Lo sapevate che...

Archivio maggio 2006

1 giugno

 

Cgil, la sinfonia dei 100 anni
P. A.
Le note e il timbro della sinfonia passano dai toni da socialismo sovietico a quelli dell'Intenazionale, fino al jazz, quando sono stati evocati i morti di Chicago, i primi del Primo maggio. Cento anni di storia raccontati con la musica e con le parole in un fitto intrecciarsi di suggestioni, quasi di echi di un passato che sembra lontano, ma è ancora quasi un presente. «In fondo - dice Vincenzo Cerami, autore del testo - che cosa sono cento anni nella storia dell'umanità? La Cgil è giovane e siccome è la cartina al tornasole della democrazia, noi gli facciamo grandi auguri».
La sinfonia per il Centenario della Cgil, scritta da Nicola Piovani, è stata eseguita domenica sera a Roma, nella sala grande Santa Cecilia dell'Auditorium della musica. Rulli di tamburi e suoni che si sono mescolati alle splendide voci soliste, due maschili (Pino Ingrosso e Alessandro Quarta) e due femminili (Raffaella Siniscalchi e Gabriella Zanchi) e alla voce ferma e perfino quasi commossa di un ispirato Gigi Proietti. Era il primo ottobre 1906. Quel giorno nacque la Cgil. E' stata la frase finale, prima del grande applauso di una sala stracolma che ha richiamato sul palco i musicisti e i cantanti per parecchie volte, fino a convincere il maestro Piovani a concedere un piccolo gradito bis.
Piovani si è sequestrato per quattro mesi per scrivere questa sinfonia commissionata dalla Cgil, mentre Cerami ha scritto il testo senza tenere conto di steccati o obblighi di cronologia. Si è inventato piuttosto una sorta di volo sul mondo degli ultimi cento anni, per rivedere le peggiori forme di schiavitù, di violenza e di rivincita del movimento dei lavoratori. Testo e note di Piovani hanno lanciato anche più lontano le lianei della storia, fino a ricorrere all'Ecclesiaste da cui è stato preso il filo conduttore: meglio essere in due che soli, meglio essere in mille che in due. Il valore della solidarietà, del compagno pronto a darti un aiuto quando cadi. Una musica da sinfonia classica, un testo postmoderno, così Proietti è diventato quasi il replicante di Blade Runner che ha visto la storia del mondo passare davanti ai suoi occhi.
Nella sinfonia c'è anche l'eclisse del fascismo e c'è il ricordo della storia di milioni di individui singoli che si sono messi insieme per essere più forti. Non è questa, forse, la storia del movimento operaio?

 
Farmaci Cartello per dividersi il mercato L'Antitrust multa nove società
L'Antitrust ha sanzionato per 3,7 milioni 9 imprese che operano nel mercato della fornitura di prodotti antisettici e disinfettanti alle strutture sanitarie pubbliche. L'istruttoria era stata avviata sulla base di una segnalazione della Guardia di Finanza. Il Garante ha specificato di aver «accertato l'esistenza di un'intesa, posta in essere tra il 1998 e il 2001, volta a ripartire il mercato italiano della fornitura di prodotti antisettici e disinfettanti alle strutture sanitarie pubbliche». Le società sanzionate sono Farmecl, Nuova Farmec, AstraZeneca, Braun, Esoform, Ims, P Farmaceutici, Meda Pharma, Sanitas.
 
Guantanamo
No al cibo per 75
Il numero dei detenuti che sono scesi in sciopero della fame nel campo di Guantanamo è cresciuto ed ora coinvolge almeno 75 carcerati. Lo ha riferito il comandante della marina militare statunitense Robert Durant. Durant ha spiegato che il nuovo sciopero della fame può essere collegato ai disordini scoppiati il 18 maggio nel campo di prigionia. Circa 460 prigionieri sono ancora a Guantanamo, molti dei quali catturati in Afghanistan e detenuti da quasi 4 anni senza formale incriminazione da parte delle autorità giudiziarie.
Usa, missili no-nuke che colpiscono in un'ora
Global strike, tutti nel mirino
Manlio Dinucci
«Non più di un'ora»: questo il tempo che occorrerà agli Stati uniti per colpire qualsiasi obiettivo sulla faccia della terra. Lo ha annunciato ieri il gen. James Cartwright, capo del Comando strategico (Stratcom), precisando che nei 60 minuti è «compreso il tempo necessario ad avere l'autorizzazione del presidente per l'attacco» (The New York Times, 29 maggio).
A colpire l'obiettivo sarà una testata convenzionale (non-nucleare), trasportata però da un missile balistico Trident II D-5 da attacco nucleare. Il piano presentato dallo Stratcom prevede che, in ciascuno dei 18 sottomarini Trident, due dei 24 tubi di lancio saranno destinati a questi missili, ciascuno armato di 4 testate convenzionali indipendenti in grado di colpire altrettanti obiettivi. Negli altri 22 tubi di lancio ci saranno i «normali» missili, ciascuno armato di almeno 5 testate nucleari indipendenti. Sono già pronte varie testate convenzionali per i Trident II D-5: una sparge su una vasta area freccette di tungsteno in grado di distruggere veicoli e penetrare all'interno di case e rifugi.
In tal modo, ha spiegato il gen. Cartwright, gli Stati uniti potranno attaccare anche in regioni dove non hanno abbastanza basi e forze e occorrono quindi giorni per trasferirvi aerei e navi. E lo potranno fare in tempi rapidissimi, mentre occorrono molte ore perché un bombardiere, partendo dagli Stati uniti, possa effettuare la missione. I missili balistici a testate convenzionali, spiegano al Pentagono, potranno essere usati per «attaccare campi di terroristi, siti missilistici nemici, sospetti nascondigli di armi biologiche, chimiche o nucleari e altre potenziali fonti di immediata minaccia».
Una volta individuato l'obiettivo attraverso immagini satellitari o informatori in loco, il Centcom chiederà l'autorizzazione del presidente che dovrà decidere in meno di mezzora. Darà quindi ordine al più vicino sottomarino di lanciare i missili. Le testate, una volta rilasciate fuori dell'atmosfera, vi rientreranno a una velocità di 28mila km/h colpendo gli obiettivi a oltre 7mila km di distanza in un tempo massimo di 30 minuti dal lancio. Data la loro enorme velocità, potranno distruggere gli obiettivi anche con il semplice impatto cinetico. Il Centcom potrà così agire fulmineamente, mettendo in pratica la strategia del «Global Strike», ossia dell'Attacco globale. Non a caso il suo emblema raffigura la mano corazzata di un guerriero che, dallo spazio sullo sfondo della terra, impugna tre fulmini, «simboli di velocità e letalità», e un ramoscello d'olivo per «ricordare che la missione del comando è assicurare la pace».
Ma come potranno Russia, Cina e altri paesi tenuti sotto mira dai missili nucleari statunitensi capire quale tipo di testata avranno i missili Trident lanciati dai sottomarini? Nessuna tecnologia permette di farlo. Vi è quindi, secondo diversi esperti intervistati dal New York Times, «il rischio di un confronto nucleare accidentale». Lo stesso Putin, nel suo indirizzo alla nazione l'11 maggio, ha avvertito che «il lancio di un missile di questo tipo potrebbe provocare una inappropriata risposta da parte di una delle potenze nucleari, un contrattacco con forze nucleari strategiche». Negli Stati uniti occorre quindi il nullaosta del Congresso perché il programma sia reso operativo. E il Pentagono, che ha messo a punto ogni dettaglio, sta premendo fortemente in tal senso.
Per evitare pericolosi equivoci, ha detto il gen. Cartwright, Russia, Cina e altri paesi potrebbero essere «informati quando gli Stati uniti lanciano un missile Trident II a testate convenzionali». Le rassicurazioni però non bastano: a Mosca e Pechino sanno bene che i missili balistici a lungo raggio non sono mai stati usati finora in un'azione bellica e che il loro impiego, anche con testate convenzionali, servirebbe a testarli in condizioni reali così da migliorarne le prestazioni per un attacco nucleare. Come ha precisato il gen. Cartwright, dopo un volo di migliaia di miglia le testate dei missili possono colpire in un raggio di 5 iarde, 4 metri e mezzo, dall'obiettivo. Precisione anche eccessiva, se le freccette al tungsteno possono seminare la morte in una raggio di centinaia di metri e una testata nucleare in un raggio di decine di chilometri.

 

30 maggio

IL COMMENTO
La rivincita mancata
di MASSIMO GIANNINI

LA RIVINCITA. La spallata. Lo sgambetto. Il calcio nei denti. Qualunque sia la definizione lessicale, il tentativo politico di Berlusconi è fallito. Le elezioni amministrative come strumento di una jacquerie carnevalesca che avrebbe dovuto avviare il processo di definitiva delegittimazione del centrosinistra al governo. Il voto locale come primo passo di una Vandea populista che, attraverso la tappa successiva del referendum sulla devolution, avrebbe dovuto sancire l'irrilevanza del voto nazionale. Se questo era il progetto del Cavaliere, non ha funzionato. Dalle urne di 1.200 comuni, di 8 province e della Regione Sicilia non è uscito nessun ribaltone. I quasi 15 milioni di italiani che tra domenica e lunedì sono andati a votare non hanno invertito il risultato del 9-10 aprile. Al contrario.

Hanno consolidato il successo dell'Unione, che alle politiche era risultato millesimale, ma che a questo punto si rivela un po' più solido e un po' meno effimero di quanto non era apparso un mese e mezzo fa.
Il centrosinistra, a questo punto, non ha più alibi. Non gli resta che governare. Con la ragionevole prospettiva della legislatura. Può contare su un asset in più, oltre a quei 130.793 voti di maggioranza che ha ottenuto un mese e mezzo fa. Ha una base su cui costruire: circa 2,9 milioni di voti dei giovani, che secondo uno studio di Paolo Segatti appena pubblicato dall'Università di Milano hanno votato in massa per il centrosinistra. Ha un patrimonio da valorizzare: la lista unitaria dell'Ulivo, che anche in questa tornata locale ha dato un ottimo raccolto, e che a questo punto sarebbe un delitto non far fruttare nel partito democratico.

Il centrodestra conserva solo la Sicilia con Cuffaro, e si tiene a fatica Milano con la Moratti. Il centrosinistra vince nelle grandi città, prevale nei comuni minori e strappa al Polo Arezzo, Grosseto, Benevento, Crotone e la provincia di Reggio Calabria. Nel complesso, nei 23 comuni-capoluogo in cui si partiva da un rapporto di 12 a 11, i rapporti di forza si rovesciano: ben 14 all'Unione, solo 4 al Polo e 5 destinati al ballottaggio.

Non era un risultato scontato. Dopo il trionfo alle politiche del 2001, una "stangata" di ritorno toccò anche alla Cdl nelle comunali dello stesso anno, e soprattutto alle regionali del 2003. Stavolta la riscossa dell'opposizione era persino più giustificata. La partenza di Prodi è stata confusa e faticosa. La maggioranza unionista ha sprecato un mese a discutere organigrammi e a oscurare programmi. Il governo è nato tra le polemiche, culminate nella querelle geo-politica: l'assenza clamorosa di ministri del lombardo-veneto, cioè di quella metà più moderna e dinamica del Paese che non ha creduto alla scommessa prodiana ed è rimasta aggrappata al miraggio berlusconiano. Ce n'era abbastanza per temere una crisi di rigetto. E invece l'elettorato non solo non ha punito il centrosinistra, ma l'ha premiato con un ulteriore aumento dei consensi.

Sul trionfo di Walter Veltroni a Roma non c'è molto da dire. Si prevedeva un plebiscito, e di plebiscito si è trattato. Non poteva bastare la buona volontà di un ex ministro di An come Alemanno, per fermare la "gioiosa macchina del consenso" veltroniana. Sul fronte opposto, qualcosa in più c'è da dire sulla conferma di Cuffaro alle regionali siciliane. Prevedibile anche questa, ma con uno scarto molto più consistente di quello che si è registrato. Il centrodestra ha perso terreno. Rita Borsellino si è rivelata una sfidante assolutamente all'altezza. I tempi del 61 a 0 sembrano lontani. Il monocolore azzurro, oggi, è visibilmente sbiadito.

Le vere sorprese di questo voto sono altre. Riflettono una realtà locale, ma servono a descrivere una verità nazionale. La prima sorpresa riguarda il Nord, dove il monolite polista mostra crepe tangibili. A Milano l'Unione ha sfiorato il miracolo. Nella "capitale morale", da sempre considerata l'inespugnabile casamatta del potere azzurro, Letizia Moratti ha evitato il ballottaggio con Ferrante grazie a un margine esiguo. La cassaforte del Nord, evidentemente, non è poi così blindata. E questo già dovrebbe bastare, per convincere il centrodestra a una riflessione.

Ma è ancora di più su Torino, che il Polo dovrebbe riflettere. Quella di Sergio Chiamparino, per quantità e qualità, è stata molto di più che una vittoria. Oltre tutto, ottenuta a spese di un altro ministro del governo uscente come Buttiglione. È un premio alla buona amministrazione, certo. È il dividendo del progressivo risanamento Fiat e delle Olimpiadi invernali, senz'altro. Ma è anche un segnale preciso: in quel Profondo Nord, dove pulsa il cuore della ricchezza italiana e della biografia berlusconiana, il centrosinistra ha ancora ottime chance, se solo si convince a parlare il linguaggio della modernità e del riformismo.

La seconda sorpresa riguarda Napoli. La bella vittoria di Rosa Russo Iervolino vale molto di più della semplice riconferma di un sindaco. A Napoli Berlusconi era capolista. Le uniche, tonitruanti scorribande tipiche delle sue campagne elettorali il Cavaliere le ha fatte proprio nel capoluogo campano. Ben tre volte ha attraversato la città partenopea, dal Vomero a piazza del Plebiscito. Ma comizi pirotecnici e bagni di folla festante non sono bastati a far vincere Malvano. Per l'ex premier, che ha costruito la sua avventura sulla mitopoiesi del vincitore, è insieme una sconfitta politica e una disfatta personale. Anche in questo caso, per il centrodestra c'è materia per riflettere.

La Casa delle Libertà ha molti modi per interpretare questo voto. Una chiave della mancata riscossa sta senz'altro nell'astensionismo. Dal 1994 in poi, il centrodestra ha sempre scontato un forte divario tra il risultato delle politiche (più alto) e quello delle amministrative (molto più basso). Ma questa non è una "legge di natura" della politica. È invece un problema di struttura dell'alleanza. È l'esito inevitabile del fattore B. Quando Berlusconi scende in campo, e con la forza di fuoco della sua propaganda e delle sue televisioni trasforma ogni contesa elettorale in un referendum sulla sua persona, il meccanismo funziona.

Il leader carismatico, personalizzando il conflitto e caricandolo di ideologia, smuove dal torpore l'Italia di mezzo, trascina al voto una parte di quel 10% di "elettori apatici" che non votano e non si interessano di politica. È quello che è avvenuto il 9-10 aprile su scala nazionale, e spiega la formidabile rimonta del Polo. Ma alle amministrative l'ingranaggio si inceppa. Dove la politica si sposa con il territorio, il profilo del Cavaliere o è assente e dunque non traina (come è successo a Milano) o è troppo ingombrante e quindi fa ombra ai candidati locali (come è capitato a Napoli).

Se la riflessione si fermasse qui, il centrodestra potrebbe continuare a confidare nelle inesauribili doti taumaturgiche del suo capo, aspettando le prossime elezioni politiche. Ma quanto può reggere questa formula marcusiana di "alleanza a una dimensione", che il Polo ha costruito intorno alla figura del suo fantasioso "maieuta"? Alle politiche di aprile Forza Italia ha già perso 2 milioni di voti rispetto al 2001. A queste amministrative, il partito personale del Cavaliere è crollato ancora. Di schianto in città come Torino e Roma, ma comunque di misura nel resto dei comuni e delle province. La Lega è sempre più rinchiusa nella ridotta Padana, pronta a consumare le sue vendette autonomiste dopo il referendum di giugno. An tiene, l'Udc continua a guadagnare voti.

Fino a quando Fini e Casini saranno disposti a rimandare la resa dei conti? Fino a quando si rifiuteranno di chiudere il ciclo del "frontismo" populista e a dichiarare ufficialmente aperta la stagione del dopo-Berlusconi? "La destra deve uscire dalla sua inconcludenza, rifacendosi all'esempio del conservatorismo inglese, pragmatico e anti-ideologico, post-rivoluzionario più che contro-rivoluzionario, con più attenzione alla tradizione liberale e un rapporto più aperto e costruttivo con la civiltà moderna...". Sono parole di Raymond Aron, scritte vent'anni fa. Dovrebbero rileggerle e farne tesoro, i leader "moderati" dell'Italia di oggi.

 

28 maggio

IL COMMENTO
Campagna elettorale permanente
di ILVO DIAMANTI

SI TORNA a votare. Per eleggere i sindaci di molte importanti città, fra cui: Roma, Milano, Torino, Napoli. E ancora: il governatore della Regione Sicilia. Oltre ai presidenti di otto province. Nel complesso: venti milioni di italiani chiamati alle urne. La campagna delle elezioni politiche, che si sono svolte lo scorso 9 aprile, non si è mai chiusa. Come, d'altronde, l'esito di quelle elezioni. Che non è accettato dai leader della coalizione sconfitta, la Cdl. Anzitutto dal "leader dei leader". Silvio Berlusconi.

Che, in questo modo, si propone ancora come leader non solo di FI e della Cdl: ma del governo. E del Paese. Perché rifiutare il verdetto delle elezioni politiche, considerarlo fasullo, frutto di brogli e di inganno; in contrasto con la "volontà popolare": significa rifiutare la legittimità di ciò che è avvenuto "dopo". Il governo guidato da Prodi. Finanche le maggiori cariche dello Stato. Presidente della Repubblica incluso. Tutti abusivi. Inquilini morosi del Palazzo.

Per cui Berlusconi agisce come il Presidente legittimo, deposto da un golpe. E continua, per questo, a intrattenere rapporti con i governi stranieri. Da Presidente. Diffida il governo abusivo dal mettere mano alle leggi approvate dal "suo" governo. Minaccia, in caso contrario, di mobilitare il "suo" popolo, la maggioranza del Paese. Di scendere in piazza, per assediare il Palazzo, oggi occupato da un manipolo di squatter, capeggiato da Prodi. Usiamo un linguaggio colorito, da "piazza". Appunto. Che però riflette piuttosto fedelmente quello adottato, in questa fase, dal leader del centrodestra e dai suoi assistenti. Nella forma e nei contenuti.

Un linguaggio, dunque, da "campagna elettorale permanente". Come se il voto del 9 aprile non ci fosse stato. Oppure, in realtà, fosse solo il primo - contestato - turno di una contesa elettorale lunga. Destinata a chiudersi, provvisoriamente, solo il prossimo 25 giugno, con il referendum confermativo sulle riforme istituzionali. Per cui il voto di oggi diventa, nelle parole di Berlusconi, l'occasione per dare "un primo avviso di sfratto alla sinistra". All'inquilino abusivo di Palazzo Chigi. Cui far seguire l'atto definitivo, fra un mese.

Una "campagna elettorale permanente". È lo stesso leader della Cdl ad aver usato questa formula, nelle scorse settimane. Più volte. Evocando una formula nota, negli Usa. (Coniata da Sidney Blumenthal, poi divenuto consigliere di Clinton, nel 1980). Che sottolinea la tendenza degli attori politici, soprattutto di chi governa, a orientare il clima d'opinione "giorno per giorno", attraverso il ricorso continuo agli strumenti del marketing e della comunicazione. In Italia, invece, è il leader dell'opposizione, Silvio Berlusconi, a invocare la "campagna elettorale permanente". Forse perché si sente ancora lui, il Presidente. Ma, soprattutto, per due ragioni.

1. Alimenta il clima di instabilità politica, in cui opera il governo di centrosinistra. E rafforza i "risultati" ottenuti nel corso degli ultimi mesi di campagna elettorale. In particolare: la frattura fra i cosiddetti "ceti produttivi" e il centrosinistra. Aperta dall'irruzione di Berlusconi nel convegno degli industriali a Vicenza, lo scorso marzo. Confermata, nei giorni scorsi, all'Assemblea di Confindustria. Dove si è percepito che il cuore degli imprenditori (come ha scritto Alberto Statera su questo giornale) "batte ancora a destra". Ma, soprattutto, che in questa fase il "potere è liquido" (come ha suggerito Dario Di Vico, sul Corriere della Sera, parafrasando Baumann).

Perché non ci sono - o almeno non si vedono ancora - "autorità politiche" che appaiano in grado di "comandare" davvero. E a lungo. L'immagine di un "potere liquido", e quindi instabile, fluido, non è solo effetto della "campagna permanente" di Berlusconi. Ne è altresì la condizione, il moltiplicatore. Perché se il governo è incerto, come la sua durata, allora non c'è bisogno di prepararsi a una opposizione di lungo periodo. Di negoziare e contrastare, garantendo riconoscimento e legittimità al governo. Meglio usare l'ariete, cercare comunque e dovunque la "spallata" decisiva, per spazzare via Prodi e la sua compagine, affollata e ciarliera. In fretta.

2. La seconda ragione, non meno importante della precedente, è tutta interna al centrodestra. Che, da quando è partita la campagna elettorale in vista delle elezioni politiche, nello scorso autunno, più che una coalizione, appare un "partito unico". Il Partito del Popolo (Pdp), annunciato da Berlusconi, il cui processo fondativo dovrebbe avvenire nel prossimo autunno. C'è già. Da mesi, ormai, il Cavaliere agisce, parla, interviene, comunica, decide: da solo. Per tutti. Coloro che appena un anno fa ne discutevano la leadership, Follini e Tabacci, sono considerati e trattati, nella loro stessa coalizione, nel loro stesso partito, alla stregua di estremisti, infiltrati e traditori (come va ripetendo, da tempo, Carlo Giovanardi). Mentre i leader dei partiti alleati, Casini e Fini, hanno assunto, progressivamente, l'immagine di sottufficiali. Al più di "capicorrente". Mentre la Lega, da tempo, appare affine e coerente, per stile e contenuti, alla leadership di Berlusconi.

Il Partito Unico di centrodestra, il Pdp: c'è già, nei fatti. Senza bisogno di lunghe ed estenuanti discussioni. E di passaggi complessi e bizantini, come avviene a centrosinistra. Dove da dieci anni si dibatte di Ulivo, Partito Democratico e si sperimentano aggregazioni seguendo una geometria variabile, di elezione in elezione. Nel centrodestra non ce n'è bisogno. Il soggetto politico unitario è nei fatti. Da mesi. Unificato dalla figura del leader. Costruito attraverso riti di identificazione, come è avvenuto a Vicenza. E attraverso una campagna elettorale "permanente": fatta di proclami, comizi, invettive. Legittimata da una presenza "permanente" in video. Nei tigì, nei talk show, a Porta a Porta. Da solo. Senza gli inutili e illiberali vincoli imposti dalla par condicio. Tanto che, se si guarda la televisione, in queste settimane, non sembra essere cambiato nulla rispetto a prima del 9 aprile.

Le sfide elettorali delle città appaiono piccoli confronti locali, piccoli conflitti di teatro, sullo sfondo della vera, unica, grande sfida. Che oppone Berlusconi e il suo PP (Partito del Popolo, ma anche Partito Personale) alla Sinistra.

D'altra parte, è difficile per tutti, avversari e alleati, oggi, contrastare questo percorso. Mettersi di traverso. Invitare ad abbassare i toni. Al confronto misurato e riflessivo. Come sembra difficile disinnescare questa strategia, mettendone in luce i pericoli, i limiti e i rischi. Perché il suo principale artefice e interprete, Berlusconi, ne ha dimostrato l'efficacia. Perché, contro ogni previsione, sondaggio, profezia: ha colmato un distacco incolmabile. Ha trascinato la Destra a ridosso della Sinistra. In pochi mesi. (Anche se, alla fine, ha perso; anche se FI è calata del 5%. Ma la sua strategia è riuscita, fra l'altro, a occultare questi aspetti). Berlusconi. Ha trasformato la "campagna permanente" in un campo di battaglia. Tacitando tutti. Amici e nemici. Politici, commentatori, opinionisti e analisti.

Per cui non c'è speranza. Per un altro mese, almeno. Le elezioni, la campagna elettorale. Continueranno ad apparire la prosecuzione della guerra con altri mezzi (ma con un linguaggio molto simile). La strategia del ritiro, chiamarsi fuori, in questo caso, non sembra possibile. Al centrosinistra resta una sola strada. Vincere. Queste elezioni e, soprattutto, il prossimo referendum. Che investono direttamente il governo, le istituzioni e il sistema partitico nazionale. La Politica, per ora, può attendere.


 

26 maggio

Inchiesta
L'onda blu del privilegio

di Gianluca Di Feo
e Paolo Forcellini
Di servizio o di rappresentanza: 150 mila vetture pagate dai cittadini. Senza controllo
 
 

Stato di grazia

 
43.481 vetture nel settore statale, senza contare quelle di Palazzo Chigi e dei servizi segreti. Per uso esclusivo si intende un'auto utilizzata da un singolo alto dirigente.

Ministero economia e finanze
25 in uso esclusivo, 460 non esclusivo e altre 8.489 per Guardia di Finanza

Difesa
uso esclusivo 10, non esclusivo 1.038 (304 delle quali per l'Arma dei carabinieri)

Ambiente e tutela territorio ...
Leggi tutta la scheda
Nella chiesa romana si onora il sacrificio di due alpini, morti a Kabul per fare il loro dovere e guadagnare un pugno di euro in più. Fuori invece va in scena l'ingorgo dello status symbol: decine e decine di auto blu, tutte con autista, che cercano di depositare le autorità al riparo dalla pioggia. E poi trovare un parcheggio. Un intreccio di Lancia, Mercedes, Audi e qualche sparuta Fiat e Hyundai che manovrano per sfruttare lo spazio: i vigili devono dare ordine a quel magma di berline monocolore, un rompicapo di incastri superiore a ogni cubo di Rubik. Poi alla fine l'ordine viene trovato: tre grandi spazi intorno alla fontana delle Naiadi si lastricano di ammiraglie. Altri due quadrati si formano verso via Vittorio Emanuele Orlando. Ma non bastano a contenere il fiume blu, che tracima lungo il viale per la stazione Termini davanti al monumento che ricorda i caduti di Dogali e poi dilaga oltre: 24 si appostano in via Pastrengo, altre davanti al Grand Hotel dove un'Audi con il 'passi' di Palazzo Chigi si lascia ammirare nello sfarzo di poltrone in pelle e rivestimenti in radica. Alla fine il cronista de 'L'espresso' ne conta 215. Ma non basta. La processione di vetture di servizio sembra inarrestabile, continuano a orbitare intorno alla piazza in attesa che la cerimonia finisca: sono soprattutto Alfa 156, almeno una trentina, che girano a vuoto aspettando una telefonata della 'personalità'. "Le sembrano tante? Doveva vedere la scorsa settimana, quando c'è stata la funzione per le vittime di Nassiriya", commenta un vigile urbano: "Erano molte di più. Oggi si vede che i politici devono pensare ai giochi per il Quirinale". E infatti nel bel mezzo della cerimonia una Mercedes con scorta attraversa la piazza con la sirena a tutto volume, nonostante la strada deserta, con disprezzo per il silenzio del funerale.
"L'altra volta erano molte di più...". Già ma pur sempre una goccia nel mare delle auto blu, simbolo immortale della superiorità del politico e del grand commis, summa del privilegio italico passata indisturbata dalla prima alla seconda Repubblica. "Scorte e auto di rappresentanza non possono essere uno status symbol ma una risposta a reali necessità", ha tuonato Romano Prodi nel suo discorso d'insediamento. E ha promesso un taglio del cinquanta per cento. A ridurle ci aveva provato da ultima la Finanziaria approvata a fine 2004: nel 2005, 2006 e 2007, deliberava, le spese per le auto di servizio non potranno superare il "90, 80 e 70 per cento di quelle sostenute nel 2004". Ma quante erano le vetture su cui calare la scure? A nessuno era dato saperlo, ragion per cui la stessa norma stabiliva che entro il 31 marzo 2005 le pubbliche amministrazioni avrebbero dovuto comunicare al ministero dell'Economia la cifra esatta delle auto a disposizione e il relativo costo complessivo, onde poter verificare i risparmi via via conseguiti. Con poco più di un anno di ritardo il censimento è alfine arrivato. Incompleto, molto incompleto. Secondo il documento trasmesso dal ministero dell'Economia al Parlamento, in circolazione ci sarebbero 43.481 auto ex blu (oggi sono quasi tutte grigio-metallizzato). Molte meno di quante stimate da diversi esperti negli anni scorsi: 300 mila se si comprendevano anche le Regioni e gli altri enti locali; 150-170 mila, secondo le fonti, per le sole automobili dei ministeri e degli enti pubblici non territoriali.

Eppure già quelle 215 accatastate il 9 maggio davanti alla basilica di Santa Maria degli Angeli permettono di esaminare un catalogo impressionante dello spreco. Dominano le Lancia Thesis, almeno 40. Una quindicina le Audi, attualmente il top nella gerarchia del potere: dal premier dimissionario al comandante della capitaneria di porto. C'è una sparuta pattuglia di Mercedes, cinque Bmw e cinque Volvo. Due le Maserati: quella del capo dello Stato e quella di Gianni Letta. Per non parlare del Suv Bmw X 5 con lampeggiante e permesso ministeriale. Le più dimesse sono una Citroën Saxo di un ufficiale delle Fiamme Gialle, alcune Hyundai Lantra del ministero della Difesa, delle Fiat Brava e Marea militari e una datata Alfa 155 di un colonnello dei carabinieri. Alle 10 e 50, prima che le bare avvolte nel tricolore escano sul sagrato, la folla di autisti comincia a scaldare i motori: come in un grand prix si attende il via libera per 'prelevare' le autorità e correre verso le Camere per designare il nuovo presidente della Repubblica. Tutto sommato, lo scatto avviene in modo ordinato. Una dietro l'altra, si fermano davanti alla soglia evitando ai privilegiati il rischio di compiere anche il minimo sforzo. Pochi vip raggiungono il parcheggio camminando. Il prefetto Achille Serra, che va via a piedi. Piero Fassino, che si infila in una Lancia K dall'aria stanca e dall'inelegante colore verde. Il segretario di Rifondazione Franco Giordano, fresco di nomina, che resta smarrito per qualche minuto, finché viene raccolto da una Thesis metallizzata, nuova di fabbrica, che sembra sorprendere anche lui. Alle 11 e 10 la colonna blu si dissolve su via Nazionale per ricomporsi, ancora più voluminosa, davanti alla Camera.

A voler prendere per buono il censimento del ministero dell'Economia, l'ammontare dei tagli possibili al parco blu sarebbe risibile: gran parte delle vetture catalogate, infatti, servirebbero a "effettive, motivate e documentate esigenze", a irrinunciabili compiti istituzionali, e perciò potrebbero rientrare nella 'deroga' ai risparmi previsti dalla legge stessa. Qualche esempio. Al ministero dell'Economia 25 automobili sono assegnate "in uso esclusivo" (al ministro, ai sottosegretari, ai top manager), mentre altre 8.929 vanno "in uso non esclusivo" ad altri soggetti. Di queste ultime, ben 8.489 sono le auto utilizzate dalla Guardia di Finanza. E chi mai potrebbe togliere alle Fiamme Gialle un indispensabile strumento di lavoro proprio quando si vuole intensificare la caccia agli evasori? Per non parlare del ministero dell'Interno, dove le autovetture di servizio risulterebbero essere 22.967, di cui 20.444 utilizzate dalla Polizia e 523 dai Vigili del fuoco: inutile dire che entrambi i corpi hanno chiesto l'applicazione del 'comma 13', cioè la deroga. E come comportarsi con il ministero della Giustizia a cui fanno capo, tra l'altro, 1.186 blindate assegnate ai magistrati e 2.370 vetture utilizzate per il servizio traduzione detenuti? Alla fine dei conti sono ben 40.367 le macchine del settore statale per cui è stata chiesta la non applicazione del risparmio di spesa, cioè il 92 per cento circa di quelle censite. E l'operazione promossa dalla Finanziaria si è così trasformata, almeno per ora, in un'effimera bolla di sapone.

Non del tutto, per la verità. Il documento trasmesso al Parlamento, malgrado le infinite deroghe, elenca comunque una serie di economie sull'uso delle auto che alcune amministrazioni sarebbero già riuscite a fare. Si va dai 491,06 euro tagliati dal ministero degli Esteri, "riferiti esclusivamente all'Istituto italiano per l'Africa e l'Oriente" il cui boss è rimasto evidentemente a piedi, ai 401.759,12 euro tagliati dal ministero dell'Ambiente, campione nazionale di risparmiosità. Ma i 401 mila euro dell'Ambiente sono "riferiti prevalentemente alla categoria degli enti parco nazionali", recita il documento del ministero dell'Economia: sorge il sospetto che senza vettura siano rimasti i guardacaccia piuttosto che i funzionari di via Cristoforo Colombo a Roma. Gli altri due ministeri più impegnati sulla via dell'austerity sono quelli dell'Istruzione, con un risparmio complessivo di 302.414 euro, e delle Infrastrutture (248.534). In totale la decurtazione alle auto blu avrebbe portato nelle casse pubbliche in questa prima fase poco più di 1,3 milioni di euro.

Poca cosa rispetto all'enormità della spesa per le quattro ruote di Stato. Che Luigi Cappugi, consulente del governo Berlusconi, meno di due anni fa aveva stimato ammontare complessivamente a 10,5 miliardi l'anno (esclusi gli enti locali). Come si arrivava a questa cifra? Il costo medio di ogni vettura era calcolato in 70 mila euro all'anno, inclusi autista e benzina, che andava moltiplicato per le circa 150 mila vetture in dotazione (molte delle quali destinate però, come s'è visto, a scopi di ordine pubblico, sanità, ecc.). Cappugi proponeva una cura drastica: togliere l'auto blu a gran parte dei politici e degli amministratori e pagar loro il taxi. Secondo l'economista l'esborso sarebbe ammontato "al massimo all'8 per cento" della spesa per le normali auto di Stato: se metà delle autovetture blu venissero sostituite da buoni-taxi, il risparmio netto ammonterebbe quindi a 4,8 miliardi l'anno. Quel suggerimento non fu raccolto da nessuno. Maggior successo ha invece ottenuto un altro espediente: sostituire le auto in proprietà dello Stato con quelle in leasing o a noleggio a lungo termine. La Consip - società dello Stato che gestisce le aste per l'acquisto di beni e servizi necessari all'amministrazione - ha già emanato alcuni bandi per la fornitura di auto in leasing. L'ultima gara, per 300 vetture, è di poche settimane fa e se l'è aggiudicata la Lease Plan, controllata dal Gruppo Volkswagen, dalla Mubadala, impresa che fa capo al governo di Abu Dhabi e che possiede anche un sostanzioso pacchetto di Ferrari, dalla Olayan, massimo gruppo dell'Arabia Saudita. Riusciranno prossimamente i soliti noti a viaggiare su fiammanti vetture di Maranello? O dovranno accontentarsi di teutoniche Volkswagen? Staremo a vedere. Il vero pericolo è che le macchine a nolo sul medio e lungo periodo costino più di quelle in proprietà e soprattutto che, sul breve termine, offrano a Stato ed enti locali margini e alibi per una politica più spregiudicata di distribuzione delle auto blu. Ci sono poi i furbetti che fanno man bassa di taxi e vetture con autista: in Emilia ha fatto discutere il caso dell'ex sindaco diessino di San Lazzaro, che nel 2002 ha speso oltre 23 mila euro per 461 trasferte con la targa Ncc e 23.448 per i 431 viaggi dell'anno successivo, senza contare poi i taxi usati per raggiungere Bologna o i municipi confinanti.

La Corte costituzionale ha stabilito che governo e Parlamento potevano deliberare 'tagli' alle vetture di Stato ma non potevano ledere l'autonomia degli enti locali fissando anche nei loro confronti riduzioni di spesa per una specifica voce. Che fanno, dunque, su questo terreno, Regioni, Province e Comuni? I comportamenti sono molto diversi: c'è chi si dà alla pazza gioia, aumentando il numero delle auto di servizio e spesso anche la cilindrata, e chi, invece, spinto anche dalle decurtazioni complessive dei bilanci locali deliberate dalle ultime finanziarie, si autoriduce pure le auto blu. E il colore politico delle amministrazioni raramente è decisivo. Forti polemiche ha suscitato due anni fa, ad esempio, il rinnovo del parco macchine della Regione Friuli. Secondo l'opposizione di centro-destra l'età media delle auto non superava i due anni. Ma soprattutto destava scandalo la scelta delle nuove 'ammiraglie': 12 supercar per Riccardo Illy e colleghi, compresa una Lancia Thesis 3.2 V6 24 modello Emblema, un'Alfa 166 24V Luxury con 10 altoparlanti hi-fi, una Lancia Thesis 3.0 con interni in pelle e superaccessoriata, e via elencando. I beneficiati si sono scandalizzati a loro volta, definendo "argomento futile" l'oggetto della polemica, parlando di "strumentalizzazione e demagogia" e sottolineando la "scelta nazionale" delle autovetture (una direttiva del '94, firmata Roberto Maroni, ha consentito l'acquisto di auto di servizio di case straniere). Battibecchi anche in Lazio, tra maggioranza e opposizione ma anche tra le stesse forze del centro-sinistra, sulle 76 auto blu destinate a giunta, presidenti di commissione e a qualche dirigente (i consiglieri regionali sono 70): per la pletorica flotta (più auto di quelle di Camera e Senato messe insieme) nei primi cinque mesi della giunta di Piero Marrazzo sono stati spesi 37 mila euro solo in benzina, 20 mila in manutenzione ordinaria e tremila in lavaggi. Assicurazioni e bolli, in un anno, costano alla Regione quasi 100 mila euro. In Campania, dove le auto di servizio sono poco più di 80, la creazione di 12 commissioni regionali speciali, accanto alle sei ordinarie, ha prodotto anche 12 nuovi pretendenti (i presidenti di tali commissioni) ad altrettante auto blu. Non aiuta l'esempio vicino del Comune di Napoli, dove il parco veicoli in dotazione per sindaco, assessori e dirigenti raggiunge le 120 vetture.

Un vero e proprio proclama per il risparmio è quello lanciato qualche tempo fa dal presidente della Regione Toscana Claudio Martini: ha chiesto di privilegiare i mezzi pubblici, di usare il treno (seconda classe) e di dimezzare la spesa per la manutenzione, il noleggio e l'utilizzo delle auto (16 per la giunta e 36 per i dipendenti in missione, per lo più Panda e Punto). In Liguria qualche mese fa il governatore Claudio Burlando ha deciso di stanziare 230 mila euro all'anno in meno per le auto di giunta e Consiglio regionale. In Puglia Niki Vendola, appena insediato, ha cancellato la 'leggina' fatta a proprio uso e consumo dal suo predecessore, Raffaele Fitto, che poco prima delle elezioni aveva stabilito che governatori e presidenti uscenti del Consiglio regionale avevano diritto a utilizzare la limousine di servizio per altri cinque anni. Per far cassa, a Castiglion Fiorentino e in altri comuni della Val di Chiana alcune auto blu sono state addirittura vendute all'asta sulla pubblica piazza. Ma nei garage degli enti locali c'è di tutto. La provincia autonoma di Bolzano, per esempio, nel 2001 aveva due Mercedes classe E con motore da 2800 cc riservate al presidente. E il sindaco di Cesena invece nel 2003 ha difeso l'italianità della scelta che affiancava una nuova Alfa 166 alla Thesis già esistente.

La storia delle 'auto di Pantalone' si potrebbe titolare 'Cronaca di un taglio annunciato'. Annunciato infinite volte, almeno a partire dalla legge del '91(che limitava l'uso esclusivo delle auto blu a ministri, sottosegretari e ad alcuni direttori generali), ma mai realizzato. Come rinunciare, infatti, a un privilegio di non poco conto, specie in città dal traffico caotico, e anche a uno status symbol fra i più ambiti, soprattutto quando l'auto, spesso dotata di lampeggiante e sirena, può fare lo slalom fra i comuni mortali e infischiarsene del codice della strada? Romano Prodi è stato chiaro, lanciando un appello alla sobrietà nel primo discorso da premier: "È mia intenzione ridurre di almeno la metà le scorte per il personale politico e di governo, la cui proliferazione è al di là di ogni necessità reale e sottrae risorse finanziarie e umane che dovrebbero essere destinate alla tutela della sicurezza dei cittadini". Un annuncio già sentito. Forse adesso è l'ora di passare ai fatti.

 

25 maggio

Caro Zapatero,
torno presto. Ti voglio bene. Tuo Silvio

di Marco Lillo
Dopo la sconfitta elettorale Silvio Berlusconi ha scritto ai capi di governo di mezzo mondo. Con un unico messaggio: "Arrivederci a presto".  In edicola da venerdì
 
 
Sivio Berlusconi proprio non si rassegna alla sconfitta. Non accetta il risultato delle urne.
Lo scarto di poco più di 24 mila voti gli deve sembrare proprio una beffa. Ha detto e ridetto che vuole ricontare le schede. Si dice certo che il risultato "deve cambiare", come disse in tv a spoglio ultimato. Ma  non lo dice solo in Parlamento o a "Porta a Porta". Non manda solo i suoi parlamentari a vigilare sul capannone di Castelnuovo di Porto dove è in corso da parte
di funzionari del parlamento  il controllo delle schede.

Fa ben di più. "L'espresso" è in grado di rivelare il testo della lettera che Berlusconi ha inviato, in data 16 maggio 2006, ai capi di governo di mezzo mondo su carta intestata "Il Presidente del Consiglio dei Ministri". Un arrivederci a presto, appena ultimato il controllo delle schede, inviato l'ultimo giorno della sua permanenza a Palazzo Chigi. Quella che pubblichiamo nella foto a destra è la lettera indirizzata  a "Sua eccellenza José Luis Rodriguez Zapatero Primo ministro del regno di Spagna":

«Caro José Luis,
dopo cinque anni mi accingo a lasciare la guida del governo italiano. Si è trattato di un periodo di stabilità senza precedenti nella storia della Repubblica Italiana, che mi ha consentito di varare 36 importanti riforme di ammodernamento del Paese e di sviluppare un'esperienza particolarmente importante e positiva nei rapporti con i colleghi degli altri Paesi europei.

Come probabilmente sai, per il particolare sistema elettorale italiano, nonostante il mio personale successo (Forza Italia è di gran lunga il primo partito italiano), la coalizione che guido è risultata globalmente maggioritaria in termini di voti ma minoritaria in termini di rappresentanza parlamentare. Come leader dell'opposizione rappresento comunque il 50,2 per cento del Paese e spero di tornare presto al governo dopo che saranno state verificate le oltre un milione e centomila schede annullate.

Ti ringrazio per il simpatico rapporto che abbiamo instaurato e Ti assicuro che continuerò a seguire con grande interesse il Tuo impegno per la Spagna e per l'Europa, auguro a Te e al Tuo governo ogni successo e resto a Tua disposizione per lavorare insieme a favore delle relazioni italo-spagnole e di un avvenire dei popoli europei basato sugli ideali nei quali entrambi crediamo.
Ti ricordo che hai un amico che Ti vuole bene!
Un forte abbraccio
Silvio»

 

24 maggio

Alta stagione, tempo di mare
Marco Boccitto
È ricominciata l'alta stagione degli sbarchi illegali sulle coste europee, ma nel frattempo sono cambiati i luoghi di partenza. È un sud sempre più a sud, quello da cui si scappa. Prima «bastava» attraversare il deserto per poi tentare la traversata dalle coste del Nordafrica, ora si è costretti a salpare direttamente dal Golfo della Guinea, con conseguente aumento dei costi e soprattutto dei rischi. Basta una ventata maligna, lo dimostra ilmacabro ritrovamento ai Caraibi di qualche giorno fa, per finiremummificati su una barca alla deriva. Altro che Canarie. Rimbalzati sulle barriere di massima sicurezza erette ai confini del nord, tritati dagli accordi bilaterali con cui abbiamo voluto trasformare le nazioni di transito in gendarmi privati, tenuti lontano dal corridoio che tagliava la Mauritania verso ilMarocco, cacciati dai terminali in Libia e Tunisia, loro, ostinati, continuano a partire. Non è pensabile di scoraggiare con questi mezzucci chi ha deciso di lasciare la propria casa per imotivi che si possono immaginare. L'Europa crede di aver risolto il problema,ma lo ha nascosto sotto al tappeto. E anche l'insolita solerzia con cui alcuni paesi africani si industriano per arginare l'ondata all'origine, non è che un'altra illusione. Fa tristezza vedere che a Capo Verde un governo figlio delle idee panafricaniste e altermondialiste di Amilcar Cabral debba beccarsi le critiche da destra per il trattamento riservato a 58 clandestini, tenuti a mollo per una settimana al largo e poi espulsi verso il Senegal. Mentre fa sorridere la plateale operazione dimare, di terra e di aria lanciata nei giorni scorsi dallo stesso Senegal, con 1.500 arresti e 21 barche bloccate. Cosa non si farebbe per compiacere alleati ricchi e potenti. E qui? Lampedusa è già al collasso e i cpt sono sotto accusa internazionale, ma a noi angoscia tanto l'orso «italiano» che si è perso sulle Alpi e rischia di essere abbattuto dai tedeschi, o il cavallo zoppo che tiene l'America col fiato sospeso. Siamo inguaribili specisti, non solo perché amiamo i barboncini e un po' meno gli scarafaggi. I giovani africani sono bene accetti solo se calciatori di talento, mentre al punto in cui siamo ci converrebbe importare dall'Africa anche dell'altro. Per esempio degli arbitri.
 

23 maggio

L'organizzazione internazionale per i diritti umani punta il dito
contro le grandi potenze che non mantengono gli impegni presi
 

Il rapporto annuale di Amnesty
"Dall'Occidente due pesi e due misure"

"L'Italia indaghi su voli e operazioni coperte e sui Cpt"
di CRISTINA NADOTTI
 
 
La copertina del rapporto
di Amnesty per il 2006

ROMA - Sono nominate la Cina, il Darfur o la Cecenia, ma nel rapporto annuale sulle violazioni dei diritti umani di Amnesty International ricorre molto più spesso il nome di nazioni occidentali che si vantano di voler esportare democrazia e diritti civili. Come già lo scorso anno, l'organizzazione non governativa indipendente denuncia l'incapacità delle grandi potenze, Stati Uniti su tutte, di trasformare in azioni concrete gli impegni dichiarati. Più di questo: Amnesty parla chiaramente del pericoloso "uso di un doppio linguaggio e di doppi standard, da parte delle grandi potenze, che indebolisce la capacità della comunità internazionale di affrontare gravi crisi dei diritti umani".

E poi, secondo Amnesty, c'è l'alibi della guerra al terrorismo, che svia l'interesse verso problemi più gravi, che sta fallendo perché si basa su interessi di sicurezza nazionale e di corto respiro anziché sulla reale volontà di promuovere i diritti umani. Non mancano le bacchettate all'Italia, ancora una volta segnalata perché non garantisce i diritti ai migranti e nell'occhio del ciclone, insieme agli altri paesi europei, per le "operazioni coperte" utilizzate dalla Cia per arrestare, catturare, trasferire e detenere persone in segreto, o consegnarle ad altri paesi dove hanno subito torture.

L'agenda della sicurezza. E' il punto centrale del rapporto, che denuncia come in nome della sicurezza nazionale, "promossa da chi ha potere e privilegio" si siano sviate "energie e attenzione del mondo dalle gravi crisi dei diritti umani in corso". "I governi, da soli e collettivamente, hanno paralizzato le istituzioni internazionali - si legge nel rapporto - dilapidato risorse pubbliche per perseguire obiettivi di sicurezza limitati e di corto respiro, sacrificato valori in nome della "guerra al terrore" e chiuso gli occhi di fronte a violazioni dei diritti umani su scala massiccia. La conseguenza è che il mondo ha pagato un prezzo elevato, in termini di erosione dei principi fondamentali e di enormi danni arrecati alla vita e al benessere della gente comune".

Le grandi potenze hanno insomma "remato contro" la reale soluzione dei problemi. "Nel 2005, coloro su cui, nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu, ricade la maggiore responsabilità di salvaguardare la sicurezza globale, sono stati i più attivi nel paralizzare questo organismo e impedirgli di svolgere un'azione efficace in difesa dei diritti umani".

I governi europei. In questa politica per la quale ciò che conta è solo l'interesse nazionale, nessuna delle potenze occidentali fa bella figura. Amnesty punta il dito sulle "connivenze" dell'Europa, che a livello di Consiglio dell'Ue apre inchieste sul coinvolgimento dei suoi membri nel programma Usa di trasferimenti illegali di prigionieri, ma a livello nazionale continua a essere complice degli abusi.

"Rivelazione dopo rivelazione, è emerso fino a che punto i governi europei sono stati complici degli Usa - scrive Amnesty - sfidando il divieto assoluto di tortura e di maltrattamenti e subappaltando queste pratiche mediante il trasferimento di prigionieri in paesi come Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Marocco e Siria, noti per praticare la tortura".

Spesso i governi nazionali, denuncia l'organizzazione, anziché apprezzare gli sforzi fatti dalle corti e dai parlamenti per ristabilire il rispetto dei diritti umani hanno trovato il modo per aggirare i pronunciamenti, in nome di "assicurazioni diplomatiche", che hanno comunque avvallato l'espulsione di prigionieri verso paesi dove la tortura è ammessa. E una menzione speciale merita in questo la Gran Bretagna, che secondo Amnesty ha la colpa di rimanere muta sul carcere americano di Guantanamo.

La crisi dell'Onu.
Conseguente a questo atteggiamento è anche la crisi dell'organismo sovrannazionale che dovrebbe promuovere politiche di salvaguardia dei diritti, e secondo Amnesty ha avuto invece "attenzione flebile e discontinua" su crisi gravissime come quella del Darfur e ha attuato in prima persona quella politica della doppiezza che è al centro del rapporto. "In un anno in cui hanno speso gran parte del tempo a parlare di riforme e di composizione dei loro principali organismi, le Nazioni Unite non hanno prestato attenzione al comportamento di due membri-chiave come la Russia e la Cina, che hanno fatto prevalere i propri limitati interessi economici e politici nei confronti delle preoccupazioni sui diritti umani a livello nazionale e internazionale", è la conclusione.

Darfur, Iraq e Medioriente. Sono queste le tre aree nominate in modo più esplicito nel rapporto di Amnesty. Per quanto riguarda la regione del Sudan, oltre a sottolineare le iniziative inadeguate di Nazioni Unite e Unione Africana per una soluzione della crisi, il rapporto mette in luce ancora una volta come i crimini di guerra siano stati commessi da tutte le parti coinvolte, "in un conflitto che ha causato migliaia di morti e ha costretto alla fuga milioni di persone".

"Nel 2005, l'Iraq è affondato in un vortice di violenza settaria - affermano da Amnesty - È questa la dimostrazione che quando le grandi potenze sono troppo arroganti per rivedere e mutare le proprie strategie, il prezzo più alto viene pagato dai poveri e da chi non ha potere: in questo caso donne, uomini e bambini iracheni". Infine la crisi in Medioriente, che è scomparsa dall'agenda internazionale, cosa che "ha acuito l'angoscia e la disperazione della popolazione palestinese, da un lato, e le paure di quella israeliana dall'altro.

L'Italia.
Il rapporto sottolinea il ruolo dell'Italia nella "guerra al terrore", che giudica sbagliata nei modi e nelle premesse. Le istanze presentate da Amnesty rivelano poi come la passata legislatura non abbia fatto nulla per risolvere le situazioni che già il rapporto del 2005 indicava come lesive dei diritti umani. In più si è aggiunta la violazione delle norme internazionali delle "operazioni coperte" della Cia, della quale l'Italia è stata complice.

Il fatto che gli aeroporti di Pisa e Roma Ciampino siano stati utilizzati per il trasferimento di persone detenute in segreto e la loro consegna a paesi dove hanno subito maltrattamenti e torture è una violazione grave delle norme internazionali, sulle quali, secondo Amnesty, l'Italia ha l'obbligo di svolgere indagini approfondite.

L'attenzione dell'organizzazione internazionale si concentra anche sulla legge antiterrorismo del 2005, che ha modificato le norme italiane sull'espulsione "per motivi di ordine pubblico e di sicurezza dello Stato". Una legge, secondo Amnesty, che consente l'allontanamento di cittadini stranieri anche solo sulla base dei primi elementi acquisiti a loro carico, senza che questi siano accusati formalmente di un reato e che pregiudica perciò il rispetto dei loro diritti.

Amnesty indica ancora come il disegno di legge sulla prevenzione della tortura sia rimasto all'attenzione della presidenza della Camera, ma non abbia proseguito il suo iter e così l'Italia non ha allineato la sua legislazione alla Convenzione delle Nazioni Unite.

Infine, come già era accaduto lo scorso anno, l'Italia non si è ancora data una legge organica sull'asilo ai migranti, "lasciando così intatte le lacune in cui proliferano le possibilità di abusi dei diritti umani a danno di richiedenti asilo e rifugiati". Quello dei migranti e della loro accoglienza nel nostro paese è un tema che trova ampio spazio nel rapporto di Amnesty, che reitera le accuse fatte nel 2005 a proposito di persone rinviate da Lampedusa in Libia "in spregio delle norme di diritto internazionale e senza alcuna base legale nel diritto interno". Amnesty chiede di fare luce sugli accordi siglati tra il governo Berlusconi e la Libia, entrati in vigore nel 2002 senza alcuna ratifica da parte del Parlamento.

Nella tragedia dei migranti Amnesty sottolinea soprattutto quella degli "invisibili", i minori che arrivano alla frontiera marittima e in spregio alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell'infanzia vengono avviati ai centri di accoglienza temporanea, in pratica detenuti. La Convenzione considera la detenzione di un minore un provvedimento eccezionale, da adottare solo in casi estremi, mentre secondo Amnesty le cifre rilasciate dal ministero dell'Interno lasciano intendere che è la prassi comune.

Passi avanti e richieste per il futuro. "Nel 2005 si è assistito a un mutamento dello stato d'animo dell'opinione pubblica", si dice nel rapporto, e questo è un fatto positivo. "La pressione popolare che sta emergendo va usata in modo efficace per trasformare l'attuale irresponsabilità internazionale in azione concreta in favore dei diritti umani", auspica Amnesty, che individua alcune priorità per l'agenda internazionale.

Amnesty International chiude il rapporto con richieste precise agli organismi internazionali ma anche alle singole nazioni. Nazioni Unite e Unione Africana devono impegnarsi per affrontare il conflitto e gli abusi dei diritti umani nel Darfur; ancora l'Onu deve avviare i negoziati per un Trattato internazionale che regolamenti il commercio delle armi, in modo che queste non possano essere usate per commettere abusi dei diritti umani.

L'amministrazione Usa è chiamata in prima persona a chiudere il carcere di Guantánamo Bay e rendere noti i nomi e i luoghi di detenzione di tutti i prigionieri della "guerra al terrore". Infine il nuovo Consiglio Onu dei diritti umani, deve, per Amnesty, insistere nel pretendere i medesimi standard di rispetto dei diritti umani da parte di tutti i governi, che si tratti del Darfur o di Guantánamo, della Cecenia o della Cina.

 

22 maggio

Per il Times documenti di "responsabili della sicurezza a Bagdad"
provano un versamento di 11 milioni di dollari per gli ostaggi
 

"Italia pagò per Sgrena, Pari e Torretta"
La Farnesina ribatte: "Nessun riscatto"

Accuse anche verso Francia e Germania. Londra non versò nulla
Ma dal nostro ministero degli Esteri arriva una secca smentita
 
<B>"Italia pagò per Sgrena, Pari e Torretta"<br>La Farnesina ribatte: "Nessun riscatto"</B>
La copertina del Times con la foto di Simona Pari e Simona Torretta

LONDRA - Il Times accusa, l'Italia smentisce. Il quotidiano britannico stamane apre con una foto di Simona Pari e Simona Torretta e afferma che Italia, Francia e Germania hanno accettato di pagare complessivamente 45 milioni di dollari (circa 35 milioni di euro) per ottenere la liberazione di nove loro cittadini sequestrati in Iraq.

Tutti e tre i Paesi hanno sempre smentito - e lo r hanno ribadito anche oggi - di aver pagato riscatti per ottenere la liberazione dei loro ostaggi in Iraq, pratica condannata dagli Stati Uniti.

L'Italia - scrive il quotidiano britannico - ha pagato in totale 11 milioni di dollari (circa 8,5 milioni di euro) per il rilascio di Simona Pari e Simona Torretta nel settembre 2004 (5 milioni di dollari); e per quello della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena nel marzo 2005 (6 milioni).

Il Times cita a sostegno delle sue affermazioni documenti in possesso di "responsabili della sicurezza a Bagdad" che hanno "svolto un ruolo cruciale nei negoziati" per la liberazione degli ostaggi occidentali in Iraq. E riporta le critiche dei diplomatici che operano in Iraq, secondo i quali la pratica di pagare i riscatti ha incoraggiato i rapitori, mettendo a rischio tutti gli occidentali che lavorano a vario titolo nel Paese.

Per contro - sempre secondo il Times - la Gran Bretagna non ha versato denaro per i suoi cittadini rapiti in Iraq, ma avrebbe pagato "intermediari" per stabilire il contatto con i loro sequestratori.

Secca la smentita del portavoce della Farnesina Pasquale Terracciano: "Non posso che ribadire quanto più volte affermato dall'allora ministro degli Esteri e da altri esponenti del Governo in carica - dice il portavoce -, il Governo italiano non pagò alcun riscatto".

Ma il Times fornisce molti dettagli: la Francia - scrive il giornale - ha pagato 25 milioni di dollari per la liberazione, nel dicembre 2004, dei giornalisti Christian Chesnot e Georges Malbrunot (15 milioni); e, nel giugno 2005, della giornalista Florence Aubenas (10 milioni).

La Germania, dal canto suo, ha versato in tutto 8 milioni di dollari per il rilascio di Susanne Osthoff nel novembre 2005 (3 milioni); e di Renè Braeunlich e Thomas Nitzschke a inizio maggio (5 milioni). Dopo la liberazione degli ultimi due, la televisione tedesca Ard aveva detto che Berlino aveva pagato ai rapitori un riscatto di oltre 10 milioni di dollari.

Infine, la Gran Bretagna non ha versato nulla ai sequestratori di Kenneth Bigley e Margaret Hassan, assassinati dopo essere stati rapiti nell'autunno 2004, ma - rileva il Times - è stata criticata per aver concesso ai rapitori di Norman Kember il tempo di fuggire, prima di lanciare l'operazione militare che ha permesso la sua liberazione, nel marzo scorso.

Affari di cemento
Il vizietto di Lunardi e Berlusconi
(r. t.)
Per l'Ance la legislatura è cominciata male: il no al ponte sullo stretto ha messo di cattivo umore Claudio De Albertis, il presidente dell'Associazione nazionale dei costruttori edili. Ma l'Ance, più che con il governo entrante, è «imbufalita» con il governo uscente, cioè con Berlusconi. Presentando l'Osservatorio congiunturale, i costruttori italiani hanno lanciato ieri l'allarme: il settore è ancora in crescita, ma pesa l'incognita delle infrastrutture.
In realtà i costruttori lo stesso allarme l'avevano già lanciato, inascoltati, negli ultimi 2 anni e il 2005 ha confermato le loro previsioni: dopo 9 anni di crescita degli investimenti in opere pubbliche, lo scorso anno c'è stato uno scivolone: -2,5%.
E come ha spiegato De Albertis, per il 2006 non solo non si prevedono recuperi, ma è facile ipotizzare una ulteriore caduta (del 3,3%)come conseguenza del blocco dei cantieri preannunciato dall'Anas. Ma di chi è la colpa? Il presidente dell'Ance non fa nomi, ma cita numeri significativi: «il bilancio dello stato per il 2006 presenta una riduzione degli stanziamenti per nuove infrastrutture, rispetto al 2005, del 20,6%». E il decremento sale al «43,6% sommando gli ultimi tre anni».
Tutta colpa del «vizietto» di Lunardi e Berlusconi che per anni hanno annunciato decine e decine di opere pubbliche, ma poi non hanno stanziato i soldi per realizzarle. Una sola cifra: devono essere reperite risorse per quasi 44 miliardi di euro, il 51% di quanto approvato dal Cipe. Se l'Anas non sarà rifinanziata per almeno un miliardo, entro agosto chiuderanno quasi tutti i cantieri.

 

Elizabeth, una turista da uccidere
Stefano Liberti
Quando Ese Elizabeth Alabi si ammalò durante un soggiorno in Inghilterra, ebbe probabilmente a pensare che non tutto il male viene per nuocere:mentre imedici le dicevano che il suo cuore era guasto e che andava cambiato al più presto, deve aver ringraziato il cielo di trovarsi in un ricco paese della moderna Europa, con un sistema sanitario assai più efficiente di quello della sua natia Nigeria. Nulla sapeva della suamalattia prima di imbarcarsi all'aeroporto di Lagos per andare a trovare il compagno residente Oltremanica. E nulla sapeva delle leggi inglesi, su cui comunque riponeva la fiducia dovuta a una delle più antiche e solide democrazie del mondo. Tutto ignorava della paranoia britannica in tema di immigrazione e, soprattutto, di quella piccola norma che il governo laburista - ansioso di evitare un fastidioso «turismo sanitario» da paesi lontani - aveva fatto approvare in Parlamento. Una norma minuscola, di cui l'avrebbero resa edotta imedici dell'ospedale, mortificati nello smorzare il suo entusiasmo iniziale: per i trapianti di organi, la priorità assoluta è data ai cittadini del Regno unito, dell'Unione europea e di pochi altri fortunati paesi. Tutti gli altri, non importa quanto grave sia il loro stato, vengono dopo. Sorry, questa è la legge. Peggio ancora: la giovane nigeriana non sapeva che, ammalandosi e restando in ospedale, avrebbe fatto scadere il suo visto d'ingresso, trasformandosi da sospetta «turista da clinica» in pericolosa immigrata clandestina. A nulla sono valse le battaglie legali condotte da un gruppo di avvocati e dal compagno della ragazza, raccontate con dovizia di particolari dall'Independent ieri in edicola. A nulla è valso il coinvolgimento dell'Alta corte inglese nella delicata vicenda. Ese Elizabeth Alabi èmorta in ospedale l'altroieri all'età di 29 anni. Il governo britannico si è detto rammaricato dal tragico caso e ha espresso alla famiglia le sue più sentite condoglianze.

 

Pensioni: 1,2 milioni di donne vivono con meno di 500 euro
(er. ge.)
Nel 2004 i redditi da pensione hanno superato i 200 miliardi di euro. Di questi, oltre due terzi, pari a 140 miliardi, sono pensioni di vecchiaia, mentre fra le restanti componenti solo le pensioni ai superstiti e quelle di invalidità superano un importo complessivo di 10 miliardi. Delle pensioni di vecchiaia beneficiano 10,7 milioni di cittadini, di cui 4,8 milioni sono donne: un quarto dei titolari cumula altri redditi pensionistici. Con una pensione di vecchiaia di meno di 500 euro al mese vivono 1,8 milioni di pensionati, di cui 1,2 donne: di fatto, più di un quarto delle pensionate vive al di sotto di questa soglia.
A vivere con meno di 1.000 euro al mese sono circa 4,9 milioni di pensionati, ossia poco meno della metà del totale e in particolare tre quarti delle titolari donne. Anche se l'importo medio annuo dei redditi pensionistici supera i 14 mila euro, questi pensionati, in media, sopravvivono con poco più di 7 mila euro all'anno. Il valore complessivo delle loro pensioni rappresenta meno di un quarto (il 22,5%) del totale degli importi dei redditi pensionistici, ossia meno del monte delle pensioni destinate ai titolari che percepiscono più di 2 mila euro al mese. Questi sono 1,4 milioni (di cui un milione uomini), corrispondono al 13% dei pensionati di vecchiaia e in media possono contare su redditi pensionistici superiori a 34 mila euro all'anno.

18 maggio

Sanità in ambulanza
In tutta Italia la lotta di migliaia di precari: dalla Croce Rossa (oltre il 50%) ai grandi ospedali, ai servizi di emergenza come il 118
Francesco Piccioni
L'avevano pensata bene, la «riforma» della sanità. Assunzioni bloccate fin dal '99, via libera ai rapporti di lavoro precario per ogni tipo di figura professionale, scarico dei costi sulle regioni, e vedrai che alla fine i conti tornano a posto. Invece la macchina non funziona più e i costi continuano a levitare, complici anche la marea di servizi «in convenzione» che pesano sui bilanci pubblici assai più che se fossero esercitati autonomamente.
Ma se i conti si possono tenere sotto silenzio, i lavoratori in carne ossa no. E così parte un ciclo di mobilitazioni che coinvolge la parte più precaria di questo mondo già di suo poco solido (posizioni dei «baroni» a parte). Le sedi della Croce Rossa sono state occupate nei giorni scorsi per chiedere il pagamento delle «competenze accessorie del 2005» e la stabilizzazione dei precari (tra il 50 e il 60% del personale). Giovedì si presenteranno a Roma per una manifestazione nazionale, sotto palazzo Chigi, fin dalle nove di mattina.
Precarietà e condizioni di lavoro impossibili costano care anche a quei sindacati che non riescono a rappresentare adeguatamente interessi semplici quanto primari (la stabilizzazione dei contratti, per esempio, con la trasformazione in «tempi indeterminati»). A Napoli, Al cardarelli, sono da ieri in agitazione i lavoratori dei reparti di medicina, che hanno voluto anche «disdettarsi» da tutte le organizzazioni sindacali.
Nel Lazio manifesteranno stamattina, sotto la sede della Regione, sulla Cristoforo Colombo, i precari dell'ospedale Sant'Andrea, del San Filippo, quelli del san Giovanni e del Policlinico. Con loro ci saranno anche barellieri e autisti - precari, naturalmente - che lavorano sulle ambulanze del 118.
Questi ultimi sono protagonisti di una situazione davvero kafkiana. Sono stati assunti a novembre come lavoratori interinali dall'agenzia «Obiettivo lavoro» e «offerti» all'Aris 118 con contratto di tre mesi e ruoli intercambiabili. Nel frattempo si spargevano voci di concorsi per altre assunzioni (200 autisti, 100 barellieri e 200 infermieri). Quindi arrivava la prima proroga di un mese e mezzo, seguita da una seconda che dura tuttora. A fine mese la loro sorte dovrebbe essere decisa dall'esito di una gara d'appalto che selezionerà una società che si incaricherà di gestire il servizio ambulanze e farsi carico anche di loro.
L'incertezza regna sovrana. Anche perché nel frattempo, con un sacrosanto emendamento alla legge finanziaria, la regione ha disposto il monitoraggio di tutte le situazioni di lavoro precario nella sanità in vista del loro «superamento». Dovrebbero essere viaggiate domande e risposte tra uffici regionali e direzioni sanitarie, ma non si sa nulla sui contenuti. Né se e quando le posizioni verranno «sanate». Si tratta di lavoratori giovani, ma non più «di primo pelo» (età media 35-40 anni). Così i precari hanno deciso di «autocensirsi», scoprendo di essere in 1.000 «esternalizzati» al Policlinico, 400 al sant'Andrea, 500 al San Giovanni, 250 al san Filippo e infine 100 al 188. La richiesta è semplice: che gli assessorati si facciano garanti che verranno assunti i lavoratori in precaria attività, non qualche «amico degli amici».


17 maggio

Etiopia, bombe e repressione alla corte di Zenawi
Strani attentati Nove bombe hanno squassato venerdì Addis Abeba. Nessuna rivendicazione. Il governo accusa l'Eritrea Un anno di crisi Il 15 maggio del 2005 le elezioni. Oggi, i capi dell'opposizione, che reclamano la vittoria, sono in carcere
Emilio Manfredi
Addis Abeba
 
Un anno fa, il 15 maggio era domenica. Sin dall'alba, milioni di persone si erano messe in fila in ogni angolo d'Etiopia. La gente si recava a votare per eleggere il nuovo parlamento e scegliere il nuovo governo. Bekele era uno di loro. «Ricordo bene, domenica mattina andai in chiesa e poi al mio seggio, ad Harat Kilo, proprio di fronte al palazzo del governo», racconta l'uomo, venticinque anni, fabbro. «Come tutti i miei vicini, votai per il Kinjit, la coalizione di opposizione. È passato un anno, sembra un secolo», conclude Bekele. Un anno duro per l'Etiopia. Dopo le elezioni, il clima politico è rimasto rovente. L'opposizione ha accusato di brogli il governo guidato dal primo ministro Meles Zenawi. La gente è scesa nelle strade. Le stesse strade che Zenawi aveva riempito di polizia e esercito, sin dal voto. La popolazione nelle vie ha sostenuto i leader dell'opposizione, che si dichiaravano vincitori e chiedevano all'Eprdf, il partito al governo, di farsi da parte. Un mese dopo, nella capitale il confronto è finito in tragedia. La polizia ha sparato sulla folla, in fermento ma disarmata, facendo morti e feriti. Poi il governo ha affermato di avere vinto, continuando a governare, e mettendo in atto una spirale di repressione andata avanti per mesi, sino all'arresto, agli inizi di novembre, di tutti i capi del Kinjit, una ventina di giornalisti, esponenti di Ong e della società civile. Tutti sotto processo per tentativo di sovvertire l'ordine costituzionale, insurrezione armata, tentato genocidio (nei confronti dei sostenitori di Zenawi e dell'etnia del primo ministro, i tigrè).
Dopo l'arresto, sono esplose dure proteste. Portando con sé altri morti e feriti, e arresti a migliaia. Il tutto è durato pochi giorni. Poi, il silenzio della repressione. Con la necessità di portare a casa anche quel misero salario di poche decine di euro. «Non possiamo fare nulla. Abbiamo scioperato. Dopo due giorni, il governo ha fatto circolare un avviso. Chi non si fosse presentato al lavoro il giorno successivo, sarebbe stato licenziato», racconta un'infermiera, chiedendo l'anonimato. Il silenzio, anche, di un popolo memore del pugno di ferro dei passati regimi. Un filo rosso a cui ogni governo pare attenersi.
Un anno dopo, Zenawi governa. L'amministrazione della capitale, dove l'opposizione aveva ottenuto tutti i seggi, è stata commissariata e affidata a un governo «tecnico». Nel frattempo, il sindaco eletto di Addis Abeba, Berhanu Nega, rimane rinchiuso nel carcere di Kaliti, assieme ad altre 110 persone. E il processo continua. Gli accusati si dichiarano «prigionieri politici», mentre Amnesty International afferma che «i politici, i difensori dei diritti umani e i giornalisti sotto processo sono prigionieri di coscienza che non hanno né invocato né usato la violenza», chiedendone l'immediato e incondizionato rilascio.
A complicare il quadro, da marzo Addis Abeba è scossa da una serie di attentati terroristici. Gli ultimi venerdì scorso. Nove esplosioni hanno squassato una giornata calda e caotica. Sono saltati in aria ancora autobus, bar, piccoli esercizi commerciali, un ufficio delle linee aeree etiopiche e uno dell'elettricità. Il bilancio ufficiale parla di 4 morti e di oltre trenta feriti. Testimoni oculari hanno riferito che ci sarebbero più morti.
Le esplosioni colpiscono direttamente la popolazione, nei caffè popolari, sugli autobus che tutti utilizzano. «Sono terrorizzata. Ho paura a mandare i miei figli a scuola», raccontava venerdì Bertukan, mentre gli agenti della sicurezza rimuovevano un cadavere da un pullman, a Gotera, zona sud della città. Il primo ministro, giorni fa, aveva dichiarato al manifesto: «Il materiale esplosivo arriva dall'Eritrea», additando come responsabili materiali i separatisti dell'Oromia Liberation Front (Olf) e il Kinjit. Domenica il portavoce dell'Olf, Lencho Bati, ha negato «qualsiasi coinvolgimento negli attacchi», rimbalzando le accuse sul governo.
In tutta l'Etiopia regna una calma nervosa, ed ormai è impossibile sentire un commento da parte dell'opposizione. Uno dei leader non in carcere, raggiunto telefonicamente, non ha voluto parlare. Chi parla è Zenawi. Intervistato ieri dal Times, ha dichiarato che l'opposizione, incoraggiata da segnali confusi della comunità internazionale, ha sperato di poterlo rovesciare, dando il via alla crisi politica dell'ultimo anno. «Hanno sbagliato i calcoli», ha dichiarato il primo ministro. «L'Etiopia non è l'Ucraina». Zenawi poi ha attaccato la Gran Bretagna per avergli tagliato gli aiuti senza consultarlo, e Amnesty International, definita «l'auto-proclamato angelo guardiano della democrazia in Africa, che crede che i leader africani sanguinari non porteranno democrazia se non soffiandogli sempre sul collo». Chiarendo il suo pensiero su una possibile soluzione negoziata della crisi politica dell'ultimo anno.

Argentina
A Faenza le orme della dittatura
Pio Laghi Il Cardinale, già nunzio apostolico a Buenos Aires e amico di Pinochet, è stato oggetto di un tributo nella sua città d'origine. Mentre i desaparecidos aspettano giustizia
Claudio Tognonato
Pochi giorni prima dell'anniversario del trentennale del colpo Di stato in Argentina la città di Faenza ha dato una dimostrazione di grande sensibilità. Il 21 marzo la Giunta comunale, su proposta di Renzo Bertaccini, ha aggiudicato l'onorificenza del «Faentino lontano» alla signora Elda Casadio nata a Faenza nel 1926 e residente in Argentina.
Disgraziatamente Elda Casadio, Madre di Piazza di Maggio, è morta qualche settimana dopo aver saputo dell'onorificenza in seguito ad una rapina subita preso la sua abitazione di Buenos Aires. Una faentina lontana e profondamente vicina, una compaesana del tristemente celebre cardinale Pio Laghi, quel Nunzio Apostolico che nell'Argentina della dittatura militare - con 30.000 oppositori o presunti tali sequestrati, torturati e gettati ancora vivi in mezzo al mare - sceglieva il silenzio.
Perché il cardinale Laghi, come Elda Casadio, è di Faenza. Laghi nacque nel 1922 a Castiglione di Forlì, piccolo paese vicino a Faenza, da una famiglia di contadini. Il padre lo iscrisse alla scuola ginnasiale dell'Istituto Salesiano di Faenza e vista la dedizione del bambino, alcuni benestanti della città hanno contribuito a fargli continuare gli studi, andati poi avanti con successo nella carriera ecclesiastica.
Quanto a Elda Casadio, nel 1944 conosce un giovane soldato polacco, Stanislao Koval, in Italia per liberarla dall'occupazione tedesca. Finita la guerra decidono di sposarsi e nel 1945 nasce il loro figlio, anche lui Stanislao. Senza lavoro e con un bimbo a carico, nel 1946 decidono di tentare fortuna in Argentina. «Siamo partiti con un baule», raccontava Elda. «Ci siamo sistemati in una piccola casa di legno e lamiera». Quando tutto sembrava procedere per il meglio, un giorno sono arrivati i militari: «pensavo di essere tornata al clima della guerra qui in Italia, ma nemmeno i tedeschi hanno fatto quello che è successo in Argentina. Stanislao aveva 31 anni, è stato portato via il 28 maggio 1976». Quel 28 maggio Elda vide per l'ultima volta Stanislao: «Il mio ragazzo era dentro un'auto, con un bavaglio sulla bocca e un uomo che gli teneva una pistola puntata alla tempia».
«Un paio di mesi dopo il sequestro di mio figlio andai da Monsignor Laghi, nella sede della Nunziatura apostolica. Appena entrata gli dissi: Monsignore, io sono di Faenza, ho un figlio desaparecido. Mi guardò e mi chiese: Suo figlio era un comunista? Non era un comunista ma anche se lo fosse stato, si deve uccidere per una idea?» Pio Laghi non ha fatto nulla per Stanislao, diceva di avere le mani legate.
Anche per questo venerdì 12 maggio a Faenza, alla presenza dell'autore, è stato presentato l'ultimo libro di Horacio Verbitsky, L'isola del silenzio. Il ruolo della Chiesa nella dittatura argentina, un'indagine sulle connivenze tra la Chiesa cattolica e dittatura. Domenica scorsa, in occasione della Solennità della Beata Vergine delle Grazie, patrona della città di Faenza, la Chiesa diocesana ha festeggiato i 60 anni di sacerdozio dei cardinali Pio Laghi e Achille Silvestrini. Un gruppo di giovani ha distribuito un volantino che, dopo aver ricordato i silenzi del cardinale, chiede «Chi è il cardinale Laghi e cosa ha da festeggiare oggi la Chiesa?».
La notte precedente, qualcuno aveva incollato due scarpe di donna sul gradino del Duomo, a ricordare le tante madri di desaparecidos che ancora aspettano giustizia. Inutile dirlo ma le scarpe, al mattino, sono state rimosse.


16 maggio

Abu Omar, la verità
Gli italiani con la Cia

di Fabrizio Gatti
e Peter Gomez

Un maresciallo dei carabinieri prese parte al sequestro dell'imam a Milano. E parla di un commando con molti italiani. Ecco la svolta clamorosa nelle indagini sull'operazione segreta

Un filo segreto porta da Palazzo Chigi al sequestro di Abu Omar, l'imam rapito a Milano e torturato in Egitto. Un segreto nascosto in una telefonata partita dalla segreteria di Gianni Letta, il potente sottosegretario al quale Silvio Berlusconi ha affidato la delega per i servizi di intelligence. Pochi giorni fa, come risulta a "L'espresso", da quel numero interno della presidenza del Consiglio qualcuno chiama l'ambasciata italiana a Belgrado. Ha moltissima fretta. Vuole parlare immediatamente con l'addetto alla sicurezza dell'ambasciatore: un maresciallo dei carabinieri che fino a un anno e mezzo fa ha lavorato nella sezione antiterrorismo del Ros di Milano. Ed è una coincidenza curiosa. Perché proprio in quelle ore in Procura a Milano il maresciallo sta rivelando una delle storie più compromettenti per il governo Berlusconi e l'intelligence italiana. La vera storia del rapimento di Abu Omar: il sottufficiale racconta che all'ora X, più o meno le 12 del 17 febbraio 2003, addosso all'imam bloccato in via Guerzoni, a metà strada tra il centro e la periferia milanese, non ci sono soltanto gli agenti della Cia. Al sequestro partecipano anche militari italiani. E lui lo sa bene: perché quel giorno il maresciallo dei carabinieri, nome in codice Ludwig, è con loro.

Cadono così tre anni di versioni ufficiali che, una dopo l'altra, hanno sempre negato la presenza di italiani nel commando che ha rapito Abu Omar. A cominciare dalle dichiarazioni del ministro Carlo Giovanardi, mandato da Berlusconi l'anno scorso a rispondere al Parlamento: «Non è neppure ipotizzabile», ha detto Giovanardi a nome di tutto il governo, «che sia mai stata in alcun modo autorizzata qualsivoglia operazione di questa specie né, a maggior ragione, il coinvolgimento nella stessa di apparati italiani». Anche il generale Nicolò Pollari, direttore del Sismi, il servizio segreto militare, ha sempre smentito la collaborazione dell'Italia. Così come il generale ha ripetuto poche settimane fa a Bruxelles davanti alla commissione del Parlamento europeo che indaga sulle operazioni segrete della Cia: «Noi non abbiamo assistito tali comportamenti e nemmeno partecipato né appoggiato questo tipo di attività».


Il maresciallo Ludwig non è il solo italiano coinvolto nell'inchiesta. Altri stanno per essere identificati come complici o testimoni: dovrebbero essere carabinieri, agenti dei servizi segreti oppure, ipotesi più remota, 007 privati ingaggiati per l'operazione. Ma il sottufficiale è al momento l'unico a rischiare già adesso il processo e il carcere per sequestro di persona. Perché il mese scorso il ministro della Giustizia uscente, Roberto Castelli, si è definitivamente rifiutato di presentare agli Usa la domanda di estradizione dei dipendenti della Cia in servizio in Italia: sono i 22 agenti americani del commando che ha rapito Abu Omar per i quali il procuratore aggiunto di Milano, Armando Spataro, già un anno fa aveva chiesto l'arresto. Il ministro ha anche respinto la richiesta della Procura di Milano di diffondere all'Interpol la nota per le ricerche internazionali. Grazie a Castelli, gli 007 della Cia potranno così andare ovunque nel mondo senza correre il rischio di essere fermati e consegnati all'Italia. Come pubblici ufficiali, i rapitori rischiano condanne fino a dieci anni. Più le aggravanti per le torture subite dall'imam. Ma a questo punto i carabinieri e gli altri italiani coinvolti nell'indagine manterranno la consegna del silenzio con la prospettiva di essere gli unici a pagare? Forse è proprio questo il motivo della misteriosa telefonata partita dal numero interno di Palazzo Chigi.

Ludwig deve il suo nome in codice ai capelli biondi e al fisico da tedesco. Dopo il sequestro di Abu Omar ha fatto carriera: è stato selezionato per il posto di addetto alla sicurezza dell'ambasciata a Belgrado, incarico a volte riservato ad agenti del Sismi. Ma è nella sezione antiterrorismo del Ros di Milano che cominciano e finiscono i suoi giorni del Condor: la partecipazione a quella che qualcuno, per il suo soprannome, già chiama "operazione Ludwig". La sezione antiterrorismo è la stessa da anni in prima linea nella caccia ai terroristi di Al Qaeda. E, con la Digos di Milano, è tra le squadre di investigatori più attive nel sud Europa. Tanto che, dopo l'attacco dell'11 settembre, la Cia è spesso negli uffici del Ros, nella grande caserma in via Lamarmora a un isolato dal Palazzo di Giustizia. L'agente americano in contatto con i carabinieri è Robert Seldon Lady, 52 anni, nato in Honduras e capo della Cia a Milano. È un uomo massiccio, con la barba appena sbiancata dall'età e le mani grandi come badili. Lady, Bob per gli amici, è nell'elenco dei 22 agenti consegnato al ministro Castelli: ha lasciato l'Italia giusto in tempo per evitare l'arresto.

 Nelle indagini contro Al Qaeda, tra il 2001 e il 2004 Bob si mette a disposizione degli investigatori italiani e fornisce notizie, riscontri fotografici, microspie supertecnologiche. Si fa anche molti amici sia nel Ros, sia nella Digos, sia tra gli agenti dei regimi nordafricani in azione a Milano. Nel 2002, qualche giorno prima di Natale, li invita tutti a un party. Appuntamento nella cascina ristrutturata che Bob ha comprato tra le colline di Penango, in provincia di Asti. Gli mancano pochi mesi alla pensione e con la moglie ha deciso di rimanere in Italia dopo il congedo. Sotto il cielo grigio di quel pomeriggio, agenti segreti e investigatori dell'antiterrorismo sfilano nel breve viale che dal cancello porta in casa. Abbracci, strette di mano. Gli auguri e i bicchieri di vino rosso del posto. Da quanto risulta a "L'espresso", il maresciallo Ludwig è tra gli invitati. Di Bob Lady è un carissimo amico. C'è anche un capitano della stessa sezione del Ros. Un ufficiale che poche settimane fa il Sismi ha scelto tra gli aspiranti 007.

Possibile che in tre anni non si sia mai accorto che, con il sequestro di Abu Omar, un suo maresciallo e forse altri suoi dipendenti si erano messi agli ordini di un servizio segreto straniero? Il giorno in cui tutti gli 007 di Milano si ritrovano nella cascina di Penango mancano tre mesi alla guerra in Iraq. I piani di invasione sono pronti. E forse in un cassetto dell'ambasciata americana a Roma è pronta la relazione per ottenere da Washington il via libera all'operazione Ludwig. Il bersaglio ha un nome lungo: Hassan Moustafà Osama Nasr, nato ad Alessandria d'Egitto il 18 marzo 1963. Nelle moschee di viale Jenner e via Quaranta a Milano lo conoscono come Abu Omar. Il ministero dell'Interno gli ha concesso lo status di rifugiato politico. E la Digos lo sta pedinando da tempo: l'imam è sospettato di reclutare combattenti e kamikaze da inviare in Iraq per la guerra ormai imminente. Forse quel giorno di dicembre, nella sua casa piemontese, Bob ha già spiegato a Ludwig le intenzioni della Cia. Forse gli ha già raccontato del piano di Abu Omar di far esplodere il pullman con gli allievi della Scuola americana di Milano: un piano di cui però la Digos non ha mai trovato riscontri. Bob e Ludwig si rivedono ancora nell'ufficio del Ros. E poi a cena a casa di Ludwig, ogni volta che Bob deve rimanere a Milano per lavoro. Il 16 febbraio 2003, da quanto risulta a "L'espresso", vanno insieme in via Guerzoni. È una domenica, c'è poco traffico. Forse passano davanti al palazzo in via Conte Verde 18 dove Abu Omar abita con la moglie Nabila Ghali, in un appartamento messo a disposizione dalla moschea di viale Jenner. Alla fine del sopralluogo Bob consegna a Ludwig un cellulare. E gli ripete cosa dovrà fare. Il maresciallo del Ros deve fermare Abu Omar e chiedergli i documenti. Tutto qui. Oppure intervenire con il suo tesserino dei carabinieri nel caso l'operazione fosse ostacolata dall'improvviso controllo di una volante o dei vigili urbani. Gli agenti della Digos invece non sono più un problema: i pedinamenti di Abu Omar sono stati sospesi da almeno due mesi.

La mattina dopo, il 17 febbraio, Ludwig è in ufficio. I suoi colleghi sono impegnati in un servizio a Cremona. Lui resta a Milano e all'ora stabilita - racconta - va all'appuntamento in moto. Deve aspettare il contatto in piazzale Maciachini. Si ferma un'auto. L'uomo al volante, l'unico a bordo, lo chiama con il nome in codice. È sicuramente italiano. Ludwig sale. Fanno tre isolati, girano in via Guerzoni e vedono subito Abu Omar arrivare a piedi. È l'ora X. Come in un film di spionaggio Bob Lady, regista dell'operazione, non si fa vedere. Il maresciallo scende dall'auto e chiede i documenti. L'imam dice di non avere capito. Lui ripete la domanda in inglese. L'imam consegna il passaporto. All'improvviso, da un furgone parcheggiato lì accanto, esce una squadra di uomini. Forse c'è qualche americano. Ma chi parla impreca in italiano, senza accento straniero. Prelevano Abu Omar, che grida, chiede aiuto. Il maresciallo Ludwig si sposta per non essere travolto. In meno di 30 secondi il furgone parte verso la periferia. Il maresciallo resta immobile, con il passaporto di Abu Omar in una mano e il cellulare di Bob Lady nell'altra. Butta tutto dentro il finestrino dell'auto che l'ha portato fin lì. L'italiano al volante accelera e se ne va. Poco dopo squilla il cellulare personale di Ludwig. È un ufficiale dei carabinieri che vuole avere notizie del suo dipendente. Forse è solo una coincidenza. Ma le antenne dei telefonini sui tetti del quartiere registrano: posizione, numeri, durata delle conversazioni. Dall'altra parte della strada una donna egiziana vede gli 007 in azione e racconterà tutto a un'amica. Nel giro di due giorni la comunità araba a Milano sa che Abu Omar è stato rapito. Viene presentata la denuncia alla Digos. L'indagine sembra facile: basterebbe chiedere alla Telecom e alle altre compagnie i dati sul traffico telefonico nella zona all'ora del rapimento. Ma i risultati arrivano soltanto in ottobre. E non servono a nulla perché non riguardano le telefonate del 17 febbraio, ma quelle del 17 marzo. Dopo otto mesi bisogna ricominciare le indagini daccapo. Adesso i nomi di altri italiani in azione con la Cia potrebbero ancora nascondersi dietro i numeri di telefonino. Soprattutto quelli rimasti senza intestatario. Una copertura ottenuta grazie alla complicità di alcune compagnie telefoniche. Come ha scoperto "L'espresso", centinaia di schede Sim vengono periodicamente consegnate ai servizi segreti senza essere registrate. Numeri fantasma da usare e buttare dopo ogni operazione sporca.

 

La destra senza politica. La sinistra senza società

di Ritanna Armeni

Il centro destra ha oggi una grande forza sociale e culturale ed una scarsa forza politica. La sua capacità di penetrare e influenzare la società è evidente in quella metà dei voti degli italiani conquistati il 10 aprile. Voti che neppure i più intelligenti sondaggisti erano riusciti ad intercettare perché parte di una Italia profonda e non decifrabile. Voti del nord industriale e laborioso. Voti degli operai che in numero notevole hanno, anche questa volta, votato Lega. Voti che, proprio perché così radicati e diversificati - proprio perché attraversano le classi sociali - mostrano anche la penetrazione culturale dell’ideologia liberista e populista.
Ma il centro-destra ha oggi una forza politica inadeguata. La perdita del governo, sia pure per un esiguo numero di voti, non è stata ancora rimpiazzata da una strategia politica di opposizione. Il centro destra di fronte ai risultati elettorali, ha prima parlato di brogli e irregolarità, poi ha tentato di delegittimare il risultato, poi ha puntato su una rivincita immediata e si è predisposto a continuare la campagna elettorale puntando sulle elezioni amministrative e sui referendum.
Su questa linea è rimasto unito e ha rinviato i problemi. Dopo dovrà scegliere. E solo se riuscirà ad adottare una strategia politica che di nuovo riunifichi e potenzi la sua forza sociale potrà rendere difficile il governo dell’Unione. Non è detto, ma non è da escludere.
Lo schieramento che ha vinto le elezioni ha oggi caratteristiche opposte. Ha dimostrato una certa consistenza politica, ha elaborato un programma che è riuscito a mettere insieme le varie anime dell’Unione; ha vinto sia pure di poco le elezioni, ha eletto le maggiori cariche istituzionali, si avvia a varare un governo. Non c’è dubbio che è riuscito a utilizzare bene il vantaggio che il risultato elettorale gli ha dato. Ma la sua capacità di penetrazione sociale e culturale, per quanto vasta, è stata alla prova delle elezioni minore del previsto.
Il problema dell’Unione quindi è analogo e opposto a quello del centro destra ed è esattamente questo: come far diventare forza sociale e culturale la sua forza politica; come penetrare nell’Italia profonda; come conquistare fette di società che dovrebbero appartenergli ed ha perduto.
Nei prossimi mesi il destino dei due schieramenti si giocherà sulla capacità del centro destra di elaborare una strategia politica e sulla capacità del centro sinistra di riconquistare una egemonia sociale.
Per il centro destra la strada non è facile. Dopo il referendum, e forse anche prima, le spinte autonomistiche e ribellistiche della Lega si faranno sentire. La scelta di una linea che punti su tempi più lunghi, ma fondata sulle contraddizioni dell’avversario, capace di tessere una nuova opposizione, si scontra con quella della “vendetta” subito, col nascere di un “girotondismo di destra” che vorrebbe le manifestazioni al Quirinale, gli scioperi fiscali, e la ribellione di piazza come risposte immediate e arrabbiate alle iniziative della nuova maggioranza. La strada della ricerca di larghe intese sul modello tedesco, già minoritaria, dopo la elezione del presidente della Repubblica è chiaramente sconfitta. E‚ evidente che oggi nella Casa delle libertà si scontrano una linea moderata e centrista che raggruppa una parte di An e di Forza Italia e l’Udc, e una parte più estrema che ha il suo baricentro nella Lega, ma della quale fanno parte consistente fette di Forza Italia e di Alleanza nazionale. Ed è anche evidente che Silvio Berlusconi non è in grado di fornire una sintesi, se non tattica, su singole questioni come, ad esempio, la decisione della scheda bianca per le elezioni alla presidenza della repubblica. La sconfitta per un leader “impolitico” è più difficile da elaborare che per i tanti più “politici” leader della destra.
Il centro sinistra ha quindi un’opportunità. Quella di intervenire nelle difficoltà politiche del centro destra, per rivolgersi a chi l’ha votato, a chi ha creduto nei suoi programmi e mostrare un linea di governo che effettivamente sia in grado di spostare consensi. Un esempio. E’ evidente che l’esaltazione e “giustificazione” della flessibilità, l’estendersi del lavoro precario, in una generazione, quella dei giovani, che non ha mai conosciuto davvero “il lavoro fisso”, ha creato un atteggiamento culturale nei confronti della precarietà non sempre corrispondente ad un modello di disperazione e di emarginazione totale. In Italia non c’è solo chi ritiene che la precarietà sia una tragedia, ma anche chi pensa che non può che essere così e chi pensa addirittura che quella sia la via migliore per la società oltre che per l’economia. La delusione nei confronti delle posizioni presenti anche nella sinistra ha contribuito non poco a questi atteggiamenti. L’Unione che darà con la riduzione del cuneo fiscale il primo messaggio di politica economica e sociale, è chiamata anche a inviare nei prossimi mesi un segnale forte che indichi in modo concreto che per “tutti” la riduzione della precarietà è un fatto positivo.
Questa politica potrà suscitare l’opposizione di parti estese del mondo imprenditoriale, del popolo di Vicenza per intenderci, ma porrà un problema di consenso e di valori all’elettorato operaio del centro destra e anche a quella parte dell’imprenditoria che vede nella qualità, nella ricerca e nell’innovazione il terreno di confronto con l’economia globale e non sul costo del lavoro.
I tempi per dare segnali di cambiamento non sono infiniti e non sono nemmeno molto lunghi. Un’opposizione così debole politicamente come quella uscita dalle elezioni ha comunque una forza sociale che è in grado in modo forse selvaggio e ribelle di mettere in crisi equilibri politici già faticosi e con un alto grado di instabilità. La campagna elettorale per l’Unione è finita, ma quella per la conquista della maggioranza dei consensi è appena iniziata.

 

 15 maggio

Dalla precarietà al vagabondaggio
ecco la nuova povertà dei giovani

di TULLIA FABIANI
 
<B>Dalla precarietà al vagabondaggio<br>ecco la nuova povertà dei giovani</B>
"Ai giovani si chiede di essere creativi, ma la creatività senza politiche di sostegno non basta a generare ricchezza". Questo è il punto su cui insiste Giuseppe Pelizza, quando parla del dossier sulla "povertà giovane" pubblicato su Dimensioni nuove, la rivista mensile che dirige ed è edita dall'editrice salesiana Ellecidi. Si parte dai dati ufficiali: in Italia sono circa 600 mila i giovani tra i 18 e i 24 che vivono in condizione di povertà mentre gli under 18 poveri sono un milione e mezzo. Cifre ricavabili dal Rapporto sulle politiche contro la povertà e l'esclusione sociale 2004 del governo e che si riferiscono all'ultimo anno disponibile (2003). "Abbiamo preso in considerazione anche dati Istat e una ricerca dell'istituto Eures - spiega Pelizza - ma accanto ai numeri a tratteggiare il quadro dell'indigenza giovanile sono state le testimonianze".

Racconti di vita difficile, che vanno dall'esempio ormai "classico" del lavoro precario che "non permette di costruire niente" a quello più estremo del ritrovarsi in strada come clochard. E non si tratta di casi eccezionali, ma di situazioni sempre più comuni.

"In generale si stanno rivelando situazioni di estrema precarietà - racconta Raffaele Gnocchi, responsabile del Servizio di accoglienza milanese della Caritas (Sam) nel dossier - persone apparentemente normali, ragazzi di 18, 20 o 25 anni che vivono però storie di povertà materiale e relazionale. Così vediamo sempre più gente, senza lavoro, a volte anche senza casa e con tanta solitudine". Eppure ci sono forti paradossi che rischiano di confondere: "Si nota che molti ragazzi possiedono due cellulari - dichiara Pelizza - e noi abbiamo evidenziato come nei giovani sia cambiata la propensione alla spesa. Ma all'origine non c'è una situazione di reale benessere, quanto piuttosto un'incapacità di gestione del denaro, probabilmente frutto di una cultura distorta".

Consumi sbagliati, dunque: eccesso di superfluo, dai telefonini all'abbigliamento trendy, che porta le famiglie a indebitarsi; "effetti della fragilità psicologica con cui guardano al futuro", li definisce la rivista che da 44 anni si occupa di condizione giovanile. Sarebbero questa allora le nuove forme di povertà da combattere: "Va bene preoccuparsi dei pensionati, perché votano anche loro - sottolinea il direttore del periodico - ma il futuro è dei giovani ed è una sfida fondamentale quella di garantire loro un vero benessere".

La domanda, però, è: in che modo? Il dossier propone qualche parere. Dall'idea di promuovere il "capitale umano", come sostiene Giacomo Vaciago, docente di Politica economica all'Università Cattolica di Milano, secondo cui "la gente non riesce più a migliorare la propria posizione come un tempo, quando c'erano contadini che diventavano industriali e operai che diventavano ingegneri". All'ipotesi di allargare il Reddito minimo di inserimento: "Questa forma di lotta alla povertà dovrebbe essere nazionale, non affidata alla sensibilità e alle risorse disuguali dei Comuni - si legge nel dossier - e "universalistica" (aperta a qualsiasi cittadino indigente in quanto tale, e non solo a chi appartiene a determinate categorie di disagio). È stata sperimentata attorno al 2000 sotto il nome di Reddito minimo di inserimento (Rmi), ma la sperimentazione è stata interrotta. La legge Finanziaria 2004 prevedeva di sostituire il Rmi con il Reddito di ultima istanza (Rui). Ma l'applicazione è rimasta sulla carta".

Ed è proprio la mancanza o l'improprietà di certe risposte che denuncia Pelizza. A cominciare da quella della Riforma della scuola: "È una risposta sbagliata a un bisogno reale - afferma il direttore - ma nella situazione di crisi in cui si trovano i giovani non servono barricate ideologiche, bisogna davvero lavorare nell'interesse di una generazione che è il futuro del Paese. Altrimenti perderemo tutti".

12 maggio

L'antitaliano di Giorgio Bocca
 Paure e amnesie di chi ha votato Silvio

Nella provincia di Cuneo l'80 per cento degli elettori ha votato Silvio Berlusconi. Una provincia partigiana, antifascista ha votato per l'uomo che ha sdoganato gli ex fascisti sempre fascisti, che non ha esitato a candidare anche gli ex nazisti sempre nazisti, compresi quelli che non avevano mai sentito parlare dell'Olocausto.

Ha votato per il politico che ha sempre ostentatamente ignorato la celebrazione del 25 aprile, che candidamente ha confessato di non sapere chi era papà Cervi, il padre dei sette fratelli fucilati a Reggio dai fascisti, di cui sono state pubblicate migliaia di fotografie, di articoli, centinaia di libri, fiumi di memorie, come non bastasse a stamparlo nella memoria di massa quella sua faccia di contadino che sopporta tutte le avversità e i lutti. Ma niente di ciò che significa il vecchio Cervi ha mai raggiunto il Cavaliere di Arcore che pure ha un'ottima memoria.

Le amnesie del qualunquismo italiano, della profonda millenaria destra italiana su cui navigano tutti i ritorni plebiscitari del partito dei soldi, sono totali, compatte come un muro di gomma, come i gradini di una piramide. Senza esitazioni, senza pudore.

Siamo nati e vissuti in una terra in cui non solo i cippi e i monumenti parlano della guerra di popolo al fascismo, ma anche le pietre, anche i fossi. Guardate quello che segue la strada fra Cuneo e Torino non lontano da Centrallo: in quel fosso cadde crivellato dai colpi delle brigate nere Duccio Galimberti e un ragazzo che passava lì per caso li sentì urlare "sparate su quel bastardo". Si chiamavano Costanzo e Probo, come i martiri della Legione Tebea, i vostri nonni o padri saliti in montagna dalle campagne del Passatore o della Bombonina, dalle tenute del marchese Falletti e che formarono l'esercito volontario di borghesi e di contadini (di operai ce ne erano pochi, gli operai comunisti stavano più su nelle valli di Lanzo e del Pellice).

Ne avete avuto uno in ogni famiglia, è impossibile che li abbiate dimenticati. Eppure è così: quando dal profondo sale la paura del nuovo, il terrore atavico della miseria, della fame, si vota Berlusconi o qualsiasi altro populista che prometta di tagliare le tasse e di abolire le multe.

Ma sale pure da un passato recente, anche dalla crisi dell'agricoltura del primo Novecento quando dalle campagne affamate del Piemonte partirono a decine di migliaia per andare a bonificare la pampa argentina, a dormire nelle buche, a patire di malaria per tornare vecchi e logori a comperare la villetta dalle parti del viale degli Angeli fra Cuneo e la montagna. Non solo nella 'provincia granda', anche a nord nella pianura Padana, nel Veneto.

C'è un paese di montagna fra l'Adige e il Brenta, San Mauro di Saline, dove ha votato per la destra l'89,95 per cento, 349 voti su 388 di cui 102 a Forza Italia e il resto alla Lega. Tutto ciò vuol dire che a decidere le elezioni di un paese moderno, il sesto o settimo paese industriale del mondo, sono state delle paure senza senso nel presente, ma radicate da millenni: paure di carestie, di invasioni, di peste, di fillossera, di grandine, per cui non si ragiona più, si corre dove si pensa che ci sia un riparo conservatore, il riparo del non muovere, del non agitare le acque e gli eventi che hanno sempre portato lutti fra la povera gente. Tanto più se povera non è, ma si è fatta l'automobile e la casa, tanto più se nessuno vuole toglierle l'automobile e la casa.

Ma nelle confessioni di quelli che hanno votato per il più ricco dei nostri milionari, per il più lontano dei piccoli risparmiatori italiani, per uno che non bastandogli una decina di ville fra Sardegna e Caraibi ne ha comperata, l'altro giorno, una in Svizzera per il tramite della madre di sua moglie, nelle confessioni, dicevo, passa come un nero lampo il pensiero intollerabile: vogliono portarmi via la casa, vogliono farmi morire sotto il cumulo delle tasse.

Chi? I comunisti. E noi che irridevamo l'anticomunismo irreale, magico, da maledizione biblica del signor Berlusconi.

 

La magistratura contabile punta il dito sulla spesa sanitaria
gli introiti da condoni e la spesa per i dipendenti pubblici

Corte dei Conti, nella Trimestrale
rischi di sottostima del deficit

ROMA - Il quadro economico tracciato nella Trimestrale di Cassa "non è esente da rischi di sottostima", in particolare per quanto riguarda il disavanzo. Lo sostiene la Corte dei Conti nella relazione sulla copertura delle leggi dell'ultimo quadrimestre 2005. Perplessità vengono espresse anche su alcuni interventi della Finanziaria 2006, anche se i magistrati contabili danno nel complesso una "valutazione molto positiva" del rafforzamento della manovra fatto dopo il varo.

Sotto la lente di ingrandimento della Corte ci sono soprattutto i risparmi previsti sulla spesa sanitaria, gli introiti da condoni e la spesa per i contratti dei dipendenti pubblici.

In particolare, sottolinea la Corte dei Conti, il risparmio di 2,5 miliardi, previsto dalla Finanziaria sulla spesa sanitaria, "appare di non facile realizzazione" e questo "nonostante la persistenza di margini per una riduzione delle inefficienze e per un più appropriato utilizzo delle strutturo di ricovero".

Nell'esaminare le coperture della legge finanziaria 2006, la Corte dice chiaramente: la spesa sanitaria, che cresce sia per la richiesta di innovazione sia per l'invecchiamento della popolazione, non può essere governata limitando le risorse ma "con l'attivazione di strumenti di controllo della domanda" e "con una attenta analisi delle prestazioni da ricomprendere nei livelli essenziali di assistenza".

La Corte dei Conti lancia poi un allarme nel valutare gli interventi aggiuntivi "in materia di concordato preventivo, misure definite di programmazione fiscale e adeguamento degli anni 2003-2004", previsti nella Finanziaria per il 2006. "La riproposizione di forme di condono fiscale pregiudica sia le prospettive di gettito connesse ai normali adempimenti dei contribuenti sia l'esito dell'azione ordinaria tesa al recupero delle aree di evasione".

La Corte dei Conti rileva come un possibile sforamento della spesa per i pubblici dipendenti metta a rischio gli obiettivi di deficit 2006 "per la comprovata difficoltà ad attivare strumenti di controllo effettivo dei fattori extracontrattuali". "Il sistematico scostamento negativo tra gli obiettivi posti alla crescita dei redditi da lavoro dipendente e i risultati conseguiti in questi anni - sottolinea la magistratura contabile nella relazione che esamina le coperture della legge finanziaria 2006 - pone in luce la difficoltà di governare non tanto gli effetti diretti degli accordi contrattuali, quanto l'implicazione di un insieme composito di fattori extracontrattuali (contrattazione integrativa, progressione di carriera, ecc) e il rispetto dell'obiettivo, sempre ribadito, di riduzione del numero di occupati delle amministrazioni pubbliche".

I risultati conseguiti nel 2005 sul fronte dei conti pubblici mostrano "un andamento largamente insoddisfacente della spesa", rileva la Corte dei Conti nell'esaminare la copertura delle leggi varate nell'ultimo quadrimestre del 2005. La magistratura contabile evidenzia che l'incidenza sul Pil della spesa primaria corrente ha quasi raggiunto il 40 per cento (0,6 punti più che nel 2004), "ritornando su un livello prossimo a quello del 1993. E' stato, pertanto, mancato - sottolinea la Corte dei Conti - l'obiettivo di finanza pubblica definito nella legge Finanziaria per il 2005, che fissava un tetto del 2 per cento alla crescita delle spese delle amministrazioni pubbliche".

Infine, i tagli alle spese degli enti locali previsti dall'ultima finanziaria sono troppo severi e quindi rischiano di diventare irrealizzabili. Le modifiche anno per anno dei meccanismi di correzione creano difficoltà agli enti e possono spingere a non rispettare i limiti previsti.

 

11 maggio

Dal Medio Oriente alla guerra nucleare: la resistibile ripresa della proliferazione

  Angelo Baracca

  La situazione geopolitica sta cambiando, sotto l’incalzare di una crisi delle risorse che sembra difficilmente risolvibile nel contesto degli attuali modelli e rapporti economici, in cui i margini del sistema economico mondiale si restringono e meccanismi di sfruttamento si fanno quindi più sfrenati. L’Iran è al centro di una bufera in larga misura strumentale, perché si trova nel cuore di un’area strategica che giocherà sempre più un ruolo centrale nei rapporti mondiali: la regione mediorientale, che si estende dal Mediterraneo al Caucaso e all’Afghanistan. Con l’inasprirsi delle tensioni gli Stati Uniti non sanno trovare altra strada che la supremazia militare: dietro il paravento dell’Iran stanno in realtà rilanciando una nuova fase della proliferazione nucleare, cercando di mettere l’intero regime di non proliferazione costruito nei decenni passati, di passare al riscorso effettivo delle armi nucleari, e di realizzare nuovi tipi di armi che cancellino la fondamentale distinzione tra armi nucleari e convenzionali. Passeremo in rassegna i tanto contestati programmi nucleari di Teheran, inquadrandoli nei problemi e nelle prospettive della regione, ed analizzandone poi la proiezione nei ben più inquietanti programmi nucleari che, con molto meno clamore, si stanno sviluppando in modo irresistibile in estremo oriente.

La montatura del pericolo dell’Iran

Dovrebbe ormai essere chiaro che il pericolo nucleare costituito dall’Iran non è che una montatura, come ieri lo furono le armi di distruzione di massa dell’Iraq: anche se bisogna riconoscere che i dirigenti iraniani sembrano fare di tutto per attirarsi un attacco militare.

L’Iran aderisce al Trattato di Non Proliferazione Nucleare (Tnp), che venne concepito proprio con lo scopo di promuovere la commercializzazione dell’energia nucleare per usi civili, impedendo però la proliferazione delle armi nucleari: obiettivo intrinsecamente contraddittorio dato l’ineliminabile carattere dual-use della tecnologia nucleare. Così il Tnp sancisce per tutti i paesi il diritto di sviluppare programmi nucleari civili, sotto il controllo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Iaea), e per gli Stati nucleari il dovere di cooperare al loro sviluppo. Altri paesi lo hanno fatto senza che vi siano state rimostranze: il Brasile (che ha sviluppato fino agli anni `80 programmi nucleari militari!) sta realizzando la tecnologia per arricchire l'uranio, e ha in programma addirittura di commercializzarlo. La vicenda iraniana ricorda quella dell'Iraq anche per il fatto che fu Washington negli anni ‘60 ad offrire allo Scià (come ad altri governanti, per attirarli nell’orbita occidentale) un faraonico programma di centrali nucleari, con la prospettiva di realizzare anche la bomba. Anche l'Europa ha uno scheletro nell'armadio, l'associazione dell'Iran al 10% nel consorzio europeo Eurodif di arricchimento dell'uranio: oggi congelata, ma che potrebbe forse spiegare le goffe mosse attuali della Ue e la sua subalternità agli Usa. In ogni caso, è sconcio che a trattare con l'Iran per la Ue siano Gran Bretagna e Francia, che sono in stato di clamorosa violazione del Tnp non avendo ottemperato all'obbligo di disarmo nucleare, e la Germania, che può realizzare la bomba in tempi brevissimi.

Teheran in effetti ha compiuto qualche infrazione, nascondendo alle ispezioni della Iaea alcuni impianti nucleari (ma chi si è scandalizzato quando si apprese che anche la Corea del Sud aveva eseguito esperimenti segreti di arricchimento, violando il Tnp?). Poi li ha aperti alle ispezioni, e fino ad oggi la Iaea afferma di non avere trovato indizi di attività militari, anche se non è ancora in grado di escluderle (ammesso che questo sia mai possibile, se è vero che tanti paesi, aderenti al Tnp, hanno avuto nel passato programmi nucleari militari segreti: addirittura la Svizzera e la Svezia, ma anche l'Italia stando alle memorie di Lelio Lagorio.

Quali sono realmente gli scopi e lo stato del programma nucleare iraniano? La notizia data in modo clamoroso dalla dirigenza iraniana ad aprile dell’ottenimento dell’arricchimento è stata un coup de theatre. Ammesso che sia vero, con 164 centrifughe potrebbe avere ottenuto l’arricchimento di qualche grammo di uranio al 3%: ma la strada è in salita, occorrerà molto tempo per arricchirne grosse quantità, anche a questo arricchimento, insufficiente per usi militari. E comunque il passaggio ad un arricchimento superiore al 90% necessario no appare così immediato come si tende a far pensare; e può essere difficile da realizzare in assoluto segreto, per l'entità delle operazioni, delle centrifughe (3.000 – 5.000) e degli impianti necessari. Quando Israele avviò negli anni `60 la costruzione del laboratorio nucleare sotterraneo di Dimona (nascosto a qualsiasi ispezione, poiché Israele non aderisce al Tnp), le ricognizioni aeree sovietiche rivelarono l'entità e indirettamente la natura dell'impianto: e ne parlò il New York Times.

Non si può escludere ovviamente che l’Iran abbia programmi nucleari segreti, ben nascosti e protetti in gallerie sotterranee: se tali programmi esistessero, dovrebbero venire immediatamente arrestati e smantellati. Ma nulla può giustificare oggi un attacco militare all’Iran, tantomeno con armi nucleari! Esso risulterebbe comunque in larga misura inefficace per neutralizzare eventuali programmi di questo tipo, mentre mieterebbe sicuramente migliaia di vittime, poiché il proposito è di ritardare di alcuni anni il programma decimando i tecnici nucleari iraniani. In ogni caso, il “pericolo” denunciato da Washington sarebbe assolutamente fantasioso, se non fosse strumentale: l’Iran non avrebbe mai la possibilità di raggiungere il territorio americano, e se anche avesse realizzato missili capaci di colpire Israele, un eventuale attacco sarebbe assolutamente suicida (Israele ha munito di missili nucleari tre sommergibili forniti dalla Germania, che sarebbero capaci di una ritorsione devastante).

È probabile che l’accanimento della dirigenza iraniana sul programma nucleare abbia più un ruolo di politica interna. Teheran nutre anche ambizioni di giocare un ruolo di potenza regionale, ma esse vengono sistematicamente frustrate dall’Occidente. L’Iran potrebbe comunque ambire realmente a produrre energia elettronucleare: la sua ricchezza di petrolio e gas può non essere un’obiezione valida, dati l’approssimarsi del picco di estrazione e la necessità per il paese di mantenere le sue riserve per il commercio esterno. L’intenzione di Teheran di aprire una borsa del petrolio in Euro costituisce poi un forte motivo di allarme per Washington.

 

COMMENTO
Il secolo nuovo della sinistra
di EZIO MAURO

QUELL'APPLAUSO del Parlamento in piedi, che dura a lungo e si allarga a tutta l'aula, dividendo la destra, è il vero atto d'inizio della nuova legislatura.

Nell'omaggio a Giorgio Napolitano eletto Capo dello Stato c'è prima di tutto la consapevolezza di aver compiuto il supremo rito della liturgia repubblicana, scegliendo un uomo adatto a rappresentare l'intero Paese e tutto il sistema politico in un ruolo super partes, dopo una presidenza di grandissima popolarità come quella di Carlo Azeglio Ciampi. Poi c'è la coscienza di aver compiuto il destino della sinistra, per troppi anni monco per l'anomalia comunista e la sua legittimazione parziale. Ancora, c'è la presa d'atto che il centrosinistra ha non solo una maggioranza autonoma, ma la capacità di esprimere una politica per le istituzioni, con gli uomini giusti. E infine, c'è la certezza che il nuovo settennato sarà difficile, perché il quadro politico italiano resta terremotato, in una sorta di eterna campagna elettorale permanente.

Le poche parole e i gesti sobri di Napolitano prima e dopo l'elezione sembrano adatti al momento. Oggi non c'è bisogno di retorica, come ieri non c'era bisogno di una campagna elettorale, perché l'incarico non la consente. Per un candidato come Napolitano parla la biografia politica, culturale, istituzionale, per il programma parla la Costituzione. Non c'è altro, perché non ci deve essere altro. Il Presidente è nato come deve nascere nell'aula di Montecitorio, senza compromessi, liberi i partiti - naturalmente - di valutare le loro convenienze di schieramento.

Napolitano non ha aggiunto nulla alla storia della sua vita: si è solo limitato (com'è giusto, perché lo suggerisce la Costituzione) ad auspicare una convergenza più ampia del suo schieramento politico di sostegno.

La sua presidenza super partes, dunque, nascerà da un dovere costituzionale di ruolo, da un'educazione istituzionale, da una convinzione personale: non da patti che sarebbero tutti impropri, perché la Repubblica non può e non deve patteggiare nulla con nessuno, in quanto tutti i cittadini - qualunque sia la loro rilevanza pubblica - sono nel suo perimetro, e nello stesso momento nessuno è un partner speciale o privilegiato con cui la presidenza va preventivamente concordata.

Questa lunga biografia repubblicana, la storia di un uomo sempre a sinistra, che ha coltivato un forte senso delle istituzioni e una cultura europea, è stata offerta dal centrosinistra a tutto il Parlamento, fin da domenica, per cercare un punto d'incontro che portasse maggioranza e opposizione ad essere insieme parti costituenti del nuovo settennato. Toccava alla sinistra che ha vinto le elezioni il diritto-dovere di fare la scelta. Ma le toccava anche l'obbligo di cambiare schema per il Quirinale rispetto alle Camere, ricercando l'intesa con l'opposizione. E qui la destra si è divisa. Fini ha contestato il metodo del candidato unico, con la mancanza della rosa e dunque della scelta. Berlusconi ha annunciato al Paese che non avrebbe comunque mai accettato un comunista al Quirinale. Casini ha continuato ad inventare candidature, di regola durate non più di mezza giornata.

D'Alema ha rappresentato l'opzione più forte, dunque più difficile da digerire per la destra. Tanto forte che gli stessi Ds hanno sentito il bisogno di correggere l'imprinting leaderistico e di partito del loro presidente con una sorta di proposta programmatica alla destra: compiendo un grave errore. Nella corsa al Quirinale si possono trattare i consensi, com'è sempre avvenuto, non i poteri del Presidente, che sono indisponibili e fissati una volta per tutte. E soprattutto: lo Stato (in questo caso il Presidente che lo rappresenta) non tratta preventivamente con una sua parte, anche se questa parte si comporta spesso come l'Antistato.

Questo errore ha scoperto D'Alema a sinistra, non ha smosso a destra quel grumo ideologico che abita il cuore e la mente di Berlusconi. Ma il falò sacrificale di D'Alema ha in qualche modo spianato la strada a Napolitano perché la destra mentre negava la pregiudiziale anticomunista faticava a dire due volte no ad un nome che viene dal vecchio Pci. Anzi: Casini e Fini sono stati ad un passo dal convincere Berlusconi. Prima di loro c'è riuscito Bossi, che dice spesso a voce alta ciò che il Cavaliere pensa nel profondo. Così ancora una volta Berlusconi ha fatto ciò che ha voluto dell'intera Casa della Libertà e i moderati di destra si sono mostrati ieri come sempre politicamente sterili, improduttivi, enunciatori di progetti che non riescono mai a tradurre in pratica. E sullo sfondo risuona la voce della destra estrema di Calderoli, l'unico parlamentare capace di dire ieri che non riconoscerà il nuovo Capo dello Stato.

La destra ha perso l'occasione di votare un galantuomo per il Quirinale, ma soprattutto di aprire un percorso politico di dialogo con la maggioranza sul terreno istituzionale. Con il risultato di mostrarsi divisa tra due culture e due pratiche politiche quasi inconciliabili al primo vero test pubblico poche settimane dopo il voto.
Ecco perché Prodi esce più forte da questa prova, dopo la tenuta della maggioranza in Parlamento, e può affrontare l'ultimo decisivo passaggio, quello della formazione del governo.

Più forte, a dispetto di tutto, è anche la prospettiva del partito democratico, ogni giorno più inevitabile e urgente. L'applauso del Parlamento per Napolitano presidente saluta infatti anche l'approdo di una storia incompiuta per troppi ritardi e troppi errori, quella della sinistra italiana. La compie, non per caso, un uomo che ha partecipato con i più giovani alla rottura della vecchia tradizione comunista (avvenuta in Italia purtroppo solo dopo la caduta del Muro, e non prima), e che negli anni precedenti aveva però saputo puntare la sua bussola di minoranza sull'Europa nell'eredità di Altiero Spinelli e sulla socialdemocrazia, nella convinzione di superare la frattura storica con i socialisti. Proprio qui, a ben vedere, sta la radice del riformismo italiano, che è l'identità culturale del post-comunismo e può sboccare in una compiuta cultura "democratica" senza aggettivi, con il nuovo partito. In questo senso, e con ritardo, l'elezione di Napolitano chiude il Novecento politico italiano, una storia che non sapeva chiudersi. L'applauso a un Presidente che viene dalla storia del Pci significa che anche la politica è entrata nel secolo nuovo: e la sinistra, finalmente, attende ora l'inizio di una nuova storia.
 


9 maggio

Il Cavaliere al bivio
di MASSIMO GIANNINI

BEN SCAVATO, vecchia talpa. A voler usare la metafora marxiana, si può dire che l'intelligente operazione politica lanciata dal centrosinistra con la candidatura di Napolitano al Quirinale sta per essere coronata dal successo. È quasi certo che domani il senatore a vita diessino diventerà presidente della Repubblica. Ma la novità dell'ultima ora è che l'ascesa al Colle del leader migliorista del vecchio Pci potrebbe avvenire addirittura oggi pomeriggio a larga maggioranza (i due terzi del Parlamento) grazie ai voti determinanti del centrodestra. Manca solo un via libera definitivo di Berlusconi.

La svolta, se c'è davvero, è ancora del tutto ipotetica. L'uomo di Arcore è abituato a cambiare idea in meno di un'ora. Figuriamoci cosa può succedere in un'intera notte.

Con mezzo partito forzista che schiuma ancora di rabbia anti-comunista, e con la Lega che ha già predisposto il rito dell'estrema unzione per la Cdl. Ma se il terzo scrutinio di oggi dovesse riflettere le indicazioni emerse dal lunghissimo vertice del Polo di ieri sera, il prodigio si potrebbe compiere davvero. Per non perdere la faccia di fronte al mondo dopo aver negato pubblicamente l'esistenza di una "pregiudiziale anti-Ds", Fini e Casini sono quasi riusciti a convincere il Cavaliere a votare Napolitano, con tanto di maggioranza qualificata. Il prezzo da pagare, con una scelta contraria, è il più alto in politica: l'assoluta irrilevanza. Il ragionamento dei leader di An e Udc non fa una piega: "L'esperimento-Ciampi lo dimostra: meglio farlo subito, concorrendo all'elezione e cointestandosi il settennato insieme al centrosinistra".

Il Cavaliere si è quasi convinto. Ma all'ultimo momento, sul tavolo del vertice del Polo Umberto Bossi ha calato il solito asso di bastoni. "Se votate Napolitano, sappiate che per noi la Cdl è morta e sepolta". Di fronte all'ennesimo ricatto del Senatur, Berlusconi si è impaurito, e la trattativa si è nuovamente arenata. La notte porterà consiglio. Ma nel frattempo, un primo e parzialissimo bilancio politico di quanto sta accadendo si può già trarre.
L'Unione può uscire rafforzata da questa prova. La sua mossa è riuscita. La candidatura di Napolitano ha ricompattato la coalizione. Ha restituito piena dignità alla Quercia. Ha riposto negli archivi della storia l'"interdetto comunista". Ha dimostrato che la maggioranza uscita vincitrice dal voto del 9-10 aprile non vuole imporre un "candidato di sfondamento", ma per la più alta magistratura repubblicana sa indicare un uomo delle istituzioni, una personalità di garanzia.

Soprattutto, ha gettato lo scompiglio nelle file avversarie. Ha fatto saltare gli equilibri interni alla Casa delle Libertà.

Il Polo rischia di uscire a pezzi da questa contesa. Nel centrodestra si ripropone il mortale dualismo che ha marchiato a fuoco l'intera legislatura. Berlusconi e Bossi contro Fini e Casini. Ma mai come oggi, il Cavaliere è di fronte a un bivio. Deve scegliere, a partire dal test decisivo del voto sul Quirinale, tra due diversi modelli di destra. Da una parte c'è l'"intifada azzurra". Il no senza se e senza ma a qualunque candidato "che abbia il cuore a sinistra". La campagna rutilante e donchisciottesca contro i cosacchi immaginari che esistono nella sua mente, e purtroppo anche in quella di un pezzo di società italiana, da lui stesso astutamente alimentata a pane e insicurezza. La minacciosa e sovversiva jacquerie fiscale, che in una babele di linguaggi e di messaggi lo spinge a barattare l'elezione di un presidente con l'esazione delle tasse.

Dall'altra parte c'è il "soccorso azzurro". L'idea che una scelta responsabile possa contribuire a trovare una via d'uscita bipartisan dalla palude italiana di questi giorni. La prospettiva di una piena e mutua legittimazione dei due schieramenti, non più assoggettati alla tragica ipoteca del Novecento. Il riconoscimento di una sconfitta elettorale che non è stata una disfatta, e che a maggior ragione obbliga il soccombente a stare in campo con la forza della politica, non con la disperazione dell'ideologia.

Questo è l'incrocio che il Cavaliere si trova adesso sulla sua strada. Finora non ha scelto. Ha oscillato tra i due percorsi possibili. Oggi gli è difficile imboccare il secondo, dicendo sì a Napolitano, dopo aver preso una folle rincorsa verso il primo, nel delirante comizio di domenica scorsa al Palafiera di Milano. Ma per l'uomo di Arcore cambiare rotta, stravolgendo gli schemi e facendo saltare i tavoli, non è mai stato un problema. A condizione che, almeno una volta, liberi se stesso e i suoi alleati dal furore della sequenza ideologica Pci-Pds-Ds, e dal terrore che dietro ogni quinta si nasconda lo spettro di D'Alema.

Si tratta di capire, ancora una volta e come è già accaduto in questi lunghi cinque anni di governo, se il Cavaliere si fa scudo della Lega per tenere a bada An e Udc. Se usa la clava di Bossi per menare fendenti su Fini e Casini, frustrando le ambizioni ereditarie dell'uno e le mire neo-centriste dell'altro. Si tratta di capire se punta scientemente a subire a ogni costo un Capo dello Stato votato solo dalla sinistra, per far lucrare a un'opposizione in assetto di guerriglia permanente un dividendo propagandistico di corto respiro. Oppure se è pronto a contribuire a una scelta di elevato profilo istituzionale, per ricostruire su questo atto fondativo un centrodestra moderno e bipolare con un progetto politico di lungo periodo.

Come l'opposizione di ieri non poteva e non doveva essere cementata solo dall'odio antiberlusconiano, così l'opposizione di oggi non può e non deve essere amalgamata solo dal livore antidalemiano.

L'Unione è tutto fuorché un'invincibile armata. Ma la talpa sta scavando. Stavolta il Cavaliere può dare una mano - prima di tutto a se stesso, e poi anche all'Italia - per uscire dal tunnel.

 

4 maggio

Il monumento alla Libertà di stampa inaugurato a Conselice ricorda la Resistenza ma parla ai giornalisti di oggi

di enzo biagi

È vero: c'è una stagione della vita in cui, più delle speranze, contano i ricordi. E come ha detto un grande scrittore non bisogna averne paura. Appartengo a una generazione nata subito dopo la Prima guerra mondiale e che ha pagato il conto della Seconda. Questi appena passati sono stati i giorni della memoria: il 25 aprile con l'anniversario della Liberazione, ma soprattutto il 22, perché in un piccolo comune della Bassa Romagna, Conselice, provincia di Ravenna, è stato inaugurato il monumento alla Libertà di Stampa. Nella piazza è stata sistemata una vecchia 'pedalina', la macchina che veniva usata una volta nelle stamperie. Ma, durante la guerra di Liberazione, le stamperie erano più che altro clandestine, soprattutto in quella zona, e sfornavano, oltre a migliaia di volantini, addirittura 12 testate, tra cui 'l'Avanti', 'l'Unità', 'La Voce Repubblicana', 'Noi donne' e i giornali delle Brigate partigiane come 'Il Garibaldino' e 'Il Combattente'.

Nessuna di queste tipografie clandestine fu mai scoperta e il monumento voluto dall'Anpi, dalla Federazione nazionale della Stampa e dal Comune di Conselice è dedicato a quei 140 tra donne, uomini e ragazzi che, rischiando la vita, portarono avanti la loro guerra di libertà. Mi sento vicino a quella gente perché i 14 mesi in cui ho fatto il partigiano sono il periodo che ricordo con più orgoglio, ma anche con tanti rimpianti. Ripensare alla vecchia 'pedalina' mi fa rivivere quei giorni: avevo 24 anni e molte illusioni. Ognuno di noi portò nella Brigata non solo le sue idee e la sua storia, ma anche le proprie capacità e quello che faceva nella vita. Così, io che non ero uno stratega e di campagne militari conoscevo solo quelle napoleoniche, pensai che era importante raccontare la situazione del nostro Paese e i principi che ci avevano spinto a combattere i nazifascisti.

Da due anni ero giornalista professionista, così con i pochi mezzi che avevamo, feci un giornale, 'Patrioti', due pagine che stampavamo oltre il fronte, a Porretta Terme. Ne uscirono tre numeri. Non avemmo la fortuna dei compagni di Conselice perché la nostra tipografia una notte fu perquisita, ma grazie a Dio la stampa e la consegna del nostro foglio erano avvenute meno di 24 ore prima. Il primo numero uscì il 22 dicembre 1944; accanto al logo della testata, dove oggi viene messa la pubblicità, scrissi: Esercito Partigiano, Divisione Bologna. L'editoriale portava come titolo 'Perché l'Italia viva'.

Cominciava così: "Ciò che hai fatto non sarà dimenticato. Né i giorni, né gli uomini possono cancellare quanto fu scritto col sangue. Hai lasciato la casa, tua madre, per correre alla montagna. Ti han chiamato 'bandito', 'ribelle'; la morte e il pericolo accompagnavano i tuoi passi. Scarpe rotte, freddo, fame, e un nemico che non perdona. Sei un semplice, un figlio di questo popolo che ha sofferto e che soffre: contadino o studente, montanaro od operaio. Nessuno ti ha insegnato la strada: l'hai seguita da solo, perché il cuore ti diceva così. Molti compagni sono rimasti sui monti, non torneranno. Neppure una croce segna la terra dove riposano. La tua guerra è stata la più dura, tanti sacrifici resteranno ignorati. Contadino o studente, montanaro od operaio, ti sei battuto da soldato. E da soldato sono caduti coloro che non torneranno. Giosué Borsi, poeta e combattente, lottò e cadde per un'Italia più grande, ma soprattutto 'per un'Italia più buona'. Anche tu vuoi che da tanti dolori nasca un mondo più giusto, migliore, che ogni uomo abbia una voce e una dignità. Vuoi che ciascuno sia libero nella sua fede, che un senso di umana solidarietà leghi tutti gli italiani tornati finalmente fratelli. Vuoi che questo popolo di cui sei figlio viva la sua vita, scelga e costruisca il proprio destino. Non avrai ricompense, non le cerchi. Sarai pago di vedere la patria, afflitta da tante sciagure, risollevarsi. Uno solo è il tuo intento: perché l'Italia viva".

Lo firmerei ancora e sono grato a tutti quelli che hanno voluto ricordare con il monumento di Conselice quanto è importante, per la democrazia, una stampa libera. E mi permetto un consiglio ai miei giovani colleghi, soprattutto alla luce di quanto, nel nostro mestiere, è successo in questi ultimi anni: andate a vedere la 'pedalina' e riflettete sull'epigrafe dettato da Giampiero Saviotti: 'Donne e uomini della Resistenza contro la dittatura fascista e gli invasori nazisti fecero vivere la libertà di stampa conquistando insieme l'unità della Patria, la democrazia, la Costituzione, la pace tra i popoli'.

 

 

2 maggio

FALLITI ECCELLENTI / DOPO LA CADUTA

Vado, fallisco e ritorno

 Cragnotti produce vino. Sama fa affari con lo Stato. Gaucci impazza ai Caraibi. E poi Tanzi, Fiorini, presto anche Ricucci. La 'seconda volta' dei 'Mister Default'

Edi Roberto Di Caro e Vittorio Malagutti

Ma Ricucci quando torna? Perché tornerà anche lui, prima o poi, tanto vale metterlo nel conto. Se qualcosa insegna la recente storia italiana è infatti che crollano gli imperi ma, tempo due o tre anni, i generali disarcionati te li ritrovi in sella a qualcos'altro, baldanzosi come prima, in più la furia di prendersi la rivincita sul mondo brutto e cattivo, i nemici, i falsi amici, i magistrati e le ex fidanzate. Con un tempismo invidiabile, Ricucci il ritorno se l'è preparato fin dal momento in cui la magistratura lo ha estromesso dalle sue aziende. Sulla carta era fuori dalla holding Magiste e si era consegnato mani e piedi al gruppo di consulenti graditi alle Procure di Roma e Milano. In realtà, ricostruiscono i magistrati che l'hanno fatto arrestare, manovra per sistemare la sua cospicua quanto inutile quota del 14 per cento di Rcs-Corriere della Sera.

Altri hanno avuto forse reazioni meno veloci, e per alcuni una sentenza è parsa per un istante inchiodarli alle loro responsabilità. Ma per i più le sentenze passano, e il business ricomincia.

Intanto è sempre colpa di qualcun altro. Cirio e Parmalat mandano a picco le finanze di decine di migliaia di famiglie italiane con i loro bond spazzatura? Quei titoli li hanno piazzati le banche, io non ho truffato nessuno, si dissociano angelici Sergio Cragnotti come Calisto Tanzi.
Il Perugia e la Fiorentina falliscono e scompaiono travolti da perdite e debiti? È una congiura dei poteri forti a cui ho pestato i piedi, si chiamano fuori Luciano Gaucci come Vittorio Cecchi Gori.

È la solita storia. Anche quando tracollò un colosso mondiale come il gruppo Ferruzzi fu nient'altro che un diabolico agguato dei salotti buoni della finanza: parola di Carlo Sama che prese il timone poco prima del suicidio di Raul Gardini. Oggi Sama fa base a Montecarlo, e il suo non è affatto un buen ritiro da pensionato in Costa Azzurra. Il marito di Alessandra Ferruzzi viaggia di continuo tra Roma e il Sudamerica, dove possiede allevamenti e terreni agricoli per decine di migliaia di ettari in Argentina, Paraguay e Brasile. La sua holding Fersam, con sede in Lussemburgo, si è comprata una piccola partecipazione, il 2 per cento circa, nella Bonifiche Ferraresi, società quotata in Borsa. Sempre agricoltura, quindi, nella tradizione di casa Ferruzzi.
Persino il governo italiano tre mesi fa ha concluso un accordo con la Fersam per sviluppare nuovi progetti in campo agroindustriale. Si comincia dal settore saccarifero. Da parte pubblica è sceso in campo l'Istituto sviluppo agroalimentare, in sigla Isa. E così il reprobo Sama, condannato per lo scandalo Enimont a tre anni di reclusione (evitati con l'affidamento ai servizi sociali), ma assolto dalle accuse di falso in bilancio nelle società di famiglia, è diventato partner e consulente dello Stato.

Anche Cragnotti è tornato alla terra: produce vino. Fallita la Cirio, poi venduta a pezzi e bocconi dai commissari straordinari, l'ex patron della Lazio è in attesa del processo per il crack. Sui giornali pontifica sui furbetti, dichiarando autorevolmente: "Sto con Fazio, in Italia c'è troppa politica". Sottobanco, stando all'inchiesta del pm milanese Luigi Orsi, avrebbe tentato di ricomprarsi parte del gruppo fallito usando prestanome e finanziatori compiacenti, cinque 'cavalieri bianchi' per i quali nel marzo di quest'anno è stato chiesto il rinvio a giudizio. Intanto 'la fattucchiera', come Enrico Cuccia lo aveva soprannominato, si è ritagliato una nuova attività: le vigne. L'azienda di famiglia, presieduta dalla moglie Flora Pizzichemi, si chiama Corte alla Flora, come l'etichetta del vino rosso che produce, un Nobile di Montepulciano.
Formalmente Cragnotti non c'entra. Nel consiglio di amministrazione dell'azienda, però, i suoi figli Andrea e Massimo siedono insieme a una vecchia conoscenza del padre come Vinicio Fioranelli, che di mestiere fa il procuratore di calciatori. Ai bei tempi della Lazio campione d'Italia, l'allora attivissimo Cragnotti faceva coppia fissa con Fioranelli, uno dei re del calciomercato: un business che muoveva decine di miliardi di vecchie lire: almeno sulla carta, visto che in realtà erano baratti, come scambiarsi figurine Panini.

Poi la bolla è scoppiata. E il pallone ha prodotto dissesti a catena, segnando il destino di molti imprenditori, da fama e ricchezza all'onta del dissesto. Un'ecatombe: Vittorio Cecchi Gori con la Fiorentina, Enrico Preziosi con il Como e poi recidivo con il Genoa, Luciano Gaucci con il Perugia, Franco Corbelli con il Napoli, più svariati altri. Ultimo, nel marzo di quest'anno Giuseppe Gazzoni Frascara, un tempo proprietario di Idrolitina, Pasticche del Re Sole e Dietorelle, ancora l'anno scorso presidente del Bologna: "Io fallito? Neanche per idea. Sono in default", svicola l'interessato. Molto british, distaccato e un filo rigido, ma la sostanza è la stessa.

Tutti spariti dopo il fischio del tribunale? Macché. Se Cecchi Gori di calcio non vuole neppure più sentir parlare, Corbelli s'è dato al basket comprando la blasonata Olimpia Milano.
Ma il clou è Gaucci, l'ex ferrotramviere detto 'Big Luciano' per i modi eccessivi più ancora che per la stazza.

Inseguito da un mandato di cattura per una bancarotta fraudolenta da 80 milioni di euro, Gaucci vive nella parte orientale dell'isola di Santo Domingo, 20 chilometri da Punta Cana, villetta a due piani numero 23 (in affitto, dichiara) sulla spiaggia di Bavaro Beach che una classifica americana elenca tra le dieci più belle al mondo.
Pesca d'alto mare, il suo hobby preferito. Ma si può rinunciare, solo per un crack, alle passioni di una vita: calcio, cavalli e donne? Ovviamente no. Dei tre, contro il luogo comune, forse sono proprio le donne a dargli meno grattacapi: dopo Elisabetta e Iris ora è la volta di una sventola locale, alla faccia di chi gli vuole male. I cavalli lo hanno fatto ricco (comprò Tony Bin per 6 milioni di lire, vinse tutto, lo rivendette ai giapponesi per 6 miliardi), ma lo hanno messo nei guai (la Federcalcio gli inibì persino l'ingresso agli spogliatoi della sua squadra per aver tentato di corrompere un arbitro regalandogli due cavalli): anche a Santo Domingo ne tiene 110 in una 'finca' a una quarantina di chilometri dalla sua residenza. Col calcio è un po' più complicato, rispetto ai tempi in cui si comprava, in prima persona o tramite figli e società, Catania, Sambenedettese, Viterbese, Perugia e tentava pure la scalata al Napoli: ma si rifà provando con i suoi strali a mettere a soqquadro il già dissestato mondo del pallone come e più di quando fingeva di far giocare il figlio di Gheddafi (una partita in due anni, per la cronaca). Attacca pancia a terra la società di intermediazione calcistica Gea World e tutti quelli che per breve o lungo periodo ci hanno avuto a che fare, in primis Alessandro Moggi, figlio di Luciano, cioè la Juventus e Chiara Geronzi, figlia di Cesare, cioè Capitalia, nonché Franco Carraro, presidente Federcalcio: loro gli avrebbero svuotato le tasche, non lui le casse del Perugia. Geronzi, per parte sua, ha annunciato querela.

L'altra bolla che è scoppiata, oltre al calcio, è quella della new economy. La caduta ha falciato, oltre ai risparmi di milioni di investitori, anche quegli imprenditori che non si sono sfilati in tempo. Molti sono usciti di scena, altri sono riapparsi in fretta. Come Virgilio Degiovanni, il vulcanico inventore di Millionnaire che alle convention esaltava le folle di aspiranti ricchi, poi inventore di Freedomland, che vendeva decoder per usare il televisore come computer: nell'ultimo mese dell'ebbrezza telematica piazzò benissimo in Borsa la sua creatura. La magistratura lo indaga. Il titolo crolla. Lui patteggia dieci mesi con la condizionale. Due anni e Degio torna in pista: lancia Movyda, portale per la telefonia mobile, con una rete di venditori: insomma lo stesso meccanismo del vecchio Millionnaire.

Nelle vesti del mercante d'arte, sua grande passione, ritroviamo invece Bruno Sonzogni, dopo la cacciata a fine 2001 dalla Bipop, la banca dei miracoli della new economy che lui aveva fatto grande.
Indagato per associazione a delinquere, il processo iniziato a Brescia dovrà ricominciare a Milano, chissà quando. Anche lui respinge le responsabilità ("Hanno voluto la mia fine") e cerca la rivincita ("Indagate sulla Consob").

Fuochi di paglia, queste rivincite?
Non è detto. Anzi. Ricordate Florio Fiorini e Giancarlo Parretti, la coppia di acrobati della finanza che una quindicina d'anni fa tentò l'assalto a Hollywood per conquistare il controllo della Metro Goldwyn Mayer? Dopo fallimenti e processi a catena, rieccoli entrambi sulla piazza. Per il fallimento della sua Sasea, Fiorini s'è fatto quasi quattro anni di carcere in Svizzera (dove la galera si fa): ma gli amici di un tempo non devono averlo tradito se ora lui, che negli anni Ottanta era direttore finanziario dell'Eni, fa oggi il consulente petrolifero ai quattro angoli del globo, piazze preferite l'Est europeo e la Libia.

Al suo ex-socio Parretti è andata anche meglio. In galera c'è entrato quattro volte, ma non ci è mai rimasto a lungo. L'altr'anno si è inventato la Fondazione Walter Pierpaoli per le scienze della vita: vende un medicinale a base di melatonina, presentato come una sorta di elisir di lunga vita. Ai tempi della Metro Goldwyn Mayer s'accontentava dell'immortalità di celluloide, ora punta anche a quella del corpo.

Neanche lui è stato abbandonato dai vecchi amici. Chi c'è nel consiglio della sua Fondazione? Cesare De Michelis, cioè Marsilio editore, fratello dell'ex ministro Gianni. Che alle ultime elezioni politiche ha persino arruolato Parretti nelle file del suo Nuovo Psi, candidato alla Camera in Umbria, numero 2 subito dopo il capo: 3.994 voti alla lista, che includeva la Nuova Dc di Rotondi.
Un mezzo fallimento.
Ma, ormai l'abbiamo visto, in Italia si può sempre provare di nuovo.



Chi vuole la rivincita di classe
 Il voto dell'Italia ricca è pessimo ma non insensato: è il voto del capitalismo anarcoide che consiste nel profitto privato dentro la rovina del pubblico

Su tutti i giornali si legge che bisogna scoprire il mistero italiano, la ragione profonda del berlusconismo. La perdurante tenacia del Nord ricco nel voto al personaggio più lontano, più diverso, nel costume e nel modo di essere dall'Italia che lavora e che produce. Ma si tratta di un equivoco.

All'Italia che lavora e che produce il costume interessa poco o punto: ciò che le interessa è la difesa dei soldi, del particulare e, come ha detto il sindaco della Margherita di un paese vicino a Cuneo, il centrodestra è riuscito a tranquillizzare i pagatori di tasse, i contribuenti Iva meglio del centrosinistra.

Nessuno può capirlo meglio di un cuneese, per così dire all'estero, come io sono: il giorno in cui Romano Prodi fece la sua sortita sulla tassa di successione, mi sentii cuneesamente perso. Parlare agli italiani di tasse? Di una tassa da ripristinare? E parlarne in maniera incerta senza neppure dire con chiarezza chi avrebbe colpito e di quanto sarebbe stata?

Ha detto del voto conservatore dei cuneesi Marco Revelli il figlio di Nuto, il comandante partigiano: "Provo un po' di vergogna nel constatare quanto i cuneesi si siano convertiti al facile messaggio dell'individualismo possessivo di Silvio Berlusconi. Hanno goduto della crescita e ora non vogliono contribuire ai costi".

Anche io mi vergogno, caro Marco, ma la democrazia è fatta così, premia i desideri e gli interessi di massa, non si lascia guidare dalle élites. Nell'Inghilterra dell'immediato dopoguerra accadde, sia pure all'incontrario, qualcosa di simile: il voto punì Churchill e i conservatori che avevano vinto la guerra e salvato la patria e premiò i laburisti per un motivo simile a quello della nostra elezione: rifiutare ulteriori sacrifici, uscire dai prezzi da pagare allo Stato e cogliere il bene possibile.

Le nostre previsioni di unionisti sul risultato elettorale erano sbagliate per persistente fiducia nelle ragioni nobili, pubbliche, del bene dello Stato e per preesistente sottovalutazione degli interessi personali e dei desideri.

Il governo Berlusconi era certamente pessimo e umiliante per il bene pubblico, con una politica estera di apparenze e di nessuna sostanza. Un sistematico attacco alla giustizia e in genere alle leggi, la nessuna serietà delle promesse, il sistematico 'qui lo dico e qui lo nego', una politica borbonica e magari fascista dell'apparire più che dell'essere, progetti faraonici senza la necessaria copertura finanziaria. Secondo una legge che non si vergognava di chiamarsi legge-progetto, proiettata in un futuro di chiacchiere con i cantieri per lavori da eseguire in un numero indefinito di anni.

Ma dentro questa politica di facciata e di propaganda c'era qualcosa di molto concreto: l'appoggio sistematico all'Italia ricca. In questi cinque anni lo Stato e le sue finanze sono andati alla malora, ma i profitti delle grandi compagnie sono cresciuti, i dividendi sono raddoppiati, i manager si sono spartiti stock option milionarie. I commercianti si sono rimpannucciati con il cambio dell'euro, i grandi ladri hanno fatto bottini strepitosi e così gli avventurieri della finanza.

Il voto dell'Italia ricca è pessimo ma non insensato, è il voto che dal berlusconismo è stato predicato e premiato, il voto del capitalismo anarcoide che consiste nel profitto privato dentro la rovina del pubblico.

E Berlusconi è stato l'uomo giusto per gestire questa vergognosa rivincita di classe. Ha fatto credere ai poveri che erano diventati ricchi e alla res publica di aver migliorato, modernizzato, una società che intanto finiva in gran parte nel dominio della criminalità organizzata.

Ultima impostura fallita la cattura del boss Provenzano nella perdurante impunità della borghesia mafiosa che faceva i soldi nella tregua da Provenzano diretta. Una cattura arrivata tardi per poche ore a vantaggio dell'Unione come il voto degli italiani all'estero a cui tanto aveva lavorato il sempre fascista onorevole Tremaglia.

 

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