Dinucci
«Non più di un'ora»: questo il tempo che occorrerà agli
Stati uniti per colpire qualsiasi obiettivo sulla faccia della terra. Lo ha
annunciato ieri il gen. James Cartwright, capo del Comando strategico
(Stratcom), precisando che nei 60 minuti è «compreso il tempo necessario ad
avere l'autorizzazione del presidente per l'attacco» (The New York Times,
29 maggio).
A colpire l'obiettivo sarà una testata convenzionale (non-nucleare),
trasportata però da un missile balistico Trident II D-5 da attacco nucleare.
Il piano presentato dallo Stratcom prevede che, in ciascuno dei 18
sottomarini Trident, due dei 24 tubi di lancio saranno destinati a questi
missili, ciascuno armato di 4 testate convenzionali indipendenti in grado di
colpire altrettanti obiettivi. Negli altri 22 tubi di lancio ci saranno i
«normali» missili, ciascuno armato di almeno 5 testate nucleari
indipendenti. Sono già pronte varie testate convenzionali per i Trident II
D-5: una sparge su una vasta area freccette di tungsteno in grado di
distruggere veicoli e penetrare all'interno di case e rifugi.
In tal modo, ha spiegato il gen. Cartwright, gli Stati uniti potranno
attaccare anche in regioni dove non hanno abbastanza basi e forze e
occorrono quindi giorni per trasferirvi aerei e navi. E lo potranno fare in
tempi rapidissimi, mentre occorrono molte ore perché un bombardiere,
partendo dagli Stati uniti, possa effettuare la missione. I missili
balistici a testate convenzionali, spiegano al Pentagono, potranno essere
usati per «attaccare campi di terroristi, siti missilistici nemici, sospetti
nascondigli di armi biologiche, chimiche o nucleari e altre potenziali fonti
di immediata minaccia».
Una volta individuato l'obiettivo attraverso immagini satellitari o
informatori in loco, il Centcom chiederà l'autorizzazione del presidente che
dovrà decidere in meno di mezzora. Darà quindi ordine al più vicino
sottomarino di lanciare i missili. Le testate, una volta rilasciate fuori
dell'atmosfera, vi rientreranno a una velocità di 28mila km/h colpendo gli
obiettivi a oltre 7mila km di distanza in un tempo massimo di 30 minuti dal
lancio. Data la loro enorme velocità, potranno distruggere gli obiettivi
anche con il semplice impatto cinetico. Il Centcom potrà così agire
fulmineamente, mettendo in pratica la strategia del «Global Strike», ossia
dell'Attacco globale. Non a caso il suo emblema raffigura la mano corazzata
di un guerriero che, dallo spazio sullo sfondo della terra, impugna tre
fulmini, «simboli di velocità e letalità», e un ramoscello d'olivo per
«ricordare che la missione del comando è assicurare la pace».
Ma come potranno Russia, Cina e altri paesi tenuti sotto mira dai missili
nucleari statunitensi capire quale tipo di testata avranno i missili Trident
lanciati dai sottomarini? Nessuna tecnologia permette di farlo. Vi è quindi,
secondo diversi esperti intervistati dal New York Times, «il rischio
di un confronto nucleare accidentale». Lo stesso Putin, nel suo indirizzo
alla nazione l'11 maggio, ha avvertito che «il lancio di un missile di
questo tipo potrebbe provocare una inappropriata risposta da parte di una
delle potenze nucleari, un contrattacco con forze nucleari strategiche».
Negli Stati uniti occorre quindi il nullaosta del Congresso perché il
programma sia reso operativo. E il Pentagono, che ha messo a punto ogni
dettaglio, sta premendo fortemente in tal senso.
Per evitare pericolosi equivoci, ha detto il gen. Cartwright, Russia, Cina e
altri paesi potrebbero essere «informati quando gli Stati uniti lanciano un
missile Trident II a testate convenzionali». Le rassicurazioni però non
bastano: a Mosca e Pechino sanno bene che i missili balistici a lungo raggio
non sono mai stati usati finora in un'azione bellica e che il loro impiego,
anche con testate convenzionali, servirebbe a testarli in condizioni reali
così da migliorarne le prestazioni per un attacco nucleare. Come ha
precisato il gen. Cartwright, dopo un volo di migliaia di miglia le testate
dei missili possono colpire in un raggio di 5 iarde, 4 metri e mezzo,
dall'obiettivo. Precisione anche eccessiva, se le freccette al tungsteno
possono seminare la morte in una raggio di centinaia di metri e una testata
nucleare in un raggio di decine di chilometri.
30 maggio
IL COMMENTO
La rivincita
mancata
di MASSIMO GIANNINI
LA RIVINCITA. La spallata. Lo sgambetto. Il calcio nei denti.
Qualunque sia la definizione lessicale, il tentativo politico di
Berlusconi è fallito. Le elezioni amministrative come strumento di
una jacquerie carnevalesca che avrebbe dovuto avviare il processo di
definitiva delegittimazione del centrosinistra al governo. Il voto
locale come primo passo di una Vandea populista che, attraverso la
tappa successiva del referendum sulla devolution, avrebbe dovuto
sancire l'irrilevanza del voto nazionale. Se questo era il progetto
del Cavaliere, non ha funzionato. Dalle urne di 1.200 comuni, di 8
province e della Regione Sicilia non è uscito nessun ribaltone. I
quasi 15 milioni di italiani che tra domenica e lunedì sono andati a
votare non hanno invertito il risultato del 9-10 aprile. Al
contrario.
Hanno consolidato il successo dell'Unione, che alle politiche era
risultato millesimale, ma che a questo punto si rivela un po' più
solido e un po' meno effimero di quanto non era apparso un mese e
mezzo fa.
Il centrosinistra, a questo punto, non ha più alibi. Non gli resta
che governare. Con la ragionevole prospettiva della legislatura. Può
contare su un asset in più, oltre a quei 130.793 voti di maggioranza
che ha ottenuto un mese e mezzo fa. Ha una base su cui costruire:
circa 2,9 milioni di voti dei giovani, che secondo uno studio di
Paolo Segatti appena pubblicato dall'Università di Milano hanno
votato in massa per il centrosinistra. Ha un patrimonio da
valorizzare: la lista unitaria dell'Ulivo, che anche in questa
tornata locale ha dato un ottimo raccolto, e che a questo punto
sarebbe un delitto non far fruttare nel partito democratico.
Il centrodestra conserva solo la Sicilia con Cuffaro, e si tiene a
fatica Milano con la Moratti. Il centrosinistra vince nelle grandi
città, prevale nei comuni minori e strappa al Polo Arezzo, Grosseto,
Benevento, Crotone e la provincia di Reggio Calabria. Nel complesso,
nei 23 comuni-capoluogo in cui si partiva da un rapporto di 12 a 11,
i rapporti di forza si rovesciano: ben 14 all'Unione, solo 4 al Polo
e 5 destinati al ballottaggio.
Non era un risultato scontato. Dopo il trionfo alle politiche del
2001, una "stangata" di ritorno toccò anche alla Cdl nelle comunali
dello stesso anno, e soprattutto alle regionali del 2003. Stavolta
la riscossa dell'opposizione era persino più giustificata. La
partenza di Prodi è stata confusa e faticosa. La maggioranza
unionista ha sprecato un mese a discutere organigrammi e a oscurare
programmi. Il governo è nato tra le polemiche, culminate nella
querelle geo-politica: l'assenza clamorosa di ministri del
lombardo-veneto, cioè di quella metà più moderna e dinamica del
Paese che non ha creduto alla scommessa prodiana ed è rimasta
aggrappata al miraggio berlusconiano. Ce n'era abbastanza per temere
una crisi di rigetto. E invece l'elettorato non solo non ha punito
il centrosinistra, ma l'ha premiato con un ulteriore aumento dei
consensi.
Sul trionfo di Walter Veltroni a Roma non c'è molto da dire. Si
prevedeva un plebiscito, e di plebiscito si è trattato. Non poteva
bastare la buona volontà di un ex ministro di An come Alemanno, per
fermare la "gioiosa macchina del consenso" veltroniana. Sul fronte
opposto, qualcosa in più c'è da dire sulla conferma di Cuffaro alle
regionali siciliane. Prevedibile anche questa, ma con uno scarto
molto più consistente di quello che si è registrato. Il centrodestra
ha perso terreno. Rita Borsellino si è rivelata una sfidante
assolutamente all'altezza. I tempi del 61 a 0 sembrano lontani. Il
monocolore azzurro, oggi, è visibilmente sbiadito.
Le vere sorprese di questo voto sono altre. Riflettono una realtà
locale, ma servono a descrivere una verità nazionale. La prima
sorpresa riguarda il Nord, dove il monolite polista mostra crepe
tangibili. A Milano l'Unione ha sfiorato il miracolo. Nella
"capitale morale", da sempre considerata l'inespugnabile casamatta
del potere azzurro, Letizia Moratti ha evitato il ballottaggio con
Ferrante grazie a un margine esiguo. La cassaforte del Nord,
evidentemente, non è poi così blindata. E questo già dovrebbe
bastare, per convincere il centrodestra a una riflessione.
Ma è ancora di più su Torino, che il Polo dovrebbe riflettere.
Quella di Sergio Chiamparino, per quantità e qualità, è stata molto
di più che una vittoria. Oltre tutto, ottenuta a spese di un altro
ministro del governo uscente come Buttiglione. È un premio alla
buona amministrazione, certo. È il dividendo del progressivo
risanamento Fiat e delle Olimpiadi invernali, senz'altro. Ma è anche
un segnale preciso: in quel Profondo Nord, dove pulsa il cuore della
ricchezza italiana e della biografia berlusconiana, il
centrosinistra ha ancora ottime chance, se solo si convince a
parlare il linguaggio della modernità e del riformismo.
La seconda sorpresa riguarda Napoli. La bella vittoria di Rosa Russo
Iervolino vale molto di più della semplice riconferma di un sindaco.
A Napoli Berlusconi era capolista. Le uniche, tonitruanti
scorribande tipiche delle sue campagne elettorali il Cavaliere le ha
fatte proprio nel capoluogo campano. Ben tre volte ha attraversato
la città partenopea, dal Vomero a piazza del Plebiscito. Ma comizi
pirotecnici e bagni di folla festante non sono bastati a far vincere
Malvano. Per l'ex premier, che ha costruito la sua avventura sulla
mitopoiesi del vincitore, è insieme una sconfitta politica e una
disfatta personale. Anche in questo caso, per il centrodestra c'è
materia per riflettere.
La Casa delle Libertà ha molti modi per interpretare questo voto.
Una chiave della mancata riscossa sta senz'altro nell'astensionismo.
Dal 1994 in poi, il centrodestra ha sempre scontato un forte divario
tra il risultato delle politiche (più alto) e quello delle
amministrative (molto più basso). Ma questa non è una "legge di
natura" della politica. È invece un problema di struttura
dell'alleanza. È l'esito inevitabile del fattore B. Quando
Berlusconi scende in campo, e con la forza di fuoco della sua
propaganda e delle sue televisioni trasforma ogni contesa elettorale
in un referendum sulla sua persona, il meccanismo funziona.
Il leader carismatico, personalizzando il conflitto e caricandolo di
ideologia, smuove dal torpore l'Italia di mezzo, trascina al voto
una parte di quel 10% di "elettori apatici" che non votano e non si
interessano di politica. È quello che è avvenuto il 9-10 aprile su
scala nazionale, e spiega la formidabile rimonta del Polo. Ma alle
amministrative l'ingranaggio si inceppa. Dove la politica si sposa
con il territorio, il profilo del Cavaliere o è assente e dunque non
traina (come è successo a Milano) o è troppo ingombrante e quindi fa
ombra ai candidati locali (come è capitato a Napoli).
Se la riflessione si fermasse qui, il centrodestra potrebbe
continuare a confidare nelle inesauribili doti taumaturgiche del suo
capo, aspettando le prossime elezioni politiche. Ma quanto può
reggere questa formula marcusiana di "alleanza a una dimensione",
che il Polo ha costruito intorno alla figura del suo fantasioso
"maieuta"? Alle politiche di aprile Forza Italia ha già perso 2
milioni di voti rispetto al 2001. A queste amministrative, il
partito personale del Cavaliere è crollato ancora. Di schianto in
città come Torino e Roma, ma comunque di misura nel resto dei comuni
e delle province. La Lega è sempre più rinchiusa nella ridotta
Padana, pronta a consumare le sue vendette autonomiste dopo il
referendum di giugno. An tiene, l'Udc continua a guadagnare voti.
Fino a quando Fini e Casini saranno disposti a
rimandare la resa dei conti? Fino a quando si rifiuteranno di
chiudere il ciclo del "frontismo" populista e a dichiarare
ufficialmente aperta la stagione del dopo-Berlusconi? "La destra
deve uscire dalla sua inconcludenza, rifacendosi all'esempio del
conservatorismo inglese, pragmatico e anti-ideologico,
post-rivoluzionario più che contro-rivoluzionario, con più
attenzione alla tradizione liberale e un rapporto più aperto e
costruttivo con la civiltà moderna...". Sono parole di Raymond Aron,
scritte vent'anni fa. Dovrebbero rileggerle e farne tesoro, i leader
"moderati" dell'Italia di oggi.
28 maggio
IL COMMENTO
Campagna elettorale
permanente
di ILVO DIAMANTI
SI TORNA a votare. Per eleggere i sindaci di molte importanti città, fra
cui: Roma, Milano, Torino, Napoli. E ancora: il governatore della Regione
Sicilia. Oltre ai presidenti di otto province. Nel complesso: venti milioni
di italiani chiamati alle urne. La campagna delle elezioni politiche, che si
sono svolte lo scorso 9 aprile, non si è mai chiusa. Come, d'altronde,
l'esito di quelle elezioni. Che non è accettato dai leader della coalizione
sconfitta, la Cdl. Anzitutto dal "leader dei leader". Silvio Berlusconi.
Che, in questo modo, si propone ancora come leader non solo di FI e della
Cdl: ma del governo. E del Paese. Perché rifiutare il verdetto delle
elezioni politiche, considerarlo fasullo, frutto di brogli e di inganno; in
contrasto con la "volontà popolare": significa rifiutare la legittimità di
ciò che è avvenuto "dopo". Il governo guidato da Prodi. Finanche le maggiori
cariche dello Stato. Presidente della Repubblica incluso. Tutti abusivi.
Inquilini morosi del Palazzo.
Per cui Berlusconi agisce come il Presidente legittimo, deposto da un golpe.
E continua, per questo, a intrattenere rapporti con i governi stranieri. Da
Presidente. Diffida il governo abusivo dal mettere mano alle leggi approvate
dal "suo" governo. Minaccia, in caso contrario, di mobilitare il "suo"
popolo, la maggioranza del Paese. Di scendere in piazza, per assediare il
Palazzo, oggi occupato da un manipolo di squatter, capeggiato da Prodi.
Usiamo un linguaggio colorito, da "piazza". Appunto. Che però riflette
piuttosto fedelmente quello adottato, in questa fase, dal leader del
centrodestra e dai suoi assistenti. Nella forma e nei contenuti.
Un linguaggio, dunque, da "campagna elettorale permanente". Come se il voto
del 9 aprile non ci fosse stato. Oppure, in realtà, fosse solo il primo -
contestato - turno di una contesa elettorale lunga. Destinata a chiudersi,
provvisoriamente, solo il prossimo 25 giugno, con il referendum confermativo
sulle riforme istituzionali. Per cui il voto di oggi diventa, nelle parole
di Berlusconi, l'occasione per dare "un primo avviso di sfratto alla
sinistra". All'inquilino abusivo di Palazzo Chigi. Cui far seguire l'atto
definitivo, fra un mese.
Una "campagna elettorale permanente". È lo stesso leader della Cdl ad aver
usato questa formula, nelle scorse settimane. Più volte. Evocando una
formula nota, negli Usa. (Coniata da Sidney Blumenthal, poi divenuto
consigliere di Clinton, nel 1980). Che sottolinea la tendenza degli attori
politici, soprattutto di chi governa, a orientare il clima d'opinione
"giorno per giorno", attraverso il ricorso continuo agli strumenti del
marketing e della comunicazione. In Italia, invece, è il leader
dell'opposizione, Silvio Berlusconi, a invocare la "campagna elettorale
permanente". Forse perché si sente ancora lui, il Presidente. Ma,
soprattutto, per due ragioni.
1. Alimenta il clima di instabilità politica, in cui opera il governo di
centrosinistra. E rafforza i "risultati" ottenuti nel corso degli ultimi
mesi di campagna elettorale. In particolare: la frattura fra i cosiddetti
"ceti produttivi" e il centrosinistra. Aperta dall'irruzione di Berlusconi
nel convegno degli industriali a Vicenza, lo scorso marzo. Confermata, nei
giorni scorsi, all'Assemblea di Confindustria. Dove si è percepito che il
cuore degli imprenditori (come ha scritto Alberto Statera su questo
giornale) "batte ancora a destra". Ma, soprattutto, che in questa fase il
"potere è liquido" (come ha suggerito Dario Di Vico, sul Corriere della
Sera, parafrasando Baumann).
Perché non ci sono - o almeno non si vedono ancora - "autorità politiche"
che appaiano in grado di "comandare" davvero. E a lungo. L'immagine di un
"potere liquido", e quindi instabile, fluido, non è solo effetto della
"campagna permanente" di Berlusconi. Ne è altresì la condizione, il
moltiplicatore. Perché se il governo è incerto, come la sua durata, allora
non c'è bisogno di prepararsi a una opposizione di lungo periodo. Di
negoziare e contrastare, garantendo riconoscimento e legittimità al governo.
Meglio usare l'ariete, cercare comunque e dovunque la "spallata" decisiva,
per spazzare via Prodi e la sua compagine, affollata e ciarliera. In fretta.
2. La seconda ragione, non meno importante della precedente, è tutta interna
al centrodestra. Che, da quando è partita la campagna elettorale in vista
delle elezioni politiche, nello scorso autunno, più che una coalizione,
appare un "partito unico". Il Partito del Popolo (Pdp), annunciato da
Berlusconi, il cui processo fondativo dovrebbe avvenire nel prossimo
autunno. C'è già. Da mesi, ormai, il Cavaliere agisce, parla, interviene,
comunica, decide: da solo. Per tutti. Coloro che appena un anno fa ne
discutevano la leadership, Follini e Tabacci, sono considerati e trattati,
nella loro stessa coalizione, nel loro stesso partito, alla stregua di
estremisti, infiltrati e traditori (come va ripetendo, da tempo, Carlo
Giovanardi). Mentre i leader dei partiti alleati, Casini e Fini, hanno
assunto, progressivamente, l'immagine di sottufficiali. Al più di
"capicorrente". Mentre la Lega, da tempo, appare affine e coerente, per
stile e contenuti, alla leadership di Berlusconi.
Il Partito Unico di centrodestra, il Pdp: c'è già, nei fatti. Senza bisogno
di lunghe ed estenuanti discussioni. E di passaggi complessi e bizantini,
come avviene a centrosinistra. Dove da dieci anni si dibatte di Ulivo,
Partito Democratico e si sperimentano aggregazioni seguendo una geometria
variabile, di elezione in elezione. Nel centrodestra non ce n'è bisogno. Il
soggetto politico unitario è nei fatti. Da mesi. Unificato dalla figura del
leader. Costruito attraverso riti di identificazione, come è avvenuto a
Vicenza. E attraverso una campagna elettorale "permanente": fatta di
proclami, comizi, invettive. Legittimata da una presenza "permanente" in
video. Nei tigì, nei talk show, a Porta a Porta. Da solo. Senza gli inutili
e illiberali vincoli imposti dalla par condicio. Tanto che, se si guarda la
televisione, in queste settimane, non sembra essere cambiato nulla rispetto
a prima del 9 aprile.
Le sfide elettorali delle città appaiono piccoli confronti locali, piccoli
conflitti di teatro, sullo sfondo della vera, unica, grande sfida. Che
oppone Berlusconi e il suo PP (Partito del Popolo, ma anche Partito
Personale) alla Sinistra.
D'altra parte, è difficile per tutti, avversari e alleati, oggi, contrastare
questo percorso. Mettersi di traverso. Invitare ad abbassare i toni. Al
confronto misurato e riflessivo. Come sembra difficile disinnescare questa
strategia, mettendone in luce i pericoli, i limiti e i rischi. Perché il suo
principale artefice e interprete, Berlusconi, ne ha dimostrato l'efficacia.
Perché, contro ogni previsione, sondaggio, profezia: ha colmato un distacco
incolmabile. Ha trascinato la Destra a ridosso della Sinistra. In pochi
mesi. (Anche se, alla fine, ha perso; anche se FI è calata del 5%. Ma la sua
strategia è riuscita, fra l'altro, a occultare questi aspetti). Berlusconi.
Ha trasformato la "campagna permanente" in un campo di battaglia. Tacitando
tutti. Amici e nemici. Politici, commentatori, opinionisti e analisti.
Per cui non c'è speranza. Per un altro mese, almeno. Le elezioni, la
campagna elettorale. Continueranno ad apparire la prosecuzione della guerra
con altri mezzi (ma con un linguaggio molto simile). La strategia del
ritiro, chiamarsi fuori, in questo caso, non sembra possibile. Al
centrosinistra resta una sola strada. Vincere. Queste elezioni e,
soprattutto, il prossimo referendum. Che investono direttamente il governo,
le istituzioni e il sistema partitico nazionale. La Politica, per ora, può
attendere.
26 maggio
Inchiesta
L'onda blu del privilegio
di Gianluca Di Feo
e Paolo Forcellini
Di servizio o di rappresentanza: 150 mila vetture pagate dai
cittadini. Senza controllo
Stato di grazia
43.481 vetture nel settore statale, senza contare quelle di
Palazzo Chigi e dei servizi segreti. Per uso esclusivo si
intende un'auto utilizzata da un singolo alto dirigente.
Ministero economia e finanze
25 in uso esclusivo, 460 non esclusivo e altre 8.489 per Guardia
di Finanza
Difesa
uso esclusivo 10, non esclusivo 1.038 (304 delle quali per
l'Arma dei carabinieri)
Ambiente e tutela territorio ...
Nella chiesa romana si onora il sacrificio di due alpini, morti a
Kabul per fare il loro dovere e guadagnare un pugno di euro in più.
Fuori invece va in scena l'ingorgo dello status symbol: decine e
decine di auto blu, tutte con autista, che cercano di depositare le
autorità al riparo dalla pioggia. E poi trovare un parcheggio. Un
intreccio di Lancia, Mercedes, Audi e qualche sparuta Fiat e Hyundai
che manovrano per sfruttare lo spazio: i vigili devono dare ordine a
quel magma di berline monocolore, un rompicapo di incastri superiore
a ogni cubo di Rubik. Poi alla fine l'ordine viene trovato: tre
grandi spazi intorno alla fontana delle Naiadi si lastricano di
ammiraglie. Altri due quadrati si formano verso via Vittorio
Emanuele Orlando. Ma non bastano a contenere il fiume blu, che
tracima lungo il viale per la stazione Termini davanti al monumento
che ricorda i caduti di Dogali e poi dilaga oltre: 24 si appostano
in via Pastrengo, altre davanti al Grand Hotel dove un'Audi con il
'passi' di Palazzo Chigi si lascia ammirare nello sfarzo di poltrone
in pelle e rivestimenti in radica. Alla fine il cronista de
'L'espresso' ne conta 215. Ma non basta. La processione di vetture
di servizio sembra inarrestabile, continuano a orbitare intorno alla
piazza in attesa che la cerimonia finisca: sono soprattutto Alfa
156, almeno una trentina, che girano a vuoto aspettando una
telefonata della 'personalità'. "Le sembrano tante? Doveva vedere la
scorsa settimana, quando c'è stata la funzione per le vittime di
Nassiriya", commenta un vigile urbano: "Erano molte di più. Oggi si
vede che i politici devono pensare ai giochi per il Quirinale". E
infatti nel bel mezzo della cerimonia una Mercedes con scorta
attraversa la piazza con la sirena a tutto volume, nonostante la
strada deserta, con disprezzo per il silenzio del funerale.
"L'altra volta erano molte di più...". Già ma pur sempre una goccia
nel mare delle auto blu, simbolo immortale della superiorità del
politico e del grand commis, summa del privilegio italico passata
indisturbata dalla prima alla seconda Repubblica. "Scorte e auto di
rappresentanza non possono essere uno status symbol ma una risposta
a reali necessità", ha tuonato Romano Prodi nel suo discorso
d'insediamento. E ha promesso un taglio del cinquanta per cento. A
ridurle ci aveva provato da ultima la Finanziaria approvata a fine
2004: nel 2005, 2006 e 2007, deliberava, le spese per le auto di
servizio non potranno superare il "90, 80 e 70 per cento di quelle
sostenute nel 2004". Ma quante erano le vetture su cui calare la
scure? A nessuno era dato saperlo, ragion per cui la stessa norma
stabiliva che entro il 31 marzo 2005 le pubbliche amministrazioni
avrebbero dovuto comunicare al ministero dell'Economia la cifra
esatta delle auto a disposizione e il relativo costo complessivo,
onde poter verificare i risparmi via via conseguiti. Con poco più di
un anno di ritardo il censimento è alfine arrivato. Incompleto,
molto incompleto. Secondo il documento trasmesso dal ministero
dell'Economia al Parlamento, in circolazione ci sarebbero 43.481
auto ex blu (oggi sono quasi tutte grigio-metallizzato). Molte meno
di quante stimate da diversi esperti negli anni scorsi: 300 mila se
si comprendevano anche le Regioni e gli altri enti locali; 150-170
mila, secondo le fonti, per le sole automobili dei ministeri e degli
enti pubblici non territoriali.
Eppure già quelle 215 accatastate il 9 maggio davanti alla basilica
di Santa Maria degli Angeli permettono di esaminare un catalogo
impressionante dello spreco. Dominano le Lancia Thesis, almeno 40.
Una quindicina le Audi, attualmente il top nella gerarchia del
potere: dal premier dimissionario al comandante della capitaneria di
porto. C'è una sparuta pattuglia di Mercedes, cinque Bmw e cinque
Volvo. Due le Maserati: quella del capo dello Stato e quella di
Gianni Letta. Per non parlare del Suv Bmw X 5 con lampeggiante e
permesso ministeriale. Le più dimesse sono una Citroën Saxo di un
ufficiale delle Fiamme Gialle, alcune Hyundai Lantra del ministero
della Difesa, delle Fiat Brava e Marea militari e una datata Alfa
155 di un colonnello dei carabinieri. Alle 10 e 50, prima che le
bare avvolte nel tricolore escano sul sagrato, la folla di autisti
comincia a scaldare i motori: come in un grand prix si attende il
via libera per 'prelevare' le autorità e correre verso le Camere per
designare il nuovo presidente della Repubblica. Tutto sommato, lo
scatto avviene in modo ordinato. Una dietro l'altra, si fermano
davanti alla soglia evitando ai privilegiati il rischio di compiere
anche il minimo sforzo. Pochi vip raggiungono il parcheggio
camminando. Il prefetto Achille Serra, che va via a piedi. Piero
Fassino, che si infila in una Lancia K dall'aria stanca e
dall'inelegante colore verde. Il segretario di Rifondazione Franco
Giordano, fresco di nomina, che resta smarrito per qualche minuto,
finché viene raccolto da una Thesis metallizzata, nuova di fabbrica,
che sembra sorprendere anche lui. Alle 11 e 10 la colonna blu si
dissolve su via Nazionale per ricomporsi, ancora più voluminosa,
davanti alla Camera.
A voler prendere per buono il censimento del ministero
dell'Economia, l'ammontare dei tagli possibili al parco blu sarebbe
risibile: gran parte delle vetture catalogate, infatti, servirebbero
a "effettive, motivate e documentate esigenze", a irrinunciabili
compiti istituzionali, e perciò potrebbero rientrare nella 'deroga'
ai risparmi previsti dalla legge stessa. Qualche esempio. Al
ministero dell'Economia 25 automobili sono assegnate "in uso
esclusivo" (al ministro, ai sottosegretari, ai top manager), mentre
altre 8.929 vanno "in uso non esclusivo" ad altri soggetti. Di
queste ultime, ben 8.489 sono le auto utilizzate dalla Guardia di
Finanza. E chi mai potrebbe togliere alle Fiamme Gialle un
indispensabile strumento di lavoro proprio quando si vuole
intensificare la caccia agli evasori? Per non parlare del ministero
dell'Interno, dove le autovetture di servizio risulterebbero essere
22.967, di cui 20.444 utilizzate dalla Polizia e 523 dai Vigili del
fuoco: inutile dire che entrambi i corpi hanno chiesto
l'applicazione del 'comma 13', cioè la deroga. E come comportarsi
con il ministero della Giustizia a cui fanno capo, tra l'altro,
1.186 blindate assegnate ai magistrati e 2.370 vetture utilizzate
per il servizio traduzione detenuti? Alla fine dei conti sono ben
40.367 le macchine del settore statale per cui è stata chiesta la
non applicazione del risparmio di spesa, cioè il 92 per cento circa
di quelle censite. E l'operazione promossa dalla Finanziaria si è
così trasformata, almeno per ora, in un'effimera bolla di sapone.
Non del tutto, per la verità. Il documento trasmesso al Parlamento,
malgrado le infinite deroghe, elenca comunque una serie di economie
sull'uso delle auto che alcune amministrazioni sarebbero già
riuscite a fare. Si va dai 491,06 euro tagliati dal ministero degli
Esteri, "riferiti esclusivamente all'Istituto italiano per l'Africa
e l'Oriente" il cui boss è rimasto evidentemente a piedi, ai
401.759,12 euro tagliati dal ministero dell'Ambiente, campione
nazionale di risparmiosità. Ma i 401 mila euro dell'Ambiente sono
"riferiti prevalentemente alla categoria degli enti parco
nazionali", recita il documento del ministero dell'Economia: sorge
il sospetto che senza vettura siano rimasti i guardacaccia piuttosto
che i funzionari di via Cristoforo Colombo a Roma. Gli altri due
ministeri più impegnati sulla via dell'austerity sono quelli
dell'Istruzione, con un risparmio complessivo di 302.414 euro, e
delle Infrastrutture (248.534). In totale la decurtazione alle auto
blu avrebbe portato nelle casse pubbliche in questa prima fase poco
più di 1,3 milioni di euro.
Poca cosa rispetto all'enormità della spesa per le quattro ruote di
Stato. Che Luigi Cappugi, consulente del governo Berlusconi, meno di
due anni fa aveva stimato ammontare complessivamente a 10,5 miliardi
l'anno (esclusi gli enti locali). Come si arrivava a questa cifra?
Il costo medio di ogni vettura era calcolato in 70 mila euro
all'anno, inclusi autista e benzina, che andava moltiplicato per le
circa 150 mila vetture in dotazione (molte delle quali destinate
però, come s'è visto, a scopi di ordine pubblico, sanità, ecc.).
Cappugi proponeva una cura drastica: togliere l'auto blu a gran
parte dei politici e degli amministratori e pagar loro il taxi.
Secondo l'economista l'esborso sarebbe ammontato "al massimo all'8
per cento" della spesa per le normali auto di Stato: se metà delle
autovetture blu venissero sostituite da buoni-taxi, il risparmio
netto ammonterebbe quindi a 4,8 miliardi l'anno. Quel suggerimento
non fu raccolto da nessuno. Maggior successo ha invece ottenuto un
altro espediente: sostituire le auto in proprietà dello Stato con
quelle in leasing o a noleggio a lungo termine. La Consip - società
dello Stato che gestisce le aste per l'acquisto di beni e servizi
necessari all'amministrazione - ha già emanato alcuni bandi per la
fornitura di auto in leasing. L'ultima gara, per 300 vetture, è di
poche settimane fa e se l'è aggiudicata la Lease Plan, controllata
dal Gruppo Volkswagen, dalla Mubadala, impresa che fa capo al
governo di Abu Dhabi e che possiede anche un sostanzioso pacchetto
di Ferrari, dalla Olayan, massimo gruppo dell'Arabia Saudita.
Riusciranno prossimamente i soliti noti a viaggiare su fiammanti
vetture di Maranello? O dovranno accontentarsi di teutoniche
Volkswagen? Staremo a vedere. Il vero pericolo è che le macchine a
nolo sul medio e lungo periodo costino più di quelle in proprietà e
soprattutto che, sul breve termine, offrano a Stato ed enti locali
margini e alibi per una politica più spregiudicata di distribuzione
delle auto blu. Ci sono poi i furbetti che fanno man bassa di taxi e
vetture con autista: in Emilia ha fatto discutere il caso dell'ex
sindaco diessino di San Lazzaro, che nel 2002 ha speso oltre 23 mila
euro per 461 trasferte con la targa Ncc e 23.448 per i 431 viaggi
dell'anno successivo, senza contare poi i taxi usati per raggiungere
Bologna o i municipi confinanti.
La Corte costituzionale ha stabilito che governo e Parlamento
potevano deliberare 'tagli' alle vetture di Stato ma non potevano
ledere l'autonomia degli enti locali fissando anche nei loro
confronti riduzioni di spesa per una specifica voce. Che fanno,
dunque, su questo terreno, Regioni, Province e Comuni? I
comportamenti sono molto diversi: c'è chi si dà alla pazza gioia,
aumentando il numero delle auto di servizio e spesso anche la
cilindrata, e chi, invece, spinto anche dalle decurtazioni
complessive dei bilanci locali deliberate dalle ultime finanziarie,
si autoriduce pure le auto blu. E il colore politico delle
amministrazioni raramente è decisivo. Forti polemiche ha suscitato
due anni fa, ad esempio, il rinnovo del parco macchine della Regione
Friuli. Secondo l'opposizione di centro-destra l'età media delle
auto non superava i due anni. Ma soprattutto destava scandalo la
scelta delle nuove 'ammiraglie': 12 supercar per Riccardo Illy e
colleghi, compresa una Lancia Thesis 3.2 V6 24 modello Emblema,
un'Alfa 166 24V Luxury con 10 altoparlanti hi-fi, una Lancia Thesis
3.0 con interni in pelle e superaccessoriata, e via elencando. I
beneficiati si sono scandalizzati a loro volta, definendo "argomento
futile" l'oggetto della polemica, parlando di "strumentalizzazione e
demagogia" e sottolineando la "scelta nazionale" delle autovetture
(una direttiva del '94, firmata Roberto Maroni, ha consentito
l'acquisto di auto di servizio di case straniere). Battibecchi anche
in Lazio, tra maggioranza e opposizione ma anche tra le stesse forze
del centro-sinistra, sulle 76 auto blu destinate a giunta,
presidenti di commissione e a qualche dirigente (i consiglieri
regionali sono 70): per la pletorica flotta (più auto di quelle di
Camera e Senato messe insieme) nei primi cinque mesi della giunta di
Piero Marrazzo sono stati spesi 37 mila euro solo in benzina, 20
mila in manutenzione ordinaria e tremila in lavaggi. Assicurazioni e
bolli, in un anno, costano alla Regione quasi 100 mila euro. In
Campania, dove le auto di servizio sono poco più di 80, la creazione
di 12 commissioni regionali speciali, accanto alle sei ordinarie, ha
prodotto anche 12 nuovi pretendenti (i presidenti di tali
commissioni) ad altrettante auto blu. Non aiuta l'esempio vicino del
Comune di Napoli, dove il parco veicoli in dotazione per sindaco,
assessori e dirigenti raggiunge le 120 vetture.
Un vero e proprio proclama per il risparmio è quello lanciato
qualche tempo fa dal presidente della Regione Toscana Claudio
Martini: ha chiesto di privilegiare i mezzi pubblici, di usare il
treno (seconda classe) e di dimezzare la spesa per la manutenzione,
il noleggio e l'utilizzo delle auto (16 per la giunta e 36 per i
dipendenti in missione, per lo più Panda e Punto). In Liguria
qualche mese fa il governatore Claudio Burlando ha deciso di
stanziare 230 mila euro all'anno in meno per le auto di giunta e
Consiglio regionale. In Puglia Niki Vendola, appena insediato, ha
cancellato la 'leggina' fatta a proprio uso e consumo dal suo
predecessore, Raffaele Fitto, che poco prima delle elezioni aveva
stabilito che governatori e presidenti uscenti del Consiglio
regionale avevano diritto a utilizzare la limousine di servizio per
altri cinque anni. Per far cassa, a Castiglion Fiorentino e in altri
comuni della Val di Chiana alcune auto blu sono state addirittura
vendute all'asta sulla pubblica piazza. Ma nei garage degli enti
locali c'è di tutto. La provincia autonoma di Bolzano, per esempio,
nel 2001 aveva due Mercedes classe E con motore da 2800 cc riservate
al presidente. E il sindaco di Cesena invece nel 2003 ha difeso
l'italianità della scelta che affiancava una nuova Alfa 166 alla
Thesis già esistente.
La storia delle 'auto di Pantalone' si potrebbe titolare 'Cronaca di
un taglio annunciato'. Annunciato infinite volte, almeno a partire
dalla legge del '91(che limitava l'uso esclusivo delle auto blu a
ministri, sottosegretari e ad alcuni direttori generali), ma mai
realizzato. Come rinunciare, infatti, a un privilegio di non poco
conto, specie in città dal traffico caotico, e anche a uno status
symbol fra i più ambiti, soprattutto quando l'auto, spesso dotata di
lampeggiante e sirena, può fare lo slalom fra i comuni mortali e
infischiarsene del codice della strada? Romano Prodi è stato chiaro,
lanciando un appello alla sobrietà nel primo discorso da premier: "È
mia intenzione ridurre di almeno la metà le scorte per il personale
politico e di governo, la cui proliferazione è al di là di ogni
necessità reale e sottrae risorse finanziarie e umane che dovrebbero
essere destinate alla tutela della sicurezza dei cittadini". Un
annuncio già sentito. Forse adesso è l'ora di passare ai fatti.
25 maggio
Caro Zapatero,
torno presto. Ti voglio bene. Tuo Silvio
di Marco Lillo
Dopo la sconfitta elettorale Silvio Berlusconi ha scritto ai capi di
governo di mezzo mondo. Con un unico messaggio: "Arrivederci a presto".
In edicola da venerdì
Sivio Berlusconi proprio non si rassegna alla sconfitta. Non accetta
il risultato delle urne.
Lo scarto di poco più di 24 mila voti gli deve sembrare proprio una
beffa. Ha detto e ridetto che vuole ricontare le schede. Si dice
certo che il risultato "deve cambiare", come disse in tv a spoglio
ultimato. Ma non lo dice solo in Parlamento o a "Porta a
Porta". Non manda solo i suoi parlamentari a vigilare sul capannone
di Castelnuovo di Porto dove è in corso da parte
di funzionari del parlamento il controllo delle schede.
Fa ben di più. "L'espresso" è in grado di rivelare il testo della
lettera che Berlusconi ha inviato, in data 16 maggio 2006, ai capi
di governo di mezzo mondo su carta intestata "Il Presidente del
Consiglio dei Ministri". Un arrivederci a presto, appena ultimato il
controllo delle schede, inviato l'ultimo giorno della sua permanenza a Palazzo Chigi. Quella che
pubblichiamo nella foto a destra è la lettera indirizzata a
"Sua eccellenza José Luis Rodriguez Zapatero Primo ministro del
regno di Spagna":
«Caro José Luis,
dopo cinque anni mi accingo a lasciare la guida del governo
italiano. Si è trattato di un periodo di stabilità senza precedenti
nella storia della Repubblica Italiana, che mi ha consentito di
varare 36 importanti riforme di ammodernamento del Paese e di
sviluppare un'esperienza particolarmente importante e positiva nei
rapporti con i colleghi degli altri Paesi europei.
Come probabilmente sai, per il particolare sistema elettorale
italiano, nonostante il mio personale successo (Forza Italia è di
gran lunga il primo partito italiano), la coalizione che guido è
risultata globalmente maggioritaria in termini di voti ma
minoritaria in termini di rappresentanza parlamentare. Come leader
dell'opposizione rappresento comunque il 50,2 per cento del Paese e
spero di tornare presto al governo dopo che saranno state verificate
le oltre un milione e centomila schede annullate.
Ti ringrazio per il simpatico rapporto che abbiamo instaurato e Ti
assicuro che continuerò a seguire con grande interesse il Tuo
impegno per la Spagna e per l'Europa, auguro a Te e al Tuo governo
ogni successo e resto a Tua disposizione per lavorare insieme a
favore delle relazioni italo-spagnole e di un avvenire dei popoli
europei basato sugli ideali nei quali entrambi crediamo.
Ti ricordo che hai un amico che Ti vuole bene!
Un forte abbraccio
Silvio»
24 maggio
Alta stagione, tempo di
mare
Marco Boccitto
È ricominciata l'alta stagione degli sbarchi
illegali sulle coste europee, ma nel frattempo sono cambiati i
luoghi di partenza. È un sud sempre più a sud, quello da cui si
scappa. Prima «bastava» attraversare il deserto per poi tentare la
traversata dalle coste del Nordafrica, ora si è costretti a salpare
direttamente dal Golfo della Guinea, con conseguente aumento dei
costi e soprattutto dei rischi. Basta una ventata maligna, lo
dimostra ilmacabro ritrovamento ai Caraibi di qualche giorno fa, per
finiremummificati su una barca alla deriva. Altro che Canarie.
Rimbalzati sulle barriere di massima sicurezza erette ai confini del
nord, tritati dagli accordi bilaterali con cui abbiamo voluto
trasformare le nazioni di transito in gendarmi privati, tenuti
lontano dal corridoio che tagliava la Mauritania verso ilMarocco,
cacciati dai terminali in Libia e Tunisia, loro, ostinati,
continuano a partire. Non è pensabile di scoraggiare con questi
mezzucci chi ha deciso di lasciare la propria casa per imotivi che
si possono immaginare. L'Europa crede di aver risolto il problema,ma
lo ha nascosto sotto al tappeto. E anche l'insolita solerzia con cui
alcuni paesi africani si industriano per arginare l'ondata
all'origine, non è che un'altra illusione. Fa tristezza vedere che a
Capo Verde un governo figlio delle idee panafricaniste e
altermondialiste di Amilcar Cabral debba beccarsi le critiche da
destra per il trattamento riservato a 58 clandestini, tenuti a mollo
per una settimana al largo e poi espulsi verso il Senegal. Mentre fa
sorridere la plateale operazione dimare, di terra e di aria lanciata
nei giorni scorsi dallo stesso Senegal, con 1.500 arresti e 21
barche bloccate. Cosa non si farebbe per compiacere alleati ricchi e
potenti. E qui? Lampedusa è già al collasso e i cpt sono sotto
accusa internazionale, ma a noi angoscia tanto l'orso «italiano» che
si è perso sulle Alpi e rischia di essere abbattuto dai tedeschi, o
il cavallo zoppo che tiene l'America col fiato sospeso. Siamo
inguaribili specisti, non solo perché amiamo i barboncini e un po'
meno gli scarafaggi. I giovani africani sono bene accetti solo se
calciatori di talento, mentre al punto in cui siamo ci converrebbe
importare dall'Africa anche dell'altro. Per esempio degli arbitri.
23 maggio
L'organizzazione
internazionale per i diritti umani punta il dito
contro le grandi potenze che non mantengono gli impegni presi
Il rapporto
annuale di Amnesty
"Dall'Occidente due pesi e due misure"
"L'Italia indaghi su voli e operazioni coperte e sui Cpt"
di CRISTINA NADOTTI
La copertina del rapporto
di Amnesty per il 2006
ROMA - Sono nominate la Cina, il Darfur o la Cecenia, ma nel
rapporto annuale sulle violazioni dei diritti umani di Amnesty
International ricorre molto più spesso il nome di nazioni
occidentali che si vantano di voler esportare democrazia e diritti
civili. Come già lo
scorso anno, l'organizzazione non governativa
indipendente denuncia l'incapacità delle grandi potenze, Stati Uniti
su tutte, di trasformare in azioni concrete gli impegni dichiarati.
Più di questo: Amnesty parla chiaramente del pericoloso "uso di un
doppio linguaggio e di doppi standard, da parte delle grandi
potenze, che indebolisce la capacità della comunità internazionale
di affrontare gravi crisi dei diritti umani".
E poi, secondo Amnesty, c'è l'alibi della guerra al terrorismo, che
svia l'interesse verso problemi più gravi, che sta fallendo perché
si basa su interessi di sicurezza nazionale e di corto respiro
anziché sulla reale volontà di promuovere i diritti umani. Non
mancano le bacchettate all'Italia, ancora una volta segnalata perché
non garantisce i diritti ai migranti e nell'occhio del ciclone,
insieme agli altri paesi europei, per le "operazioni coperte"
utilizzate dalla Cia per arrestare, catturare, trasferire e detenere
persone in segreto, o consegnarle ad altri paesi dove hanno subito
torture.
L'agenda della sicurezza. E' il punto centrale del rapporto,
che denuncia come in nome della sicurezza nazionale, "promossa da
chi ha potere e privilegio" si siano sviate "energie e attenzione
del mondo dalle gravi crisi dei diritti umani in corso". "I governi,
da soli e collettivamente, hanno paralizzato le istituzioni
internazionali - si legge nel rapporto - dilapidato risorse
pubbliche per perseguire obiettivi di sicurezza limitati e di corto
respiro, sacrificato valori in nome della "guerra al terrore" e
chiuso gli occhi di fronte a violazioni dei diritti umani su scala
massiccia. La conseguenza è che il mondo ha pagato un prezzo
elevato, in termini di erosione dei principi fondamentali e di
enormi danni arrecati alla vita e al benessere della gente comune".
Le grandi potenze hanno insomma "remato contro" la reale soluzione
dei problemi. "Nel 2005, coloro su cui, nel Consiglio di Sicurezza
dell'Onu, ricade la maggiore responsabilità di salvaguardare la
sicurezza globale, sono stati i più attivi nel paralizzare questo
organismo e impedirgli di svolgere un'azione efficace in difesa dei
diritti umani".
I governi europei. In questa politica per la quale ciò che
conta è solo l'interesse nazionale, nessuna delle potenze
occidentali fa bella figura. Amnesty punta il dito sulle
"connivenze" dell'Europa, che a livello di Consiglio dell'Ue apre
inchieste sul coinvolgimento dei suoi membri nel programma Usa di
trasferimenti illegali di prigionieri, ma a livello nazionale
continua a essere complice degli abusi.
"Rivelazione dopo rivelazione, è emerso fino a che punto i governi
europei sono stati complici degli Usa - scrive Amnesty - sfidando il
divieto assoluto di tortura e di maltrattamenti e subappaltando
queste pratiche mediante il trasferimento di prigionieri in paesi
come Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Marocco e Siria, noti per
praticare la tortura".
Spesso i governi nazionali, denuncia l'organizzazione, anziché
apprezzare gli sforzi fatti dalle corti e dai parlamenti per
ristabilire il rispetto dei diritti umani hanno trovato il modo per
aggirare i pronunciamenti, in nome di "assicurazioni diplomatiche",
che hanno comunque avvallato l'espulsione di prigionieri verso paesi
dove la tortura è ammessa. E una menzione speciale merita in questo
la Gran Bretagna, che secondo Amnesty ha la colpa di rimanere muta
sul carcere americano di Guantanamo.
La crisi dell'Onu. Conseguente a questo atteggiamento è anche la
crisi dell'organismo sovrannazionale che dovrebbe promuovere
politiche di salvaguardia dei diritti, e secondo Amnesty ha avuto
invece "attenzione flebile e discontinua" su crisi gravissime come
quella del Darfur e ha attuato in prima persona quella
politica della doppiezza che è al centro del rapporto. "In un anno
in cui hanno speso gran parte del tempo a parlare di riforme e di
composizione dei loro principali organismi, le Nazioni Unite non
hanno prestato attenzione al comportamento di due membri-chiave come
la Russia e la Cina, che hanno fatto prevalere i propri limitati
interessi economici e politici nei confronti delle preoccupazioni
sui diritti umani a livello nazionale e internazionale", è la
conclusione.
Darfur, Iraq e Medioriente. Sono queste le tre aree nominate
in modo più esplicito nel rapporto di Amnesty. Per quanto riguarda
la regione del Sudan, oltre a sottolineare le iniziative inadeguate
di Nazioni Unite e Unione Africana per una soluzione della crisi, il
rapporto mette in luce ancora una volta come i crimini di guerra
siano stati commessi da tutte le parti coinvolte, "in un conflitto
che ha causato migliaia di morti e ha costretto alla fuga milioni di
persone".
"Nel 2005, l'Iraq è affondato in un vortice di violenza settaria -
affermano da Amnesty - È questa la dimostrazione che quando le
grandi potenze sono troppo arroganti per rivedere e mutare le
proprie strategie, il prezzo più alto viene pagato dai poveri e da
chi non ha potere: in questo caso donne, uomini e bambini iracheni".
Infine la crisi in Medioriente, che è scomparsa dall'agenda
internazionale, cosa che "ha acuito l'angoscia e la disperazione
della popolazione palestinese, da un lato, e le paure di quella
israeliana dall'altro.
L'Italia. Il rapporto sottolinea il ruolo dell'Italia nella
"guerra al terrore", che giudica sbagliata nei modi e nelle
premesse. Le istanze presentate da Amnesty rivelano poi come la
passata legislatura non abbia fatto nulla per risolvere le
situazioni che già il rapporto del 2005 indicava come lesive dei
diritti umani. In più si è aggiunta la violazione delle norme
internazionali delle "operazioni coperte" della Cia, della quale
l'Italia è stata complice.
Il fatto che gli aeroporti di Pisa e Roma Ciampino siano stati
utilizzati per il trasferimento di persone detenute in segreto e la
loro consegna a paesi dove hanno subito maltrattamenti e torture è
una violazione grave delle norme internazionali, sulle quali,
secondo Amnesty, l'Italia ha l'obbligo di svolgere indagini
approfondite.
L'attenzione dell'organizzazione internazionale si concentra anche
sulla legge antiterrorismo del 2005, che ha modificato le norme
italiane sull'espulsione "per motivi di ordine pubblico e di
sicurezza dello Stato". Una legge, secondo Amnesty, che consente
l'allontanamento di cittadini stranieri anche solo sulla base dei
primi elementi acquisiti a loro carico, senza che questi siano
accusati formalmente di un reato e che pregiudica perciò il rispetto
dei loro diritti.
Amnesty indica ancora come il disegno di legge sulla prevenzione
della tortura sia rimasto all'attenzione della presidenza della
Camera, ma non abbia proseguito il suo iter e così l'Italia non ha
allineato la sua legislazione alla Convenzione delle Nazioni Unite.
Infine, come già era accaduto lo scorso anno, l'Italia non si è
ancora data una legge organica sull'asilo ai migranti, "lasciando
così intatte le lacune in cui proliferano le possibilità di abusi
dei diritti umani a danno di richiedenti asilo e rifugiati". Quello
dei migranti e della loro accoglienza nel nostro paese è un tema che
trova ampio spazio nel rapporto di Amnesty, che reitera le accuse
fatte nel 2005 a proposito di persone rinviate da Lampedusa in Libia
"in spregio delle norme di diritto internazionale e senza alcuna
base legale nel diritto interno". Amnesty chiede di fare luce sugli
accordi siglati tra il governo Berlusconi e la Libia, entrati in
vigore nel 2002 senza alcuna ratifica da parte del Parlamento.
Nella tragedia dei migranti Amnesty sottolinea soprattutto quella
degli "invisibili", i minori che arrivano alla frontiera marittima e
in spregio alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti
dell'infanzia vengono avviati ai centri di accoglienza temporanea,
in pratica detenuti. La Convenzione considera la detenzione di un
minore un provvedimento eccezionale, da adottare solo in casi
estremi, mentre secondo Amnesty le cifre rilasciate dal ministero
dell'Interno lasciano intendere che è la prassi comune.
Passi avanti e richieste per il futuro. "Nel 2005 si è
assistito a un mutamento dello stato d'animo dell'opinione
pubblica", si dice nel rapporto, e questo è un fatto positivo. "La
pressione popolare che sta emergendo va usata in modo efficace per
trasformare l'attuale irresponsabilità internazionale in azione
concreta in favore dei diritti umani", auspica Amnesty, che
individua alcune priorità per l'agenda internazionale.
Amnesty International chiude il rapporto con richieste precise agli
organismi internazionali ma anche alle singole nazioni. Nazioni
Unite e Unione Africana devono impegnarsi per affrontare il
conflitto e gli abusi dei diritti umani nel Darfur; ancora l'Onu
deve avviare i negoziati per un Trattato internazionale che
regolamenti il commercio delle armi, in modo che queste non possano
essere usate per commettere abusi dei diritti umani.
L'amministrazione Usa è chiamata in prima persona
a chiudere il carcere di Guantánamo Bay e rendere noti i nomi e i
luoghi di detenzione di tutti i prigionieri della "guerra al
terrore". Infine il nuovo Consiglio Onu dei diritti umani, deve, per
Amnesty, insistere nel pretendere i medesimi standard di rispetto
dei diritti umani da parte di tutti i governi, che si tratti del
Darfur o di Guantánamo, della Cecenia o della Cina.
22
maggio
Per il Times
documenti di "responsabili della sicurezza a Bagdad"
provano un versamento di 11 milioni di dollari per gli ostaggi
"Italia pagò
per Sgrena, Pari e Torretta"
La Farnesina ribatte: "Nessun riscatto"
Accuse anche verso Francia e Germania. Londra non versò nulla
Ma dal nostro ministero degli Esteri arriva una secca smentita
La copertina del Times
con la foto di Simona Pari e Simona Torretta
LONDRA - Il Times accusa, l'Italia smentisce. Il quotidiano
britannico stamane apre con una foto di Simona Pari e Simona
Torretta e afferma che Italia, Francia e Germania hanno accettato di
pagare complessivamente 45 milioni di dollari (circa 35 milioni di
euro) per ottenere la liberazione di nove loro cittadini sequestrati
in Iraq.
Tutti e tre i Paesi hanno sempre smentito - e lo r hanno ribadito
anche oggi - di aver pagato riscatti per ottenere la liberazione dei
loro ostaggi in Iraq, pratica condannata dagli Stati Uniti.
L'Italia - scrive il quotidiano britannico - ha pagato in totale 11
milioni di dollari (circa 8,5 milioni di euro) per il rilascio di
Simona Pari e Simona Torretta nel settembre 2004 (5 milioni di
dollari); e per quello della giornalista del Manifesto
Giuliana Sgrena nel marzo 2005 (6 milioni).
Il Times cita a sostegno delle sue affermazioni documenti in
possesso di "responsabili della sicurezza a Bagdad" che hanno
"svolto un ruolo cruciale nei negoziati" per la liberazione degli
ostaggi occidentali in Iraq. E riporta le critiche dei diplomatici
che operano in Iraq, secondo i quali la pratica di pagare i riscatti
ha incoraggiato i rapitori, mettendo a rischio tutti gli occidentali
che lavorano a vario titolo nel Paese.
Per contro - sempre secondo il Times - la Gran Bretagna non
ha versato denaro per i suoi cittadini rapiti in Iraq, ma avrebbe
pagato "intermediari" per stabilire il contatto con i loro
sequestratori.
Secca la smentita del portavoce della Farnesina Pasquale
Terracciano: "Non posso che ribadire quanto più volte affermato
dall'allora ministro degli Esteri e da altri esponenti del Governo
in carica - dice il portavoce -, il Governo italiano non pagò alcun
riscatto".
Ma il Times fornisce molti dettagli: la Francia - scrive il giornale
- ha pagato 25 milioni di dollari per la liberazione, nel dicembre
2004, dei giornalisti Christian Chesnot e Georges Malbrunot (15
milioni); e, nel giugno 2005, della giornalista Florence Aubenas (10
milioni).
La Germania, dal canto suo, ha versato in tutto 8 milioni di dollari
per il rilascio di Susanne Osthoff nel novembre 2005 (3 milioni); e
di Renè Braeunlich e Thomas Nitzschke a inizio maggio (5 milioni).
Dopo la liberazione degli ultimi due, la televisione tedesca Ard
aveva detto che Berlino aveva pagato ai rapitori un riscatto di
oltre 10 milioni di dollari.
Infine, la Gran Bretagna non ha versato nulla ai sequestratori di
Kenneth Bigley e Margaret Hassan, assassinati dopo essere stati
rapiti nell'autunno 2004, ma - rileva il Times - è stata
criticata per aver concesso ai rapitori di Norman Kember il tempo di
fuggire, prima di lanciare l'operazione militare che ha permesso la
sua liberazione, nel marzo scorso.
Affari di cemento
Il vizietto di Lunardi e Berlusconi
(r. t.)
Per l'Ance
la legislatura è cominciata male: il no al ponte sullo stretto ha messo di
cattivo umore Claudio De Albertis, il presidente dell'Associazione nazionale dei
costruttori edili. Ma l'Ance, più che con il governo entrante, è «imbufalita»
con il governo uscente, cioè con Berlusconi. Presentando l'Osservatorio
congiunturale, i costruttori italiani hanno lanciato ieri l'allarme: il settore
è ancora in crescita, ma pesa l'incognita delle infrastrutture.
In realtà i costruttori lo stesso allarme l'avevano già
lanciato, inascoltati, negli ultimi 2 anni e il 2005 ha confermato le loro
previsioni: dopo 9 anni di crescita degli investimenti in opere pubbliche, lo
scorso anno c'è stato uno scivolone: -2,5%.
E come ha spiegato De Albertis,
per il 2006 non solo non si prevedono recuperi, ma è facile ipotizzare una
ulteriore caduta (del 3,3%)come conseguenza del blocco dei cantieri
preannunciato dall'Anas. Ma di
chi è la colpa? Il presidente dell'Ance non fa nomi, ma cita numeri
significativi: «il bilancio dello stato per il 2006 presenta una riduzione degli
stanziamenti per nuove infrastrutture, rispetto al 2005, del 20,6%». E il
decremento sale al «43,6% sommando gli ultimi tre anni».
Tutta colpa del «vizietto» di Lunardi e Berlusconi che per
anni hanno annunciato decine e decine di opere pubbliche, ma poi non hanno
stanziato i soldi per realizzarle. Una sola cifra: devono essere reperite
risorse per quasi 44 miliardi di euro, il 51% di quanto approvato dal Cipe. Se
l'Anas non sarà rifinanziata per almeno un miliardo, entro agosto chiuderanno
quasi tutti i cantieri.
Elizabeth, una
turista da uccidere
Stefano
Liberti
Quando Ese
Elizabeth Alabi si ammalò durante un soggiorno in Inghilterra, ebbe
probabilmente a pensare che non tutto il male viene per nuocere:mentre imedici
le dicevano che il suo cuore era guasto e che andava cambiato al più presto,
deve aver ringraziato il cielo di trovarsi in un ricco paese della moderna
Europa, con un sistema sanitario assai più efficiente di quello della sua natia
Nigeria. Nulla sapeva della suamalattia prima di imbarcarsi all'aeroporto di
Lagos per andare a trovare il compagno residente Oltremanica. E nulla sapeva
delle leggi inglesi, su cui comunque riponeva la fiducia dovuta a una delle più
antiche e solide democrazie del mondo. Tutto ignorava della paranoia britannica
in tema di immigrazione e, soprattutto, di quella piccola norma che il governo
laburista - ansioso di evitare un fastidioso «turismo sanitario» da paesi
lontani - aveva fatto approvare in Parlamento. Una norma minuscola, di cui
l'avrebbero resa edotta imedici dell'ospedale, mortificati nello smorzare il suo
entusiasmo iniziale: per i trapianti di organi, la priorità assoluta è data ai
cittadini del Regno unito, dell'Unione europea e di pochi altri fortunati paesi.
Tutti gli altri, non importa quanto grave sia il loro stato, vengono dopo.
Sorry, questa è la legge. Peggio ancora: la giovane nigeriana non sapeva che,
ammalandosi e restando in ospedale, avrebbe fatto scadere il suo visto
d'ingresso, trasformandosi da sospetta «turista da clinica» in pericolosa
immigrata clandestina. A nulla sono valse le battaglie legali condotte da un
gruppo di avvocati e dal compagno della ragazza, raccontate con dovizia di
particolari dall'Independent ieri in edicola. A nulla è valso il coinvolgimento
dell'Alta corte inglese nella delicata vicenda. Ese Elizabeth Alabi èmorta in
ospedale l'altroieri all'età di 29 anni. Il governo britannico si è detto
rammaricato dal tragico caso e ha espresso alla famiglia le sue più sentite
condoglianze.
Pensioni: 1,2 milioni di donne vivono con
meno di 500 euro
(er. ge.)
Nel 2004 i
redditi da pensione hanno superato i 200 miliardi di euro. Di questi, oltre due
terzi, pari a 140 miliardi, sono pensioni di vecchiaia, mentre fra le restanti
componenti solo le pensioni ai superstiti e quelle di invalidità superano un
importo complessivo di 10 miliardi. Delle pensioni di vecchiaia beneficiano 10,7
milioni di cittadini, di cui 4,8 milioni sono donne: un quarto dei titolari
cumula altri redditi pensionistici. Con una pensione di vecchiaia di meno di 500
euro al mese vivono 1,8 milioni di pensionati, di cui 1,2 donne: di fatto, più
di un quarto delle pensionate vive al di sotto di questa soglia.
A vivere con meno di 1.000 euro al mese sono circa 4,9
milioni di pensionati, ossia poco meno della metà del totale e in particolare
tre quarti delle titolari donne. Anche se l'importo medio annuo dei redditi
pensionistici supera i 14 mila euro, questi pensionati, in media, sopravvivono
con poco più di 7 mila euro all'anno. Il valore complessivo delle loro pensioni
rappresenta meno di un quarto (il 22,5%) del totale degli importi dei redditi
pensionistici, ossia meno del monte delle pensioni destinate ai titolari che
percepiscono più di 2 mila euro al mese. Questi sono 1,4 milioni (di cui un
milione uomini), corrispondono al 13% dei pensionati di vecchiaia e in media
possono contare su redditi pensionistici superiori a 34 mila euro all'anno.
18
maggio
Sanità in ambulanza
In tutta
Italia la lotta di migliaia di precari: dalla Croce Rossa (oltre il 50%) ai
grandi ospedali, ai servizi di emergenza come il 118
Francesco Piccioni
L'avevano pensata bene, la «riforma» della sanità.
Assunzioni bloccate fin dal '99, via libera ai rapporti di lavoro precario per
ogni tipo di figura professionale, scarico dei costi sulle regioni, e vedrai che
alla fine i conti tornano a posto. Invece la macchina non funziona più e i costi
continuano a levitare, complici anche la marea di servizi «in convenzione» che
pesano sui bilanci pubblici assai più che se fossero esercitati autonomamente.
Ma se i conti si possono tenere sotto silenzio, i lavoratori in carne ossa no. E
così parte un ciclo di mobilitazioni che coinvolge la parte più precaria di
questo mondo già di suo poco solido (posizioni dei «baroni» a parte). Le sedi
della Croce Rossa sono state occupate nei giorni scorsi per chiedere il
pagamento delle «competenze accessorie del 2005» e la stabilizzazione dei
precari (tra il 50 e il 60% del personale). Giovedì si presenteranno a Roma per
una manifestazione nazionale, sotto palazzo Chigi, fin dalle nove di mattina.
Precarietà e condizioni di lavoro impossibili costano care anche a quei
sindacati che non riescono a rappresentare adeguatamente interessi semplici
quanto primari (la stabilizzazione dei contratti, per esempio, con la
trasformazione in «tempi indeterminati»). A Napoli, Al cardarelli, sono da ieri
in agitazione i lavoratori dei reparti di medicina, che hanno voluto anche
«disdettarsi» da tutte le organizzazioni sindacali.
Nel Lazio manifesteranno stamattina, sotto la sede della Regione, sulla
Cristoforo Colombo, i precari dell'ospedale Sant'Andrea, del San Filippo, quelli
del san Giovanni e del Policlinico. Con loro ci saranno anche barellieri e
autisti - precari, naturalmente - che lavorano sulle ambulanze del 118.
Questi ultimi sono protagonisti di una situazione davvero kafkiana. Sono stati
assunti a novembre come lavoratori interinali dall'agenzia «Obiettivo lavoro» e
«offerti» all'Aris 118 con contratto di tre mesi e ruoli intercambiabili. Nel
frattempo si spargevano voci di concorsi per altre assunzioni (200 autisti, 100
barellieri e 200 infermieri). Quindi arrivava la prima proroga di un mese e
mezzo, seguita da una seconda che dura tuttora. A fine mese la loro sorte
dovrebbe essere decisa dall'esito di una gara d'appalto che selezionerà una
società che si incaricherà di gestire il servizio ambulanze e farsi carico anche
di loro.
L'incertezza regna sovrana. Anche perché nel frattempo, con un sacrosanto
emendamento alla legge finanziaria, la regione ha disposto il monitoraggio di
tutte le situazioni di lavoro precario nella sanità in vista del loro
«superamento». Dovrebbero essere viaggiate domande e risposte tra uffici
regionali e direzioni sanitarie, ma non si sa nulla sui contenuti. Né se e
quando le posizioni verranno «sanate». Si tratta di lavoratori giovani, ma non
più «di primo pelo» (età media 35-40 anni). Così i precari hanno deciso di
«autocensirsi», scoprendo di essere in 1.000 «esternalizzati» al Policlinico,
400 al sant'Andrea, 500 al San Giovanni, 250 al san Filippo e infine 100 al 188.
La richiesta è semplice: che gli assessorati si facciano garanti che verranno
assunti i lavoratori in precaria attività, non qualche «amico degli amici».
17 maggio
Etiopia, bombe e repressione alla corte di Zenawi
Strani attentati Nove bombe hanno
squassato venerdì Addis Abeba. Nessuna rivendicazione. Il governo accusa
l'Eritrea Un anno di crisi Il 15 maggio del 2005 le elezioni. Oggi, i capi
dell'opposizione, che reclamano la vittoria, sono in carcere
Emilio Manfredi
Addis Abeba
Un anno fa, il 15 maggio era domenica. Sin dall'alba, milioni di persone si
erano messe in fila in ogni angolo d'Etiopia. La gente si recava a votare
per eleggere il nuovo parlamento e scegliere il nuovo governo. Bekele era
uno di loro. «Ricordo bene, domenica mattina andai in chiesa e poi al mio
seggio, ad Harat Kilo, proprio di fronte al palazzo del governo», racconta
l'uomo, venticinque anni, fabbro. «Come tutti i miei vicini, votai per il
Kinjit, la coalizione di opposizione. È passato un anno, sembra un secolo»,
conclude Bekele. Un anno duro per l'Etiopia. Dopo le elezioni, il clima
politico è rimasto rovente. L'opposizione ha accusato di brogli il governo
guidato dal primo ministro Meles Zenawi. La gente è scesa nelle strade. Le
stesse strade che Zenawi aveva riempito di polizia e esercito, sin dal voto.
La popolazione nelle vie ha sostenuto i leader dell'opposizione, che si
dichiaravano vincitori e chiedevano all'Eprdf, il partito al governo, di
farsi da parte. Un mese dopo, nella capitale il confronto è finito in
tragedia. La polizia ha sparato sulla folla, in fermento ma disarmata,
facendo morti e feriti. Poi il governo ha affermato di avere vinto,
continuando a governare, e mettendo in atto una spirale di repressione
andata avanti per mesi, sino all'arresto, agli inizi di novembre, di tutti i
capi del Kinjit, una ventina di giornalisti, esponenti di Ong e della
società civile. Tutti sotto processo per tentativo di sovvertire l'ordine
costituzionale, insurrezione armata, tentato genocidio (nei confronti dei
sostenitori di Zenawi e dell'etnia del primo ministro, i tigrè).
Dopo l'arresto, sono esplose dure proteste. Portando con sé altri morti e
feriti, e arresti a migliaia. Il tutto è durato pochi giorni. Poi, il
silenzio della repressione. Con la necessità di portare a casa anche quel
misero salario di poche decine di euro. «Non possiamo fare nulla. Abbiamo
scioperato. Dopo due giorni, il governo ha fatto circolare un avviso. Chi
non si fosse presentato al lavoro il giorno successivo, sarebbe stato
licenziato», racconta un'infermiera, chiedendo l'anonimato. Il silenzio,
anche, di un popolo memore del pugno di ferro dei passati regimi. Un filo
rosso a cui ogni governo pare attenersi.
Un anno dopo, Zenawi governa. L'amministrazione della capitale, dove
l'opposizione aveva ottenuto tutti i seggi, è stata commissariata e affidata
a un governo «tecnico». Nel frattempo, il sindaco eletto di Addis Abeba,
Berhanu Nega, rimane rinchiuso nel carcere di Kaliti, assieme ad altre 110
persone. E il processo continua. Gli accusati si dichiarano «prigionieri
politici», mentre Amnesty International afferma che «i politici, i difensori
dei diritti umani e i giornalisti sotto processo sono prigionieri di
coscienza che non hanno né invocato né usato la violenza», chiedendone
l'immediato e incondizionato rilascio.
A complicare il quadro, da marzo Addis Abeba è scossa da una serie di
attentati terroristici. Gli ultimi venerdì scorso. Nove esplosioni hanno
squassato una giornata calda e caotica. Sono saltati in aria ancora autobus,
bar, piccoli esercizi commerciali, un ufficio delle linee aeree etiopiche e
uno dell'elettricità. Il bilancio ufficiale parla di 4 morti e di oltre
trenta feriti. Testimoni oculari hanno riferito che ci sarebbero più morti.
Le esplosioni colpiscono direttamente la popolazione, nei caffè popolari,
sugli autobus che tutti utilizzano. «Sono terrorizzata. Ho paura a mandare i
miei figli a scuola», raccontava venerdì Bertukan, mentre gli agenti della
sicurezza rimuovevano un cadavere da un pullman, a Gotera, zona sud della
città. Il primo ministro, giorni fa, aveva dichiarato al manifesto:
«Il materiale esplosivo arriva dall'Eritrea», additando come responsabili
materiali i separatisti dell'Oromia Liberation Front (Olf) e il Kinjit.
Domenica il portavoce dell'Olf, Lencho Bati, ha negato «qualsiasi
coinvolgimento negli attacchi», rimbalzando le accuse sul governo.
In tutta l'Etiopia regna una calma nervosa, ed ormai è impossibile sentire
un commento da parte dell'opposizione. Uno dei leader non in carcere,
raggiunto telefonicamente, non ha voluto parlare. Chi parla è Zenawi.
Intervistato ieri dal Times, ha dichiarato che l'opposizione,
incoraggiata da segnali confusi della comunità internazionale, ha sperato di
poterlo rovesciare, dando il via alla crisi politica dell'ultimo anno.
«Hanno sbagliato i calcoli», ha dichiarato il primo ministro. «L'Etiopia non
è l'Ucraina». Zenawi poi ha attaccato la Gran Bretagna per avergli tagliato
gli aiuti senza consultarlo, e Amnesty International, definita
«l'auto-proclamato angelo guardiano della democrazia in Africa, che crede
che i leader africani sanguinari non porteranno democrazia se non
soffiandogli sempre sul collo». Chiarendo il suo pensiero su una possibile
soluzione negoziata della crisi politica dell'ultimo anno.
Argentina
A Faenza le orme della dittatura
Pio
Laghi Il Cardinale, già nunzio apostolico a Buenos Aires e amico di Pinochet, è
stato oggetto di un tributo nella sua città d'origine. Mentre i desaparecidos
aspettano giustizia
Claudio Tognonato
Pochi giorni prima dell'anniversario del trentennale del
colpo Di stato in Argentina la città di Faenza ha dato una dimostrazione di
grande sensibilità. Il 21 marzo la Giunta comunale, su proposta di Renzo
Bertaccini, ha aggiudicato l'onorificenza del «Faentino lontano» alla signora
Elda Casadio nata a Faenza nel 1926 e residente in Argentina.
Disgraziatamente Elda Casadio, Madre di Piazza di Maggio, è morta qualche
settimana dopo aver saputo dell'onorificenza in seguito ad una rapina subita
preso la sua abitazione di Buenos Aires. Una faentina lontana e profondamente
vicina, una compaesana del tristemente celebre cardinale Pio Laghi, quel Nunzio
Apostolico che nell'Argentina della dittatura militare - con 30.000 oppositori o
presunti tali sequestrati, torturati e gettati ancora vivi in mezzo al mare -
sceglieva il silenzio.
Perché il cardinale Laghi, come Elda Casadio, è di Faenza. Laghi nacque nel 1922
a Castiglione di Forlì, piccolo paese vicino a Faenza, da una famiglia di
contadini. Il padre lo iscrisse alla scuola ginnasiale dell'Istituto Salesiano
di Faenza e vista la dedizione del bambino, alcuni benestanti della città hanno
contribuito a fargli continuare gli studi, andati poi avanti con successo nella
carriera ecclesiastica.
Quanto a Elda Casadio, nel 1944 conosce un giovane soldato polacco, Stanislao
Koval, in Italia per liberarla dall'occupazione tedesca. Finita la guerra
decidono di sposarsi e nel 1945 nasce il loro figlio, anche lui Stanislao. Senza
lavoro e con un bimbo a carico, nel 1946 decidono di tentare fortuna in
Argentina. «Siamo partiti con un baule», raccontava Elda. «Ci siamo sistemati in
una piccola casa di legno e lamiera». Quando tutto sembrava procedere per il
meglio, un giorno sono arrivati i militari: «pensavo di essere tornata al clima
della guerra qui in Italia, ma nemmeno i tedeschi hanno fatto quello che è
successo in Argentina. Stanislao aveva 31 anni, è stato portato via il 28 maggio
1976». Quel 28 maggio Elda vide per l'ultima volta Stanislao: «Il mio ragazzo
era dentro un'auto, con un bavaglio sulla bocca e un uomo che gli teneva una
pistola puntata alla tempia».
«Un paio di mesi dopo il sequestro di mio figlio andai da Monsignor Laghi, nella
sede della Nunziatura apostolica. Appena entrata gli dissi: Monsignore, io sono
di Faenza, ho un figlio desaparecido. Mi guardò e mi chiese: Suo figlio era un
comunista? Non era un comunista ma anche se lo fosse stato, si deve uccidere per
una idea?» Pio Laghi non ha fatto nulla per Stanislao, diceva di avere le mani
legate.
Anche per questo venerdì 12 maggio a Faenza, alla presenza dell'autore, è stato
presentato l'ultimo libro di Horacio Verbitsky, L'isola del silenzio. Il ruolo
della Chiesa nella dittatura argentina, un'indagine sulle connivenze tra la
Chiesa cattolica e dittatura. Domenica scorsa, in occasione della Solennità
della Beata Vergine delle Grazie, patrona della città di Faenza, la Chiesa
diocesana ha festeggiato i 60 anni di sacerdozio dei cardinali Pio Laghi e
Achille Silvestrini. Un gruppo di giovani ha distribuito un volantino che, dopo
aver ricordato i silenzi del cardinale, chiede «Chi è il cardinale Laghi e cosa
ha da festeggiare oggi la Chiesa?».
La notte precedente, qualcuno aveva incollato due scarpe di donna sul gradino
del Duomo, a ricordare le tante madri di desaparecidos che ancora aspettano
giustizia. Inutile dirlo ma le scarpe, al mattino, sono state rimosse.
16 maggio
Abu
Omar, la verità
Gli italiani con la Cia
di Fabrizio Gatti
e Peter Gomez
Un maresciallo dei carabinieri prese parte al sequestro dell'imam
a Milano. E parla di un commando con molti italiani. Ecco la svolta clamorosa
nelle indagini sull'operazione segreta
Un filo segreto
porta da Palazzo Chigi al sequestro di Abu Omar, l'imam rapito a Milano e
torturato in Egitto. Un segreto nascosto in una telefonata partita dalla
segreteria di Gianni Letta, il potente sottosegretario al quale Silvio
Berlusconi ha affidato la delega per i servizi di intelligence. Pochi giorni fa,
come risulta a "L'espresso", da quel numero interno della presidenza del
Consiglio qualcuno chiama l'ambasciata italiana a Belgrado. Ha moltissima
fretta. Vuole parlare immediatamente con l'addetto alla sicurezza
dell'ambasciatore: un maresciallo dei carabinieri che fino a un anno e mezzo fa
ha lavorato nella sezione antiterrorismo del Ros di Milano. Ed è una coincidenza
curiosa. Perché proprio in quelle ore in Procura a Milano il maresciallo sta
rivelando una delle storie più compromettenti per il governo Berlusconi e
l'intelligence italiana. La vera storia del rapimento di Abu Omar: il
sottufficiale racconta che all'ora X, più o meno le 12 del 17 febbraio 2003,
addosso all'imam bloccato in via Guerzoni, a metà strada tra il centro e la
periferia milanese, non ci sono soltanto gli agenti della Cia. Al sequestro
partecipano anche militari italiani. E lui lo sa bene: perché quel giorno il
maresciallo dei carabinieri, nome in codice Ludwig, è con loro.
Cadono così tre anni di versioni ufficiali che, una dopo l'altra, hanno sempre
negato la presenza di italiani nel commando che ha rapito Abu Omar. A cominciare
dalle dichiarazioni del ministro Carlo Giovanardi, mandato da Berlusconi l'anno
scorso a rispondere al Parlamento: «Non è neppure ipotizzabile», ha detto
Giovanardi a nome di tutto il governo, «che sia mai stata in alcun modo
autorizzata qualsivoglia operazione di questa specie né, a maggior ragione, il
coinvolgimento nella stessa di apparati italiani». Anche il generale Nicolò
Pollari, direttore del Sismi, il servizio segreto militare, ha sempre smentito
la collaborazione dell'Italia. Così come il generale ha ripetuto poche settimane
fa a Bruxelles davanti alla commissione del Parlamento europeo che indaga sulle
operazioni segrete della Cia: «Noi non abbiamo assistito tali comportamenti e
nemmeno partecipato né appoggiato questo tipo di attività».
Il maresciallo Ludwig non è il solo italiano coinvolto nell'inchiesta. Altri
stanno per essere identificati come complici o testimoni: dovrebbero essere
carabinieri, agenti dei servizi segreti oppure, ipotesi più remota, 007 privati
ingaggiati per l'operazione. Ma il sottufficiale è al momento l'unico a
rischiare già adesso il processo e il carcere per sequestro di persona. Perché
il mese scorso il ministro della Giustizia uscente, Roberto Castelli, si è
definitivamente rifiutato di presentare agli Usa la domanda di estradizione dei
dipendenti della Cia in servizio in Italia: sono i 22 agenti americani del
commando che ha rapito Abu Omar per i quali il procuratore aggiunto di Milano,
Armando Spataro, già un anno fa aveva chiesto l'arresto. Il ministro ha anche
respinto la richiesta della Procura di Milano di diffondere all'Interpol la nota
per le ricerche internazionali. Grazie a Castelli, gli 007 della Cia potranno
così andare ovunque nel mondo senza correre il rischio di essere fermati e
consegnati all'Italia. Come pubblici ufficiali, i rapitori rischiano condanne
fino a dieci anni. Più le aggravanti per le torture subite dall'imam. Ma a
questo punto i carabinieri e gli altri italiani coinvolti nell'indagine
manterranno la consegna del silenzio con la prospettiva di essere gli unici a
pagare? Forse è proprio questo il motivo della misteriosa telefonata partita dal
numero interno di Palazzo Chigi.
Ludwig deve il suo nome in codice ai capelli biondi e al fisico da tedesco. Dopo
il sequestro di Abu Omar ha fatto carriera: è stato selezionato per il posto di
addetto alla sicurezza dell'ambasciata a Belgrado, incarico a volte riservato ad
agenti del Sismi. Ma è nella sezione antiterrorismo del Ros di Milano che
cominciano e finiscono i suoi giorni del Condor: la partecipazione a quella che
qualcuno, per il suo soprannome, già chiama "operazione Ludwig". La sezione
antiterrorismo è la stessa da anni in prima linea nella caccia ai terroristi di
Al Qaeda. E, con la Digos di Milano, è tra le squadre di investigatori più
attive nel sud Europa. Tanto che, dopo l'attacco dell'11 settembre, la Cia è
spesso negli uffici del Ros, nella grande caserma in via Lamarmora a un isolato
dal Palazzo di Giustizia. L'agente americano in contatto con i carabinieri è
Robert Seldon Lady, 52 anni, nato in Honduras e capo della Cia a Milano. È un
uomo massiccio, con la barba appena sbiancata dall'età e le mani grandi come
badili. Lady, Bob per gli amici, è nell'elenco dei 22 agenti consegnato al
ministro Castelli: ha lasciato l'Italia giusto in tempo per evitare l'arresto.
Nelle indagini contro Al Qaeda, tra il 2001 e il 2004 Bob si
mette a disposizione degli investigatori italiani e fornisce notizie, riscontri
fotografici, microspie supertecnologiche. Si fa anche molti amici sia nel Ros,
sia nella Digos, sia tra gli agenti dei regimi nordafricani in azione a Milano.
Nel 2002, qualche giorno prima di Natale, li invita tutti a un party.
Appuntamento nella cascina ristrutturata che Bob ha comprato tra le colline di
Penango, in provincia di Asti. Gli mancano pochi mesi alla pensione e con la
moglie ha deciso di rimanere in Italia dopo il congedo. Sotto il cielo grigio di
quel pomeriggio, agenti segreti e investigatori dell'antiterrorismo sfilano nel
breve viale che dal cancello porta in casa. Abbracci, strette di mano. Gli
auguri e i bicchieri di vino rosso del posto. Da quanto risulta a "L'espresso",
il maresciallo Ludwig è tra gli invitati. Di Bob Lady è un carissimo amico. C'è
anche un capitano della stessa sezione del Ros. Un ufficiale che poche settimane
fa il Sismi ha scelto tra gli aspiranti 007.
Possibile che in tre anni non si sia mai accorto che, con il sequestro di Abu
Omar, un suo maresciallo e forse altri suoi dipendenti si erano messi agli
ordini di un servizio segreto straniero? Il giorno in cui tutti gli 007 di
Milano si ritrovano nella cascina di Penango mancano tre mesi alla guerra in
Iraq. I piani di invasione sono pronti. E forse in un cassetto dell'ambasciata
americana a Roma è pronta la relazione per ottenere da Washington il via libera
all'operazione Ludwig. Il bersaglio ha un nome lungo: Hassan Moustafà Osama
Nasr, nato ad Alessandria d'Egitto il 18 marzo 1963. Nelle moschee di viale
Jenner e via Quaranta a Milano lo conoscono come Abu Omar. Il ministero
dell'Interno gli ha concesso lo status di rifugiato politico. E la Digos lo sta
pedinando da tempo: l'imam è sospettato di reclutare combattenti e kamikaze da
inviare in Iraq per la guerra ormai imminente. Forse quel giorno di dicembre,
nella sua casa piemontese, Bob ha già spiegato a Ludwig le intenzioni della Cia.
Forse gli ha già raccontato del piano di Abu Omar di far esplodere il pullman
con gli allievi della Scuola americana di Milano: un piano di cui però la Digos
non ha mai trovato riscontri. Bob e Ludwig si rivedono ancora nell'ufficio del
Ros. E poi a cena a casa di Ludwig, ogni volta che Bob deve rimanere a Milano
per lavoro. Il 16 febbraio 2003, da quanto risulta a "L'espresso", vanno insieme
in via Guerzoni. È una domenica, c'è poco traffico. Forse passano davanti al
palazzo in via Conte Verde 18 dove Abu Omar abita con la moglie Nabila Ghali, in
un appartamento messo a disposizione dalla moschea di viale Jenner. Alla fine
del sopralluogo Bob consegna a Ludwig un cellulare. E gli ripete cosa dovrà
fare. Il maresciallo del Ros deve fermare Abu Omar e chiedergli i documenti.
Tutto qui. Oppure intervenire con il suo tesserino dei carabinieri nel caso
l'operazione fosse ostacolata dall'improvviso controllo di una volante o dei
vigili urbani. Gli agenti della Digos invece non sono più un problema: i
pedinamenti di Abu Omar sono stati sospesi da almeno due mesi.
La mattina dopo, il 17 febbraio, Ludwig è in ufficio. I suoi colleghi sono
impegnati in un servizio a Cremona. Lui resta a Milano e all'ora stabilita -
racconta - va all'appuntamento in moto. Deve aspettare il contatto in piazzale
Maciachini. Si ferma un'auto. L'uomo al volante, l'unico a bordo, lo chiama con
il nome in codice. È sicuramente italiano. Ludwig sale. Fanno tre isolati,
girano in via Guerzoni e vedono subito Abu Omar arrivare a piedi. È l'ora X.
Come in un film di spionaggio Bob Lady, regista dell'operazione, non si fa
vedere. Il maresciallo scende dall'auto e chiede i documenti. L'imam dice di non
avere capito. Lui ripete la domanda in inglese. L'imam consegna il passaporto.
All'improvviso, da un furgone parcheggiato lì accanto, esce una squadra di
uomini. Forse c'è qualche americano. Ma chi parla impreca in italiano, senza
accento straniero. Prelevano Abu Omar, che grida, chiede aiuto. Il maresciallo
Ludwig si sposta per non essere travolto. In meno di 30 secondi il furgone parte
verso la periferia. Il maresciallo resta immobile, con il passaporto di Abu Omar
in una mano e il cellulare di Bob Lady nell'altra. Butta tutto dentro il
finestrino dell'auto che l'ha portato fin lì. L'italiano al volante accelera e
se ne va. Poco dopo squilla il cellulare personale di Ludwig. È un ufficiale dei
carabinieri che vuole avere notizie del suo dipendente. Forse è solo una
coincidenza. Ma le antenne dei telefonini sui tetti del quartiere registrano:
posizione, numeri, durata delle conversazioni. Dall'altra parte della strada una
donna egiziana vede gli 007 in azione e racconterà tutto a un'amica. Nel giro di
due giorni la comunità araba a Milano sa che Abu Omar è stato rapito. Viene
presentata la denuncia alla Digos. L'indagine sembra facile: basterebbe chiedere
alla Telecom e alle altre compagnie i dati sul traffico telefonico nella zona
all'ora del rapimento. Ma i risultati arrivano soltanto in ottobre. E non
servono a nulla perché non riguardano le telefonate del 17 febbraio, ma quelle
del 17 marzo. Dopo otto mesi bisogna ricominciare le indagini daccapo. Adesso i
nomi di altri italiani in azione con la Cia potrebbero ancora nascondersi dietro
i numeri di telefonino. Soprattutto quelli rimasti senza intestatario. Una
copertura ottenuta grazie alla complicità di alcune compagnie telefoniche. Come
ha scoperto "L'espresso", centinaia di schede Sim vengono periodicamente
consegnate ai servizi segreti senza essere registrate. Numeri fantasma da usare
e buttare dopo ogni operazione sporca.
La destra senza politica. La sinistra
senza società
di Ritanna Armeni
Il
centro destra ha oggi una grande forza sociale e culturale ed una scarsa
forza politica. La sua capacità di penetrare e influenzare la società è
evidente in quella metà dei voti degli italiani conquistati il 10
aprile. Voti che neppure i più intelligenti sondaggisti erano riusciti
ad intercettare perché parte di una Italia profonda e non decifrabile.
Voti del nord industriale e laborioso. Voti degli operai che in numero
notevole hanno, anche questa volta, votato Lega. Voti che, proprio
perché così radicati e diversificati - proprio perché attraversano le
classi sociali - mostrano anche la penetrazione culturale dell’ideologia
liberista e populista.
Ma il centro-destra ha oggi una forza politica inadeguata. La perdita
del governo, sia pure per un esiguo numero di voti, non è stata ancora
rimpiazzata da una strategia politica di opposizione. Il centro destra
di fronte ai risultati elettorali, ha prima parlato di brogli e
irregolarità, poi ha tentato di delegittimare il risultato, poi ha
puntato su una rivincita immediata e si è predisposto a continuare la
campagna elettorale puntando sulle elezioni amministrative e sui
referendum.
Su questa linea è rimasto unito e ha rinviato i problemi. Dopo dovrà
scegliere. E solo se riuscirà ad adottare una strategia politica che di
nuovo riunifichi e potenzi la sua forza sociale potrà rendere difficile
il governo dell’Unione. Non è detto, ma non è da escludere.
Lo schieramento che ha vinto le elezioni ha oggi caratteristiche
opposte. Ha dimostrato una certa consistenza politica, ha elaborato un
programma che è riuscito a mettere insieme le varie anime dell’Unione;
ha vinto sia pure di poco le elezioni, ha eletto le maggiori cariche
istituzionali, si avvia a varare un governo. Non c’è dubbio che è
riuscito a utilizzare bene il vantaggio che il risultato elettorale gli
ha dato. Ma la sua capacità di penetrazione sociale e culturale, per
quanto vasta, è stata alla prova delle elezioni minore del previsto.
Il problema dell’Unione quindi è analogo e opposto a quello del centro
destra ed è esattamente questo: come far diventare forza sociale e
culturale la sua forza politica; come penetrare nell’Italia profonda;
come conquistare fette di società che dovrebbero appartenergli ed ha
perduto.
Nei prossimi mesi il destino dei due schieramenti si giocherà sulla
capacità del centro destra di elaborare una strategia politica e sulla
capacità del centro sinistra di riconquistare una egemonia sociale.
Per il centro destra la strada non è facile. Dopo il referendum, e forse
anche prima, le spinte autonomistiche e ribellistiche della Lega si
faranno sentire. La scelta di una linea che punti su tempi più lunghi,
ma fondata sulle contraddizioni dell’avversario, capace di tessere una
nuova opposizione, si scontra con quella della “vendetta” subito, col
nascere di un “girotondismo di destra” che vorrebbe le manifestazioni al
Quirinale, gli scioperi fiscali, e la ribellione di piazza come risposte
immediate e arrabbiate alle iniziative della nuova maggioranza. La
strada della ricerca di larghe intese sul modello tedesco, già
minoritaria, dopo la elezione del presidente della Repubblica è
chiaramente sconfitta. E‚ evidente che oggi nella Casa delle libertà si
scontrano una linea moderata e centrista che raggruppa una parte di An e
di Forza Italia e l’Udc, e una parte più estrema che ha il suo
baricentro nella Lega, ma della quale fanno parte consistente fette di
Forza Italia e di Alleanza nazionale. Ed è anche evidente che Silvio
Berlusconi non è in grado di fornire una sintesi, se non tattica, su
singole questioni come, ad esempio, la decisione della scheda bianca per
le elezioni alla presidenza della repubblica. La sconfitta per un leader
“impolitico” è più difficile da elaborare che per i tanti più “politici”
leader della destra.
Il centro sinistra ha quindi un’opportunità. Quella di intervenire nelle
difficoltà politiche del centro destra, per rivolgersi a chi l’ha
votato, a chi ha creduto nei suoi programmi e mostrare un linea di
governo che effettivamente sia in grado di spostare consensi. Un
esempio. E’ evidente che l’esaltazione e “giustificazione” della
flessibilità, l’estendersi del lavoro precario, in una generazione,
quella dei giovani, che non ha mai conosciuto davvero “il lavoro fisso”,
ha creato un atteggiamento culturale nei confronti della precarietà non
sempre corrispondente ad un modello di disperazione e di emarginazione
totale. In Italia non c’è solo chi ritiene che la precarietà sia una
tragedia, ma anche chi pensa che non può che essere così e chi pensa
addirittura che quella sia la via migliore per la società oltre che per
l’economia. La delusione nei confronti delle posizioni presenti anche
nella sinistra ha contribuito non poco a questi atteggiamenti. L’Unione
che darà con la riduzione del cuneo fiscale il primo messaggio di
politica economica e sociale, è chiamata anche a inviare nei prossimi
mesi un segnale forte che indichi in modo concreto che per “tutti” la
riduzione della precarietà è un fatto positivo.
Questa politica potrà suscitare l’opposizione di parti estese del mondo
imprenditoriale, del popolo di Vicenza per intenderci, ma porrà un
problema di consenso e di valori all’elettorato operaio del centro
destra e anche a quella parte dell’imprenditoria che vede nella qualità,
nella ricerca e nell’innovazione il terreno di confronto con l’economia
globale e non sul costo del lavoro.
I tempi per dare segnali di cambiamento non sono infiniti e non sono
nemmeno molto lunghi. Un’opposizione così debole politicamente come
quella uscita dalle elezioni ha comunque una forza sociale che è in
grado in modo forse selvaggio e ribelle di mettere in crisi equilibri
politici già faticosi e con un alto grado di instabilità. La campagna
elettorale per l’Unione è finita, ma quella per la conquista della
maggioranza dei consensi è appena iniziata.
15
maggio
Dalla precarietà al vagabondaggio
ecco la nuova povertà dei giovani
di TULLIA FABIANI
"Ai giovani
si chiede di essere creativi, ma la creatività senza politiche
di sostegno non basta a generare ricchezza". Questo è il punto
su cui insiste Giuseppe Pelizza, quando parla del dossier sulla
"povertà giovane" pubblicato su Dimensioni nuove, la rivista
mensile che dirige ed è edita dall'editrice salesiana Ellecidi.
Si parte dai dati ufficiali: in Italia sono circa 600 mila i
giovani tra i 18 e i 24 che vivono in condizione di povertà
mentre gli under 18 poveri sono un milione e mezzo. Cifre
ricavabili dal Rapporto sulle politiche contro la povertà e
l'esclusione sociale 2004 del governo e che si riferiscono
all'ultimo anno disponibile (2003). "Abbiamo preso in
considerazione anche dati Istat e una ricerca dell'istituto
Eures - spiega Pelizza - ma accanto ai numeri a tratteggiare il
quadro dell'indigenza giovanile sono state le testimonianze".
Racconti di vita difficile, che vanno dall'esempio ormai
"classico" del lavoro precario che "non permette di costruire
niente" a quello più estremo del ritrovarsi in strada come
clochard. E non si tratta di casi eccezionali, ma di situazioni
sempre più comuni.
"In generale si stanno rivelando situazioni di estrema
precarietà - racconta Raffaele Gnocchi, responsabile del
Servizio di accoglienza milanese della Caritas (Sam) nel dossier
- persone apparentemente normali, ragazzi di 18, 20 o 25 anni
che vivono però storie di povertà materiale e relazionale. Così
vediamo sempre più gente, senza lavoro, a volte anche senza casa
e con tanta solitudine". Eppure ci sono forti paradossi che
rischiano di confondere: "Si nota che molti ragazzi possiedono
due cellulari - dichiara Pelizza - e noi abbiamo evidenziato
come nei giovani sia cambiata la propensione alla spesa. Ma
all'origine non c'è una situazione di reale benessere, quanto
piuttosto un'incapacità di gestione del denaro, probabilmente
frutto di una cultura distorta".
Consumi sbagliati, dunque: eccesso di superfluo, dai telefonini
all'abbigliamento trendy, che porta le famiglie a indebitarsi;
"effetti della fragilità psicologica con cui guardano al
futuro", li definisce la rivista che da 44 anni si occupa di
condizione giovanile. Sarebbero questa allora le nuove forme di
povertà da combattere: "Va bene preoccuparsi dei pensionati,
perché votano anche loro - sottolinea il direttore del periodico
- ma il futuro è dei giovani ed è una sfida fondamentale quella
di garantire loro un vero benessere".
La domanda, però, è: in che modo? Il dossier propone qualche
parere. Dall'idea di promuovere il "capitale umano", come
sostiene Giacomo Vaciago, docente di Politica economica
all'Università Cattolica di Milano, secondo cui "la gente non
riesce più a migliorare la propria posizione come un tempo,
quando c'erano contadini che diventavano industriali e operai
che diventavano ingegneri". All'ipotesi di allargare il Reddito
minimo di inserimento: "Questa forma di lotta alla povertà
dovrebbe essere nazionale, non affidata alla sensibilità e alle
risorse disuguali dei Comuni - si legge nel dossier - e
"universalistica" (aperta a qualsiasi cittadino indigente in
quanto tale, e non solo a chi appartiene a determinate categorie
di disagio). È stata sperimentata attorno al 2000 sotto il nome
di Reddito minimo di inserimento (Rmi), ma la sperimentazione è
stata interrotta. La legge Finanziaria 2004 prevedeva di
sostituire il Rmi con il Reddito di ultima istanza (Rui). Ma
l'applicazione è rimasta sulla carta".
Ed è proprio la mancanza o l'improprietà di certe risposte che
denuncia Pelizza. A cominciare da quella della Riforma della
scuola: "È una risposta sbagliata a un bisogno reale - afferma
il direttore - ma nella situazione di crisi in cui si trovano i
giovani non servono barricate ideologiche, bisogna davvero
lavorare nell'interesse di una generazione che è il futuro del
Paese. Altrimenti perderemo tutti".
12
maggio
L'antitaliano di
Giorgio Bocca
Paure e amnesie di chi ha votato
Silvio
Nella
provincia di Cuneo l'80 per cento degli elettori ha votato Silvio
Berlusconi. Una provincia partigiana, antifascista ha votato per l'uomo
che ha sdoganato gli ex fascisti sempre fascisti, che non ha esitato a
candidare anche gli ex nazisti sempre nazisti, compresi quelli che non
avevano mai sentito parlare dell'Olocausto.
Ha votato per il politico che ha sempre ostentatamente ignorato la
celebrazione del 25 aprile, che candidamente ha confessato di non sapere
chi era papà Cervi, il padre dei sette fratelli fucilati a Reggio dai
fascisti, di cui sono state pubblicate migliaia di fotografie, di
articoli, centinaia di libri, fiumi di memorie, come non bastasse a
stamparlo nella memoria di massa quella sua faccia di contadino che
sopporta tutte le avversità e i lutti. Ma niente di ciò che significa il
vecchio Cervi ha mai raggiunto il Cavaliere di Arcore che pure ha
un'ottima memoria.
Le amnesie del qualunquismo italiano, della profonda millenaria destra
italiana su cui navigano tutti i ritorni plebiscitari del partito dei
soldi, sono totali, compatte come un muro di gomma, come i gradini di
una piramide. Senza esitazioni, senza pudore.
Siamo nati e vissuti in una terra in cui non solo i cippi e i monumenti
parlano della guerra di popolo al fascismo, ma anche le pietre, anche i
fossi. Guardate quello che segue la strada fra Cuneo e Torino non
lontano da Centrallo: in quel fosso cadde crivellato dai colpi delle
brigate nere Duccio Galimberti e un ragazzo che passava lì per caso li
sentì urlare "sparate su quel bastardo". Si chiamavano Costanzo e Probo,
come i martiri della Legione Tebea, i vostri nonni o padri saliti in
montagna dalle campagne del Passatore o della Bombonina, dalle tenute
del marchese Falletti e che formarono l'esercito volontario di borghesi
e di contadini (di operai ce ne erano pochi, gli operai comunisti
stavano più su nelle valli di Lanzo e del Pellice).
Ne avete avuto uno in ogni famiglia, è impossibile che li abbiate
dimenticati. Eppure è così: quando dal profondo sale la paura del nuovo,
il terrore atavico della miseria, della fame, si vota Berlusconi o
qualsiasi altro populista che prometta di tagliare le tasse e di abolire
le multe.
Ma sale pure da un passato recente, anche dalla crisi dell'agricoltura
del primo Novecento quando dalle campagne affamate del Piemonte
partirono a decine di migliaia per andare a bonificare la pampa
argentina, a dormire nelle buche, a patire di malaria per tornare vecchi
e logori a comperare la villetta dalle parti del viale degli Angeli fra
Cuneo e la montagna. Non solo nella 'provincia granda', anche a nord
nella pianura Padana, nel Veneto.
C'è un paese di montagna fra l'Adige e il Brenta, San Mauro di Saline,
dove ha votato per la destra l'89,95 per cento, 349 voti su 388 di cui
102 a Forza Italia e il resto alla Lega. Tutto ciò vuol dire che a
decidere le elezioni di un paese moderno, il sesto o settimo paese
industriale del mondo, sono state delle paure senza senso nel presente,
ma radicate da millenni: paure di carestie, di invasioni, di peste, di
fillossera, di grandine, per cui non si ragiona più, si corre dove si
pensa che ci sia un riparo conservatore, il riparo del non muovere, del
non agitare le acque e gli eventi che hanno sempre portato lutti fra la
povera gente. Tanto più se povera non è, ma si è fatta l'automobile e la
casa, tanto più se nessuno vuole toglierle l'automobile e la casa.
Ma nelle confessioni di quelli che hanno votato per il più ricco dei
nostri milionari, per il più lontano dei piccoli risparmiatori italiani,
per uno che non bastandogli una decina di ville fra Sardegna e Caraibi
ne ha comperata, l'altro giorno, una in Svizzera per il tramite della
madre di sua moglie, nelle confessioni, dicevo, passa come un nero lampo
il pensiero intollerabile: vogliono portarmi via la casa, vogliono farmi
morire sotto il cumulo delle tasse.
Chi? I comunisti. E noi che irridevamo l'anticomunismo irreale, magico,
da maledizione biblica del signor Berlusconi.
La
magistratura contabile punta il dito sulla spesa sanitaria
gli introiti da condoni e la spesa per i dipendenti
pubblici
Corte dei Conti, nella
Trimestrale
rischi di sottostima del deficit
ROMA
- Il quadro economico tracciato nella Trimestrale di Cassa "non è esente da
rischi di sottostima", in particolare per quanto riguarda il disavanzo. Lo
sostiene la Corte dei Conti nella relazione sulla copertura delle leggi
dell'ultimo quadrimestre 2005. Perplessità vengono espresse anche su alcuni
interventi della Finanziaria 2006, anche se i magistrati contabili danno nel
complesso una "valutazione molto positiva" del rafforzamento della manovra fatto
dopo il varo.
Sotto la lente di ingrandimento della Corte ci sono
soprattutto i risparmi previsti sulla spesa sanitaria, gli introiti da condoni e
la spesa per i contratti dei dipendenti pubblici.
In particolare, sottolinea la Corte dei Conti, il risparmio
di 2,5 miliardi, previsto dalla Finanziaria sulla spesa sanitaria, "appare di
non facile realizzazione" e questo "nonostante la persistenza di margini per una
riduzione delle inefficienze e per un più appropriato utilizzo delle strutturo
di ricovero".
Nell'esaminare le coperture della legge finanziaria 2006, la
Corte dice chiaramente: la spesa sanitaria, che cresce sia per la richiesta di
innovazione sia per l'invecchiamento della popolazione, non può essere governata
limitando le risorse ma "con l'attivazione di strumenti di controllo della
domanda" e "con una attenta analisi delle prestazioni da ricomprendere nei
livelli essenziali di assistenza".
La Corte dei Conti lancia poi un allarme nel valutare gli
interventi aggiuntivi "in materia di concordato preventivo, misure definite di
programmazione fiscale e adeguamento degli anni 2003-2004", previsti nella
Finanziaria per il 2006. "La riproposizione di forme di condono fiscale
pregiudica sia le prospettive di gettito connesse ai normali adempimenti dei
contribuenti sia l'esito dell'azione ordinaria tesa al recupero delle aree di
evasione".
La Corte dei Conti rileva come un possibile sforamento della
spesa per i pubblici dipendenti metta a rischio gli obiettivi di deficit 2006
"per la comprovata difficoltà ad attivare strumenti di controllo effettivo dei
fattori extracontrattuali". "Il sistematico scostamento negativo tra gli
obiettivi posti alla crescita dei redditi da lavoro dipendente e i risultati
conseguiti in questi anni - sottolinea la magistratura contabile nella relazione
che esamina le coperture della legge finanziaria 2006 - pone in luce la
difficoltà di governare non tanto gli effetti diretti degli accordi
contrattuali, quanto l'implicazione di un insieme composito di fattori
extracontrattuali (contrattazione integrativa, progressione di carriera, ecc) e
il rispetto dell'obiettivo, sempre ribadito, di riduzione del numero di occupati
delle amministrazioni pubbliche".
I risultati conseguiti nel 2005 sul fronte dei conti pubblici
mostrano "un andamento largamente insoddisfacente della spesa", rileva la Corte
dei Conti nell'esaminare la copertura delle leggi varate nell'ultimo
quadrimestre del 2005. La magistratura contabile evidenzia che l'incidenza sul
Pil della spesa primaria corrente ha quasi raggiunto il 40 per cento (0,6 punti
più che nel 2004), "ritornando su un livello prossimo a quello del 1993. E'
stato, pertanto, mancato - sottolinea la Corte dei Conti - l'obiettivo di
finanza pubblica definito nella legge Finanziaria per il 2005, che fissava un
tetto del 2 per cento alla crescita delle spese delle amministrazioni
pubbliche".
Infine, i tagli alle spese degli enti locali previsti
dall'ultima finanziaria sono troppo severi e quindi rischiano di diventare
irrealizzabili. Le modifiche anno per anno dei meccanismi di correzione creano
difficoltà agli enti e possono spingere a non rispettare i limiti previsti.
11
maggio
Dal Medio
Oriente alla guerra nucleare: la resistibile ripresa della proliferazione
Angelo Baracca
La situazione geopolitica sta cambiando, sotto
l’incalzare di una crisi delle risorse che sembra difficilmente risolvibile nel
contesto degli attuali modelli e rapporti economici, in cui i margini del
sistema economico mondiale si restringono e meccanismi di sfruttamento si fanno
quindi più sfrenati. L’Iran è al centro di una bufera in larga misura
strumentale, perché si trova nel cuore di un’area strategica che giocherà sempre
più un ruolo centrale nei rapporti mondiali: la regione mediorientale, che si
estende dal Mediterraneo al Caucaso e all’Afghanistan. Con l’inasprirsi delle
tensioni gli Stati Uniti non sanno trovare altra strada che la supremazia
militare: dietro il paravento dell’Iran stanno in realtà rilanciando una nuova
fase della proliferazione nucleare, cercando di mettere l’intero regime di non
proliferazione costruito nei decenni passati, di passare al riscorso effettivo
delle armi nucleari, e di realizzare nuovi tipi di armi che cancellino la
fondamentale distinzione tra armi nucleari e convenzionali. Passeremo in
rassegna i tanto contestati programmi nucleari di Teheran, inquadrandoli nei
problemi e nelle prospettive della regione, ed analizzandone poi la proiezione
nei ben più inquietanti programmi nucleari che, con molto meno clamore, si
stanno sviluppando in modo irresistibile in estremo oriente.
La montatura del pericolo dell’Iran
Dovrebbe ormai essere chiaro che il pericolo
nucleare costituito dall’Iran non è che una montatura, come ieri lo furono le
armi di distruzione di massa dell’Iraq: anche se bisogna riconoscere che i
dirigenti iraniani sembrano fare di tutto per attirarsi un attacco militare.
L’Iran aderisce al
Trattato di Non Proliferazione Nucleare (Tnp), che venne concepito proprio con
lo scopo di promuovere la commercializzazione dell’energia nucleare per usi
civili, impedendo però la proliferazione delle armi nucleari: obiettivo
intrinsecamente contraddittorio dato l’ineliminabile carattere dual-use
della tecnologia nucleare. Così il Tnp sancisce per tutti i paesi il diritto di
sviluppare programmi nucleari civili, sotto il controllo dell’Agenzia
Internazionale per l’Energia Atomica (Iaea), e per gli Stati nucleari il
dovere di cooperare al loro sviluppo. Altri paesi lo hanno fatto senza che
vi siano state rimostranze: il Brasile (che ha sviluppato fino agli anni `80
programmi nucleari militari!) sta realizzando la tecnologia per arricchire
l'uranio, e ha in programma addirittura di commercializzarlo. La vicenda
iraniana ricorda quella dell'Iraq anche per il fatto che fu Washington negli
anni ‘60 ad offrire allo Scià (come ad altri governanti, per attirarli
nell’orbita occidentale) un faraonico programma di centrali nucleari, con la
prospettiva di realizzare anche la bomba. Anche l'Europa ha uno scheletro
nell'armadio, l'associazione dell'Iran al 10% nel consorzio europeo Eurodif di
arricchimento dell'uranio: oggi congelata, ma che potrebbe forse spiegare le
goffe mosse attuali della Ue e la sua subalternità agli Usa. In ogni caso, è
sconcio che a trattare con l'Iran per la Ue siano Gran Bretagna e Francia, che
sono in stato di clamorosa violazione del Tnp non avendo ottemperato all'obbligo
di disarmo nucleare, e la Germania, che può realizzare la bomba in tempi
brevissimi.
Teheran in effetti ha compiuto
qualche infrazione, nascondendo alle ispezioni della Iaea alcuni impianti
nucleari (ma chi si è scandalizzato quando si apprese che anche la Corea del Sud
aveva eseguito esperimenti segreti di arricchimento, violando il Tnp?). Poi li
ha aperti alle ispezioni, e fino ad oggi la Iaea afferma di non avere trovato
indizi di attività militari, anche se non è ancora in grado di escluderle
(ammesso che questo sia mai possibile, se è vero che tanti paesi, aderenti al
Tnp, hanno avuto nel passato programmi nucleari militari segreti: addirittura la
Svizzera e la Svezia, ma anche l'Italia stando alle memorie di Lelio Lagorio.
Quali sono realmente gli scopi
e lo stato del programma nucleare iraniano?
La notizia data in modo clamoroso dalla dirigenza iraniana ad aprile
dell’ottenimento dell’arricchimento è stata un coup de theatre. Ammesso
che sia vero, con 164 centrifughe
potrebbe avere ottenuto l’arricchimento di qualche grammo di uranio al 3%: ma la
strada è in salita, occorrerà molto tempo per arricchirne grosse quantità, anche
a questo arricchimento, insufficiente per usi militari. E comunque
il passaggio ad un
arricchimento superiore al 90% necessario no appare così immediato come si tende
a far pensare; e può essere difficile da realizzare in assoluto segreto, per
l'entità delle operazioni, delle centrifughe (3.000 – 5.000) e degli impianti
necessari. Quando Israele avviò negli anni `60 la costruzione del laboratorio
nucleare sotterraneo di Dimona (nascosto a qualsiasi ispezione, poiché Israele
non aderisce al Tnp), le ricognizioni aeree sovietiche rivelarono l'entità e
indirettamente la natura dell'impianto: e ne parlò il New York Times.
Non si può escludere ovviamente
che l’Iran abbia programmi nucleari segreti, ben nascosti e protetti in gallerie
sotterranee: se tali programmi esistessero, dovrebbero venire immediatamente
arrestati e smantellati. Ma nulla può giustificare oggi un attacco militare
all’Iran, tantomeno con armi nucleari! Esso risulterebbe comunque in larga
misura inefficace per neutralizzare eventuali programmi di questo tipo, mentre
mieterebbe sicuramente migliaia di vittime,
poiché il proposito è di ritardare di alcuni anni il programma decimando i
tecnici nucleari iraniani.
In ogni caso, il “pericolo”
denunciato da Washington sarebbe
assolutamente fantasioso, se non fosse strumentale: l’Iran non avrebbe mai la
possibilità di raggiungere il territorio americano, e se anche avesse realizzato
missili capaci di colpire Israele, un eventuale attacco sarebbe assolutamente
suicida (Israele ha munito di missili nucleari tre sommergibili forniti dalla
Germania, che sarebbero capaci di
una ritorsione devastante).
È probabile che l’accanimento
della dirigenza iraniana sul programma nucleare abbia più un ruolo di politica
interna. Teheran nutre anche ambizioni di giocare un ruolo di potenza regionale,
ma esse vengono sistematicamente frustrate dall’Occidente. L’Iran potrebbe
comunque ambire realmente a produrre energia elettronucleare: la sua ricchezza
di petrolio e gas può non essere un’obiezione valida, dati l’approssimarsi del
picco di estrazione e la necessità per il paese di mantenere le sue riserve per
il commercio esterno. L’intenzione di Teheran di aprire una borsa del petrolio
in Euro costituisce poi un forte motivo di allarme per Washington.
COMMENTO
Il
secolo nuovo della sinistra
di EZIO MAURO
QUELL'APPLAUSO del Parlamento in piedi, che dura a lungo e si
allarga a tutta l'aula, dividendo la destra, è il vero atto d'inizio della nuova
legislatura.
Nell'omaggio a Giorgio Napolitano eletto Capo dello Stato c'è
prima di tutto la consapevolezza di aver compiuto il supremo rito della liturgia
repubblicana, scegliendo un uomo adatto a rappresentare l'intero Paese e tutto
il sistema politico in un ruolo super partes, dopo una presidenza di grandissima
popolarità come quella di Carlo Azeglio Ciampi. Poi c'è la coscienza di aver
compiuto il destino della sinistra, per troppi anni monco per l'anomalia
comunista e la sua legittimazione parziale. Ancora, c'è la presa d'atto che il
centrosinistra ha non solo una maggioranza autonoma, ma la capacità di esprimere
una politica per le istituzioni, con gli uomini giusti. E infine, c'è la
certezza che il nuovo settennato sarà difficile, perché il quadro politico
italiano resta terremotato, in una sorta di eterna campagna elettorale
permanente.
Le poche parole e i gesti sobri di Napolitano prima e dopo
l'elezione sembrano adatti al momento. Oggi non c'è bisogno di retorica, come
ieri non c'era bisogno di una campagna elettorale, perché l'incarico non la
consente. Per un candidato come Napolitano parla la biografia politica,
culturale, istituzionale, per il programma parla la Costituzione. Non c'è altro,
perché non ci deve essere altro. Il Presidente è nato come deve nascere
nell'aula di Montecitorio, senza compromessi, liberi i partiti - naturalmente -
di valutare le loro convenienze di schieramento.
Napolitano non ha aggiunto nulla alla storia della sua vita:
si è solo limitato (com'è giusto, perché lo suggerisce la Costituzione) ad
auspicare una convergenza più ampia del suo schieramento politico di sostegno.
La sua presidenza super partes, dunque, nascerà da un dovere
costituzionale di ruolo, da un'educazione istituzionale, da una convinzione
personale: non da patti che sarebbero tutti impropri, perché la Repubblica non
può e non deve patteggiare nulla con nessuno, in quanto tutti i cittadini -
qualunque sia la loro rilevanza pubblica - sono nel suo perimetro, e nello
stesso momento nessuno è un partner speciale o privilegiato con cui la
presidenza va preventivamente concordata.
Questa lunga biografia repubblicana, la storia di un uomo
sempre a sinistra, che ha coltivato un forte senso delle istituzioni e una
cultura europea, è stata offerta dal centrosinistra a tutto il Parlamento, fin
da domenica, per cercare un punto d'incontro che portasse maggioranza e
opposizione ad essere insieme parti costituenti del nuovo settennato. Toccava
alla sinistra che ha vinto le elezioni il diritto-dovere di fare la scelta. Ma
le toccava anche l'obbligo di cambiare schema per il Quirinale rispetto alle
Camere, ricercando l'intesa con l'opposizione. E qui la destra si è divisa. Fini
ha contestato il metodo del candidato unico, con la mancanza della rosa e dunque
della scelta. Berlusconi ha annunciato al Paese che non avrebbe comunque mai
accettato un comunista al Quirinale. Casini ha continuato ad inventare
candidature, di regola durate non più di mezza giornata.
D'Alema ha rappresentato l'opzione più forte, dunque più
difficile da digerire per la destra. Tanto forte che gli stessi Ds hanno sentito
il bisogno di correggere l'imprinting leaderistico e di partito del loro
presidente con una sorta di proposta programmatica alla destra: compiendo un
grave errore. Nella corsa al Quirinale si possono trattare i consensi, com'è
sempre avvenuto, non i poteri del Presidente, che sono indisponibili e fissati
una volta per tutte. E soprattutto: lo Stato (in questo caso il Presidente che
lo rappresenta) non tratta preventivamente con una sua parte, anche se questa
parte si comporta spesso come l'Antistato.
Questo errore ha scoperto D'Alema a sinistra, non ha smosso a
destra quel grumo ideologico che abita il cuore e la mente di Berlusconi. Ma il
falò sacrificale di D'Alema ha in qualche modo spianato la strada a Napolitano
perché la destra mentre negava la pregiudiziale anticomunista faticava a dire
due volte no ad un nome che viene dal vecchio Pci. Anzi: Casini e Fini sono
stati ad un passo dal convincere Berlusconi. Prima di loro c'è riuscito Bossi,
che dice spesso a voce alta ciò che il Cavaliere pensa nel profondo. Così ancora
una volta Berlusconi ha fatto ciò che ha voluto dell'intera Casa della Libertà e
i moderati di destra si sono mostrati ieri come sempre politicamente sterili,
improduttivi, enunciatori di progetti che non riescono mai a tradurre in
pratica. E sullo sfondo risuona la voce della destra estrema di Calderoli,
l'unico parlamentare capace di dire ieri che non riconoscerà il nuovo Capo dello
Stato.
La destra ha perso l'occasione di votare un galantuomo per il
Quirinale, ma soprattutto di aprire un percorso politico di dialogo con la
maggioranza sul terreno istituzionale. Con il risultato di mostrarsi divisa tra
due culture e due pratiche politiche quasi inconciliabili al primo vero test
pubblico poche settimane dopo il voto.
Ecco perché Prodi esce più forte da questa prova, dopo la
tenuta della maggioranza in Parlamento, e può affrontare l'ultimo decisivo
passaggio, quello della formazione del governo.
Più forte, a dispetto di tutto, è anche la prospettiva del
partito democratico, ogni giorno più inevitabile e urgente. L'applauso del
Parlamento per Napolitano presidente saluta infatti anche l'approdo di una
storia incompiuta per troppi ritardi e troppi errori, quella della sinistra
italiana. La compie, non per caso, un uomo che ha partecipato con i più giovani
alla rottura della vecchia tradizione comunista (avvenuta in Italia purtroppo
solo dopo la caduta del Muro, e non prima), e che negli anni precedenti aveva
però saputo puntare la sua bussola di minoranza sull'Europa nell'eredità di
Altiero Spinelli e sulla socialdemocrazia, nella convinzione di superare la
frattura storica con i socialisti. Proprio qui, a ben vedere, sta la radice del
riformismo italiano, che è l'identità culturale del post-comunismo e può
sboccare in una compiuta cultura "democratica" senza aggettivi, con il nuovo
partito. In questo senso, e con ritardo, l'elezione di Napolitano chiude il
Novecento politico italiano, una storia che non sapeva chiudersi. L'applauso a
un Presidente che viene dalla storia del Pci significa che anche la politica è
entrata nel secolo nuovo: e la sinistra, finalmente, attende ora l'inizio di una
nuova storia.
9
maggio
Il Cavaliere al bivio
di MASSIMO GIANNINI
BEN SCAVATO, vecchia talpa. A voler usare la metafora marxiana, si
può dire che l'intelligente operazione politica lanciata dal
centrosinistra con la candidatura di Napolitano al Quirinale sta per
essere coronata dal successo. È quasi certo che domani il senatore a
vita diessino diventerà presidente della Repubblica. Ma la novità
dell'ultima ora è che l'ascesa al Colle del leader migliorista del
vecchio Pci potrebbe avvenire addirittura oggi pomeriggio a larga
maggioranza (i due terzi del Parlamento) grazie ai voti determinanti
del centrodestra. Manca solo un via libera definitivo di Berlusconi.
La svolta, se c'è davvero, è ancora del tutto ipotetica. L'uomo di
Arcore è abituato a cambiare idea in meno di un'ora. Figuriamoci
cosa può succedere in un'intera notte.
Con mezzo partito forzista che schiuma ancora di rabbia
anti-comunista, e con la Lega che ha già predisposto il rito
dell'estrema unzione per la Cdl. Ma se il terzo scrutinio di oggi
dovesse riflettere le indicazioni emerse dal lunghissimo vertice del
Polo di ieri sera, il prodigio si potrebbe compiere davvero. Per non
perdere la faccia di fronte al mondo dopo aver negato pubblicamente
l'esistenza di una "pregiudiziale anti-Ds", Fini e Casini sono quasi
riusciti a convincere il Cavaliere a votare Napolitano, con tanto di
maggioranza qualificata. Il prezzo da pagare, con una scelta
contraria, è il più alto in politica: l'assoluta irrilevanza. Il
ragionamento dei leader di An e Udc non fa una piega:
"L'esperimento-Ciampi lo dimostra: meglio farlo subito, concorrendo
all'elezione e cointestandosi il settennato insieme al
centrosinistra".
Il Cavaliere si è quasi convinto. Ma all'ultimo momento, sul tavolo
del vertice del Polo Umberto Bossi ha calato il solito asso di
bastoni. "Se votate Napolitano, sappiate che per noi la Cdl è morta
e sepolta". Di fronte all'ennesimo ricatto del Senatur, Berlusconi
si è impaurito, e la trattativa si è nuovamente arenata. La notte
porterà consiglio. Ma nel frattempo, un primo e parzialissimo
bilancio politico di quanto sta accadendo si può già trarre.
L'Unione può uscire rafforzata da questa prova. La sua mossa è
riuscita. La candidatura di Napolitano ha ricompattato la
coalizione. Ha restituito piena dignità alla Quercia. Ha riposto
negli archivi della storia l'"interdetto comunista". Ha dimostrato
che la maggioranza uscita vincitrice dal voto del 9-10 aprile non
vuole imporre un "candidato di sfondamento", ma per la più alta
magistratura repubblicana sa indicare un uomo delle istituzioni, una
personalità di garanzia.
Soprattutto, ha gettato lo scompiglio nelle file avversarie. Ha
fatto saltare gli equilibri interni alla Casa delle Libertà.
Il Polo rischia di uscire a pezzi da questa contesa. Nel
centrodestra si ripropone il mortale dualismo che ha marchiato a
fuoco l'intera legislatura. Berlusconi e Bossi contro Fini e Casini.
Ma mai come oggi, il Cavaliere è di fronte a un bivio. Deve
scegliere, a partire dal test decisivo del voto sul Quirinale, tra
due diversi modelli di destra. Da una parte c'è l'"intifada
azzurra". Il no senza se e senza ma a qualunque candidato "che abbia
il cuore a sinistra". La campagna rutilante e donchisciottesca
contro i cosacchi immaginari che esistono nella sua mente, e
purtroppo anche in quella di un pezzo di società italiana, da lui
stesso astutamente alimentata a pane e insicurezza. La minacciosa e
sovversiva jacquerie fiscale, che in una babele di linguaggi e di
messaggi lo spinge a barattare l'elezione di un presidente con
l'esazione delle tasse.
Dall'altra parte c'è il "soccorso azzurro". L'idea che una scelta
responsabile possa contribuire a trovare una via d'uscita bipartisan
dalla palude italiana di questi giorni. La prospettiva di una piena
e mutua legittimazione dei due schieramenti, non più assoggettati
alla tragica ipoteca del Novecento. Il riconoscimento di una
sconfitta elettorale che non è stata una disfatta, e che a maggior
ragione obbliga il soccombente a stare in campo con la forza della
politica, non con la disperazione dell'ideologia.
Questo è l'incrocio che il Cavaliere si trova adesso sulla sua
strada. Finora non ha scelto. Ha oscillato tra i due percorsi
possibili. Oggi gli è difficile imboccare il secondo, dicendo sì a
Napolitano, dopo aver preso una folle rincorsa verso il primo, nel
delirante comizio di domenica scorsa al Palafiera di Milano. Ma per
l'uomo di Arcore cambiare rotta, stravolgendo gli schemi e facendo
saltare i tavoli, non è mai stato un problema. A condizione che,
almeno una volta, liberi se stesso e i suoi alleati dal furore della
sequenza ideologica Pci-Pds-Ds, e dal terrore che dietro ogni quinta
si nasconda lo spettro di D'Alema.
Si tratta di capire, ancora una volta e come è già accaduto in
questi lunghi cinque anni di governo, se il Cavaliere si fa scudo
della Lega per tenere a bada An e Udc. Se usa la clava di Bossi per
menare fendenti su Fini e Casini, frustrando le ambizioni ereditarie
dell'uno e le mire neo-centriste dell'altro. Si tratta di capire se
punta scientemente a subire a ogni costo un Capo dello Stato votato
solo dalla sinistra, per far lucrare a un'opposizione in assetto di
guerriglia permanente un dividendo propagandistico di corto respiro.
Oppure se è pronto a contribuire a una scelta di elevato profilo
istituzionale, per ricostruire su questo atto fondativo un
centrodestra moderno e bipolare con un progetto politico di lungo
periodo.
Come l'opposizione di ieri non poteva e non doveva essere cementata
solo dall'odio antiberlusconiano, così l'opposizione di oggi non può
e non deve essere amalgamata solo dal livore antidalemiano.
L'Unione è tutto fuorché un'invincibile armata.
Ma la talpa sta scavando. Stavolta il Cavaliere può dare una mano -
prima di tutto a se stesso, e poi anche all'Italia - per uscire dal
tunnel.
4
maggio
Il
monumento alla Libertà di stampa inaugurato a Conselice ricorda la
Resistenza ma parla ai giornalisti di oggi
di enzo biagi
È vero:
c'è una stagione della vita in cui, più delle speranze, contano i
ricordi. E come ha detto un grande scrittore non bisogna averne paura.
Appartengo a una generazione nata subito dopo la Prima guerra mondiale e
che ha pagato il conto della Seconda. Questi appena passati sono stati i
giorni della memoria: il 25 aprile con l'anniversario della Liberazione,
ma soprattutto il 22, perché in un piccolo comune della Bassa Romagna,
Conselice, provincia di Ravenna, è stato inaugurato il monumento alla
Libertà di Stampa. Nella piazza è stata sistemata una vecchia
'pedalina', la macchina che veniva usata una volta nelle stamperie. Ma,
durante la guerra di Liberazione, le stamperie erano più che altro
clandestine, soprattutto in quella zona, e sfornavano, oltre a migliaia
di volantini, addirittura 12 testate, tra cui 'l'Avanti', 'l'Unità', 'La
Voce Repubblicana', 'Noi donne' e i giornali delle Brigate partigiane
come 'Il Garibaldino' e 'Il Combattente'.
Nessuna di queste tipografie clandestine fu mai scoperta e il monumento
voluto dall'Anpi, dalla Federazione nazionale della Stampa e dal Comune
di Conselice è dedicato a quei 140 tra donne, uomini e ragazzi che,
rischiando la vita, portarono avanti la loro guerra di libertà. Mi sento
vicino a quella gente perché i 14 mesi in cui ho fatto il partigiano
sono il periodo che ricordo con più orgoglio, ma anche con tanti
rimpianti. Ripensare alla vecchia 'pedalina' mi fa rivivere quei giorni:
avevo 24 anni e molte illusioni. Ognuno di noi portò nella Brigata non
solo le sue idee e la sua storia, ma anche le proprie capacità e quello
che faceva nella vita. Così, io che non ero uno stratega e di campagne
militari conoscevo solo quelle napoleoniche, pensai che era importante
raccontare la situazione del nostro Paese e i principi che ci avevano
spinto a combattere i nazifascisti.
Da due anni ero giornalista professionista, così con i pochi mezzi che
avevamo, feci un giornale, 'Patrioti', due pagine che stampavamo oltre
il fronte, a Porretta Terme. Ne uscirono tre numeri. Non avemmo la
fortuna dei compagni di Conselice perché la nostra tipografia una notte
fu perquisita, ma grazie a Dio la stampa e la consegna del nostro foglio
erano avvenute meno di 24 ore prima. Il primo numero uscì il 22 dicembre
1944; accanto al logo della testata, dove oggi viene messa la
pubblicità, scrissi: Esercito Partigiano, Divisione Bologna.
L'editoriale portava come titolo 'Perché l'Italia viva'.
Cominciava così: "Ciò che hai fatto non sarà dimenticato. Né i giorni,
né gli uomini possono cancellare quanto fu scritto col sangue. Hai
lasciato la casa, tua madre, per correre alla montagna. Ti han chiamato
'bandito', 'ribelle'; la morte e il pericolo accompagnavano i tuoi
passi. Scarpe rotte, freddo, fame, e un nemico che non perdona. Sei un
semplice, un figlio di questo popolo che ha sofferto e che soffre:
contadino o studente, montanaro od operaio. Nessuno ti ha insegnato la
strada: l'hai seguita da solo, perché il cuore ti diceva così. Molti
compagni sono rimasti sui monti, non torneranno. Neppure una croce segna
la terra dove riposano. La tua guerra è stata la più dura, tanti
sacrifici resteranno ignorati. Contadino o studente, montanaro od
operaio, ti sei battuto da soldato. E da soldato sono caduti coloro che
non torneranno. Giosué Borsi, poeta e combattente, lottò e cadde per
un'Italia più grande, ma soprattutto 'per un'Italia più buona'. Anche tu
vuoi che da tanti dolori nasca un mondo più giusto, migliore, che ogni
uomo abbia una voce e una dignità. Vuoi che ciascuno sia libero nella
sua fede, che un senso di umana solidarietà leghi tutti gli italiani
tornati finalmente fratelli. Vuoi che questo popolo di cui sei figlio
viva la sua vita, scelga e costruisca il proprio destino. Non avrai
ricompense, non le cerchi. Sarai pago di vedere la patria, afflitta da
tante sciagure, risollevarsi. Uno solo è il tuo intento: perché l'Italia
viva".
Lo firmerei ancora e sono grato a tutti quelli che hanno voluto
ricordare con il monumento di Conselice quanto è importante, per la
democrazia, una stampa libera. E mi permetto un consiglio ai miei
giovani colleghi, soprattutto alla luce di quanto, nel nostro mestiere,
è successo in questi ultimi anni: andate a vedere la 'pedalina' e
riflettete sull'epigrafe dettato da Giampiero Saviotti: 'Donne e uomini
della Resistenza contro la dittatura fascista e gli invasori nazisti
fecero vivere la libertà di stampa conquistando insieme l'unità della
Patria, la democrazia, la Costituzione, la pace tra i popoli'.
2
maggio
FALLITI ECCELLENTI / DOPO LA CADUTA
Vado,
fallisco e ritorno
Cragnotti
produce vino. Sama fa affari
con lo Stato. Gaucci impazza ai Caraibi.
E poi Tanzi, Fiorini, presto anche Ricucci. La
'seconda volta' dei 'Mister Default'
Edi
Roberto Di Caro e Vittorio Malagutti
Ma Ricucci quando torna? Perché tornerà anche lui, prima o poi,
tanto vale metterlo nel conto. Se qualcosa insegna la recente storia italiana è
infatti che crollano gli imperi ma, tempo due o tre anni, i generali
disarcionati te li ritrovi in sella a qualcos'altro, baldanzosi come prima, in
più la furia di prendersi la rivincita sul mondo brutto e cattivo, i nemici, i
falsi amici, i magistrati e le ex fidanzate. Con un
tempismo invidiabile, Ricucci il ritorno se l'è preparato fin dal momento in cui
la magistratura lo ha estromesso dalle sue aziende. Sulla carta era fuori dalla
holding Magiste e si era consegnato mani e piedi al gruppo di consulenti graditi
alle Procure di Roma e Milano. In realtà, ricostruiscono i magistrati che
l'hanno fatto arrestare, manovra per sistemare la sua cospicua quanto inutile
quota del 14 per cento di Rcs-Corriere della Sera.
Altri hanno avuto forse reazioni meno veloci, e per alcuni una sentenza è parsa
per un istante inchiodarli alle loro responsabilità. Ma per i più le sentenze
passano, e il business ricomincia.
Intanto è sempre colpa di qualcun altro. Cirio e Parmalat mandano a picco le
finanze di decine di migliaia di famiglie italiane con i loro bond spazzatura?
Quei titoli li hanno piazzati le banche, io non ho truffato nessuno, si
dissociano angelici Sergio Cragnotti come Calisto Tanzi.
Il Perugia e la Fiorentina falliscono e scompaiono travolti da perdite e debiti?
È una congiura dei poteri forti a cui ho pestato i piedi, si chiamano fuori
Luciano Gaucci come Vittorio Cecchi Gori.
È la solita storia. Anche quando tracollò un colosso mondiale come il gruppo
Ferruzzi fu nient'altro che un diabolico agguato dei salotti buoni della
finanza: parola di Carlo Sama che prese il timone poco prima del suicidio di
Raul Gardini. Oggi Sama fa base a Montecarlo, e il suo non è affatto un buen
ritiro da pensionato in Costa Azzurra. Il marito di Alessandra Ferruzzi viaggia
di continuo tra Roma e il Sudamerica, dove possiede allevamenti e terreni
agricoli per decine di migliaia di ettari in Argentina, Paraguay e Brasile. La
sua holding Fersam, con sede in Lussemburgo, si è comprata una piccola
partecipazione, il 2 per cento circa, nella Bonifiche Ferraresi, società quotata
in Borsa. Sempre agricoltura, quindi, nella tradizione di casa Ferruzzi.
Persino il governo italiano tre mesi fa ha concluso un
accordo con la Fersam per sviluppare nuovi progetti in campo agroindustriale. Si
comincia dal settore saccarifero. Da parte pubblica è sceso in campo l'Istituto
sviluppo agroalimentare, in sigla Isa. E così il reprobo Sama, condannato per lo
scandalo Enimont a tre anni di reclusione (evitati con l'affidamento ai servizi
sociali), ma assolto dalle accuse di falso in bilancio nelle società di
famiglia, è diventato partner e consulente dello Stato.
Anche Cragnotti è tornato alla terra: produce vino. Fallita la Cirio, poi
venduta a pezzi e bocconi dai commissari straordinari, l'ex patron della Lazio è
in attesa del processo per il crack. Sui giornali pontifica sui furbetti,
dichiarando autorevolmente: "Sto con Fazio, in Italia c'è troppa politica".
Sottobanco, stando all'inchiesta del pm milanese Luigi Orsi, avrebbe tentato di
ricomprarsi parte del gruppo fallito usando prestanome e finanziatori
compiacenti, cinque 'cavalieri bianchi' per i quali nel marzo di quest'anno è
stato chiesto il rinvio a giudizio. Intanto 'la fattucchiera', come Enrico
Cuccia lo aveva soprannominato, si è ritagliato una nuova attività: le vigne.
L'azienda di famiglia, presieduta dalla moglie Flora Pizzichemi, si chiama Corte
alla Flora, come l'etichetta del vino rosso che produce, un Nobile di
Montepulciano. Formalmente Cragnotti non c'entra. Nel
consiglio di amministrazione dell'azienda, però, i suoi figli Andrea e Massimo
siedono insieme a una vecchia conoscenza del padre come Vinicio Fioranelli, che
di mestiere fa il procuratore di calciatori. Ai bei tempi della Lazio campione
d'Italia, l'allora attivissimo Cragnotti faceva coppia fissa con Fioranelli, uno
dei re del calciomercato: un business che muoveva decine di miliardi di vecchie
lire: almeno sulla carta, visto che in realtà erano baratti, come scambiarsi
figurine Panini.
Poi la bolla è scoppiata. E il pallone ha prodotto
dissesti a catena, segnando il destino di molti imprenditori, da fama e
ricchezza all'onta del dissesto. Un'ecatombe: Vittorio Cecchi Gori con la
Fiorentina, Enrico Preziosi con il Como e poi recidivo con il Genoa, Luciano
Gaucci con il Perugia, Franco Corbelli con il Napoli, più svariati altri.
Ultimo, nel marzo di quest'anno Giuseppe Gazzoni Frascara, un tempo proprietario
di Idrolitina, Pasticche del Re Sole e Dietorelle, ancora l'anno scorso
presidente del Bologna: "Io fallito? Neanche per idea.
Sono in default", svicola l'interessato. Molto
british, distaccato e un filo rigido, ma la sostanza è la stessa.
Tutti spariti dopo il fischio del tribunale? Macché. Se Cecchi Gori di calcio
non vuole neppure più sentir parlare, Corbelli s'è dato al basket comprando la
blasonata Olimpia Milano. Ma il clou è Gaucci, l'ex
ferrotramviere detto 'Big Luciano' per i modi eccessivi più ancora che per la
stazza.
Inseguito da un mandato di cattura per una bancarotta fraudolenta da 80 milioni
di euro, Gaucci vive nella parte orientale dell'isola di Santo Domingo, 20
chilometri da Punta Cana, villetta a due piani numero 23 (in affitto, dichiara)
sulla spiaggia di Bavaro Beach che una classifica americana elenca tra le dieci
più belle al mondo. Pesca d'alto mare, il suo hobby
preferito. Ma si può rinunciare, solo per un crack,
alle passioni di una vita: calcio, cavalli e donne? Ovviamente no.
Dei tre, contro il luogo comune, forse sono proprio le donne a
dargli meno grattacapi: dopo Elisabetta e Iris ora è la volta di una sventola
locale, alla faccia di chi gli vuole male. I cavalli lo hanno fatto ricco
(comprò Tony Bin per 6 milioni di lire, vinse tutto, lo rivendette ai giapponesi
per 6 miliardi), ma lo hanno messo nei guai (la Federcalcio gli inibì persino
l'ingresso agli spogliatoi della sua squadra per aver tentato di corrompere un
arbitro regalandogli due cavalli): anche a Santo Domingo ne tiene 110 in una
'finca' a una quarantina di chilometri dalla sua residenza. Col calcio è un po'
più complicato, rispetto ai tempi in cui si comprava, in prima persona o tramite
figli e società, Catania, Sambenedettese, Viterbese, Perugia e tentava pure la
scalata al Napoli: ma si rifà provando con i suoi strali a mettere a soqquadro
il già dissestato mondo del pallone come e più di quando fingeva di far giocare
il figlio di Gheddafi (una partita in due anni, per la cronaca). Attacca pancia
a terra la società di intermediazione calcistica Gea World e tutti quelli che
per breve o lungo periodo ci hanno avuto a che fare, in primis Alessandro Moggi,
figlio di Luciano, cioè la Juventus e Chiara Geronzi, figlia di Cesare, cioè
Capitalia, nonché Franco Carraro, presidente Federcalcio: loro gli avrebbero
svuotato le tasche, non lui le casse del Perugia. Geronzi, per parte sua, ha
annunciato querela.
L'altra bolla che è scoppiata, oltre al calcio, è
quella della new economy. La caduta ha falciato, oltre ai
risparmi di milioni di investitori, anche quegli imprenditori che non si sono
sfilati in tempo. Molti sono usciti di scena, altri sono riapparsi in fretta.
Come Virgilio Degiovanni, il vulcanico inventore di Millionnaire che alle
convention esaltava le folle di aspiranti ricchi, poi inventore di Freedomland,
che vendeva decoder per usare il televisore come computer: nell'ultimo mese
dell'ebbrezza telematica piazzò benissimo in Borsa la sua creatura.
La magistratura lo indaga. Il titolo crolla. Lui patteggia
dieci mesi con la condizionale. Due anni e Degio torna in pista: lancia Movyda,
portale per la telefonia mobile, con una rete di venditori: insomma lo stesso
meccanismo del vecchio Millionnaire.
Nelle vesti del mercante d'arte, sua grande passione, ritroviamo invece Bruno
Sonzogni, dopo la cacciata a fine 2001 dalla Bipop, la banca dei miracoli della
new economy che lui aveva fatto grande. Indagato per
associazione a delinquere, il processo iniziato a Brescia dovrà ricominciare a
Milano, chissà quando. Anche lui respinge le responsabilità ("Hanno voluto la
mia fine") e cerca la rivincita ("Indagate sulla Consob").
Fuochi di paglia, queste rivincite? Non è detto.
Anzi. Ricordate Florio Fiorini e Giancarlo Parretti, la
coppia di acrobati della finanza che una quindicina d'anni fa tentò l'assalto a
Hollywood per conquistare il controllo della Metro Goldwyn Mayer?
Dopo fallimenti e processi a catena, rieccoli entrambi sulla
piazza. Per il fallimento della sua Sasea, Fiorini s'è fatto quasi quattro anni
di carcere in Svizzera (dove la galera si fa): ma gli amici di un tempo non
devono averlo tradito se ora lui, che negli anni Ottanta era direttore
finanziario dell'Eni, fa oggi il consulente petrolifero ai quattro angoli del
globo, piazze preferite l'Est europeo e la Libia.
Al suo ex-socio Parretti è andata anche meglio. In galera c'è entrato quattro
volte, ma non ci è mai rimasto a lungo. L'altr'anno si è inventato la Fondazione
Walter Pierpaoli per le scienze della vita: vende un medicinale a base di
melatonina, presentato come una sorta di elisir di lunga vita. Ai tempi della
Metro Goldwyn Mayer s'accontentava dell'immortalità di celluloide, ora punta
anche a quella del corpo.
Neanche lui è stato abbandonato dai vecchi amici. Chi c'è nel consiglio della
sua Fondazione? Cesare De Michelis, cioè Marsilio editore, fratello dell'ex
ministro Gianni. Che alle ultime elezioni politiche ha persino arruolato
Parretti nelle file del suo Nuovo Psi, candidato alla Camera in Umbria, numero 2
subito dopo il capo: 3.994 voti alla lista, che includeva la Nuova Dc di
Rotondi. Un mezzo fallimento.
Ma, ormai l'abbiamo visto, in Italia si può
sempre provare di nuovo.
Chi vuole la rivincita di classe
Il voto dell'Italia ricca è pessimo ma non insensato: è il voto
del capitalismo anarcoide che consiste nel profitto privato dentro la rovina del
pubblico
Su tutti i giornali si legge
che bisogna scoprire il mistero italiano, la ragione profonda del berlusconismo.
La perdurante tenacia del Nord ricco nel voto al personaggio più lontano, più
diverso, nel costume e nel modo di essere dall'Italia che lavora e che produce.
Ma si tratta di un equivoco.
All'Italia che lavora e che produce il costume interessa poco o punto: ciò che
le interessa è la difesa dei soldi, del particulare e, come ha detto il sindaco
della Margherita di un paese vicino a Cuneo, il centrodestra è riuscito a
tranquillizzare i pagatori di tasse, i contribuenti Iva meglio del
centrosinistra.
Nessuno può capirlo meglio di un cuneese, per così dire all'estero, come io
sono: il giorno in cui Romano Prodi fece la sua sortita sulla tassa di
successione, mi sentii cuneesamente perso. Parlare agli italiani di tasse? Di
una tassa da ripristinare? E parlarne in maniera incerta senza neppure dire con
chiarezza chi avrebbe colpito e di quanto sarebbe stata?
Ha detto del voto conservatore dei cuneesi Marco Revelli il figlio di Nuto, il
comandante partigiano: "Provo un po' di vergogna nel constatare quanto i cuneesi
si siano convertiti al facile messaggio dell'individualismo possessivo di Silvio
Berlusconi. Hanno goduto della crescita e ora non vogliono contribuire ai
costi".
Anche io mi vergogno, caro Marco, ma la democrazia è fatta così, premia i
desideri e gli interessi di massa, non si lascia guidare dalle élites.
Nell'Inghilterra dell'immediato dopoguerra accadde, sia pure all'incontrario,
qualcosa di simile: il voto punì Churchill e i conservatori che avevano vinto la
guerra e salvato la patria e premiò i laburisti per un motivo simile a quello
della nostra elezione: rifiutare ulteriori sacrifici, uscire dai prezzi da
pagare allo Stato e cogliere il bene possibile.
Le nostre previsioni di unionisti sul risultato elettorale erano sbagliate per
persistente fiducia nelle ragioni nobili, pubbliche, del bene dello Stato e per
preesistente sottovalutazione degli interessi personali e dei desideri.
Il governo Berlusconi era certamente pessimo e umiliante per il bene pubblico,
con una politica estera di apparenze e di nessuna sostanza. Un sistematico
attacco alla giustizia e in genere alle leggi, la nessuna serietà delle
promesse, il sistematico 'qui lo dico e qui lo nego', una politica borbonica e
magari fascista dell'apparire più che dell'essere, progetti faraonici senza la
necessaria copertura finanziaria. Secondo una legge che non si vergognava di
chiamarsi legge-progetto, proiettata in un futuro di chiacchiere con i cantieri
per lavori da eseguire in un numero indefinito di anni.
Ma dentro questa politica di facciata e di propaganda c'era qualcosa di molto
concreto: l'appoggio sistematico all'Italia ricca. In questi cinque anni lo
Stato e le sue finanze sono andati alla malora, ma i profitti delle grandi
compagnie sono cresciuti, i dividendi sono raddoppiati, i manager si sono
spartiti stock option milionarie. I commercianti si sono rimpannucciati con il
cambio dell'euro, i grandi ladri hanno fatto bottini strepitosi e così gli
avventurieri della finanza.
Il voto dell'Italia ricca è pessimo ma non insensato, è il voto che dal
berlusconismo è stato predicato e premiato, il voto del capitalismo anarcoide
che consiste nel profitto privato dentro la rovina del pubblico.
E Berlusconi è stato l'uomo giusto per gestire questa vergognosa rivincita di
classe. Ha fatto credere ai poveri che erano diventati ricchi e alla res publica
di aver migliorato, modernizzato, una società che intanto finiva in gran parte
nel dominio della criminalità organizzata.
Ultima impostura fallita la cattura del boss Provenzano nella perdurante
impunità della borghesia mafiosa che faceva i soldi nella tregua da Provenzano
diretta. Una cattura arrivata tardi per poche ore a vantaggio dell'Unione come
il voto degli italiani all'estero a cui tanto aveva lavorato il sempre fascista
onorevole Tremaglia.
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