

31 gennaio
'Goulart venne ucciso'. Parola
di 007
Il presidente brasiliano vittima del golpe
militare del 1964, è stato ucciso da agenti uruguaiani
Stella
Spinelli
“João Goulart, il
presidente brasiliano vittima del golpe militare del 1964, è stato
ucciso da agenti uruguaiani aiutati dalla Cia, su richiesta del
Brasile”. Questa la rivelazione che ha diviso l'opinione pubblica
brasiliana, rilasciata dall'agente dei servizi segreti del governo di
Montevideo, Mario Neira Barreiro. Lui stesso, in carcere a Charqueadas
per traffico di armi, furto e formazioni di bande armate, dice di aver
avuto un ruolo di primo piano nell'operazione. La sua verità è che
Goulart, detto Jango, morto ufficialmente per attacco cardiaco il 6
dicembre 1976 in Argentina, dove scontava l'esilio forzato, fu
avvelenato nell'ambito dell'Operazione Scorpione. Un ordine, quello di
ucciderlo, che sarebbe partito dal dittatore Ernesto Geisel e recapitato
da Sérgio Paranhos Fleury, delegato dell'allora Dipartimento di Ordine
politico e sociale di San Paolo e uomo chiave fra la dittatura
brasiliana e l'intelligence uruguaiana. Secondo la spia uruguaiana,
dietro a tutto ci sarebbe stato il supporto finanziario della Cia, che
avrebbe anche sborsato una fortuna per ottenere informazioni sull'ex
presidente, detronizzato dopo aver annunciato una riforma agraria con
tanto di espropriazioni di terre. Per giustificare il ruolo
dell'Uruguay, una spiegazione molto semplice: il paese era completamente
dipendente dal Brasile.
Pareri.
Una versione che però non convince. Pur non venendo scartata dagli
studiosi, li divide. Per Jorge Luiz Ferreira, storico dell'Università
federale Fluminense e autore di una biografia su Jango, è impossibile
scartare questa tesi, ma non esiste la minima prova a suffragio.
“L'Operazione Condor fu una realtà. Secondo gli studi, i militari del
Cono Sud erano convinti che, con la politica estera di Jimmy Carter, i
regimi militari avessero i giorni contati. Quindi, tutto indica che
avevano necessità di fare pulizia, liberandosi dei politici
d'opposizione”, ha dichiarato il professore al giornale Folha. Ma poi
ribadisce che ha molti dubbi, derivanti anche dalle condizioni di salute
dell'ex presidente. “E' utile ricordare i suoi trascorsi medici. Era un
cardiopatico, nel suo ultimo anno di vita non saliva le scale senza
avere il fiatone. In quell'epoca, nessuno teneva conto del colesterolo”.
Lo storiografico descrive un Jango buona forchetta, bevitore di whisky e
gran fumatore: “Il primo infarto gli venne quando era vice di Juscelino
e stava andando in Messico”.
Altra
visione. Lo storico Marco Antonio Villa, dell'Università
federale di São Carlos e autore del libro “Jango, un profilo” (2004),
dice che affermare che il presidente fu assassinato è un tentativo mal
riuscito di riscrivere la sua biografia. Villa si appella al fatto che
nel momento della morte l'ex presidente non avesse nessuna influenza
politica e che quindi nessuno avrebbe guadagnato dalla sua morte.
“Costruire una figura coinvolta nella resistenza alla dittatura e per
questo assassinato è una versione inseguita da chi vuol trasformare
Jango in un presidente riformista”, ha aggiunto. E spiega di credere
tanto meno nel coinvolgimento del delegato Sérgio Fleury. A suo dire,
Fleury non aveva nessun ruolo di leader nella repressione in Brasile.
Troppe
coincidenze. Secondo Villa, la Commissione della Camera che
investigò nel 2001 sulla morte di Jango non trovò nessun elemento che lo
inducesse a pensare a un omicidio. Il deputato federale Miro Teixeira,
relatore della Commissione, accennò a circostanze dubbiose, ma non poté
dire se fosse stato ucciso o meno. L'unica “certezza assoluta” è che
Goulart venne perseguitato. Serafim Jardim, segretario di Juscelino
Kubitschek, presidente del Brasile dal 1956 al 1961, e autore di "Juscelino
Kubitschek: Onde está a Verdade?", difende invece la tesi dell'omicidio
e ribadisce che sia giusto investigare ancora sulle morti di Juscelino,
Jango e Carlos Lacerda (membro dell'Unione democratica nazionale,
deputato federale dal 1947 al 1955, e governatore del Guanabra dal '60
al '65): "Queste morti sono grandi coincidenze. Io ho convissuto con
Juscelino e l'ho sentito molte volte dirmi: "Mi vogliono uccidere". E
perché non hanno mai voluto riesumare i corpi?”. Una serie di cose non
chiarite che secondo Jardim rendono tutto troppo nebuloso.
Nel tentativo di
approfondire la questione, Folha ha cercato di contattare sia
l'esercito, che l'ambasciata statunitense, senza ottenere nessuna
informazione rilevante. L'Esercito ha risposto che nessuno oggi sarebbe
in grado di ricostruire quanto avvenuto allora, e dall'ambasciata Usa
fanno sapere che tutti i funzionari allora in servizio hanno lasciato il
paese. Nulla di fatto perfino da Montevideo: “Se lo riterremo opportuno,
chiariremo la questione dopo la pubblicazione dell'articolo”.
30 gennaio

Il Risiko di
Washington
Guam sostituirà Okinawa come
avamposto geostrategico Usa nel lontano Oriente
La 'pacifica invasione', come è stata
ribattezzata dai vertici militari Usa, terminerà nel 2014. Entro
quella data, la popolazione dell'isola di Guam, 14 mila chilometri
di distanza dalle coste della California ma ufficialmente territorio
statunitense sarà aumentata del 25 per cento. I nuovi finanziamenti
predisposti dal Pentagono porteranno 13 miliardi di dollari e
quarantamila uomini, tra marines, ausiliari e contractors, che
scorrazzeranno su un territorio di 549 chilometri quadrati,
aggiungendosi ai 173 mila residenti. Questi ultimi sono solo in
parte soddisfatti della decisione di Washington di fare dell'isola
l'avamposto Usa più avanzato, per mostrare i muscoli alla Cina. Nei
prossimi 6 anni, approderanno sulle spiagge tropicali di Guam
sommergibili Trident, una task force per il lancio di missili
balistici, caccia F-22 e forze speciali della Marina. I bombardieri
B-2 'Stealth' sono già in loco, così come i sottomarini nucleari
d'attacco, e i lavori per preparare la base all'accesso alle
portaerei sono in corso da un pezzo.
Lavori in corso. L'isola cambierà radicalmente, più di quanto
non abbia già fatto nel corso degli ultimi anni. Afflitta da tifoni
e tempeste tropicali, tormentata dai terremoti, intasata dal
traffico e dalla spazzatura, invasa da serpenti che si sono mangiati
tutti gli uccelli, l'isola attende l'arrivo dei marines come una
maledizione, più che una manna dal cielo. E' vero che gli introiti
dell'erario pubblico, che già riceve 500 milioni di dollari,
saliranno a 700 con i nuovi contribuenti. E' anche vero che i lavori
infrastrutturali per l'ammodernamento della base costeranno al
Pentagono 13 miliardi di dollari. Ma, nonostante la legge preveda
che le imposte sul reddito - anche dei militari - debbano essere
reinvestite a Guam, i soldi arriveranno un bel po' di tempo dopo che
i nuovi arrivati avranno già messo piede nell'isola. Prima di
allora, serviranno nuove strade, nuovi porti, nuove scuole. E i
guamiani dovranno anticiparli.
Una vita migliore? Lo sviluppo, per Guam, sarà inevitabile.
Ma ai residenti - 45 percento di etnia 'chamorro', 25 percento
filippini, il resto bianchi o altri asiatici - spetterà ben poco. A
nulla vale che i guamiani siano un popolo straordinariamente
patriottico, che ha sacrificato alla causa delle guerre americane
molti più uomini - in percentuale alla popolazione, ovviamente - che
la stessa madrepatria. "Siamo orgogliosi - ha detto Michael W. Cruz,
colonnello della Guam National Army che ha combattuto in Iraq e
attualmente è il 'coordinatore' loca del piano di espansione della
base - di essere 'la punta dello sperone', ma vogliamo anche che il
governo federale garantisca la stessa qualità della vita anche al di
qua del recinto militare. Vogliamo che la nostra vita sia migliore
dopo l'arrivo dei marines, non peggiore".
Come comportarsi. A Guam arriveranno i marines trasferiti (a
spese anche del governo giapponese) da Okinawa. Tokyo ha siglato un
accordo di 6 miliardi di dollari con gli Stati Uniti per liberarsi
di una presenza durata 60 anni, e per niente fulgida sotto il
profilo del comportamento. Nel 1996, tre marines e un marinaio Usa
rapirono e stuprarono una dodicenne giapponese. Per evitare questo
tipo di episodi, a ciascun militare che metterà piede sull'isola di
Guam verrà fatto seguire uno specifico corso su come comportarsi. I
nuovi arrivati saranno in maggioranza giovani, in maggioranza
single, e in maggioranza guerrieri. Chissà se avranno tempo e
inclinazione per dedicarsi al Galateo.
Luca Galassi
L'ombra del
genocidio
Un migliaio di morti, nuove
violenze: il Kenya sprofonda nella guerra civile
"Abbiamo avuto l'impressione che le
violenze siano andate oltre la questione delle elezioni
presidenziali, assumendo vita propria". La dichiarazione dell'ex
Segretario dell'Onu, Kofi Annan, in visita ieri nella Rift Valley,
teatro in questi giorni di ulteriori, più feroci violenze tra le due
etnie in conflitto in Kenya, non brilla sicuramente per perspicacia.
Da un mese esatto, il Paese è avvolto in una spirale di violenza
inter-etnica, dopo che le elezioni presidenziali del 27 dicembre
scorso hanno decretato la vittoria di Mwai Kibaki, a spese
dell'oppositore Raila Odinga. Questi non ha riconosciuto i risultati
ufficiali, confortato anche dalle denunce degli osservatori della Ue.
Da allora, il Kenya si è trasformato da stabile economia che ha
fatto del turismo il suo fiore all'occhiello, in un inferno.
Massacro preordinato? Le violenze hanno avuto come bersaglio
l'etnia kikuyu del presidente Kibaki. I carnefici sono in
maggioranza Kalenjin, o Luo, politicamente all'opposizione. Dopo la
rielezione di Kibaki, la popolazione Kalenjin è insorta, scatenando
disordini ferocemente repressi dalla polizia. Con il passare dei
giorni, e l'aumentare dei morti (un migliaio in un mese), il movente
politico ha progressivamente perso rilievo rispetto alla matrice
sociale, etnica, tribale. Il copione è sin troppo familiare,
nell'Africa post-coloniale del divide et impera: un'etnia si
avvantaggia sull'altra, privandola di diritti, dell'accesso
all'istruzione, all'economia, alla vita politica. Si arricchisce a
sue spese, le confisca le terre o la costringe a venderle. La
esclude dal godimento delle ricchezze del Paese, dai posti di
lavoro, dai privilegi, dal potere. Per questo alcuni hanno avanzato
l'ipotesi che il massacro sia stato preordinato, e che la
persecuzione nei confronti dei kikuyu sia stata attuata con
scientifica premeditazione. L'ampiezza della carneficina e le
modalità di 'eliminazione' del nemico (assalito a colpi di machete,
bruciato vivo, lapidato) alimentano sempre più lo spettro del
genocidio, la cui ombra si staglia inquietante sul presente di un
Paese sino ad ora tra i più solidi e stabili del continente.
Colloqui difficili. Nel fine settimana sono state almeno 65
le vittime delle violenze scoppiate nella Rift Valley. Tanti sono i
cadaveri allineati all'obitorio di Nakuru, capoluogo della regione.
Ma i morti sarebbero molti di più, secondo fonti locali. Non tutti i
corpi, infatti, sono stati condotti nelle camere mortuarie di Nakuru.
Ancora incerto il bilancio nella città di Naivasha, non lontana da
Nakuru, dove solo ieri sarebbero state uccise oltre 30 persone. Gli
sfollati in tutto il Paese sono oltre 250 mila, e il futuro del
Kenya è oggi nelle mani del presidente Kibaki e del rivale Odinga.
Ciascuno dovrà nominare tre negoziatori per i colloqui di pace, che
si terranno entro una settimana. Almeno secondo quanto annunciato da
Kofi Annan.
Luca Galassi
Indonesia, morto
Suharto
Mohammed Suharto divenne generale
trucidando gli autonomisti indonesiani. E presidente con il massacro
di mezzo milione di comunisti
Mohammed
Suharto era nato nel 1921 da una famiglia contadina a Kemusu, un
villaggio della regione di Yogyakarta, seconda città dell'isola di
Giava. E' nato quindi nella dominante e maggioritaria etnia
giavanese, comprendente 150 dei 225 milioni di indonesiani. I suoi
genitori si separarono mentre era in fasce, e venne cresciuto nelle
diverse famiglie create dai secondi matrimoni della madre. Dopo aver
lavorato in banca in un villaggio giavanese, si arruolò
nell'esercito dei colonizzatori olandesi nel 1940. In due anni venne
promosso sergente.
Con l'invasore Nel 1942 i giapponesi invadono il suo Paese,
nell'offensiva che li porterà a controllare gran parte dell'Estremo
oriente. Suharto si arruola quindi nell'esercito degli invasori. I
suoi biografi ufficiali scriveranno in seguito “credeva che la
cooperazione con l'invasore fosse la via più rapida per ottenere
l'indipendenza indonesiana dagli olandesi”. Dopo la sconfitta
nipponica, Giacarta si proclama indipendente. Le truppe batave
tornano in massa, provando a riguadagnare il controllo militare
dell'arcipelago; Suharto si arruolò finalmente nell'esercito locale
e combatte la guerra indipendentista per cinque anni. Nel '47 gli
olandesi hanno il controllo di Giava, inclusa Yogyakarta. Suharto
riesce a condurre una divisione all'assalto del suo capoluogo
provinciale e strapparlo ai colonizzatori nel 1949. Quello stesso
anno gli olandesi si ritirano e accettano l'indipendenza del paese.
Repressore Dal 1950 fu incaricato di portare a termine i
lavori sporchi di repressioni delle ribellioni locali o di settori
pro colonialisti. Nel '57 divenne capo di stato maggiore. Nel 1960
generale di brigata. Dal 1962 venne mandato a cercare di strappare
la Guinea occidentale agli olandesi, che si erano tenuti quell'estremità
orientale dell'arcipelago; la provincia diventerà indonesiana col
nome di Irian Jaya. Dal '63 divenne il capo del 'Comando strategico'
un organo designato a intervenire d'urgenza per le ''emergenze
nazionali''.
Con la Cia Quando nel 1965 i due maggiori centri di potere
indonesiano vennero in conflitto, Suharto ne approfittò per sfilare
la sedia presidenziale sotto a Sukarno, primo capo di stato dell'indonesia
indipendente e promotore del movimento dei Paesi non allineati, dopo
la conferenza mondiale convocata a Bandung in Sumatra nel 1955. A
metà anni '60 esercito e Partai Komunis (il partito comunista
d'Indonesia) erano le entità più influenti a Giacarta. Il partito
comunista era il terzo al mondo, dopo quello russo e cinese: tre
milioni di iscritti. Nell'ottobre '65 alcuni gruppi di militari
dissidenti di esercito ed aviazione provarono un golpe; vennero
sterminati da Suharto, che ne approfittò per diventare il militare
più quotato nella capitale. Una inchiesta interna alle divise indicò
il partito comunista come orditore del complotto. Suharto s'incaricò
di sterminare i comunisti per rappresaglia. Il generale intratteneva
da decenni proficui rapporti con i locali ufficiali Cia, come
risulta da una deposizione collettiva resa dai responsabili
dell'agenzia di Giacarta al congresso Usa negli anni '80.
Quasi Mezzo milione di trucidati Suharto ricevette dalle mani
del responsabile Cia per l'indonesia, Joseph Lazarski, una lista di
nomi eminenti del partito da 'disattivare'. Il calcolo esatto venne
fissato tra i 5mila e i 6mila nomi. Man mano che venivano
'disattivati' i dirigenti indicati in una lista, Suharto ne chiedeva
una nuova, dopo che Lazarski e il capo politico dell'ambasciataEdward
Masters controllavano uno a uno che il compito fosse stato portato a
termine. Tutti i nomi vennero 'disattivati' per sempre, salvo chi si
trovava già a Mosca o in altri paesi del Blocco. Intanto gli uomini
di Suharto rastrellavano città e campagne, razziando le sedi del
partito comunista una ad una. Ci sono calcoli del partito comunista
in esilio che parlano di oltre un milione200mila morti in quel
semestre. Per il Washington Post nel 1966 i morti erano oltre
500mila, per la Cia nel '68 250mila, con il massacro descritto “la
maggiore carneficina che storia ricordi”. Una commissione
indipendente ha stabilito in 350mila il numero più attendibile per
gli uccisi nella 'purga comunista'. Un numero pari al triplo delle
vittime, dai due lati, dei 12 anni del conflitto del Vietnam.
“Abbiamo dato una grossa mano a questi ragazzi nel loro lavoro” ha
detto al 'Washington Post' nel 1997 Robert Martens, esperto
dell'ufficio politico dell'ambasciata Usa nel 1965. Martens disse ai
media di aver impiegato due anni a compilare le liste. “A nessuno
interessava che venissero trucidati, visto che erano comunisti”, ha
dichiarato ai media Howard Federspiel, allora esperto d'Indonesia al
Dipartimento di stato, sezione intelligence. “Avevamo più
informazioni sui dirigenti comunisti di quanto ne sapesse lo stesso
governo indonesiano – ha detto Marshall Green, allora ambasciatore
Usa – e anche delle organizzazioni femminile e giovanile, avevamo
raccolto più informazioni di chiunque altro su quella
organizzazione”.
Presidente poco alla volta Nel marzo 1966 Suharto era il
favorito del generale Sukarno al potere. Lo convinse a farsi dare
''pieni poteri per garantire la restaurazione dell'ordine''. Nel
1967 si faceva nominare dal Parlamento ''presidente vicario''. La
figlia di Sukarno (convinto socialista, ma contro la politica
imperialista del blocco sovietico), Meghawati Sukarnoputri, ha
sempre accusato Suharto di essere un ''traditore della fiducia di
mio padre''. Nel 1968 l'elezione definitiva. Suharto ha concesso il
bis altre 5 volte nel 1973, '78, '83, '88, '93 e per l'ultima volta
nel '98. La sua presidenza ha mirato a sopprimere ogni spazio
pubblico per i simpatizzanti comunisti, e a dare sempre maggiore
attenzione a intellettuali manager e politici che si dichiarassero
vicini alle esigenze dell'Islam. Venne dichiarato illegale il Partai
komunis e le associazioni parallele, come la Società dei lavoratori,
il centro delle Donne indonesiane, e l'associazione dei Giovani.
Pro occidente e guerrafondaio Suharto chiuse le relazioni
diplomatiche con la Cina maoista e fece rientrare il paese
nell'organizzazione delle Nazioni Unite, dopo il ritiro di Sukarno
nel 1965. Normalizzò i rapporti con la Malesia (alla quale Sukarno
aveva dichiarato guerra per il controllo del Borneo) per creare una
federazione socialista di Filippine Malesia e Indonesia. Nel 1975
invase Timor est dopo il ritiro dei colonizzatori portoghesi e la
vittoria del fronte locale Fretilin d'ispirazione comunista. L'indonesia
si integrò nella organizzazione regionale di libero scambio Asean e
attrasse investimenti stranieri, fino a beneficiare di un benessere
economico mai raggiunto prima. Ma a Giacarta si era formata una
casta di tecnocrati vicini al presidente che controllavano tutte le
maggiori industrie nazionali. Ognuno degli 8 figli di Suharto aveva
in mano un settore strategico, dai trasporti al petrolio alle auto
alle banche. Nel 1997 la rupia indonesiana sofferse della crisi
delle monete asiatiche; il valore declinò rapidamente, generando
iper inflazione e, a seguire, disoccupazione elevata. Nel 1998
Suharto si fece rieleggere, escludendo ogni discorso sul suo
successore. I dirigenti del Fondo monetario internazionale alla
terza missione in un anno per un prestito speciale che salvasse la
rupia, si dissero pubblicamente scettici di recuperare l'economia
senza ''grossi cambiamenti''. Gli studenti universitari scesero in
piazza. La polizia a inizio maggio sparò ad una manifestazione,
uccidendone sei. Giacarta per una settimana venne razziata da
scontri che portarono a oltre 500 morti. A giugno il vecchio
dittatore democratico si arrese alle pressioni internazionali e dei
suoi vecchi alleati interni, per passare il potere al suo vice,
l'ammiraglio M. Habibie, che resse il potere fino al 2001.
Caucaso russo
senza pace
Guerra senza sosta in Cecenia e
Daghestan; militarizzata l'Inguscezia
“Entro al fine dell’inverno, tutti i
ribelli di Dokka Umarov saranno eliminati”. Parola di Ramzan Kadyrov,
presidente della Cecenia, secondo il quale i guerriglieri sono ormai
ridotti a “un piccolo gruppo di banditi che si aggira sulle
montagne” e a combatterli sono ormai solo “poliziotti ceceni”, non
più truppe federali russe.
Combattimenti in Cecenia. Le notizie che filtrano dalla
repubblica cecena però lo contraddicono. Basta dare un’occhiata a
quelle degli ultimi giorni, che registrano un’intensa attività di
guerriglia, e non solo sulle montagne.
Domenica 20 gennaio due soldati russi sono morti in una battaglia
nei pressi del villaggio di Niki-Khita, nel distretto di Kurchaloi.
Nelle stesse ore altre truppe federali erano impegnate in un
combattimento vicino al villaggio di Benoi, nel distretto di Vedenò.
Mercoledì 23 nelle foreste vicino ad Avtury, nel distretto di Shali,
i militari russi sono caduti in un’imboscata: diversi soldati sono
rimasti feriti. Secondo la guerriglia alcuni sarebbero anche morti.
Il giorno dopo, giovedì 24, i guerriglieri hanno attaccato un mezzo
della polizia cecena nel pieno centro di Grozny, nel quartiere di
Zavod: un agente è morto.
I ribelli sostengono di aver attaccato, lo stesso giorno, anche un
mezzo degli militari russi a Nozhay-Yurt, uccidendone due, ma la
notizia non ha ancora ricevuto conferma.
Battaglie e operazioni militari in Dagehstan. Se in Cecenia i
barbuti di Umarov sembrano tutt’altro che sconfitti, le cose non
vanno meglio nelle confinanti repubbliche di Daghestan e Inguscezia.
Nel distretto daghestano di Kazbek, confinante con quello ceceno di
Nozhay-Yurt, mercoledì le truppe russe hanno ingaggiato una dura
battaglia con i ribelli, uccidendone almeno tre. Non sono state
fornite notizie sulle perdite russe.
Nel vicino distretto di Untsukul prosegue intanto da oltre un mese
l’occupazione del villaggio di Gimry da parte delle truppe federali
russe: a metà gennaio i servizi segreti russi (Fsb) dichiararono
‘zona di operazione antiterrorismo’ di questo piccolo paesino di
montagna, dove pochi giorni prima un parlamentare locale era stato
ucciso in un agguato dalla guerriglia islamica, orinandone
l’occupazione militare.
Inguscezia blindata contro le opposizioni. La stessa cosa, ma
su più vasta scala e con inquietanti risvolti politici, sta
accedendo nella repubblica d’Inguscezia. Venerdì 25 l’Fsb ha
dichiarato le aree urbane di Nazran e Magas e i villaggi di Barsuki
e Nesterovskaya ‘zone di operazione antiterrorismo’, dispiegando per
le strade forze speciali e mezzi blindati dell’esercito per
prevenire il “rischio attentati” in occasione delle manifestazioni
dell’opposizione anti-putiniana previste per oggi. “Il regime vuole
intimidire la gente per impedirle di scendere in strada e
manifestare”, ha dichiarato alle agenzie Magomed Yevloev, uno dei
leader dell’opposizione. “Se l’esercito interverrà per disperdere le
manifestazioni, Nazran si trasformerà in un campo di battaglia”.
Le proteste riguardano i risultati locali delle elezioni dello
scorso 2 dicembre: il partito di Putin avrebbe ottenuto il 99 per
cento dei voti con un affluenza al 98 per cento, ma l’opposizione ha
raccolto le firme di 88mila persone (il 55 per cento degli elettori)
che non hanno nemmeno votato.
29 gennaio
Aumentano gli
assassini |
Omicidi di natura politica si
stanno moltiplicando nel paese centroamericano. A farne le spese
soprattutto sindaci e aderenti a organizzazioni sociali
|
 |
Scritto per noi
da Claudia Pessina
Il 9 gennaio Wilmer
Moises Funes, sindaco di Alegria, e Zulma Jaqueline Rivera,
responsabile della Uaci (Unidad de Adquisiciones y
Contrataciones ), sono stati uccisi mentre si recavano per una
visita in una comunità vicina. L’omicidio è probabilmente di
natura politica.
I
fatti. Ad Alegria, piccola cittadina del municipio di
Usulutàn conosciuta per la sua laguna verde, da due settimane
aleggia un’aria di tristezza e incredulità per la morte di
Wilmer Moises Funes, 30 anni, e Zulma Jaqueline Rivera, 22 anni:
due innocenti che si impegnavano per la comunità e che la
mattina del 9 gennaio vennero uccisi da un uomo incappucciato,
che dopo aver fermato la loro auto per chiedere informazioni, ha
sparato alcuni colpi d’arma da fuoco. Con loro c’era anche
l’autista che è sopravvissuto all’omicidio e che ora è sotto
protezione.
Wilmer Moises Funes,
sindaco di Alegria e Zulma Jaqueline Rivera, responsabile della
Uaci (Unidad de Adquisiciones y Contraciones ) stavano andando
in una comunità vicina per visitare un progetto.
Nessuno di loro era
armato, perché nessuno di loro si sarebbe aspettato di venir
ucciso a sangue freddo.
Le
continue minacce. Ma Funes avrebbe potuto forse
prevederlo: all’inizio del suo mandato, nel maggio 2006, aveva
ricevuto minacce per avere denunciato irregolarità
nell’amministrazione precedente, rappresentata dal partito di
destra Arena.
Questo però non dimostra
che proprio il partito che governa El Salvador sia all’origine
dell’omicidio. Nemmeno il partito di sinistra, l’Flmn (Frente
Farabundo Martì para la Liberaciòn Nacional), del quale Funes
faceva parte, ha voluto accusare il suo avversario politico,
anche se ha chiesto alla polizia “un’inchiesta oggettiva,
professionale, perché questo crimine, che ha colpito un
funzionario politico che è anche il padre di 3 figli e una
innocente di soli 22 anni, non resti impunito”. La polizia
sostiene di aver fermato alcuni sospetti, ma il nome di un
colpevole non è stato fatto. I parenti, gli amici e la
popolazione di Alegria ora sono spaventati e indignati per il
crescente aumento degli omicidi e della violenza, che troppo
spesso restano impuniti.
L’assassinio di Alegria
ha fatto tornare indietrocon la memoria al tentato omicidio del
padre di Wilmer Moisés Funes, che sopravvisse un anno fa ad
un’imboscata simile.
E proprio il padre, al
funerale, ha dichiarato che quello che non sono riusciti a fare
con lui, sono riusciti a farlo con suo figlio.
|
24 gennaio
Crisi finanziaria, lavoro a
rischio nel mondo
Ilo: “Cinque milioni di disoccupati in più”
Nel 2008
l’incertezza economica può fare crescere al 6,1 per cento la quota dei
"senza lavoro" del pianeta. L'allarme per l’occupazione mondiale nel
Rapporto annuale dell’Organizzazione internazionale del lavoro. Sono un
miliardo e 300 milioni i lavoratori con una paga giornaliera inferiore a 2
dollari. In Europa rimane alta la disoccupazione giovanile.
di FEDERICO PACE
Sarà un anno difficile
per l'occupazione quello che è appena iniziato. La flessione economica,
conseguente alla crisi dei mercati finanziari e al rialzo deciso del prezzo
del barile di petrolio, rischia di creare cinque milioni di disoccupati in
più. Con l'effetto che la percentuale mondiale dei senza lavoro salirà al
6,1 per cento. Ma non basta. I numeri potrebbero essere ancora più
preoccupanti qualora la crescita economica globale del 2008 dovesse
rivelarsi più bassa delle stime indicate dal Fondo Monetario al 4,8 per
cento. A lanciare l’allarme è l’Organizzazione internazionale del lavoro in
occasione della presentazione, avvenuta oggi a Ginevra, del Rapporto annuale
“Tendenze Globali dell’Occupazione".
Il rapporto sottolinea
come nel 2007 la robusta crescita dell’economia mondiale pari al 5,2 per
cento, che ha creato 45 milioni nuovi posti di lavoro, non è però riuscita a
ridurre la quota dei disoccupati. Inoltre, se l’anno appena concluso aveva
però portato una stabilizzazione dei mercati del lavoro nel mondo, il 2008
rischia di essere un anno caratterizzato soprattutto da “contrasti e
incertezze”. E seppure anche in quest’anno verranno creati milioni di posti
di lavoro, secondo le parole di Juan Somavia, il direttore generale
dell’Ilo, la “disoccupazione rimane troppo alta e rischia di salire ancora ,
anche fino a livelli mai visti prima d’ora” e seppure “il numero di persone
occupate sia ai livelli più alti storicamente”, sono ancora troppe le
persone anche occupate che “continuano a rimanere nel gruppo dei lavoratori
più poveri, vulnerabili e sfortunati”.
Minore impatto postivo
della crescita economica sulla creazione di posti di lavoro e incapacità
dello sviluppo a creare nuovi posti di lavoro a condizioni dignitose. Le
sfide che coinvolgono il mercato del lavoro mondiale sembrano essere
immutate se non divenute ancor più ardue. Nel 2007 il numero dei senza
lavoro è stato pari a 189,9 milioni, quasi tre milioni in più rispetto a
quelli del 2006. Negli ultimi dieci anni c’è stato un incremento pari a 22,1
milioni con un tasso di crescita del 13 per cento. Ora il tasso di
disoccupazione globale è del 6 per cento e rischia di salire ancora.
Complessivamente dal
1997 a oggi il tasso di occupazione si è ridotto di un punto percentuale e a
rimetterci sono stati soprattutto gli “under 24” dove la riduzione è stata
pari quasi a tre punti percentuali.
Vulnerabili e senza diritti
Ad ogni modo a destare più preoccupazione è la quota, ancora troppo elevata,
di coloro che, anche se all’interno del segmento degli occupati, deve
misurarsi con condizioni di lavoro estremamente svantaggiate. Secondo i dati
resi noti dell’Ilo, una persona su due si ritrova ad essere vulnerabile e
coinvolta in impieghi di bassa qualità, con un rischio elevato di non avere
tutele mentre si è privi di previdenza sociale e di alcun diritto sul
lavoro. Il fenomeno colpisce soprattutto l’Asia del Sud, l’Africa
sub-Sahariana e l’Asia Orientale.
Poveri lavori
Quanto alle condizioni economiche non c’è uno scenario migliore. Gli autori
dell’indagine avvertono che quattro lavoratori su dieci sono poveri e quasi
un lavoratore su sei nel mondo, circa mezzo miliardo, non riesce a innalzare
il tenore di vita oltre la misera soglia di un dollaro al giorno con un
miliardo e trecento milioni di lavoratori che si ritrovano a vivere con una
paga quotidiana che non supera i due dollari. Con percentuali che superano
l’80 per cento nell’Africa sub-Sahariana e nell’Asia del Sud. Per uscire da
questa situazione, ribadiscono dall’Ilo, è necessario ridurre la
disoccupazione e la povertà attraverso la creazione di lavori dignitosi.
Stagnazione d'Europa
Nel Vecchio Continente e nei paesi sviluppati l’impatto della crisi dei
mutui sembra avere già fatto sentire il suo effetto con una riduzione di 240
mila posti di lavoro. Complessivamente, fino ad ora, l’impatto è stato
controbilanciato dalla forte crescita economica e del mercato del lavoro che
si è registrata in Asia. Il mercato occupazionale nell’Unione europea tra il
2006 e il 2007 ha mostrato segni di stagnazione e il numero dei disoccupati
è cresciuto di 600 mila unità con un tasso che è rimasto pressoché immutato
al 6,4 per cento dal 2003 a oggi. Il tasso di occupazione è poi cresciuto
(+0,4 per cento) ai valori minimi degli ultimi cinque anni. Seppure il tasso
di disoccupazione dei giovani nell’Unione europea è cresciuto meno di quello
complessivo, il segmento più giovane dei lavoratori rischia ancora di
rimanere disoccupato 2,4 volte di più degli adulti.
Il sorpasso dei servizi
Nel 2007, infine, la quota degli occupati nel settore dei servizi ha
raggiunto il 42,7 per cento dell’occupazione totale. Le persone oggi
impiegate nell’agricoltura sono invece il 38,7 per cento mentre
nell’industria, in leggera ripresa, è attivo il 22,4 per cento della forza
lavoro mondiale.
Volontà di
potenza |
Esercitazioni aero-navali
nell'Atlantico, si dispiega la propaganda russa |
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Mosca mostra i muscoli e lancia 'la più
grande operazione aeronavale' dal crollo dell'Unione Sovietica. Da
lunedì, al largo dell'Oceano Atlantico, è impegnata una task force
composta dalla portaerei Kutsnezov ('la più grande nave da guerra
mai costruita' in Unione Sovietica), due fregate e numerosi altri
natanti, seguiti da due bombardieri strategici Tupolev e altri
caccia. I due aerei hanno sorvolato ieri il Golfo di Biscaglia per
condurre un lancio simulato di missili Cruise, affiancati da
apparecchi anti-sottomarino e 'monitorati' a distanza da caccia
norvegesi e francesi. L'esercitazione di fronte alle coste di due
Paesi alleati della Nato è l'ultima dimostrazione di forza del
Cremlino, giudicata da alcuni come mera propaganda politica in vista
delle elezioni presidenziali del 2 marzo prossimo.
Controbilanciare
l'espansione della Nato. Per anni, dal collasso
dell'Unione Sovietica, i generali hanno lamentato una flotta
aerea e navale incapace di prendere il largo o di volare per
mancanza di carburante o di pezzi di ricambio. Durante i due
mandati da presidente, Putin ha lavorato molto per ricostituire
quello che un tempo era il vanto sovietico, in vista non solo
delle elezioni, ma soprattutto della costruzione di uno scudo
anti-missile che gli Stati Uniti stanno progettando nella
Repubblica Ceca e in Polonia. Uno spettro, quest'ultimo - il
Premier polacco deciderà a febbraio se dare l'ok alle richieste
di Washington - che ha portato Putin alla decisione di
ripristinare le missioni a lungo raggio dei bombardieri,
ordinando l'aggiornamento dei mezzi a propulsione nucleare,
necessario - secondo il presidente russo - per 'controbilanciare
l'allargamento dell'Alleanza Atlantica nell'Europa dell'Est'.
Estetica
della paura. Nell'ambito di tale sfoggio simbolico di
potenza militare, le autorità russe hanno anche deciso di
riprendere le parate militari nella Piazza Rossa, una
consuetudine interrotta nel 1990. Nel prossimo anniversario del
giorno della vittoria, che si celebra il 9 maggio, è prevista
infatti una grande sfilata militare nella quale verranno esibiti
anche gli armamenti più recenti, i carri armati T-90 e i missili
balistici a lunga gittata Topol-M. L'ultima parata risale al 9
maggio 1995, quando soldati e mezzi militari sfilarono nella
Prospettiva Kutuzovsky, anzichè nella Piazza Rossa. Un'attivista
per i diritti umani citata dalla Bbc, Valeria Novodvorskaya, ha
spiegato che tale operazione è in linea con l'ideologia e la
filosofia sovietica. "Quali progressi mostrare - si chiede la
Novodvorskaya - in una società semi-totalitaria? Poichè non si
possono far sfilare oleodotti, si mostra al mondo la potenza
militare, nel pieno rispetto di quella 'estetica della paura'
tanto cara ai leader sovietici. E tuttavia, tale dimostrazione
di forza non è che simbolica, in quanto si cerca di nascondere
il fatto che non siamo più una superpotenza militare".
L'opinione è condivisa da alcuni
analisti militari, come Alexander Golts, che spiega come la
Russia stia compiendo sì alcuni passi, ma modesti, nel campo
dell'ammodernamento militare. "In termini assoluti, le spese
militari russe sono inferiori a quelle cinesi, francesi e
britanniche, e solo un decimo rispetto a quelle statunitensi",
spiega Golts, secondo il quale i progressi tecnologici vengono
utilizzati come propaganda. "Una propaganda inappropriata, e per
un consumo esclusivamente interno".
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23 gennaio
"I
COMPLICI"
Di Luisa Morgantini*
Articolo
pubblicato su Liberazione oggi, 22 gennaio 2008, in versione
ridotta.
"PALESTINA,
BISOGNA ROMPERE IL SILENZIO.
ITALIA E EUROPA AGISCANO QUI ED ORA"
Le
reazioni tardive e titubanti dell'UE stanno aggravando l'isolamento
e il dramma della popolazione nei Territori
Oltre
quaranta Palestinesi uccisi e centinaia di feriti in una sola
settimana di massicci raid israeliani nella Striscia di Gaza ma
anche in Cisgiordania: tra le ultime vittime anche una donna morta
nell'attacco al ministero dell'Interno di Gaza City, bombardata a
tappeto venerdì 18 gennaio, secondo i piani di guerra e punizione
collettiva contro
"l'entità
nemica
"
in cui vivono un milione e mezzo di persone.
In
queste ore dovrebbero riaprirsi i valichi per carburante e
medicinali, ma dopo che gli abitanti della Striscia sono di fatto
rimasti per ore al buio e al freddo
in
seguito al taglio del combustibile dovuto a quattro giorni
consecutivi di assedio totale, deciso dal Ministro della Difesa, ma
in realtà della guerra, Ehud Barak che ha sigillato tutti i posti di
confine, impedendo anche il transito dei convogli umanitari delle
Nazioni Unite in una Striscia già soffocata da mesi di chiusura,
con i pazienti degli ospedali che non possono ricevere le cure, i
generatori e le pompe dell'acqua fermi, le lunghe code per il pane
davanti ai i forni, e l'Unrwa che annuncia: "Se l'attuale situazione
persiste entro giovedì o venerdì dovremo sospendere la distribuzione
di cibo per 860mila persone". L'Agenzia delle Nazioni Unite che si
occupa dell'assistenza ai profughi palestinesi, però, queste parole
di denuncia le ripete da mesi, forse sfiorando appena gli orecchi
dei "mercanti della politica e della guerra" se ancora in questi
giorni, secondo l'appello lanciato da Amnesty International insieme
ad altre ONG Palestinesi, almeno 13 malati gravi di cancro e di
altre malattie gravissime non possono recarsi negli ospedali fuori
della Striscia per ottenere le cure di cui hanno bisogno, rischiando
di morire nel silenzio come sono già morte per i mancati permessi
almeno 62 persone dall'inizio dell'assedio e come stanno morendo in
queste ore anche i feriti degli ultimi bombardamenti.
E'
difficile star dietro ai numeri dei morti che aumentano di ora in
ora ad ogni check di agenzie, difficile far capire che dietro ogni
cifra ci sono bambini, donne e uomini: "Abbiamo ucciso 810
Palestinesi- dice Diskin, capo dello Shin Bet e il comandante di
brigata a Gaza, il Colonello Ron Ashrov si congratula per aver
condotto un operazione con grande successo la settimana scorsa a
Zeitun, di successo perchè ha ucciso in un solo giorno19 Palestinesi
.
E
non ci sono parole
di condanna dalla Comunità Internazionale e neanche dall'Unione
Europea, a parte le dichiarazioni isolate del Commissario UE per le
Relazioni Esterne, Benita Ferrero-Waldner -che ha chiesto ieri a
Israele "di riprendere le forniture di nafta e di riaprire le
frontiere" agli aiuti umanitari - e le voci sparse e tardive dei
Governi Italiano, Francese e Spagnolo che esprimono preoccupazione
su una "
situazione umanitaria già catastrofica".
Nessuno comunque finora, aldilà delle condanne per l'aggravamento
della crisi umanitaria e delle richieste di far entrare medicine e
carburante, ha preteso con fermezza la riapertura dei valichi della
Striscia al transito di persone e merci e la fine dell'embargo che
strangola Gaza, che rappresenta l'unico modo per fermare anche i
lanci di razzi Qassam sui civili israeliani da parte di estremisti
palestinesi, esecrabili, controproducenti e segno di impotenza e
rabbia, non di resistenza. L'Unione Europea, invece, è rimasta sorda
di fronte alla risoluzione votata lo scorso 11 ottobre dal
Parlamento Europeo con cui si chiede al Governo Israeliano di porre
fine all'assedio di Gaza, e ha dimostrato un'assoluta mancanza di un
ruolo politico efficace per una presa di posizione immediata contro
tutto quello a cui stiamo assistendo, ignavi, sempre e comunque
responsabili.
L'UE
dovrebbe chiedere in primo luogo scusa per non aver contribuito a
porre fine all'occupazione militare israeliana ed alla formazione di
due popoli e due stati; scusa per i morti nella Striscia, per non
aver intimato immediatamente e con voce unanime lo stop ai raid dei
caccia israeliani. Scusa, per non avere ora la forza di proporre
subito l'interposizione di una forza internazionale che protegga
entrambe le popolazioni civili, della Palestina occupata e di
Israele, che garantisca loro quella legalità e quella sicurezza che
40 anni di occupazione militare israeliana hanno spazzato via
insieme alle speranze di pace, nonostante le promesse non mantenute
di Annapolis.
Una
forza internazionale di protezione ai civili, "per creare sul campo
le condizioni minime perché il negoziato possa svilupparsi nel modo
migliore" è stata del resto richiesta, nell'intervista di ieri
sull'Unità, dal Premier Salam Fayyad, che si è anche appellato al
Governo italiano per "agire, insieme agli altri paesi europei, su
Israele perché ponga fine alle punizioni collettive inflitte alla
popolazione civile di Gaza (…)
" .
Invece la politica dell'UE e della Comunità Internazionale ha
contribuito alla divisione del popolo palestinese e
all'indebolimento della sua rappresentanza politica; sprecando
l'occasione
di rafforzarne la coesione rifiutandosi
di sostenere un Governo di Unità Nazionale in cui tutte le forze
politiche della Palestina erano sedute attorno ad un tavolo,
concordi su una piattaforma politica comune che accettava la ripresa
dei negoziati con Israele, il diritto di due Stati per due Popoli
basati sui confini del 1967 e con Gerusalemme Capitale condivisa.
Abbiamo contribuito a creare questa crisi e il terreno per una
logica gradita alla politica Usa e israeliana del "dividi et
impera" lacerando un popolo già abbastanza esausto, occupato e
assediato. Anche ora siamo complici di questa logica se non ci
facciamo portatori del principio che solo una politica di inclusione
può gettare solide basi per una pace giusta e duratura, se non ci
adoperiamo concretamente per aiutare gli sforzi tenaci del
Presidente Mahmoud Abbas e del Primo Ministro Salam Fayyad per
l'unità del popolo e del territorio palestinese, se non rilanciamo
infine messaggi positivi, seppur nella tragedia, come quello
avvenuto pochi giorni fa quando una delegazione di membri di Fatah
nella Striscia di Gaza si è recata in visita dal leader di Hamas ed
ex ministro degli esteri palestinese Mahmoud Az-Zahhar, per
esprimere le condoglianze in seguito all'uccisione del figlio Husam
durante uno dei raid israeliani nella Striscia, martedì scorso, o
come il messaggio di cordoglio del padre del soldato Shalit rapito
da Hamas e che non viene rilasciato perchè il governo israeliano
continua a non voler liberare prigionieri palestinesi.
Con
tutto questo sangue, con tutte queste morti, nessuno può essere
assolto per il proprio silenzio.
L'Unione Europea, così come la politica del Quartetto, sono
responsabili e devono assumersi subito le proprie responsabilità:
pretendere la fine dei bombardamenti e dell'assedio di Gaza -come
chiesta in tutto il mondo dalla società civile riunita nella
campagna End the Siege (
end.gaza.siege@gmail.com;
www.end-gaza-siege.ps)- che il giorno 26 vedrà organizzazioni
israeliane, palestinesi ed internazionali cercare di rompere
l'assedio manifestando insieme al valico di Erez portando convogli
di beni raccolti tra la popolazione israeliana, anche a Roma così
come in altre città del mondo si chiederà la fine dell'assedio di
Gaza. Ma si muovano i governi, le Nazioni Unite per
assicurare
una protezione internazionale della popolazione civile, lavorare per
l'unità del popolo palestinese e per la fine dell'occupazione
israeliana. E soprattutto, è tempo di fare pressioni sul Governo
Olmert per il rispetto delle parole date per la ricerca di pace e
sicurezza, a cominciare dalla fine dei raid a Gaza e dall'espansione
di insediamenti illegali sulle terre dei palestinesi nella West Bank
e a Gerusalemme Est: questa politica porta avanti atti di guerra,
sparge violenza e incita alla vendetta, distruggendo ogni
possibilità di pace e sicurezza per entrambi i popoli.
Bisogna rompere il silenzio e agire: l'Italia e l'Europa raccolgano
l'appello di Fayyad per "salvare Gaza dal dolore", è il modo per
fare cessare anche i rockets che piovono sulla città di Sderot e
sostenere i molti Israeliani e la stragrande maggioranza di
Palestinesi che vogliono pace e diritti reciproci e che ancora
trovano il coraggio di rifiutare e la tenacia di resistere nelle
lotte popolari e non violente.
*Vice
Presidente del Parlamento Europeo
www.luisamorgantini.net;
luisa.morgantini@europarl.europa.eu
Reportage dalla "Striscia" stremata
dalla violenza e strangolata
dalla mancanza di rifornimenti. Scontri al confine egiziano
Buio e poche speranze
per Gaza stremata dalla guerra
Commentatori
israeliani accusano: esagerati gli effetti dell'embargo
Fogne spaccate, attrezzature mediche che non funzionano
dal nostro inviato ALBERTO
STABILE

Povertà e mancanza
d'acqua a Gaza
GAZA - Le acque
nere delle fogne sono tracimate sulle strade della città assediata. Bambini
e adulti devono
farsi strada a piccoli passi in un mare di escrementi. È bastato un giorno
di black-out perché si formasse una fetida palude ad insidiare le case di
Zeitun, lo stesso quartiere in cui la scorsa settimana sono stati uccisi 14
miliziani di Hamas in una sola notte.
Per risospingere indietro la colata, il direttore dell'acquedotto costiero,
l'ingegnere Monther Shoblak, ha dovuto fare il gioco delle tre carte
spostando il poco carburante rimasto da una pompa all'altra, delle 37 ancora
funzionanti su un totale di 132, riuscendo così ad evitare l'inondazione e
la probabile epidemia. Ma non ha potuto impedire che trentamila tonnellate
di liquami non trattati venissero scaricati direttamente a mare.
Situazioni come questa per i prossimi giorni dovrebbero essere scongiurate.
Ai cancelli della Centrale elettrica di Nusseirat, costruita nel 2000 con la
partecipazione della bancarottiera Enron e la benedizione della Casa Bianca,
vediamo arrivare di buon mattino la prima autobotte di carburante con le
insegne dell'Unione europea, che paga anche questa bolletta. La centrale
venne bombardata nel giugno del 2006, dopo il sequestro del soldato Gilad
Shalit da parte di Hamas, e i suoi sei trasformatori vennero distrutti. E
tuttavia resta un bell'impianto, un'isola di decoro e di efficienza, anche
se, stando lì ai cancelli, ho l'impressione che l'autobotte che fa la spola
con il terminale di Karni, per portare il combustibile sia sempre la stessa.
La buona notizie per gli
abitanti di Gaza è, infatti, che il ministro della Difesa, Ehud Barak, ha
autorizzato l'invio di 700 tonnellate di carburante sufficiente a far
funzionare le due turbine della centrale per un paio di giorni. Domani e
dopo ne dovrebbe arrivare dell'altro per un totale di duemila tonnellate e
mezzo, in pratica, il fabbisogno di una settimana. Ma il manager
dell'impianto, Mohammed Shariff, formatosi all'ombra di grandi compagnie
petrolifere in Libia e nel Golfo, ostenta uno scetticismo che lui definisce
"frutto dell'esperienza": "Ci crederò soltanto quando lo vedrò con i miei
occhi".
Shariff, un sessantenne dalla barba ben coltivata, avvolto in un cappotto
doppiopetto, una rarità da queste parti, sembra un uomo tranquillo.
Interpreta il suo lavoro come "una missione" e parla della corrente
elettrica come di un diritto naturale, "come l'acqua che beviamo e l'aria
che respiriamo". Ripete che la centrale è una zona sottratta all'influenza
della politica, in parole povere: né con Hamas né con Fatah. Una compagnia
privata, e basta. Ma cosa risponde a commentatori israeliani che l'hanno
accusato d'aver esagerato gli effetti dell'embargo, decidendo
arbitrariamente di spegnere la centrale?
"Dico che non avevamo più neanche una goccia di carburante, a meno di non
gettare nelle turbine residui pericolosissimi e mandare tutto all'aria. Il
rappresentante dell'Unione Europea è venuto a verificare di persona. Lo
stesso ha fatto il rappresentante delle Nazioni Unite. Qui tutti sono
benvenuti, anche gli israeliani, se volessero farci l'onore. A parte il
fatto che ci sono i media e anche i satelliti".
Una scialba, inanimata tregua scenderà, dunque, sul popolo degli assediati.
La luce tornerà nelle case. I panifici torneranno a lavorare. I responsabili
dell'Ospedale Shifa non saranno costretti a scegliere se continuare le
dialisi o far funzionare le incubatrici. E questo sarà tenuto nel debito
conto al Palazzo di Vetro, dove il Consiglio di sicurezza dell'Onu, su
iniziativa dei paesi arabi, dovrà pronunciarsi.
Ma le concessioni israeliane non riguardano né il gasolio, né la benzina. E
bastava percorrere le strade di Gaza, ieri, per vedere una città ridotta
alla paralisi. Le macchine saranno pure inquinanti, fastidiose e troppo
dominanti sulle nostre vite. Ma cos'è una città di cinquecentomila abitanti
senza ombra di traffico per le strade? Le stazioni di servizio chiuse, i
meccanici seduti a gambe incrociate fuori dalle officine?
La città e la Striscia, poi, sono ormai diventate quasi un unico
agglomerato, una sola entità spaziale chiusa in cui si muovono come animali
in gabbia un milione e quattrocentomila persone senza alcuna possibilità di
uscire. Da giorni migliaia di donne premono alla frontiera di Rafah, con
l'Egitto. Alcune accompagnano malati bisognosi di cure. Niente, la frontiera
resta chiusa. Tensione. Incidenti con i poliziotti egiziani. Risultato: una
cinquantina di feriti soprattutto a causa del calpestio.
Per gli abitanti della Striscia, Gaza era un tempo non solo la capitale, ma
anche la risorsa estrema dove c'è, o dovrebbe esserci, tutto quello che è
essenziale per sopravvivere. Dal suk all'ospedale, dal mercato degli asini
(il venerdì) a quello delle auto usate (il martedì). Oggi è soltanto il
luogo della questua e del mercato nero con la farina che in pochi giorni è
passata da 140 shekels a sacco (50 chili) a 170 shekels, da 40 a 45 dollari.
Come in una scena da film del dopoguerra, lungo il vialone di Jabalia, nella
luce livida della mattinata piovosa, ecco una macchina che avanza
schiacciata da nove sacchi di farina ammonticchiati sul tettuccio. Mustafà
Mugat l'uomo alla guida viene da uno degli uffici dell'Unrwa che sfamano
gratuitamente oltre 800 mila persone. "Questo - dice indicando il castello
di sacchi - è quanto basta a cinque famiglie per una ventina di giorni.
Facciamo il fuoco con la legna per riscaldarci e per cucinare. Le donne
fanno il pane per noi e per i vicini che hanno bisogno".
Cinquant'anni, disoccupato, "nessuno lavora più a Gaza", dice Mustafà che
fino allo scoppio della seconda Intifada, nel 2000, lavorava in Israele con
piccoli subappalti. Una lontana, irripetibile età dell'oro: "Riuscivo a
guadagnare cento dollari al giorno, avevo due automobili, mentre ora sono
costretto a elemosinare un sacco di farina".
A ricordare che tutto questo fa parte di una guerra in
corso, qualche centinaio di metri più in là, un altoparlante nascosto chissà
dove, ma probabilmente, quello di un minareto, manda ordini secchi alla
popolazione. "I civili sono invitati a lasciare le strade e ad andare a
casa. Gli aerei israeliani stanno per bombardare". Naturalmente non succede
ma, mi spiega un amico che questo è un capitolo della guerra dei nervi,
oltre a quella con i Qassam (ieri ne sono sparati oltre venti sul Negev) che
Hamas combatte contro Israele. L'esercito israeliano spesso, prima di
colpire, invita gli abitanti di un certo caseggiato ad uscire per evitare
che facciano da scudi umani a certi "terroristi". La security di Hamas, al
contrario, invita la gente a entrare in casa per proteggere chissà quale
obiettivo.
22 gennaio
La situazione più grave a Milano:
ferme 200 tonnellate di corrispondenza
Tra le cause il progetto di
riorganizzazione, gli scioperi e la mancanza di mezzi
Le Poste nel
caos: milioni di lettere ferme nei depositi, distribuzione in tilt
di PAOLO BERIZZI
MILANO - Centinaia di tonnellate di
posta arretrata, giacenti. Lettere e cartoline in agonia da ormai
due mesi. Ma anche corrispondenza pregiata, raccomandate, atti
giudiziari, cumuli di "prioritaria" ancora da spedire. Uffici
postali e centri di smistamento ingolfati; molti addirittura al
collasso. I benevoli dicono che le poste italiane hanno il fiato
corto. I malevoli che stanno scoppiando. Sullo stato di salute,
forse, la verità sta nel mezzo. Nei tempi difficili che, complici
una serie di fattori - primo fra tutti, sostengono i sindacati, gli
effetti della riorganizzazione del servizio di recapito avviata da
Poste italiane - stanno rendendo la vita amara ai 43 mila
portalettere distribuiti nel nostro Paese.
La crisi delle consegne si è acutizzata a novembre del 2007. E sta
allungando le sue "criticità" in tutta Italia. Da Nord a Sud, in
particolare tra dicembre e gennaio, i tempi di recapito si sono
diluiti fino a diventare, in alcune zone, imbarazzanti. I disagi
maggiori hanno colpito la Lombardia, soprattutto Milano e provincia
con un tappo di 200 tonnellate di corrispondenza arretrata. Qui,
quattro giorni fa, l'amministratore delegato di Poste italiane,
Massimo Sarmi, ha inviato una task force di ispettori per verificare
cosa sta accadendo e perché. Ma Piemonte, Emilia Romagna, Puglia,
Sicilia e Campania non se la passano tanto meglio.
"Sono disagi che hanno riguardato in particolare Milano - dice Sarmi
- e li stiamo risolvendo. La nuova impostazione del servizio di
recapito è basata su un progetto all'avanguardia che stiamo calando
su tutto il territorio. In alcune zone si sono creati dei piccoli
problemi, è vero, ma di qui a poco tutto rientrerà nella normalità".
Mario Petitto, segretario generale della Cisl Poste, la vede un po'
diversamente: "Il progetto di riorganizzazione ha rotto il vecchio
sistema ma, purtroppo, non è ancora decollato. Chiederemo
all'azienda di rivederlo, di aggiustare gli errori che porta con sé,
altrimenti la posta non riesce più a recapitare in condizioni
normali". (Cisl intanto ha annunciato un altro mese di sciopero
degli straordinari, dal 28 gennaio al 26 febbraio, che segue la
protesta durata dal 13 dicembre al 12 gennaio).
In sostanza, il nuovo sistema - che pure i sindacati confederali
avevano sottoscritto il 15 settembre del 2006 - prevede tre tipi di
servizi: quello classico detto "universale", che resta nelle mani
del portalettere ordinario. Quello "dedicato", con postini muniti di
furgoni che servono i "grandi utenti" (società, aziende, studi
professionali, grossi condomìni); e quello "speciale" per servizi
aggiuntivi tipo la consegna di atti giudiziari o di oggetti di
pregio. Diversificando e implementando il servizio di recapito, e
dunque ritenendolo più snello e efficiente, Poste italiane ha
stabilito di poter tagliare 4000 zone di recapito (oggi sono 42
mila). In più ha ridistribuito le forze in campo: centinaia di
portalettere anziani (10-12 anni di servizio) sono stati messi agli
sportelli e sostituiti con nuovi assunti a tempo determinato e con
anche una robusta infornata di "ricorsisti".
Tutto questo, secondo i lavoratori, ha portato a un travaso di
personale e di esperienza. E a un caos generale: con mancanza di
mezzi e strutture idonee a far partire il nuovo sistema di consegna.
Così molte zone sono rimaste scoperte. Dai paesi dell'hinterland di
Milano, Torino e Palermo, al caso di Armeno, piccolo comune montano
in provincia di Novara: 2.200 abitanti e un solo postino. Che si è
ammalato.
Risultato: quattro giorni senza posta. Realtà diffuse, come le
centinaia di cittadini che a dicembre e gennaio si sono trovate il
telefono, la luce e il gas tagliati perché "morosi" nel pagamento di
bollette arrivate in ritardo o non ancora arrivate. E' accaduto a
Boltiere, nella bergamasca. Le Procure di Bergamo e Legnano, di
fronte a decine di denunce, indagano addirittura per interruzione di
servizio pubblico.
16 gennaio
Censura di guerra
Il silenzio devastante
sulla guerra in Afghanistan
Nessuno dice nulla, nessuno ne parla. Eppure i militari
italiani hanno, dallo scorso 13 dicembre, il controllo (si
fa per dire, ce lo hanno solo formalmente) della capitale
Kabul. E ieri un commando talebano (non un attentatore
suicida, un vero commando militare) ha colpito il cuore
della capitale. Che non è il palazzo presidenziale di Karzai,
quello non lo considera più nessuno, ma è l'Hotel Serena.
Dove stanno i ministri stranieri in visita (quello norvegese
è scappato dall'Afghanistan dopo l'attentato annullando
tutti gli impegni) e i loro plenipotenziari. Dove stanno gli
uomini d'affari che curano la ricostruzione lecita e
illecita del Paese occupato dalle truppe straniere.
Eppure agli italiani, sempre dallo scorso 13 dicembre, è
stato affidato l'avamposto di Surobi (o Sirobi, a seconda
della traslitterazione), che sta sulla strada che dalla
capitale porta al Pakistan, crocevia di tutte le incursioni
talebane e teatro di centinaia di scontri armati.
Un accenno molto significativo e assai poco citato lo ha
fatto il ministro degli Esteri D'Alema, nella trasmissione Chetempochefa, dopo una domanda (anche suggerita da
noi) sulla situazione afgana. Il ministro D'Alema ha
candidamente ammesso che, in effetti, la missione italiana è
cambiata rispetto all'inizio, perché modificata è la
situazione afgana.
E adesso, mettiamo le mani su una missione che doveva
rimanere supersegreta, la missione Sarissa, che va avanti
dal 2006. Altri ne avevano già accennato. Noi abbiamo
trovato elementi, e persino il logo, da cui si evince che
l'operazione militare non riguarda affatto la sola zona di
Farah.
Abbiamo mandato il mini-dossier che oggi abbiamo pubblicato
a tutti i segretari dei partiti rappresentati in parlamento,
al ministro della Difesa, a quello degli Esteri al
presidente del Consiglio Prodi e al presidente della
Repubblica Napolitano, che è il garante della Costituzione
Repubblicana.
Il silenzio che abbiamo avuto, per ora, come risposta è un
urlo dirompente. Ma, anche di questo siamo abbastanza certi,
se ne accorgeranno in pochi.
Nessuno parla più di exit strategy. Nessuno parla
più di conferenze di pace. Nessuno parla di Afghanistan.
Tipico, anche questo, di un paese in guerra. Perché quando
si è in guerra, la censura è sempre attenta e vigile. Ma da
noi la censura ufficiale, quella che fa vedere solo le foto
dei nostri bravi militari che curano donne e bambini e
anziani e non mostra le foto dei combattimenti, come
racconta il bel libro di Gianandrea Gaiani, Iraq-Afghanistan,
guerre di Pace italiane, (tutt'altro che un pacifista
essendo lui un esperto di cose militari e se vogliamo
utilizzare le categorie della politica, certamente più
vicino alla destra che non alla sinistra) è aiutata dall'autocensura
di troppi colleghi.
|
Operazione
‘Sarissa’. La guerra
segreta degli italiani in Afghanistan
Entro la fine
di gennaio il Parlamento voterà il rifinanziamento della missione
militare italiana in Afghanistan.
Abbiamo chiesto a tutti i segretari dei partiti rappresentati in
Parlamento, al Presidente del Consiglio e ai ministri di Esteri e
Difesa di esprimere la loro opinione in merito, alla luce di quanto
segue.
La
situazione in Afghanistan è drasticamente peggiorata nell’ultimo
anno. Il 2007 (chiusosi con oltre 7mila
morti, di cui almeno 1.400 civili uccisi in gran parte dai
bombardamenti aerei della Nato) è stato l’anno più
sanguinoso dalla caduta dei talebani (anche per la stessa
Nato: 232 i soldati occidentali morti). Secondo un recente rapporto
del Senlis Council intitolato ‘Afghanistan
sull’orlo del precipizio’ i talebani controllano il
54 percento del territorio afgano, sono attivi in un altro
38 percento (compresa la provincia ‘italiana’ di Herat)
e minacciano ormai la stessa capitale Kabul (la cui
difesa è ora responsabilità dei soldati italiani).
In primavera è prevista un’offensiva talebana senza
precedenti, in vista della quale Stati Uniti e Nato
pretendono un maggiore impegno bellico da parte di tutti gli
alleati, Italia compresa. Al vertice annuale della Nato (in
aprile a Bucarest) all’Italia verrà perentoriamente
chiesto di mandare i nostri soldati a combattere.
Cosa che, seppur in maniera limitata, già avviene da un anno
e mezzo all’insaputa del popolo italiano e in aperta violazione
della nostra Costituzione.
Dall’estate 2006, infatti, è operativa nell’ovest dell’Afghanistan
la Task Force 45 (“la più grande unità di forze
speciali mai messa in campo dall’Italia dai tempi dell’operazione
Ibis in Somalia” secondo l’esperto militare Gianandrea Gaiani)
comprendente i Ranger del 4° Alpini, gli incursori
del Comsubin, il 9° Col Moschin e
il 185° Rao della Folgore. In tutto circa duecento
uomini, impegnati fin dal settembre 2006 nell’operazione
segreta 'Sarissa' (la lancia delle falangi oplitiche
macedoni) volta a combattere i talebani a fianco delle Delta Force
statunitensi e delle Sas britanniche, in particolare nella provincia
occidentale di Farah.
L’ultima battaglia a cui gli italiani hanno preso parte
risale allo scorso novembre (riconquista del distretto del Gulistan),
quando sono entrati in azione gli
elicotteri da attacco italiani A-129 Mangusta e i
cingolati da combattimento Vcc-80 Dardo in dotazione ai
bersaglieri del 1° reggimento della brigata Garibaldi, giunti in
Afghanistan lo scorso maggio. Data dalla quale la Tf-45 impegnata
nell’operazione Sarissa può contare anche sull’appoggio dei nostri
aerei spia Predator e degli elicotteri da
trasporto e assalto Sh-3d.
Durante il governo Prodi l’impegno militare italiano in Afghanistan
è costantemente aumentato sia numericamente (oggi l’Italia
ha in quel Paese 2.350 soldati, 550 in più di quelli
schierati durante il governo Berlusconi) che
qualitativamente (truppe e mezzi da combattimento).
Nei giorni scorsi il sottosegretario alla Difesa, Lorenzo
Forcieri, ha dichiarato che “non bisogna illudersi: dovremo
restare in Afghanistan molto a lungo”.
Il governo italiano continua a parlare di un “ripensamento della
strategia” della Nato in Afghanistan, auspicando un maggior
coinvolgimento dell’Onu e una conferenza di pace. Anche secondo gli
Stati Uniti è il momento di dare una svolta alla missione, ma in
senso opposto: a dicembre il capo del Pentagono,
Robert Gates, ha dichiarato che in Afghanistan “la Nato
deve spostare la sua attenzione dall’obiettivo primario della
ricostruzione a quello di condurre una classica controinsurrezione”.
Alla luce di tutto questo, quale sarà il comportamento Suo e
del Suo partito al momento del voto sul rifinanziamento alla
missione in Afghanistan?
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Escalation afghana
Dal Pentagono arriva il sì all'invio di
3.200 Marines di rinforzo in Afghanistan. Manca solo la firma di
Bush
Il
cambiamento di
strategia era nell'aria da tempo. Ora, sembra che dai
vertici militari stia per arrivare il nulla osta che mancava
per portare anche in Afghanistan la surge, l'aumento di
truppe che gli Usa hanno già sperimentato quest'anno in
Iraq: 3.200 Marines sono già stati messi in preallarme, per
andare ad aggiungersi ai circa 27.000 militari statunitensi
già impegnati nella guerra contro i talebani. L'ufficialità
non c'è ancora, ma il segretario alla Difesa Robert Gates ha
raccomandato l'invio dei Marines per dar man forte
nell'attesa offensiva talebana di primavera. Domani,
mercoledì 16 gennaio, quando il presidente Bush tornerà
negli Stati Uniti dal suo viaggio in Medio Oriente, è
probabile che la questione sarà una delle prime che si
troverà sulla scrivania.
I
militari avevano chiesto più uomini. Se approvato,
il dispiegamento sarebbe una “una tantum” di sette mesi, ha
spiegato un portavoce del Pentagono. Mille uomini,
appartenenti a un'unità di fanteria, sarebbero impiegati
nell'addestramento delle forze afghane, mentre circa 2.200
membri sarebbero mandati direttamente al fronte. Ieri, la
Cnn ha scoperto che i 3.200 Marines coinvolti hanno già
ricevuto la notifica, un fatto che il ministero della Difesa
non ha confermato. Funzionari vicini a Gates, che ha sotto
mano la questione dallo scorso fine settimana, hanno fatto
sapere che il numero uno del Pentagono attende il ritorno di
Bush per avere la sua approvazione finale. Gli analisti
militari statunitensi danno comunque per molto probabile che
la surge si farà. Tuttavia, l'aumento di truppe non
soddisferà completamente i comandanti sul campo, che avevano
richiesto 7.500 uomini di rinforzo. |
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I servizi israeliani divulgano la conta degli omicidi mirati, ma Haaretz
e B'tselem contestano |
Anche questa notte l'aviazione israeliana ha colpito nel nord della Stiscia
di Gaza. Il bilancio dell'ultimo attacco è di tre morti e altrettanti
feriti. Una delle vittime era di Fatah, un'altra dei Comitati di Resistenza
Popolare, legati ad Hamas. I tre sono stati colpiti mentre viaggiavano a
bordo di una jeep nel campo profughi di Shati, dove si trova anche
l'abitazione del leader del partito islamico, Ismail Haniyeh. L'esercito
israeliano sostiene che le vittime erano coinvolte nel lancio di razzi
Qassam contro il territorio israeliano, e conferma che si è trattato di un
omicidio mirato.
Cifre.
Sempre oggi, Yuval Diskin, capo dello Shin Beth, il servizio segreto
intetrno israeliano, ha divulgato alcuni dati sulle operazioni militari di
Tsahal nella Striscia di Gaza negli ultimi due anni. Secondo Diskin, i
palestinesi uccisi in omicidi mirati a Gaza, tra il 2006 e il 2007, sono
stati 810, 200 dei quali non erano chiaramente legati a movimenti armati.
Dunque erano probabilmente civili. Questi dati hanno però sollevato alcune
obiezioni all'interno di Israele: questa mattina il quotidiano israeliano
Haaretz ha pubblicato le proprie statistiche, secondo cui le vittime
palestinesi sarebbero 816 invece che 810. Ma soprattutto, le vittime civili
sarebbero 360 anziché 200.
Minori.
In disaccordo con lo Shin Beth anche l'organizzazione israeliana per i
diritti umani B'Tselem, che ha replicato al rapporto dell'intelligence
sostenendo che 152 delle vittime palestinesi degli attacchi nella Striscia
di Gaza avevano meno di 18 anni, e altre 48 ne avevano meno di 14. Con ogni
probabilità la maggioranza delle vittime minorenni è stata colpita per
errore, sono vittime collaterali, conseguenza del fatto che i lanci di razzi
e le ritorsioni dell'esercito avvengono in zone densamente abitate, alle
porte dei campi profughi. Tuttavia bisogna anche ricordare che, secondo le
direttive di Tsahal, i palestinesi di almeno 16 anni vengono considerati
adulti, e i bambini palestinesi di almeno 14 anni devono essere processati
da tribunali militari per adulti. Al di la delle contestazioni nel merito
dei dati, il conteggio delle vittime degli omicidi mirati ai danni dei
palestinesi non sembra essere vissuto con pudore dai leader israeliani: dopo
la presentazione dello Shin beth, il ministro per la Sicurezza Interna, Avi
Dichter, ha dichiarato con orgoglio che circa il 5percento dei miliziani
della Striscia è stato ucciso. Secondo Dichter i miliziani palestinesi di
Gaza sono in tutto 20mila.
Sicilia, i frutti amari della psicosi-rifiuti
Più che l’emergenza, le
drammatiche immagini di queste tristi giornate napoletane suggeriscono l’idea
del collasso, del crollo.
Non è questa la prima volta
che una città decade e poi rinasce. Anche Napoli uscirà da tunnel, ma i segni
dello sconquasso resteranno visibili a lungo.
Un tempo le città andavano in
declino a causa di malattie endemiche o della loro sterilità economica o
talvolta, come Roma imperiale, sotto il peso delle sue mollezze. Napoli, invece,
sta crollando sotto il peso delle sue monnezze.
All’interno di questo
squallido scenario, ciò che più preoccupa non sono le montagne di rifiuti che
prima o poi saranno rimossi, ma la pervicace volontà dei responsabili politici e
amministrativi di prendere atto del loro fallimento ed andarsene. In altri casi,
per molto meno, sarebbe successo un quarantotto.
Ben vengano De Gennaro,
l’esercito e la mano ferma del governo per fronteggiare la drammatica emergenza.
E dopo? A Napoli è necessaria una strategia d'ampio respiro per ricostruire una
prospettiva generale, la stessa immagine della città, uscita a pezzi da questa
terribile congiuntura.
E' assurdo pensare che
un’opera così grande ed impegnativa possa essere affidata agli stessi
responsabili del disastro. E dispiace rilevare che chi di dovere non abbia
colto questa elementare verità “procedurale”.
Ma, se a Napoli non viene
avvertita, qualcuno da Roma la dovrebbe far valere. Pena la credibilità politica
e di governo del PD e del centro sinistra, in Italia.
La vicenda di Napoli, per
altro, sta provocando indirettamente una serie di contraccolpi negativi anche in
Sicilia dove è arrivata l’onda emotiva originata da quell' esplosiva emergenza.
Molti siciliani temono che
qualcosa di simile possa verificarsi nell’Isola, dove permane una situazione di
stallo nel campo dello smaltimento dei rifiuti.
La Sicilia, infatti, si trova
bloccata in mezzo ad un guado di un fiume periglioso. Dopo avere abbandonato su
una sponda le discariche ora cerca d’approdare sulla sponda opposta dello
smaltimento razionale ed ecocompatibile.
Perciò, invece di farsi
prendere dal panico, bisogna ragionare e, soprattutto, operare per fare uscire
la Sicilia dal pantano in cui è stata cacciata in tutti questi anni di gestione
prima commissariale e, ora, dell’Agenzia regionale dei rifiuti.
Purtroppo, si sta
alimentando, ad arte, una psicosi-rifiuti mirante a sorvolare su una serie di
adempimenti per far partire la costruzione dei quattro termovalorizzatori della
discordia che, a ben pensarci, sono la causa del paralizzante contrasto fra
governo regionale e popolazioni e settori importanti dell’ambientalismo.
A quanto pare, la situazione
potrebbe prendere una piega ben diversa se sono vere le notizie, di ieri,
secondo cui Cuffaro, per smaltire in Sicilia una quota di rifiuti campani, ha
chiesto in cambio (ed ottenuto da Prodi in persona) il via libera alla
costruzione e al finanziamento dei quattro inceneritori.
Ma non è questo il modo
migliore di affrontare e risolvere il grave problema. Con la paura non si
possono governare le situazioni difficili.
Semmai è necessario avviare
una riflessione responsabile sull’intera materia e pervenire a soluzioni più
appropriate, anche a parziale correzione di posizioni obiettivamente esasperate.
In questi giorni, bisogna
lavorare, anche a livello governativo, per giungere ad un giusto compromesso
capace di dare risposte ai problemi di questa pre-emergenza e a quelli, di più
lunga prospettiva, di uno smaltimento eco-compatibile.
Certo, non sarà facile.
Tuttavia, al momento, non s’intravedono altre vie praticabili per sbloccare la
situazione e quindi scongiurare una previsione così infausta.
Lo scoglio più difficile è la
rigida pretesa di voler realizzare ben quattro termovalorizzatori, da più parti
ritenuti quantomeno eccessivi.
Su tale aspetto si scontrano
due visioni antagoniste quanto irriducibili, anche se, eticamente, non sono da
mettere sullo stesso piano.
Da un lato c’è la volontà
cocciuta, dirigistica del governo regionale che ha rifiutato ogni dialogo (anche
con le popolazioni interessate) e dall’altro lato quella di taluni settori dell’ambientalismo
che hanno reagito al dirigismo cuffariano con un approccio un po’ ideologico.
Fra i due litiganti, il terzo
(ossia la più parte delle forze politiche e sociali) si è sostanzialmente
defilato, lasciando che due contrapposte minoranze imponessero alla stragrande
maggioranza dei siciliani i loro discutibili punti di vista.
Col risultato che oggi la
Sicilia si ritrova con 4 termovalorizzatori appaltati sbrigativamente e bloccati
per vizi procedurali, anche in ordine all’acquisizione dei pareri relativi
all’impatto ambientale, col più basso indice europeo di raccolta differenziata e
con ventisette (invece che nove) Ato rifiuti i quali, a parte rare eccezioni,
producono soltanto disservizi, esose tariffe, assunzioni clientelari e perdite
vistose.
Insomma, un altro disastro
annunciato che nessuno si decide a fermare in tempo, facendo applicare, senza
ulteriori rinvii, la legge regionale che impone il dimezzamento di questi
carrozzoni al servizio del più becero nepotismo politico, come quello che sta
emergendo dalle assunzioni fatte all’Ato Palermo 4 e non solo in quello.
Sulla questione-rifiuti
bisogna cambiare registro. C’è ancora tempo per farlo, purché si abbandonino le
sterili recriminazioni e gli interessi di parte, operando per modificare un dato
più che discutibile che, a fronte del più basso indice di raccolta
differenziata, fa registrare in Sicilia un’alta capacità programmata
d’incenerimento.
Un fatto anomalo,
inspiegabile rispetto agli standard europei e nazionali.
Il ripensamento dovrebbe
servire ad attivare un meccanismo virtuoso del ciclo dei rifiuti.
Fra raccolta differenziata e
termovalorizzatori esiste un rapporto inversamente proporzionale che oggi è
fortemente squilibrato a favore dell’incenerimento.
Se si dovesse giungere a un
50 o un 60% di differenziata (obiettivo possibile anche in breve tempo) non
sarebbero più necessari 4 termovalorizzatori, ma ne basterebbero due e/o forse
anche uno, purché sia sempre tutelata la salute dei cittadini.
Agostino Spataro
15 gennaio
La giungla dei biglietti tra
intercity, regionali ed eurostar.
Il paradosso: si paga di più per viaggiare più scomodi...
Treni, viaggio
nella Babele dei prezzi 99 tariffe diverse per Bologna-Milano
di MICHELE SMARGIASSI
"FORSE potevate spendere meno": una trentina
d'anni fa questo avviso accoglieva i passeggeri sui treni. Meno attente ai
bilanci ma più paterne, le Ferrovie dello Stato si preoccupavano che il
viaggiatore non avesse pagato per errore una tariffa eccessiva. E dire che
trent'anni fa era quasi impossibile sbagliarsi: appena quattro categorie di
treni (locale diretto espresso rapido), due sole tariffe (prima e seconda
classe), un solo supplemento (per il rapido), pochissime riduzioni.
Quel premuroso cartello non c'è più: ma chi sale oggi su un treno Fs è quasi
certo di aver speso più di quel che avrebbe potuto. Le ferrovie italiane
sembrano in preda a una frenesia tariffaria. Non c'entra tanto lo
stillicidio dei rincari ufficiali (l'ultimo, dallo scorso primo gennaio)
alla rincorsa delle medie europee. Ad attirare il cliente nei tranelli di un
prezziario impazzito sono gli aumenti "invisibili", che sotto le mentite
spoglie dell'"offerta flessibile" ti precipitano in un labirinto fatale,
dove centinaia di possibili combinazioni prezzo-treno creano una giungla in
cui ogni trasparenza commerciale si perde.
Viaggiatori seduti uno accanto all'altro e diretti alla stessa stazione
possono pagare tariffe differenti anche del 30 per cento, percorsi su treni
locali possono costare più di viaggi identici su treni veloci. Un giovane
viaggiatore che debba andare, che so, da Bologna a Milano, può scegliere tra
99 biglietti e 66 livelli diversi di prezzo che salgono dagli 8.90 euro ai
59.30 a scalini di poche decine di centesimi.
Attenzione però: la metastasi dell'offerta bigliettaia non è follia. E'
razionale interesse aziendale. Con le mani legate dal lungo blocco
governativo delle tariffe, i dirigenti di Trenitalia si sono sforzati negli
ultimi anni di escogitare stratagemmi per aggirare il calmiere e aumentare
in qualche modo gli introiti. Il risultato purtroppo è una moltiplicazione
artificiosa di condizioni e prezzi a cui non corrisponde una reale
diversificazione dei servizi offerti, ma solo un caos contabile in cui il
viaggiatore è alla mercé dell'errore, sempre costoso, sempre tutto a suo
carico.
La disinformazione colposa contribuisce a trasformare l'acquisto di un
biglietto in un percorso pieno di assurdità e di trabocchetti, al termine
del quale c'è spesso una multa saporita. I conti di Trenitalia vanno
migliorando (perdite scese da 1121 a 279 milioni nel primo semestre 2007),
merito senz'altro di una gestione più oculata; ma forse anche un po' del
"tesoretto" accumulato grazie al disorientamento e agli errori involontari
dei clienti. Proviamo a capire come.
Che biglietto compro? Sui binari d'Italia attualmente circolano una
quindicina di treni dai nomi diversi, dal Regionale all'Alta Velocità,
ciascuno con proprie regole d'ammissione e, in undici casi, prezziari
differenti. Alcuni sono apparsi e scomparsi fulmineamente (come il TrenOk,
vantato nel 2004 come il low-cost dei binari, abolito in sordina un anno fa
perché "non economicamente sostenibile"); altri sono stati declassati per
risparmiare personale (gli ex Interregionali, ora Regionali Veloci). Che
possano esistere quindici qualità differenti di viaggio in treno è una
palese assurdità. Scegliere quello giusto è un'impresa sovrumana.
Dove compro il biglietto? Rivolgersi allo sportello, come fanno ormai solo i
passeggeri "deboli", occasionali, non abituati all'acquisto elettronico, non
aiuta. Anzi, a volte è un'insidia. Trenitalia si è impegnata, con la Carta
dei servizi, a "offrire sempre informazioni puntuali". Ma se chiedi solo "un
biglietto per Milano" ti verrà quasi sempre consegnato senza altre domande
il biglietto base, a tariffa regionale: salvo dover sborsare, a bordo, otto
euro di sovrapprezzo, più la differenza, perché sei salito su un treno che
va effettivamente a Milano, però è un Intercity.
Meglio Internet? Invece le macchinette o la vendita via telefono o Internet
vogliono sapere, giustamente, quale treno prenderai. Ma se la fanno pagare
bene, la loro precisione. Ordinare un ticketless per via telefonica costa:
l'892021 è una linea a pagamento, 30 centesimi alla risposta più 54 al
minuto; una prenotazione semplice rincara il biglietto di tre-quattro euro,
una appena più laboriosa anche di sette-otto.
Spesso l'operatore del call center, sommariamente addestrato, non sa
rispondere a richieste particolari (sconti, facilitazioni) e "deve
chiedere", lasciando il cliente in attesa a sue spese: Trenitalia fa pagare
ai viaggiatori i corsi di aggiornamento dei suoi operatori.
L'acquisto via Internet invece è gratuito, ma ingannevole. La prenotazione
del posto (3 euro) è addebitata automaticamente anche quando non è
obbligatoria (per non pagarla bisogna disattivarla da una finestra poco
evidente). Le combinazioni proposte sono solamente le più veloci, ovvero le
più costose. Chi ha tempo e vuole risparmiare potrebbe viaggiare su
combinazioni di espressi e regionali, ma spesso non se le vede mostrare. Le
trova invece sul formidabile sito Internet delle ferrovie tedesche, che
conosce l'orario di quelle italiane meglio del sito di Trenitalia, visto che
quasi sempre trova più proposte di viaggio.
Sono flessibile o rigido? In alternativa al biglietto standard, Trenitalia
offre una tariffa più economica (Amica, meno 20%) e una più costosa (Flexi,
più 20%). Ma l'Amica è poco amichevole (se perdi il treno niente rimborso),
mentre la Flexi è poco più flessibile: di fatto, ti fa risparmiare gli 8
euro del cambio biglietto nell'eventualità che tu perda il treno; ma su un
Milano-Roma in Eurostar la Flexi ti costa 11.20 euro in più: è l'unica
assicurazione al mondo il cui massimale sia inferiore al costo della
polizza.
E se tengo famiglia? Le nostre tariffe non sono sempre inferiori alla media
europea. Se viaggi in famiglia, in Italia a volte spendi più che all'estero.
In Germania, paese di grande civiltà ferroviaria, i ragazzi fino a 14 anni
accompagnati dai genitori viaggiano gratis. In Italia invece hanno solo uno
sconto, e solo fino a 12 anni. Così una famiglia di due genitori e due figli
sui 13 anni sul treno più veloce da Berlino a Düsseldorf spende 194 euro,
mentre sull'Eurostar Milano-Roma (distanza paragonabile) ne spende 224:
trenta in più.
Con la tariffa Junior si può scendere al massimo a 202 euro: siamo ancora di
qualche moneta più cari della Germania. Se hai figli più piccoli e un po' di
fortuna (il numero di posti è limitato, ma non saprai quanto limitato finché
non compri il biglietto) puoi chiedere le tariffa Familia 15% o quella più
scontata Familia 25%. Quale differenza passi fra le due, un buon enigmista
può scoprirlo, mentre il vostro cronista normodotato dopo un lungo confronto
tra clausole s'è arreso.
Insomma quanto pago? Tre tariffe base (Standard, Amica, Flexi) e cinque
riduzioni principali (due Junior, una Senior, due familiari), da
moltiplicare per due classi e undici tipi di treno sono già un sistema
spaventosamente barocco. Se poi l'itinerario richiede cambi di convoglio, il
calcolo del prezzo diventa irrazionale: un viaggio scomodo (coincidenze a
rischio, bagagli da scarrozzare) può costare quasi un terzo in più di uno
comodo e diretto. Un esempio? Parma-Ancona, tutto su treni IC: senza cambio,
23 euro; con trasbordo a Bologna, 30 euro. Un altro? Brescia-Novara, su IC
senza cambio euro 12.50, con trasbordo su treno locale (e 11 minuti in più),
euro 13.10. Colpa di una norma del 2001 che, in caso di itinerario composto
(dal 2006 anche fra treni di identica categoria), impone di comprare due
biglietti diversi (e di pagare due prenotazioni).
Su che treno salgo? Prima di salire, risponderebbe Trenitalia ai multati
inconsapevoli, avreste dovuto accertarvi che la categoria del treno
corrispondesse al biglietto pagato. Ma dove s'accerta il viaggiatore medio?
Le informazioni complete si trovano solo sui quadri gialli a stampa
(accessibili a passeggeri con dodici diottrie), ma quando sei in stazione,
se vuoi sapere su che binario e a che ora parte davvero il tuo treno, devi
consultare i monitor o i tabelloni a palette ribaltabili. Peccato che
questi, in molte stazioni, non possiedano simboli sufficienti a rincorrere
la follia nomenclatoria di Trenitalia; cosicché il TBiz appare classificato
come un normale Eurostar (ma guai a salirci con biglietto Eurostar), mentre
IC e ICPlus sono identificati dalla stessa sigla, eppure sul secondo c'è la
prenotazione obbligatoria (multa per chi non ce l'ha).
Non basta? Molti treni che sul fianco hanno scritto "ICPlus" in certi giorni
viaggiano come Intercity comuni: non si paga il posto, ma chi lo sa? E se ti
appare sul binario un treno sulla cui fiancata è scritto "Eurostar City",
quale biglietto dovrai avere in tasca per salire, Eurostar o Intercity?
(Aiutino: è la risposta meno probabile).
Posso cambiare treno? Sì, se paghi il doppio di un mese fa. E' la
recentissima batosta del "bigliettino": per gli abbonati Intercity che
vogliano prendere un Eurostar (su alcune tratte, come la Bologna-Firenze, è
quasi obbligatorio) esiste il Ticket ammissione, che fino al 31 dicembre
costava 1 euro a corsa; dal primo gennaio, 2 euro. Rincaro del 100%.
L'inflazione è un treno ad altissima velocità sui binari Trenitalia.
Quando parte il mio treno? Tempo fa Trenitalia offrì, vantando la propria
generosità, un utile servizio sul proprio disservizio: avvisi sui ritardi, a
mezzo sms, gratuiti per tutti i pendolari. Ora sono a pagamento: 50
centesimi cadauno, più il costo dell'sms di richiesta. Insomma devi pagare
un sovrapprezzo a Trenitalia per sapere quanto è scadente il servizio che ti
sta facendo pagare per intero. C'è, è vero, il servizio gratuito online
Viaggiatreno, molto efficiente: ma in viaggio è accessibile solo a chi
possiede (e paga) connessioni Internet mobili.
Quando arrivo a destinazione? Pagare di più non significa per forza arrivare
prima, o più comodi. L'impiegato di Novara che voglia prendere il sole a
Sestri Levante può programmare un viaggio di 3 ore e 56 minuti pagando 10
euro; ma se non ha fretta e sceglie un viaggio da 4 ore e 25 minuti, pagherà
15.40 euro, cioè il 50% in più. Se invece smania di tuffarsi può farcela in
3 ore e 18, spendendo il triplo, 30.50 euro (oltre 20 euro in più per
risparmiare solo 38 minuti), ma in compenso dovrà cambiare tre treni.
E se arrivo in ritardo? Trenitalia possiede orologi curiosi: considerano in
orario qualsiasi corsa arrivi con 25 o 30 minuti di ritardo. Sopra quella
quota, offre rimborsi parziali (50% sugli Eurostar, 30% sugli Intercity). In
Spagna un ritardo di 5 minuti dà diritto al rimborso integrale in denaro del
biglietto alta velocità. Trenitalia invece paga in buoni spendibili per un
secondo viaggio. E se anche il secondo viaggio è in ritardo? Ciccia: i
biglietti acquistati coi bonus non sono rimborsabili. Chi viene maltrattato
due volte di seguito da Trenitalia perde ogni diritto (in quanto recidivo?).
Cumulare disservizi a Trenitalia conviene: si ha diritto a un bonus se il
riscaldamento è rotto; ma se il treno gelido viaggia per giunta anche in
grave ritardo, il bonus è sempre uno solo (quasi quasi, se il treno è in
ritardo, è meglio spegnere il riscaldamento e risparmiare). Inoltre:
Trenitalia, qualunque sia il ritardo, non rimborsa biglietti costati meno di
10 euro (equivalenti a viaggi Intercity di un'ora, tipo Rovigo-Bologna),
ennesima assurdità: 40 minuti di ritardo su un viaggio di otto ore sono una
seccatura (parzialmente rimborsata), su un viaggio di un'ora sono un sopruso
(totalmente impunito).
I treni notturni infine possono ritardare fino a un'ora senza pagar pegno;
dopo, rimborsano solo un quinto del prezzo delle sole cuccette (morale: chi
dorme non piglia bonus). E se mi sbaglio io? Allora non c'è pietà. Paghi, e
paghi caro. Trenitalia pratica generosi sconti sui propri errori, li
trasforma addirittura in fonti di guadagno, ma non perdona quelli dei suoi
clienti. Con un'operazione dal nome guevarista, Mai più senza biglietto, dal
settembre 2007 la guerriglia ai portoghesi è diventata feroce: multe da 50 a
224 euro.
Il mancato rispetto del contratto di viaggio, a quanto pare, prevede
sanzioni solo per uno dei due contraenti: quello più forte, quello che
riesce perfino a far pagare le proprie inefficienze.
Cina, miraggi olimpici
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Un giovane immigrato dalle campagne a Pechino racconta se
stesso e il suo Paese |
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Scritto da Mirko Misceano
Secondo le ultime stime, nella
sola capitale cinese ce ne sarebbero più di quattro milioni.
Vivono in stanze di due metri quadri nei sotterranei dei
palazzi, lavorano tredici ore al giorno in condizioni disumane
per dei salari da fame. Qui in Cina li chiamano ming-gong,
contadini operai. Xiao Yue è uno di loro, uno dei tanti emigrati
in città per inseguire il sogno di una vita migliore. Per loro
la vita diventerà ancora più dura dopo la fine delle Olimpiadi,
quando non ci sarà più bisogno di loro. Senza lavoro stabile e
senza residenza (in Cina è impossibile ottenere la residenza
nelle città senza un lavoro fisso), per questi disperati si
prospetta un ritorno nelle campagne, dove non troveranno altro
che il mondo da cui sono scappati.
La
storia di Xiao Yue: "uno, nessuno, centomila". Si
chiama Xiao Yue, ha 18 anni, da circa due vive a Pechino. Per la
gente di questa metropoli è solo uno dei tanti insignificanti
guidatori di san-lun-che, letteralmente ‘veicolo a tre
ruote’: la versione moderna del risciò. A 16 anni ha lasciato il
suo villaggio nella provincia centrale dello Shanxi, per seguire
un gruppo di compaesani ingaggiati da un impresa di costruzioni
edilizie di Pechino. Da allora Xiao Yue ha smesso di essere un
ragazzo di campagna, ed è diventato uno dei milioni di
lavoratori senza volto e senza diritti che lavorano per fare di
Pechino la città che ospiterà le prossime Olimpiadi. Dopo aver
lavorato per circa un anno come operaio edile, per tredici ore
al giorno, senza assistenza e assicurazione sanitaria di alcun
tipo, in condizioni assolutamente inimmaginabili, ed esser
riuscito a guadagnare 8mila yuan (circa 800 euro), gran parte
dei quali ha spedito ai suoi genitori, ha deciso, come avrebbe
fatto ogni persona al suo posto, di cambiare vita e trovare un
lavoro con ritmi e condizioni più umane.
Ma Xiao Yue qui a Pechino non è
una persona normale, qui lui non ha non ha nome non ha diritti,
non è nemmeno più un contadino, ora che non ha più terra da
arare, può solo contare sulla forza delle sue braccia e delle
sue gambe. Ed è proprio facendo affidamento sulla forza delle
sue gambe, che ha un giorno ha comprato per 300 Yuan (circa 30
euro) un risciò, ed ha cominciato la sua nuova professione. Ora,
ogni mattina alle sei, Xiao Yue è lì d'avanti uno dei cancelli
di un centro residenziale della moderna Pechino che apetta i
suoi clienti. Per una tariffa che và dai 3 agli 8 Yuan ( pochi
centesimi di Euro), pedalerà per trasportare il suo cliente fino
a destinazione.
“Per
la prima volta qualcuno parla con me”. Ho conosciuto
Xiao Yue un giorno d'inverno, lui era in fila con altri
"guidatori" di risciò, all’uscita del centro residenziale dove
alloggiavo. Notai subito il suo aspetto molto giovane, e
incominciai a fargli alcune domande sulla sua vita e sulla sua
famiglia, mi accorsi con piacevole sorpresa, che Xiao Yue non
solo aveva voglia di rispondermi, ma che era anche molto
interessato alla mia vita e al motivo che mi aveva portato qui a
Pechino. Da quel giorno diventai suo amico. Da allora io e lui
abbiamo trascorso molto tempo a chiacchierare di fronte al
cancello del centro residenziale o nella sua stanza di due metri
quadri nel sotterraneo del palazzo dove abita. "Lo sai, questa è
la prima volta che qualcuno parla veramente con me - mi disse un
giorno sorprendendomi - la sola gente che conosco sono i
clienti, che non parlano mai con me, e poi gli altri guidatori
di risciò, ma con loro si parla solo di come far soldi".
Due chiacchiere con Xiao
Yue.
Xiao Yue come mai sei venuto a
lavorare qui a Pechino?
Non ho potuto continuare scuola
perché non sono riuscito a passare gli esami di ammissione alla
scuola superiore, così quando ho saputo che alcuni del villaggio
stavano andando a lavorare a Pechino, mi sono unito a loro.
Perché propio la città, lì in
campagna non si vive bene, non c’è lavoro?
In campagna ho cibo, vestiti e un
tetto, questo è vero, ma lì per noi giovani non c’è nulla, solo
campi da arare; qui in città invece, ci sono più possibilità.
Ei tuoi genitori? Non ti manca
la tua famiglia? Loro cosa pensano della tua decisione di venire
in città?
Certo che mi mancano i miei
genitori. Ogni tanto ci parliamo per telefono, m
a
raramente; loro non hanno istruzione non riescono a capire molte
cose.
Hai fratelli o sorelle? Anche
loro sono in città che lavorano?
R: Ho una sorella maggiore, lei è
nel Guang Dong ora, che lavora come operaia in un'industria di
guanti, non ci sentiamo spesso.
Cosa pensi delle tue
condizioni di vita? Sei soddisfatto?
R: No, Non sono soddisfatto, ma di
certo le migliorerò. Ho intenzione di usare i soldi che ho
guadagnato per prendere la patente e diventare autista di
camion, così potrò guadagnare più soldi.
E dopo cosa farai? Hai
intenzione di fare l'autista per sempre?
R: No, certo che no! Quando avrò
raccolto, forse in 5 anni, 50.000 Yuan ( 5000 Euro),
Tornerò nel mio villaggio e aprirò
un industria agricola per l'allevamento dei polli. Non voglio
rimanere in città per sempre, qui per quelli come me non c’è
posto.
Cosa pensi della situazione
odierna tra campagna e città nel tuo paese? Sei soddisfatto?
Non sono soddisfatto, ma non c’è
scelta, prendere o lasciare. Si può continuare a vivere in
campagna come contadini, o rischiare tutto per venire in città e
cercare una vita migliore.
E il governo? Sei soddisfatto
del governo?
Lo sai...non dovrei parlare di
queste cose.( dopo un momento di esitazione ) Qui non c’è
libertà, molta gente ha paura di esprimere le proprie idee,
ancor più se sono contro il governo. Qui funziona così, il
partito comunista ha in mano tutto il potere, se si protesta è
la fine.
Com’è la tua vita a parte il
lavoro? La tua vita sentimentale per esempio. Hai la ragazza?
Oltre il mio lavoro non ho
null’altro. Le ragazze – dice sospirando – non mi guardano
nemmeno, per loro sono solo un'altro come tanti portatori di
risciò...io per loro non esisto, non sono un ragazzo. Lo sai, io
qui nel cuore, ho come una sorta di amaro, non so come
spiegarlo.
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Nota dell’autore: Xiao Yue, non
ha voluto che pubblicassi sue foto, ha paura che qualcuno possa
riconoscerlo e riportare alla polizia le sue parole sulle
condizioni in cui vive, e sulla libertà di espressione. Qui a
Pechino, specialmente ora che con l'avvento delle Olimpiadi si
sono intensificati i controlli, parlare dei lavoratori delle
campagne è un tabù per cui si rischia la galera.
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E Mouloud
il clandestino denunciò il suo truffatore
Ci sono buone probabilità che un
giorno, quando l'Italia avrà compiuto il lento, faticoso ma
ineluttabile processo dell'integrazione degli stranieri, Mouloud K.
entri nella lista di quelle persone semplici che, con un atto di
coraggio, hanno contribuito a migliorare la condizione di molti.
Parliamo di quella lista dove, per esempio, dal 1955 compare il nome
di Rosa Parks, la casalinga nera che nel 1955, in un autobus
dell'Alabama, si rifiutò di cedere il suo posto a un bianco e
divenne il simbolo del movimento statunitense per i diritti civili.
L'Italia del 2008, naturalmente, è molto diversa dall'Alabama del
1955. Abbiamo una Costituzione che stabilisce il principio di
uguaglianza, abbiamo leggi ordinarie che, benché scarsamente
applicate, vietano e puniscono l'incitamento all'odio razziale. Le
discriminazioni agiscono in un modo più sottile, si insinuano
nell'interpretazione delle leggi, nelle prassi amministrative.
Quando poi queste leggi e queste prassi incrociano gli ambienti
controllati dalla criminalità organizzata, la discriminazione
procede col sostegno silenzioso della minaccia e della violenza.
Questo quadro ambientale rende ancor più significativo il semplice
gesto che nei giorni scorsi è stato compiuto dall'immigrato
irregolare Mouloud K.: ha firmato una denuncia, che sarà presentata
alla procura della Repubblica di Salerno, per favoreggiamento
dell'immigrazione clandestina e truffa aggravata. E' il primo caso.
Il primo su migliaia.
Nella primavera del 2005, mentre si trovava in un bar del suo paese,
Mouloud K. fu avvicinato da un giovane italiano vestito
elegantemente il quale gli propose un affare: in cambio di seimila
euro, gli avrebbe fatto avere un visto d'ingresso per l'Italia e un
posto di lavoro in un'azienda agricola dove, oltre a uno stipendio
di dieci volte superiore ai suoi magri guadagni marocchini, avrebbe
avuto anche vitto e alloggio. Mouloud accettò la proposta, versò al
giovane italiano un anticipo di mille euro per le prime spese e, un
anno dopo, ottenne il regolare visto d'ingresso. Versò altri
cinquemila euro a saldo e partì. Ma, giunto a destinazione (un
indirizzo nelle campagne del salernitano) scoprì che l'azienda che
l'aveva assunto non esisteva. Provò a contattare il suo "datore di
lavoro", tale Giuseppe Bottiglieri, ma non riuscì a trovarlo. Il
cellulare squillava a vuoto. Dopo otto giorni, non essendosi
presentato allo Sportello unico per l'immigrazione per segnalare di
aver cominciato a lavorare, divenne un clandestino. E venne a sapere
che molti altri aveva subito la sua stessa sorte. Per la maggior
parte erano rimasti in quella zona, a lavorare come schiavi alle
dipendenze dei "caporali". Mouloud aveva degli amici nel nord Italia
e decise di raggiungerli. Nell'autunno scorso, dopo un anno di
clandestinità, di piccoli lavori precari, di miseria, si fece
coraggio e accettò di raccontare la sua storia a "Repubblica". Pochi
giorni fa il passo successivo: la denuncia del truffatore.
Se esistesse la class action per gli immigrati raggirati in questo
modo, l'economia di molte zone agricole del Sud tremerebbe. La
scorsa estate la Direzione provinciale del lavoro di Salerno,
esaminando le domande di assunzione di immigrati in base al "decreto
flussi", ha scoperto che quelle irregolari (presentate da aziende
inesistenti o comunque prive dei requisiti) erano cinque sui sei.
Una truffa da milioni di euro. Il marocchino Mouloud K. l'ha
denunciata. In cambio chiede solo di non essere più chiamato
"clandestino".
Precari nella giungla
di Roberta Carlini
La Pubblica amministrazione torna ad assumere. Ma si scopre che i
posti sono già tutti occupati. In barba a concorsi ed effettive
specializzazioni
Alla pubblica amministrazione si accede per concorso, diceva la
Costituzione. E lo dice ancora, solo che nessuno se ne cura. Perché
dopo quasi dieci anni di blocco delle assunzioni e di concorsi col
contagocce, adesso che si riaprono le porte del pubblico
impiego si scopre che quasi tutti i posti sono occupati:
la prima emergenza è la stabilizzazione di un esercito di
precari. Nei ministeri e nelle regioni, nelle Asl e nei
vigili del fuoco; insegnanti e carabinieri, ricercatori e bidelli,
ostetriche e psicologi; contratti a termine, interinali, cococo e
lsu: ce n'è per tutti. In tre anni, dice la Finanziaria, devono
diventare dipendenti pubblici a tempo indeterminato.
MAI PIÚ FLESSIBILI
"All'inizio nel consultorio facevo la volontaria, poi il
mio capo è stato promosso e mi ha chiesto di prendere il suo posto.
Così ho aperto una partita Iva, abbiamo fatto un contratto di
prestazione d'opera e ho cominciato". La storia di Anna Maria si
svolge in una Asl pubblica di Ancona. Dove lei, psicologa, lavora
dal 1997 con partita Iva: tiene i rapporti con il pubblico, fa le
visite, gestisce i colloqui familiari per le adozioni.
"Lavoriamo in otto, solo due sono strutturati", cioè regolarmente
assunti. Gran parte della sanità e dei servizi sociali si
mantiene in piedi così: sono 40-50 milale finte partite Iva che
lavorano per la pubblica amministrazione, secondo una stima
sindacale. Nei numeri ufficiali della Ragioneria dello Stato,
infatti, non compaiono nemmeno.
Compaiono però tutte le altre forme di lavoro flessibile alle quali
negli ultimi dieci anni lo Stato e i suoi satelliti hanno attinto a
piene mani: i lavoratori a termine (oltre 130 mila,
senza contare i supplenti della scuola che sono 250 mila e rotti),
quelli in affitto (gli ex interinali, adesso 'somministrati',
che sono quasi 10 mila), i vecchi e nuovi
lavoratori socialmente utili (lsu: 30.617 nel
2006). E infine, i contratti di collaborazione coordinata e
continuativa (i cococo cancellati dalla legge Biagi nel
privato ma sopravvissuti alla grande nel pubblico: 90.559 nel 2006).
Per molti di loro, con la finanziaria 2008 è arrivata la promessa
della stabilizzazione. Insieme a un altro impegno solenne dettato
per legge: mai più lavoro flessibile nel settore pubblico. Da oggi,
si assume solo a tempo indeterminato. Prima però, bisogna
regolarizzare tutti i vecchi precari, districandosi tra le maglie
dei requisiti per entrare: che, nel cammino parlamentare della
legge, si sono via via allargate.
Le tavole della legge, per i precari pubblici d'Italia, sono in una
sfilza di commi (dal 90 al 96) dell'enorme articolo 3 della
Finanziaria. Che allarga ed estende l'opera iniziata con la
Finanziaria dell'anno passato: nel 2007, si prevedeva la
stabilizzazione dei dipendenti a termine che avessero
lavorato per almeno tre anni negli ultimi cinque. Con la nuova
legge, si proroga il termine e si estende la sanatoria agli altri
precari. Per la prima volta, ci sono anche i cococo; per la loro
sanatoria si chiede un contratto in essere al primo gennaio 2008, e
di aver lavorato per tre anni negli ultimi cinque, anche spezzettati
e anche in amministrazioni diverse. Non solo. Entro aprile arriverà,
con decreto della presidenza del Consiglio, anche un piano
per stabilizzare tutte le altre forme di lavoro flessibile:
sicuramente ci saranno i somministrati, potrebbero rientrare anche
le partite Iva.
In più, ci sono varie sorpresine sparse qua e là. I
pompieri, per esempio: saranno assunti anche i volontari, basta che
abbiano prestato servizio presso i vigili del fuoco per almeno 120
giorni negli ultimi cinque anni. I lavoratori socialmente utili: con
emendamento bipartisan co-firmato dagli esponenti siciliani del
Partito democratico e di Forza Italia, sono assunti in pianta
stabile i 4.000 lsu del comune di Palermo. Infine, la finanziaria
'fa salve' tutte le intese territoriali già firmate a livello locale
per stabilizzare i precari: così promuovendole, per evitare che -
per carenza di fondi - restino solo sulla carta. Nell'insieme,
un'infornata come non si vedeva da anni: dalla famosa legge 285 del
'77 passata alla storia come la madre di tutti gli 'ope legis',
l'ultimo grande esempio del clientelismo democristiano.
SELEZIONE NATURALE
Per il condono 2007-2008, sulla carta, ci sono molti più
aspiranti che nel '77. La platea degli interessati supera i 250
mila, anche se poi nessuno ha contato con esattezza quanti tra loro
hanno i requisiti per entrare. Di conseguenza, la copertura
finanziaria è del tutto aleatoria. Certo è che i soldi sono
pochini: si detta il principio della stabilizzazione, poi saranno le
singole amministrazioni a cercarsi qua e là i soldi. Ma attenzione:
finché non si completa la sanatoria, tutti i contratti in essere
devono essere prorogati. Un diktat che preoccupa molto Francesco
Verbaro, direttore del personale alla Funzione pubblica: "Così si
vìolano le autonomie delle amministrazioni, che sono obbligate a
prorogare i contratti. E per farlo potrebbero essere costrette a
prendere soldi da altri capitoli, tagliare le spese per servizi".
Poi c'è il problema dei criteri di accesso. Dei
titolari di contratti a termine, secondo stime della Funzione
pubblica, un buon 70 per cento è stato selezionato in base ai titoli
e a un colloquio, dunque non un pubblico concorso. Tutti gli altri,
poi, sono contratti totalmente discrezionali, basati su rapporti ad
personam con il singolo dirigente, o peggio con il politico di
turno; oppure sono passati per agenzie interinali, alle quali molto
spesso le liste delle persone da selezionare vengono date dalla
stessa amministrazione; o ancora si basano sull'iscrizione a bandi e
liste, per le quali bisogna aver presentato la domanda al momento
giusto e nel luogo giusto.
Insomma: conoscenze, rapporti diretti, passaparola,
casualità. Per salvare la faccia, la sanatoria prevede che
l'assunzione di chi non ha fatto concorsi avvenga solo dopo una
procedura di selezione: vale a dire, un concorso pro forma riservato
ai precari da regolarizzare. "Così si trasforma un'ingiustizia a
tempo determinato in un'ingiustizia a tempo indeterminato", ha
scritto Bernardo Giorgio Mattarella, presidente dell'Istituto di
ricerche sulla pubblica amministrazione.
Ma a dire il vero qualcuno il famoso concorso l'ha fatto, e
l'ha anche vinto. Come Marta Ferretti, ventottenne romana,
sesta classificata in un concorso da funzionario al ministero
dell'Agricoltura nel 2006. È ancora a spasso: "Nella mia sessione di
concorso i posti erano 17, finora ne sono entrati due. Non c'erano
soldi per le assunzioni". Adesso Marta è preoccupata per la
sanatoria: "Se i soldi sono sempre pochi, e viene data priorità alle
stabilizzazioni, noi vincitori di concorso restiamo ancora fuori".
Il paradosso di Marta non è un'eccezione e c'è anche chi ha subito
una beffa peggiore: come quei ricercatori dell'Istat che, stanchi di
contratti precari, hanno fatto nel 2004 un concorso per entrare con
qualifiche inferiori, pur continuando a fare a tutti gli effetti i
ricercatori. Oggi sono esclusi dalla sanatoria: infatti hanno già un
lavoro a tempo indeterminato, da impiegati.
SUPPLENTI A VITA
In una scuola media romana a settembre sono arrivati due
professori nuovi di zecca: due insegnanti di informatica,
regolarizzati nel 2007. Piccolo dettaglio: non sapevano usare il
computer. E non era colpa loro, visto che facevano supplenze da una
vita e tutto quel che lo scorrimento in graduatoria richiedeva era
l'anzianità, non titoli o specializzazioni. La scuola è il
regno storico del precariato. Qui nel 2007 c'è stato un
primo grande afflusso di regolarizzati: 50 mila insegnanti, 10 mila
impiegati e bidelli. Sono stati pescati dalle graduatorie
permanenti, nelle quali erano entrati per i più vari motivi: un po'
più della metà per regolare concorso (idonei, ma senza ruolo), tutti
gli altri per vari rivoli che vanno dall'accumulo di supplenze al
superamento di prove riservate ai supplenti stessi, fino alle scuole
di specializzazione e ai corsi abilitanti. Dentro le graduatorie c'è
di tutto, ma ilcriterio principale di progressione è
l'anzianità di servizio. Con la stabilizzazione, si
dovrebbero assorbire le graduatorie sospese, fino a quota 150 mila:
dove però, si è scoperto, mancano quasi del tutto gli insegnanti di
matematica e scienze, che invece servono come il pane. Delle due
l'una, spiegano al ministero: o si fanno subito concorsi per gli
insegnanti di matematica, o ricomincerà a formarsi una folla di
supplenti precari.Il criterio unico dell'anzianità di servizio
spesso comporta risultati paradossali, per un paese che a parole
esalta il merito e le competenze. E invece poi, quando si
tratta di assumere un ricercatore, non guarda i suoi titoli ma solo
le date: da quanto tempo lavori e, a parità di anzianità di
servizio, l'età anagrafica. È uno degli effetti della
stabilizzazione nel mondo della ricerca, fitto di assegnisti,
borsisti, tempi determinati, collaboratori. Negli enti pubblici di
ricerca la prima stabilizzazione, quella del 2007, ha portato finora
a definire 801 assunzioni di personale che prima era a tempo
determinato. All'Istituto superiore di sanità, dove finora sono
stati stabilizzati 180 precari, le liste da cui si pesca per
l'assunzione si sono stratificate in 15-20 anni, a volte la
stabilizzazione avviene in prossimità della pensione e ha poco a che
fare con la qualità della ricerca.
Gianni De Gennaro sarà super-commissario, superando con il suo
incarico per l'emergenza rifiuti tutte le altre deleghe. Ma in
Campania i poteri commissariali sono una moda, che testimonia
l'emergenza perenne e lo spreco di denaro pubblico. Su "L'espresso"
si ricostruisce che sono in vigore anche per il risanamento della
foce del Sarno, contro il traffico e l’emergenza parcheggi di
Napoli, per l’attuazione dei piani d’insediamento produttivo,
l’alluvione di Sarno e Quindici, il ripristino ambientale dei
fondali di Baia, lo stoccaggio dei materiali radioattivi, il
dissesto idrogeologico e quello del sottosuolo, gli insediamenti
delle comunità nomadi. L’ultimo arrivato sembra una battuta: il
commissario straordinario alle bufale. L’assessore regionale Andrea
Cozzolino, fedelissimo del governatore Antonio Bassolino, dovrà
occuparsi dei capi di bestiame produttori di mozzarella ma
minacciati dalla brucellosi. Avrà un ufficio di 20 dipendenti e una
dotazione (per ora) di 66 milioni di euro. Obiettivo: risanare le
bufale campane, di cui almeno 30 mila unità sono a
rischio-abbattimento.
L'anello debole |
Nella crisi umanitaria della
Striscia di Gaza le donne patiscono due volte |
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Scritto da Milena Nebbia
Le donne palestinesi, il sesso
veramente debole in una società a dominanza maschile, sono costrette
a portare un doppio fardello: l’occupazione israeliana della loro
terra e la sottomissione e la violenza cui sono sottoposte in una
società autoritaria e patriarcale. Se questo è vero in generale per
la Palestina, la donne risultano essere tanto più “vittime” nel
territorio della Striscia, dove la violenza domestica assume aspetti
di vera e propria piaga sociale. La ragione di ciò risiede
nell’unicità della storia e dello sviluppo della società di questo
territorio. La violenza sulle donne assume qui, infatti, forme
particolari poiché combina aspetti economici, politici e culturali.
L’assoggettamento
della donna all’interno della famiglia e la sua estensione nel
pubblico, si esprime in varie forme di discriminazione: salari più
bassi per le lavoratrici, inique opportunità di promozione, di
educazione, limitate possibilità di partecipare ad attività
politiche e culturali. Tra queste forme discriminatorie, sicuramente
quella che assume aspetti veramente drammatici è il delitto d’onore,
ancora largamente diffuso nella Striscia. Anche se un numero
crescente di palestinesi trova i delitti d’onore inaccettabili, la
barbara pratica continua. "Nessuno conosce l'entità del fenomeno,
perché nessuno ha condotto uno studio – dice Manal Awwad, presidente
del Wep (Women’s Empowerment Project) - le organizzazioni delle
donne come la nostra sono mobilitate contro le uccisioni, ma
purtroppo la pratica continua nonostante i divieti giuridici. La
donna può essere uccisa anche solo perché sospettata di avere avuto
rapporti sessuali fuori dal matrimonio, lo stesso dicasi per le
vittime di stupri, il loro viene ritenuto un "crimine" che va
punito, mentre l'uomo, che può aver violentato la sua vittima, è
considerato un innocente e può passeggiare liberamente”.
"L'onore
di una famiglia è molto dipendente dalla donna, dalla sua verginità,
una donna vergine è di proprietà degli uomini attorno a lei, prima
di suo padre, dopo come dono per il marito, la verginità, quindi,
come dote virtuale per il matrimonio. In questo contesto, la donna è
una merce che deve essere protetta da una rete di membri della
famiglia e della comunità. La donna è custodita esternamente dal suo
codice di comportamento e di abbigliamento e internamente dal
mantenimento della sua illibatezza”. “Naturalmente esistono anche i
rapporti sessuali fuori del matrimonio – precisa Awwad - tra i
giovani palestinesi, soprattutto nella comunità degli studenti, dove
le donne vivono lontano dall'occhio attento delle loro famiglie.
Tuttavia, per la maggior parte delle donne, è considerato vergognoso
essere viste solo con un maschio non membro della famiglia”. La
fondatrice, Shaida El Saray, organizzò il Wep (Women’s Empowerment
Project) nel 1995, con l’aiuto di donors svizzeri, dall’esperienza
del Centro di salute mentale di Gaza, inizialmente per le donne dei
prigionieri che avevano problemi di disagio mentale e
specializzandosi poi nell’aiuto alle donne che sono vittime di
violenza domestica. Il Wep si fonda sull'idea che la terapia medica
debba correre insieme alla riappropriazione, da parte delle donne,
di spazi, tempi, istruzione e formazione, con il loro inserimento in
un contesto sociale ed economico più solido di quello che ha dato
origine ai loro problemi e con tutta una serie di strategie di
approccio alle fonti inconsapevoli di quei problemi: la famiglia, la
comunità, la scuola… Le donne che si rivolgono al Programma
provengono per lo più dai campi profughi di Gaza, Khan Yunis e Rafah:
molte di loro sono reduci da matrimoni precoci e maltrattamenti
familiari; alcune sono state detenute o sono madri, mogli, sorelle,
figlie di detenuti o hanno avuto mariti e figli uccisi.
Il
Wep inserisce le giovani donne in contesti formativi e didattici per
restituire loro il percorso educativo a volte mai iniziato, a volte
bruscamente interrotto per ragioni diverse, quali il matrimonio in
età scolare o la chiusura continuata delle scuole negli anni dell'Intifada.
“Ora poi - prosegue la presidente - a tutti gli altri problemi si è
aggiunto quello della gravissima crisi economica causata
dall’assedio, quindi se per caso una donna decide di divorziare a
causa della situazione familiare, fa fatica a trovare un lavoro, non
può rientrare nella propria famiglia perché verrebbe considerata un
peso e soprattutto rischia che non le sia consentito nemmeno vedere
i suoi figli, quindi non le vengono lasciate molte via d’uscita”.
“Rivolgersi al nostro centro, per la maggior parte delle donne è
difficile perché lo devono fare di nascosto, in alcuni casi siamo
noi andare da loro su segnalazione di altre persone. Vengono
minacciate, devono sottostare al volere maschile, nostre stesse
dipendenti ricevono regolarmente minacce telefoniche a causa del
loro impegno per aiutare le donne vittime. Vengono accusate di
ribellione nei confronti della tradizione e di corruzione della
società”.
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I superstiti della Thyssen un mese
dopo il rogo
"Per la politica e il Paese non siamo mai esistiti"
Gli
operai di Torino diventati invisibili
di EZIO MAURO
TORINO -
"Turno di notte vuol dire che monti alle 22. Sono abituato. Quel
mercoledì sera, il 5 dicembre, sono arrivato come sempre un quarto d'ora
prima, ho posato la macchina, ho preso lo zainetto e sono entrato col
mio tesserino: Pignalosa Giovanni, 37 anni, diplomato ragioniere,
operaio alla Thyssen-Krupp, rimpiazzo, cioè jolly, reparto finitura.
Salgo, guardo il lavoro che mi aspetta per la notte e vedo che ho solo
un rotolo da fare".
"Allora vado prima a trovare quelli della linea 5, devo dire una cosa ad
Antonio Boccuzzi, ma poi arrivano gli altri e si finisce per parlare
tutti insieme del solito problema. Il 30 settembre la nostra fabbrica
chiuderà, a febbraio si fermerà per prima proprio la 5, stiamo cercando
lavoro e non sappiamo dove trovarlo. Duecento se ne sono già andati, i
più esperti, i manutentori, molti alla Teksfor di Avigliana. Noi
mandiamo il curriculum in giro, con le domande. L'azienda se ne frega,
la città anche. Chiediamo agli amici, ai parenti operai che hanno un
posto. Chi può cerca altre cose, Toni "Ragno" dice che ha la patente del
camion e prova con le ditte di trasporti: gli piacerebbe, tanto ogni
giorno fa già adesso 75 chilometri per arrivare all'acciaieria e 75 per
tornare a casa. Bruno ha deciso, il 29 chiude con la fabbrica e apre un
bar con Anna, Angelo ha provato a farsi trasferire alla Thyssen di
Terni, la casa madre, ma poi è tornato indietro per la famiglia.
Parliamo solo di questo, come tutte le notti, abbiamo il chiodo fisso.
E' brutto essere giovani e arrivare per ultimi. La Thyssen qui in giro
la chiamano la fabbrica dei ragazzi, perché dei 180 che siamo rimasti il
90 per cento ha meno di trent'anni. Ma questo vuol dire che quando tutt'attorno
chiude la siderurgia e Torino non fa più un pezzo d'acciaio che è uno,
chi ti prende se sai fare solo quello? Eppure siamo specializzati,
superspecializzati, non puoi sostituirci con un operaio qualsiasi che
non abbia fatto almeno 6 mesi di formazione per capire come si lavora
l'acciaio. E infatti ci pagano di più, uno del quinto livello alla Fiat
prende 1400 euro, qui con i turni disagiati, la maggiorazione festiva,
il domenicale arrivi a 1700 anche 1800 senza straordinario. Non ti
regalano niente, sia chiaro, perché lavori per sei giorni e ne fai due
di riposo, quindi ti capitano un sabato e domenica liberi ogni sei
settimane, non come a tutti i cristiani. Ma la siderurgia è così,
lavoriamo divisi in squadre e quando smonta una monta l'altra perché le
macchine non si fermano, 24 ore su 24, questo è l'acciaio. Che poi, se
ci fermassimo noi si ferma l'Italia perché siamo i primi, senza
l'acciaio non si vive, dai lavandini all'ascensore, alle monete, alle
posate, siamo la base di tutta l'industria manifatturiera, dal tondino
per l'edilizia alle lamiere per le fabbriche, agli acciai speciali. E
quando parlo di acciaio intendo l'inox 18-10, cioè 18 di cromo e 10 di
nichel, roba che a Torino si fa soltanto più qui da noi, che è come
l'oro visto che il titanio viaggia a 35 euro al chilo e noi facciamo
rotoli da sei, settemila chili. Eppure tutto questo finirà, sta proprio
per finire, Torino resterà senza, siamo come le quote latte. E' chiaro
che ne parliamo tutte le sere, come si fa? Comunque, a un certo punto,
sarà mezzanotte e mezza, io saluto tutti, e dico che vado a fare quel
rotolo che mi aspetta. Salgo, e lì sotto comincia l'inferno. E' una
parola che si usa così, come un modo di dire. Ma avete un'idea di com'è
davvero l'inferno"?
Se a Torino chiedi degli operai della Thyssen, ti indicano il cimitero.
Bisogna prendere il viale centrale, passare davanti ai cubi con i nomi
dei partigiani, andare oltre le tombe monumentali della "prima
ampliazione", girare a sinistra dove ci sono i nuovi loculi. Lì in
basso, come una catena di montaggio, hanno messo Antonio Schiavone, 36
anni (detto "Ragno" per un tatuaggio sul gomito),
morto per primo la notte stessa, Angelo Laurino, 43 anni,
morto il giorno dopo come Roberto Scola, 32 anni. Subito sotto, Rosario
Rodinò, 26 anni, che è morto dopo 13 giorni con ustioni sul 95 per cento
del corpo e
Giuseppe Demasi, anche lui 26 anni, ultimo dei sette a morire
il 30 dicembre dopo 4 interventi chirurgici, una tracheotomia, tre
rimozioni di cute con innesti e una pelle nuova che doveva arrivare il 3
gennaio per il trapianto, ed era in coltura al Niguarda di Milano. Ci
sono i biglietti dei bambini appesi con lo scotch, come quello di Noemi
per Angelo, ci sono le sciarpe della Juve, mazzi di fiori piccoli col
nailon appannato dall'umidità, un angelo azzurro disegnato da Sara per
Roberto, quattro figure colorate di rosso da un bambino per Giuseppe,
tre Gesù dorati, due lumini per terra. Attorno alle cinque tombe, una
striscia azzurra tracciata dal Comune le separa dagli altri loculi. E'
un'idea del sindaco Sergio Chiamparino e del suo vice Tom Dealessandri,
una sera che ragionavano sulla tragedia della Thyssen. Se tra un anno,
cinque, dieci, qualcuno vorrà ricordarla, parlarne, partire da quei
morti per discutere sulla sicurezza nel lavoro, ci vuole un posto, e non
ci sarà neppure più la fabbrica, non ci sarà più niente: mettiamoli
insieme, quelli che non hanno una tomba di famiglia; hanno lavorato
insieme e sono morti insieme. Quelle fotografie di ragazzi sono le
uniche tra i loculi, le altre sono di vecchi e dove non c'è la foto c'è
la data: 1923, 1925, 1935, 1919, anche 1912. Intorno, un telone nasconde
lo scavo di una gru nel campo del cimitero, si sente solo il rumore in
mezzo ai fiori, ma c'è lavoro in corso. Siamo a Torino, dice un
guardiano, è la solita questione: lavoro, magari invisibile, ma lavoro.
"Dunque, ero da solo, con la gru in movimento. Il mio lavoro si può fare
così. Alla linea 5 invece il turno montante era completo. Mancavano due
operai, ma si sono fermati in straordinario Antonio Boccuzzi e Antonio
Schiavone, anche se avevano già fatto il loro turno, dalle 14 alle 22.
Quella tecnicamente è una linea tecnico-chimica per trattare l'acciaio,
temprarlo e pulirlo per poi poterlo lavorare. Stiamo parlando di una
bestia di forno a 1180 gradi, lungo 40-50 metri, alto come un vagone a
due piani, e lì dentro l'acciaio viaggia a 25 metri al minuto se è
spesso e a 60 metri se è sottile, per poi andare nella vasca dell'acido
solforico e cloridrico che gli toglie l'ossido creato dalla cottura nel
forno. La squadra di 5 operai sta nel pulpito, come lo chiamiamo noi,
una stanzetta col vetro e i comandi. Ci sono anche il capoturno Rocco
Marzo e Bruno Santino, addetto al trenino che porta il rullo da una
campata dello stabilimento all'altra. Manca poco all'una. So com'è
andata. Il nastro scorre a velocità bassa, sbanda, va contro la
carpenteria, lancia scintille, l'olio e la carta fanno da innesco, c'è
un principio di incendio. Loro pensano che sia controllabile, come altre
volte. Escono dal pulpito, si avvicinano, provano con gli estintori, ma
sono scarichi. Un flessibile pieno d'olio esplode in quel momento, passa
sul fuoco come una lingua e sputa in avanti, orizzontale, è un
lanciafiamme. Non li avvolge, li inghiotte. Boccuzzi è proprio dietro un
carrello elevatore per prendere un manicotto, e quel muletto lo ripara
salvandolo. Vede un'onda, sente la vampa di calore che lo brucia per
irradiazione, ma si salva. Gli altri sono divorati mentre urlano e
scappano. Piomba in finitura il gruista della terza campata, corri mi
dice, corri, è scoppiata la 5, sono tutti morti. Non ci credo, ma si
avvicina urlando, è bianco come uno straccio e sta piangendo. Corro,
torno indietro, metto in sicurezza la gru, corro, non penso a niente,
corro e li vedo".
I tre funerali sono diversi. Prima lo choc, il dolore, la paura. Poi la
rabbia. Egla Scola, che ha vent'anni e due figli di 17 mesi e tre anni,
in chiesa ha urlato verso la bara di Roberto: vieni a casa, adesso. La
madre di Angelo Laurino gli ha detto: ora aspettami. Il padre di Bruno
Santino, anche lui vecchio operaio Thyssen, l'abbiamo visto tutti in
televisione gridare bastardi e assassini, con la foto del figlio in
mano. Il giorno della sepoltura di Rocco Marzo, arriva la notizia che è
morto Rosario Rodinò, dopo quasi due settimane di agonia. Ciro Argentino
strappa la corona di fiori della Thyssen, i dirigenti dell'azienda
entrano in chiesa dalla sacrestia, se ne vanno dalla stessa porta. Fuori
ci sono soprattutto operai, in duomo come a Maria Regina della Pace in
corso Giulio Cesare, come nella chiesa operaia del Santo Volto con la
croce sopra la vecchia ciminiera trasformata in campanile.
Attorno, il fantasma della Torino operaia che fu. Qui dietro c'erano una
volta la Michelin Dora, la Teksid, i 13 mila delle Ferriere Fiat dentro
i capannoni della tragedia, poi venduti alla Finsider dell'Iri, che
negli anni Novanta ha rivenduto alla Thyssen. Che adesso chiude.
Sequestrata per la tragedia, con i cancelli chiusi e un albero
trasformato in altare ("ciao, non siamo schiavi", ha scritto un operaio
della carrozzeria Bertone), già adesso l'impianto della morte è uno
scheletro vuoto, inutile, proprio dove la città finisce e comincia la
tangenziale, con le montagne piene di neve dritte davanti. La gente
conosce il posto perché lì c'è un autovelox famoso per sparare multe a
raffica.
Ma non sa la storia della Thyssen. Ciro dice che un pezzo di Torino non
sapeva nemmeno dei morti, e alla manifestazione c'erano trentamila
persone, ma era la città operaia, e pochi altri. Come se fosse un lutto
degli operai, non una tragedia nazionale. Anzi, uno scandalo della
democrazia. Chi lavora l'acciaio sa di fare un mestiere pericoloso, dice
Luciano Gallino, sociologo dell'industria, perché macchine e materiali
che trasformano il metallo sovrastano ogni dimensione umana, con
processi di fusione, forgiature a caldo, lamiere che scorrono, masse in
movimento. C'è fatica, rumore, occhio, tecnica, esperienza, senso di
rischio, concentrazione. E allora, spiega Gallino, proprio qui
nell'acciaio non si possono lasciar invecchiare gli impianti e deperire
le misure di sicurezza, non si può ricorrere allo straordinario con tre,
quattro ore oltre le otto normali. Invece l'Asl dice oggi di aver
accertato 116 violazioni alla Thyssen. Le assicurazioni Axa lo scorso
anno avevano declassato la fabbrica proprio per mancanza di sicurezza,
portando la franchigia da 30 a 100 milioni all'anno. Per tornare alla
vecchia franchigia, bisognava fare interventi di prevenzione, tra cui un
sistema antincendio automatico proprio sulla linea 5, dal costo di 800
milioni. From Turin, ha risposto l'azienda, dopo che Torino avrà chiuso.
"Il primo è Rocco Marzo, il capoturno, che aveva addosso la radio e il
telefono interno, bruciati nel primo secondo. Appare all'improvviso, al
passaggio tra la linea 4 e la 5. Non avevo mai visto un uomo così. Anzi
sì: dal medico, quei tabelloni dov'è disegnato il corpo umano senza
pelle, per mostrarti gli organi interni. La stessa cosa. Le fasce
muscolari, i nervi, non so, tutto in vista. Occhi e orecchie, non
parliamone. Non mi vede, non può vedere, ma sente la mia voce che lo
chiama, si gira, barcolla, cerca la voce, mi riconosce. "Avvisa tu mia
moglie, Giovanni, digli che mi hai visto, che sto in piedi, non li far
preoccupare". Lo tocco, poi mi fermo, non devo. Ha la pelle, ma non è
più pelle, come una cosa dura e sciolta. Un operatore di qualità
continua a saltarmi attorno, cosa facciamo? Mando via tutti quelli che
piangono, che urlano, che sono sotto choc e non servono, non aiutano.
Dico di non toccare Rocco, di scortarlo con la voce fuori: gli chiedo se
se la sente di seguire i compagni, di seguire la voce. Va via, lo guardo
mentre dondola e sembra cadere a ogni passo, mi sembra di impazzire. Mi
butto avanti, tutta la campata è piena di fumo nero, bruciano i cavi di
gomma, i tubi con l'acido, i manicotti. Vedo Boccuzzi che corre in giro
a cercare una pompa, mi vede e mi urla in faccia: "Li ho tirati fuori,
li ho tirati fuori. Ma Antonio Schiavone è vivo e sta bruciando lì per
terra". In quel momento Schiavone urla nel fuoco. Tre grida. E tutte e
tre le volte Toni Boccuzzi cerca di gettarsi tra le fiamme e dobbiamo
tenerlo, ma lui ripete come un matto: "Il fuoco lo sta mangiando". Dico
di portarlo via, fuori. Mi volto, e mi sento chiamare: "Giovanni,
Giovanni". Non ci credo, guardo meglio, non si vede niente. Sono Bruno
Santino e Giuseppe Demasi, due fantasmi bruciati, consumati dal fuoco
eppure in piedi. Non mi sentono più parlare, non sanno dove andare, in
che direzione cercare, sono ciechi. Poi Demasi si muove, barcolla verso
la linea 4 tenendosi le mani davanti, come se fosse preoccupato di
essere nudo. Mi avvicino e lo chiamo, si volta, chiama Bruno. Guardo la
loro pelle scivolata via, non so cosa dire e loro mi cercano: "Giovanni,
sei qui vicino? Guardaci, guardaci la faccia: com'è? Cosa ci siamo
fatti, Giovanni?"
Dicono gli operai che i sette, alla fine, sono morti perché da tempo
erano diventati come invisibili. Si spiegano con le parole di Ciro
Argentino e Peter Adamo, trent'anni: l'operaio ovviamente esiste, cazzo
se esiste, manda avanti un pezzo di Paese, e soprattutto a Torino lo
sanno tutti. Ma esiste in fabbrica e non fuori, nel lavoro e non nella
testa della politica. Ma lo sapete voi, aggiunge Fabio Carletti della
Fiom, che nell'assemblea del Pd appena eletta a Torino non c'è nemmeno
un operaio? Che in tutto il Consiglio comunale ce n'è uno, perché il
sindacato si è trasformato in lobby e ha minacciato di fare una lista
operaia separata, supremo scandalo per la sinistra? Dice Peter che
l'invisibilità la senti tutto il giorno, quando vai a comprare il pane,
quando esci la sera. Per le storie veloci con le ragazze in discoteca,
fai prima a dire che sei un rappresentante, vai più sul sicuro. Non è
rifiuto o disprezzo, aggiunge Davide Provenzano, 26 anni, è che sei di
un altro pianeta. Credono di poter fare a meno di te. Da bambino,
spiega, vedevo con mio padre al telegiornale le notizie sul contratto
dei metalmeccanici, "undici milioni di tute blu scendono in piazza",
adesso, non si sa quanti siamo, un milione e sette, uno e otto? Il
sindaco Chiamparino sa di chi è la colpa: quelli che pensano alla
modernità come a una sostituzione, l'immateriale, l'effimero al posto
del manifatturiero, mentre invece è moderno chi gestisce la complessità,
la fine di una cosa con l'inizio dell'altra, sopravvivenze importanti e
novità salutari. "Chiampa" dice che lui non potrebbe dimenticare gli
operai, la sua famiglia viene dalla fabbrica, il figlio di suo fratello
ha la stessa età e fa il lavoro dei ragazzi della Thyssen, però è vero
che si lamenta perché i riformisti non usano più quella parola, operaio.
E tuttavia non si può tornare agli anni Settanta.
E la città non è indifferente, non si può misurare il funerale operaio
col metro del funerale dell'Avvocato, in quel caso la partecipazione era
anche un modo di dire "io c'ero", mentre qui voleva dire "voi ci siete".
E poi, pensiamo sempre a Mirafiori, dove cresceva l'erba sull'asfalto,
tutto era abbandonato, e tutto è rinato. Il sindaco ha aiutato
Marchionne, l'amministratore delegato Fiat ha aiutato Chiamparino. I due
si vedono qualche sera per giocare a scopa col vicesindaco e un
ufficiale dei carabinieri, ma in pubblico si danno del voi, perché
questa è Torino. Anche se Marchionne voleva strappare, e andare al
funerale operaio della Thyssen. Poi si è fermato, dice, per paura che la
sua presenza diventasse una specie di comizio silenzioso. Ha radunato i
suoi e ha detto: che non capiti mai qui. Un incidente può sempre
scoppiare, ma non per incuria verso la tua gente e il suo lavoro. Mai,
mettetemelo per scritto. Solo in Italia, spiega ancora Marchionne,
operaio diventa una brutta parola, nel mondo indica quelli che fanno le
cose, le producono.
E tuttavia, avverte il professor Marco Revelli, Torino è sempre più
Moriana di Calvino, la città con un volto di marmo e di alabastro e uno
di ferro e di cartone, e una faccia non vede più l'altra. Gli operai
della Thyssen, anche per la loro età, non hanno riti separati,
tradizioni private, fanno una vita perfettamente visibile nella sua
normalità. Dopo la fabbrica si incontrano indifferentemente alla Fiom o
al Mc Donald's di via Pianezza, Peter ha la moglie laureata e vede tutta
gente del suo giro, ai funerali hanno messo musica dei Negramaro, hanno
portato anche la maglia di Del Piero. Ma ti dicono che l'invisibilità
sociale li rende deboli, la debolezza e la solitudine portano a
scambiare straordinari per sicurezza, il Paese li convince di vivere in
una geografia immaginaria, dove per dieci anni ha contato solo la cometa
del Nordest, solo l'illusione del lavoro immateriale, solo il
consumatore e non il produttore, e persino la parola lavoro è stata poco
per volta sostituita da altre cose: saperi, competenze, professionalità.
Questa fragilità - culturale? Politica? Sociale? - li espone. Il
cardinal Poletto, che ha fatto l'operaio da ragazzo (il mattino in
officina, il pomeriggio in canonica) ha detto ad ogni funerale cose
semplici ma solide perché autentiche: la città ha reagito ma non basta,
serve un sussulto, la ricerca sacrosanta del profitto non può
danneggiare la sicurezza o addirittura la vita di chi lavora. La
sinistra ha detto meno del cardinale.
"Nessuno sa cosa fare davanti a una cosa così. Due compagni di lavoro
carbonizzati, e ancora vivi. Uno ha preso due giacconi, glieli ha
buttati addosso. "Giovanni aiutaci - dicevano - portaci via". Ragazzi,
ho provato a rassicurarli, l'importante è che siate in piedi, io non so
se posso toccarvi, non posso prendervi per mano, ma vi portiamo fuori,
vi facciamo da battistrada. Due passi, e trovo per terra Rosario Rodinò,
Angelo Laurino e Roberto Scola. Statue di cera che si sciolgono, l'olio
che frigge, non c'è più niente, i baffi di Rocco, i capelli di Robi,
solo la voce. Mi accoccolo vicino a Laurino, gli parlo. Si volta: "Dimmi
che starai vicino ai miei". Scola ripete che ha due figli piccoli, "non
potete farmi morire". Rodinò sembra più calmo: "Non pensare a me, io sto
meglio, occupati di loro". Poi, quando ritorno da lui mi chiede: "Come
sono in faccia? Cosa vedi?" Arrivano i pompieri, poco per volta li
portano via. Un vigile mi dice che stanno morendo, ma il fuoco gli ha
mangiato le terminazioni nervose, per questo resistono al dolore. Non so
se è vero, non capisco più niente, ho quei manichini davanti agli occhi.
Prendo un pompiere per il bavero, e gli urlo che Schiavone è ancora a
terra da qualche parte, devono salvarlo. Mi dice che lo hanno portato
via e che devo andarmene, perché il fumo sta divorando anche me.
Stacchiamo la tensione a tutta la linea, blocchiamo il flusso degli
acidi, dei gas, dell'elettricità. Tutto si ferma alla ThyssenKrupp,
probabilmente per sempre. Non ho più niente da fare".
Al cimitero hanno messo le sigarette sopra ogni tomba. Un pacchetto di
Diana per Angelo, due sigarette sciolte vicino alla fotografia di
Antonio, una sulla sciarpa di Roberto, le Marlboro per Giuseppe e per
Rosario. Subito non capisco, poi sì. I ragazzi di oggi non comprano più
le sigarette, ma i ragazzi operai sì, le hanno sempre in tasca. Metterle
lì, tra i fiori dei morti, è un modo per riconoscerli, per renderli
visibili.
L'altra faccia della Tata |
L'indiana Tata presenta l'utilitaria più economica al mondo.
Ottenuta con la cacciata di 14mila famiglie contadine |
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La Tata Motors ha presentato al salone dell'auto di Nuova Delhi
l'utilitaria più economica del mondo: la Nano. Il veicolo verrà
venduto a 100mila rupie, o 2.500 dollari Usa, e avrà cinque
posti. Vuole diventare il mezzo di trasporto per le famiglie
meno abbienti indiane e degli altri paesi in via di sviluppo:
niente fronzoli. Né servosterzo, né alzacristalli elettrici o
aria condizionata, con un motore da 600 cc per 33 cavalli di
potenza, ma che garantisce 20 chilometri con un litro di
benzina. Per adesso la produzione è stata prevista in 250mila
esemplari annui, ma le previsioni sono di arrivare a un milione
di pezzi.
Dove
Durante la presentazione Ratan Tata, presidente del gruppo
automobilistico e membro della dinastia economica più potente
d'India, non ha fornito dettagli sulla fabbrica di produzione
della vettura. Tuttavia da tempo viene ripetuto, senza smentite,
che il principale sito di produzione della Nano sarà lo
stabilimento di Singur, nel Bengala occidentale. Una fabbrica
che ha attirato l'attenzione dei media per le lotte sindacali e
civili degli abitanti di Singur, contro gli
espropri di mille acri di terreno (circa 400 ettari) sui
quali far sorgere l'impianto industriale. Il governo del Bengala
Occidentale, da decenni prerogativa del partito comunista
indiano marxista, ha invocato ragioni di “pubblica utilità” per
l'esproprio dei terreni, che colpiscono circa 14mila nuclei
familiari contadini. Ad autorizzare l'atto è stata invocata una
legge del periodo coloniale britannico, il Land Acquisition
Act del 1894. Ma la pubblica utilità non dovrebbe
coincidere con gli interessi di un gruppo privato, che aveva
originariamente annunciato di voler costruire a Singur “l'auto
più economica del mondo”.
Come La rivolta contro la fabbrica di Singur ha
già prodotto anche delle vittime, come Tapasi Malik, giovane
attivista della lotta agli espropri, trovata carbonizzata in una
fossa nell'area recintata dal cantiere di costruzione della
fabbrica il 18 dicembre 2006. Per la polizia locale si tratta di
un suicidio. Una autopsia ha appurato che le è stato dato fuoco
da viva, dopo che la ragazza era stata seviziata e stuprata. I
suoi compagni di lotta hanno incolpato senza esitazioni alcune
squadre illegali che difendono gli interessi della Tata in zona,
cercando di dissuadere i contadini espropriati dalle proteste
con la violenza. Tapasi Malik, ormai ribattezzata 'la martire di
Singur', è diventata il simbolo dei contadini che non vogliono
rinunciare alla loro terra per 1.600 euro al massimo
d'indennizzo.
Quando
E se dovessero ricevere un indennizzo. La legge coloniale
invocata dai marxisti del Bengala prevede che l'espropriato dia
un assenso all'avocazione delle terre. Questo non perchè si
abbia diritto a opporsi, ma solo per ottenere un risarcimento.
Sono comunque in migliaia i contadini che sostengono di non aver
firmato nessuna autorizzazione, o di essere stati costretti con
la violenza dalla squadre illegali che imperversano in zona da
quando si deve costruire lo stabilimento, o di averlo fatto con
la promessa di un posto di lavoro nella nuova fabbrica. E la
legge tutela i diritti di chi può provare il possesso del
terreno. Che non è il caso di centinaia di vedove, dei tanti
braccianti o fittavoli o mezzadri, o di tutti coloro che non
sono stati registrati per una lacuna del catasto bengalese.
Perché
Le proteste sono cresciute con l'ingresso in campo di alcuni
oppositori del partito comunista marxista di Bhuddabeb
Bhattacharji, come i naxaliti. I marxisti, che mirano da decenni
all'instaurazione del socialismo in India, hanno protestato
associando le lotte di Singur a quelle del distretto di
Nandigram, contro un esproprio mirato a favorire una
multinazionale chimica indonesiana. A loro si è aggiunta una
scissione bengalese del partito del Congresso, il Trinamul
Congress party. Proteste cresciute fino a manifestazioni durate
giorni nel febbraio 2007, represse nel sangue dalla polizia
bengalese con un morto e decine di feriti tra i sindacalisti. Ma
il progresso industriale indiano non si può fermare: le esigenze
dei contadini di ritornare in possesso delle terre di Singur,
tanto fertili da dare cinque raccolti l'anno, stanno per essere
dimenticate. La notizia del momento è “l'auto più economica del
pianeta”.
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10 gennaio
Guantanamo si è
spostata in Afghanistan
'Camp Delta' si svuota mentre la
prigione Usa di Bagram, vicino Kabul, straripa di detenuti
Anni
di denunce e di battaglie condotte dalle organizzazioni per la
difesa dei diritti umani di mezzo mondo hanno costretto
l’amministrazione Bush a cedere sul lager di Guantanamo, ormai
destinato alla chiusura e già oggi parzialmente svuotato. Una
vittoria solo apparente, visto che lontano dai riflettori, in
Afghanistan, il Pentagono ha nel frattempo ampliato quella che si
può a buon titolo definire come ‘la madre di tutte le prigioni Usa
della vergogna’: il centro di detenzione militare statunitense di
Bagram, a nord di Kabul, dove nel 2002 vennero sperimentate le
tecniche d’interrogatorio successivamente esportate ad Abu Ghraib e
nella stessa Guantanamo.
Inizialmente usata come centro di detenzione temporanea dei
prigionieri di guerra appena catturati in Afghanistan e Pakistan, in
attesa del loro trasferimento oltreoceano a Guantanamo, Bagram, con
la progressiva dismissione della prigione cubana, ha accumulato
detenuti prendendo di fatto il posto del famigerato ‘Camp Delta’
come centro di detenzione Usa in via definitiva. Se i detenuti di
Guantanamo sono scesi dai 775 iniziali ai 275 di oggi, gli ‘ospiti’
di Bagram sono progressivamente cresciuti fino agli attuali 630.
Torture e violenze sistematiche. Nei mesi scorsi, la Croce
Rossa Internazionale (Icrc), unica organizzazione ad avere un
limitato acceso a Bagram, ha denunciato che nella ‘nuova Guantanamo’
i detenuti vengono trattati peggio che nella vecchia, sottoposti a
“trattamenti crudeli contrari alle Convenzioni di Ginevra”.
Già nel 2004, quando Bagram era ancora un piccola prigione, Human
Rights Watch aveva denunciato le torture e le violenze, spesso
letali, a cui i prigionieri vengono sottoposti in questo centro di
detenzione: privazione del sonno, del cibo e della luce, isolamento
completo dei detenuti, tenuti per giorni incappucciati, appesi per i
polsi e violentemente picchiati a intervalli regolari. Emblematica
la storia di Habibullah e Dilawar, 28 e 22 anni: il primo morì il 4
dicembre 2002, appeso al soffitto della sua cella, per un’embolia
polmonare dovuta ai grumi di sangue provocati dalle percosse
ricevute; il secondo morì sei giorni dopo in seguito a un infarto,
anch’esso attribuito alle percosse.
Bagram, dove tutto è iniziato. A ideare questi sistemi
‘sperimentali’ di interrogatorio nel 2002 fu il capitano Carolyn
Wood, una soldatessa di 34 anni, comandante del plotone
d’interrogazione di Bagram, che nel gennaio 2003 venne premiata con
una medaglia al valore per il suo “servizio eccezionalmente
meritevole”. Nel luglio del 2003, la ‘signora delle torture’ e la
sua squadra vennero trasferiti dall’Afghanistan all’Iraq con la
missione di insegnare il ‘modello Bagram’ ai carcerieri della
prigione militare di Abu Ghraib, dove la Wood fece affiggere un
cartellone d’istruzioni che prescriveva in maniera dettagliata il
ricorso alle tecniche sperimentate a Bagram, compresa la sospensione
al soffitto e l’utilizzo dei cani. L’estate scorsa l’esercito Usa ha
lasciato il carcere di Abu Ghraib in mano agli iracheni. Buona
notizia, almeno per le coscienze degli statunitensi.
Ora il cerchio si chiude e tutto torna dove era iniziato, a Bagram,
destinato a diventare il più grande lager statunitense del mondo.
Enrico Piovesana
Ricomincia la
strage
Operazione dei corpi speciali
algerini in Cabilia, dove sembra tornata la sporca guerra
''La situazione sta degenerando in
maniera inquietante, la psicosi sta dilagando tra la popolazione. È
necessario agire immediatamente''. A parlare è Mohamed Ikherbane,
presidente della provincia di Tizi Ouzou, capoluogo della Cabilia,
100 chilometri a est di Algeri.
Fantasmi del passato. Il tono del funzionario governativo
ricorda i tempi bui della guerra civile in Algeria, negli anni
Novanta, quando almeno 150mila algerini persero la vita nei massacri
perpetrati dall'esercito e dai miliziani fondamentalisti.
In effetti l'ultimo anno in Algeria è stato davvero duro: almeno 355
persone hanno perso la vita. Cifre che non si vedevano da anni. Ieri
l'esercito algerino ha lanciato una vasta offensiva delle truppe
speciali nella foresta di Jebel el-Ouehch (la montagna del mostro),
vicino a Costantina, 400 chilometri a est di Algeri.
I militari hanno utilizzato anche elicotteri da combattimento appena
acquistati per bombardare i presunti rifugi dei miliziani tra le
montagne della zona.
Nell'operazione hanno perso la vita quattro guardie comunali e due
militari, mentre sono almeno due i guerriglieri uccisi durante il
rastrellamento. Lo riferisce oggi la stampa algerina, che riporta da
giorni notizie di scontri nella zona, esplosi dopo il ritrovamento
di quattro uomini sgozzati in un villaggio alla periferia della
città, ma nessuna conferma è ancora arrivata dalle autorità.
Secondo il quotidiano El Watan, sarebbero state le segnalazioni
degli abitanti della zona a spingere l'esercito all'inseguimento di
un gruppo armato, composto da una ventina di uomini.
Il 2008 pare dunque iniziato come era finito il 2007: nel sangue. Il
2 gennaio a Naciria, in Cabilia, un'auto guidata da un attentatore
suicida si è lanciata contro una caserma di polizia, uccidendo
quattro persone e ferendone 25. L'attacco è stato rivendicato da
al-Qaeda per il Maghreb islamico, la sigla che alla fine del 2006 ha
preso il posto del Gruppo Salafita per la Predicazione e il
Combattimento.
Terrore, da nord a sud. Il governo di Algeri è in
fibrillazione e, ieri, esperti e specialisti del settore hanno
partecipato al forum del quotidiano algerino El Moudjahid,
interamente dedicato a questo tema. In particolare si è parlato
dell'utilizzo di internet da parte delle organizzazioni
terroristiche, non solo per comunicare tra loro, ma principalmente
per reclutare nuovi adepti. ''Usiamo internet per tentare di
rintracciare i terroristi che usano siti web per reclutare giovani,
ma anche per comunicare tra loro, trasmettere comunicati al pubblico
e ai governi'', ha dichiarato Moostefaiui Abdelkader, commissario di
polizia, ''ma è quasi impossibile visto che la maggior parte dei
siti usati dai terroristi sono creati all'estero''.
La presenza di gruppi armati legati ad al-Qaeda non riguarda solo la
Cabilia, ma anche l'Algeria meridionale, al confine con Mali e
Niger.
L'algerino Said Janit, responsabile per la Pace e la Sicurezza
dell'Unione Africana, lo ha ricordato in una recente intervista,
nella quale dava per certa la presenza di al-Qaeda in Africa.
Durante il Vertice panafricano, che si terrà alla fine del mese in
Etiopia, verrà affrontato il controverso progetto statunitense
Africom, che punta a istallare basi militari Usa nel continente e al
quale molti paesi africani si oppongono.
Mondanità
dell'aborto
Ida Dominijanni
Quanto sia sacra la vita umana,
ultimativa la decisione di metterne o non metterne una al mondo (e
abissalmente diversa da quella di sopprimerne un'altra per punirla
di un delitto), impegnativa la cura per inserirla nell'umano
consorzio, sono verità che ciascuna donna del pianeta, in qualunque
latitudine, sotto qualunque dio e qualsivoglia regime, conosce assai
meglio di qualunque papa, qualunque principe e qualsivoglia
consigliere di papa e di principe. Papi, principi, aspiranti
principi e zelanti consiglieri lo sanno benissimo, come sanno
benissimo che una legge può riconoscere questa sapienza femminile e
il potere sulla vita che ne deriva, ma nessuna legge può revocarli.
Punto.
A capo. Che cosa muove dunque la mobilitazione permanente sulla
questione dell'aborto che agita le democrazie occidentali, i loro
angeli teodem e la cupola vaticana sopra di loro? Non certo il
tentativo, perso in partenza, di sottrarre alle donne questo
primato. Bensì quello di colpevolizzarlo, privatizzarlo, ricondurlo
nell'ombra di quella dimensione «naturale» da cui la parola
femminile lo strappò alcuni decenni fa per portarlo alla luce del
sole, della politica, del diritto. Non è un conflitto sulla
sacralità della vita. È un conflitto, nient'affatto sacro e tutto
mondano, per il potere di parola sulla vita, un conflitto nel quale
alcuni uomini si allineano al Dio creatore che dicono di adorare per
alimentare il proprio desiderio di onnipotenza e rimuovere il limite
imposto a questo desiderio dalla parola dell'Altra.
È un conflitto antico e ritornante, e non ci sarebbe niente di nuovo
se la strumentalità del momento non ci mettesse, di volta in volta,
il sale e il pepe di qualche macabra aggravante. Non si tratta solo
dell'osceno paragone - più osceno nell'implicita versione papalina
che in quella esplicita del direttore del Foglio - fra l'aborto e la
pena di morte. C'è sotto un altrettanto torbido rimestio fra
religione, scienza, politica, morale e diritto che confonde,
piuttosto che rilanciare, il dibattito pubblico, e non solo in
Italia. Anche negli Stati uniti, dove l'aborto è come sempre una
delle issues centrali della competizione elettorale, la richiesta
pressante di una «ridefinizione» morale, giuridica e politica della
questione (e di altre, come l'omosessualità) passa - si veda il New
York Times di domenica - attraverso il cambiamento dei paradigmi
scientifici e dei protocolli medici e farmacologici. In una sequenza
neo-deterministica in cui biologia, genetica, morale e religione si
alleano a produrre un nuovo ordine «oggettivo» del discorso che fa
fuori la soggettività delle donne e degli uomini in carne e ossa.
L'unica tutt'ora in grado di avere la meglio su una politica laica
balbettante, e su un'autorità religiosa evidentemente così incerta
da appoggiarsi alle protesi che trova.
7 gennaio
Il ministero prevede 20mila studenti
in più ma taglierà 10mila posti
"Ma correggeremo gli squilibri del sistema". Più colpite elementari e
superiori
Gli alunni aumentano, le
classi calano
sono in arrivo i tagli per la scuola
di SALVO INTRAVAIA
Nuvole nere sulla scuola
italiana: gli alunni aumentano e le cattedre diminuiscono. Per il prossimo
anno scolastico i tecnici del ministero hanno previsto un incremento di 20
mila alunni cui corrisponderà un taglio di 10 mila posti. Al di là di tutti
gli interventi di architettura di "sistema" ipotizzati su docenti e classi
dalle ultime due Finanziarie, l'ulteriore taglio di posti accrescerà la
probabilità che, nel 2008/2009, gli alunni si ritrovino in aule sempre più
affollate.
Del resto, che nelle scuole italiane ci siano classi con 30 o più alunni non
è un segreto per nessuno. Lo ha confermato recentemente lo stesso ministero
della Pubblica istruzione nel Quaderno bianco che sul tema conta di "operare
le economie soltanto dove si verificano gli sprechi".
Ma andiamo con ordine. Le iscrizioni all'anno scolastico 2008/2009 scadono
il prossimo 30 gennaio e la complessa macchina ministeriale è già in moto
per farsi trovare pronta all'appuntamento. Il primo atto è proprio la
predisposizione del cosiddetto organico di diritto, sulla base del quale si
faranno le immissioni in ruolo a partire dal settembre 2008 e i
trasferimenti degli insegnanti, per i quali ci sarà tempo fino al prossimo 5
febbraio. L'ennesimo colpo di scure sulla consistenza dei prof, già previsto
in Finanziaria e accompagnato da un probabile calo delle classi, è emerso
dal primo incontro tra sindacati e dirigenti di viale Trastevere, svoltosi
lo scorso 3 gennaio.
Di fronte alla prospettiva dell'ennesimo "risparmio sull'istruzione", i
rappresentanti di categoria hanno espresso tutto il loro disappunto per
"tagli indiscriminati che perseguono esclusivamente un obiettivo di
contenimento della spesa a discapito della qualità del servizio", dicono
dalla Uil e dalla Cisl scuola.
"Il taglio stabilito nella Finanziaria 2007 - spiega Giuseppe Fiori,
direttore generale per il personale - è stato rimodulato in quattro anni.
Nel 2008/2009 dobbiamo tagliare 10 mila posti di insegnanti e mille di
personale non docente. Per realizzare le economie, salvaguardando il
sostegno e il tempo pieno alla scuola primaria, ci soffermeremo sugli
sprechi esistenti ancora nel sistema". Per evitare le classi superaffollate
i tecnici del ministero cercheranno di intervenire su quelle con pochi
alunni. "Nella predisposizione degli organici occorrerà evitare prime classi
con un numero di alunni troppo basso". In buona sostanza, "presidi e
direttori scolastici dovranno fare la loro parte" evitando la formazione di
classi con meno di 15 alunni. Ma c'è anche qualche elemento di novità. "A
partire dal prossimo anno, in 10 province verrà attivato un organico
sperimentale che si prefigge di assegnare ai territori quote di organico più
aderenti alle esigenze delle scuole e mira ad una maggiore stabilità del
personale". Basteranno questi interventi a portare in porto i risultati
sperati?
Il taglio colpirà soprattutto la scuola elementare e il superiore. Nella
scuola dell'infanzia il ministero prevede di confermare gli stessi
insegnanti dell'anno in corso e nella scuola primaria, nonostante un
incremento previsto di circa 7 mila alunni, salteranno 5 mila cattedre. Alla
media che dovrebbe veder crescere la popolazione scolastica di 22 mila unità
saranno assegnati mille posti in più e al superiore si prevede un taglio di
6 mila posti parzialmente giustificati da un calo di 9 mila alunni. L'unica
buona notizia arriva dal sostegno. Sarà possibile attivare quasi 94 mila
posti (5.600 in più dell'anno in corso) con la stabilizzazione di quasi 15
mila insegnanti.
Di fronte alle pressioni del ministero dell'Economia la scuola già quest'anno
ha dato il suo contributo al risanamento dei conti pubblici. Nell'anno in
corso a fronte di un incremento totale di 15 mila alunni, sono state
tagliate poco più di 9 mila cattedre e oltre mille classi. In tutti e
quattro i segmenti dell'istruzione italiana il rapporto alunni classi è
cresciuto aumentando la probabilità per gli alunni di ritrovarsi in classi
superaffollate. Nel 2005/2006, a fronte di un tetto massimo di 28 alunni
stabilito dalle norme, il Quaderno bianco redatto da viale Trastevere dava
conto di oltre 2 mila classi con 30 o più alunni.
L'Istat ha reso nota la stima
preliminare sul mese di dicembre
Salgono benzina e gasolio ma anche pane, pasta e cereali
Inflazione al 2,6 ai massimi
dal 2003
Aumentano carburanti e alimentari
ROMA - Balzo dei prezzi a dicembre. L'inflazione è arrivata al 2,6%,
dal 2,4% di novembre, salendo così ai massimi dall'ottobre del 2003. Lo
comunica l'Istat nella stima preliminare precisando che su base mensile i
prezzi sono aumentati dello 0,3%. Dai dati risulta che la ripresa del
carovita si deve principalmente al comparto dei beni.
L'inflazione media annua nel 2007, invece, si è attestata all'1,8%. Secondo
l'Istat si tratta del dato più basso dopo il 1999, quando fu pari all'1,7%.
Nel 2006 fu del 2,1%.
Come detto, l'accelerazione di dicembre si deve prevalentemente ai
carburanti e agli alimentari, in particolare pane e pasta. Il comparto
energetico ha infatti registrato una crescita dell'1,1% congiunturale e del
6,5% tendenziale, dovuta per lo più ai carburanti. Tra i prezzi energetici,
sono aumentati in particolare quelli della benzina dell'1,5% su mese e
dell'11,6% su anno, quelli del gasolio rispettivamente del 3,7% e del 15,4%
mentre i combustili per riscaldamento hanno messo a segno una crescita
dell'1,1% e del 13% tendenziale. Nuovo balzo in avanti per prezzi di pane,
cereali e pasta.
Un effetto di contenimento dell'inflazione è venuto dai medicinali, che
scendono dello 0,1% congiunturale e del 2,7% sull'anno, e dagli apparecchi
telefonici, con un calo dei prezzi del 2,9% su novembre e del 7% sull'anno.
Passando ai servizi, una spinta all'inflazione arriva invece dai prezzi di
ristoranti e bar, saliti del 3,5% su base annua. Crescono del 4% tendenziale
anche i servizi di manutenzione dei mezzi di trasporto e del 3,6% i servizi
medici, mentre registrano un calo dell'1,7%, sempre su base annua, le
tariffe aeree.
Odissea carcere
di Riccardo Bocca
Dopo un anno l'effetto indulto è già svanito. Spazi insufficienti, poco
personale e leggi come la Bossi-Fini che continuano a spedire in prigione
migliaia di extracomunitari. Così le carceri italiane scoppiano di nuovo
Detenuti appena scarcerati
dal penitenziario di San Vittore a Milano
Le carceri italiane crollano. Collassano sotto il peso di 49
mila 442 detenuti: 6 mila e 200 in più rispetto a quelli
previsti dal regolamento. Per farsi un'idea, da ottobre a dicembre 2007
sono finite in cella oltre mille persone al mese. E il 2008 parte con
l'allarme lanciato a 'L'espresso' da Ettore Ferrara, capo del Dap
(Dipartimento amministrazione penitenziaria): "La situazione sta
diventando irrecuperabile", dice: "C'è un rubinetto aperto che allaga la
casa, e tutti guardano senza intervenire".
Non è questione di Nord o Sud: il sovraffollamento è ovunque.
Prendiamo San Vittore, a Milano: "Con due reparti
chiusi per ristrutturazione, la capienza maschile è di 700 unità",
racconta Luigi Pagano, responsabile dei penitenziari lombardi: "Invece
gli uomini sono 1.187, senza contare le 97 donne e i 77 ricoverati del
centro clinico". Ti sposti in Liguria, a Genova, e lo
scenario è simile: la capienza limite, al carcere di Marassi, è di 450
posti. Ma il Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria,
segnala la presenza di "oltre 600 detenuti", con una carenza stimata "di
più di 120 agenti". Come in Sicilia, dove da agosto
2007 il tutto esaurito abbonda: nel carcere Piazza Lanza di
Catania, ad esempio (399 detenuti contro i 245 previsti). Ma
anche ad Agrigento (294 contro 253) e
Barcellona Pozzo di Gotto (256 contro 216).
È una lunga storia: da sempre le nostre prigioni scoppiano. Già nel 2002
i reclusi erano 56 mila, e a luglio 2006 sfondavano quota 60 mila. Poi
però è arrivato l'indulto, e all'improvviso 26 mila persone sono tornate
libere. "Il primo impatto", dice Pagano, "è stato ottimo. Finalmente
abbiamo tirato il fiato. E ragionato con tranquillità sull'impiego delle
nostre forze". Peccato che, dall'estate scorsa a oggi, il 23,8 per cento
degli indultati sia tornato in cella. E siano cresciute, in parallelo,
le percentuali di reati come rapina, truffa e tentato omicidio. La
sintesi di un provvedimento fallimentare, denuncia chi non l'ha votato
(come An e Lega). Ma anche la principale causa del nuovo
sovraffollamento, ormai a un passo dai livelli del 2005.
Un'interpretazione contestata da Emilio Di Somma, vicecapo del Dap:
"L'indulto c'entra poco con il fenomeno del sovraffollamento. Piuttosto,
la percentuale media di recidiva, per gli ex detenuti, è attorno al 70
per cento. E chi esce di prigione viene aiutato poco, pochissimo. Dunque
è inevitabile, nelle condizioni attuali, che le carceri si ingolfino. E
che si attacchi l'indulto senza affrontare le vere cause".
A cosa si riferisce, è presto detto. Il primo punto scomodo è
quello degli extracomunitari. Negli anni Novanta
rappresentavano il 15 per cento della popolazione carceraria italiana.
Oggi sono il 37 per cento, pari a 18 mila 454 persone provenienti da 144
paesi. "Un dato impressionante", commenta Ferrara, "che resterà tale se
non si mette mano alla Bossi-Fini, aiutando gli stranieri a vivere in
maniera dignitosa". L'altro punto scomodo è la divisione in carcere tra
chi è stato condannato e chi è in attesa di giudizio. Su 49 mila 193
detenuti, ben 29 mila 137 rientrano nella categoria degli imputati,
mentre 18 mila 569 sono i condannati e gli 1.487 internati (ossia
ricoverati in ospedali psichiatrici giudiziari). Gran parte di chi è
parcheggiato in cella, insomma, non conosce ancora il suo destino. E suo
malgrado contribuisce al sovraffollamento. "Perché fino alla condanna",
ricorda Di Somma, "i detenuti sono esclusi dai progetti di
riabilitazione". Inoltre, aggiunge Vittorio Antonini, coordinatore a
Rebibbia dell'associazione Papillon, "due terzi di coloro che hanno
diritto alle misure di pena alternative se le vedono rifiutare". Il che,
dice, autorizza un sospetto: che "sulle decisioni dei magistrati di
sorveglianza, influisca la pressione delle campagne pubbliche in materia
di sicurezza".
Il clima è questo: elettrico. Anche, anzi soprattutto, quando il
discorso cambia, passando alla lunghezza assurda dei processi penali: la
grande madre di tutti i sovraffollamenti.
Un disastro che il ministro della Giustizia,
Il carcere milanese di San Vittore
Clemente Mastella, affronta come può: schierandosi, ad
esempio, per la creazione di nuovi carceri. Al momento, ha detto lo
scorso autunno, "sono in via di realizzazione 5 mila 886 posti letto",
ai quali se ne aggiungeranno "altri 800 nel corso del 2008". Da parte
sua, il ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro
ha annunciato l'ampliamento di "alcuni penitenziari, in modo da
recuperare 3 mila 300 posti": ai quali, ha detto, "se ne aggiungeranno 4
mila nel triennio 2007-2009". Un investimento da 70 milioni euro che non
piace a tutti. "È sbagliato", sottolinea Di Somma, "credere che le nuove
carceri aggiungano posti letto. Andranno invece, in linea di massima, a
sostituire strutture fatiscenti. Inoltre, se parliamo di nuove prigioni,
dobbiamo toccare un altro tema scivoloso: la mancanza di personale per
gestirle e la carenza cronica di fondi".
Questioni ben note, a chi è costretto a vivere dentro una cella. "Nella
stragrande maggioranza delle prigioni", scrivono i redattori-detenuti di
'Ristretti orizzonti', rivista nata dalla sinergia tra il penitenziario
femminile della Giudecca (a Venezia) e quello di Padova, "il personale è
endemicamente sotto organico, e costretto a turni di lavoro
massacranti". Per non parlare degli altri operatori sociali. "Ad
esempio", si legge, "a Padova ci sono soltanto due educatrici per oltre
700 detenuti, contro le dieci previste dalla normativa".
Un'altra faccia triste del sovraffollamento. Una delle tante. "A partire
dai pericoli per la salute fisica e psichica dei detenuti", dice Luigi
Pagano, "trascurata a volte per l'impossibilità oggettiva di seguire
tutti quanti". Tra gli esiti più tragici, quelli catalogati sotto la
voce 'suicidi': 52 nel solo 2007.
Policlinico un inferno dopo
di Fabrizio Gatti
A un anno dalla nostra denuncia siamo tornati all'Umberto I di Roma.
Nonostante appelli e promesse nulla è cambiato. Incuria, sporcizia e gli
stessi baroni
La premiata ditta Ubaldo Montaguti
Un progetto da 28 milioni di euro. È quanto verrà speso per
ristrutturare i sotterranei del Policlinico Umberto I. A
cominciare dallo smaltimento e la bonifica delle opere in
amianto. Tempi di realizzazione: entro la primavera 2008. Il
rischio che la tabella di marcia annunciata un anno fa non sia
rispettata è ormai evidente. E si aggiunge un dubbio: vale la
pena spendere così tanti soldi per i corridoi sotto terra ...

Si può cominciare come un anno fa. Dal corridoio di terapia intensiva
della clinica pediatrica. L'attesa dei genitori su una panca. Il pianto
lontano di un neonato. La stessa porta scorrevole che chiude la camera
asettica dove i bimbi più gravi si aggrappano alla vita. E nove passi
più avanti, ecco il pavimento ricoperto di mozziconi di sigaretta, i
filtri aspirati fino all'ultimo tiro, le cicche gettate accese e
lasciate bruciare a terra. Uomini e donne in camice bianco o azzurro si
nascondono qui in qualche pausa strappata al lavoro. A volte l'odore di
fumo arriva fino al reparto in cui i loro piccoli pazienti meriterebbero
aria sempre pulita.
Esattamente come un anno fa. Nove passi non sono niente
in un sotterraneo senza sbocchi né finestre. E come un anno fa si può
andare a contare gli escrementi sul pavimento che porta ai laboratori di
immunologia e ai ricoverati di malattie infettive: dopo cinque giorni e
quattro notti lo schifo è sempre lì. L'anno scorso, più o meno dalle
stesse parti, le cacche dei cani randagi erano due. Ora sono quattro.
Nessuno pulisce, nessuno chiama l'impresa di pulizie. Unica differenza,
giorno dopo giorno, le impronte delle ruote delle lettighe e degli
zoccoli degli infermieri che prima o poi ci finiscono dentro.
Dodici mesi dopo l'inchiesta-denuncia de "L'espresso", il
Policlinico Umberto I di Roma è ancora questo. Il risultato di
un'infernale giostra di poteri intoccabili, di interessi personali.
Soldi e carriere giocati sulla salute dei cittadini e sull'impegno di
medici e infermieri che ancora credono nelle eccellenze e nell'ospedale
dell'Università La Sapienza, il più grande d'Italia.
Adesso va perfino peggio. Il 18 ottobre un neonato è morto. Una tragedia
passata sotto silenzio. La mamma era arrivata al dipartimento di scienze
ginecologiche con una grave sofferenza fetale. In questi casi bisogna
fare immediatamente un taglio cesareo. Lei ha dovuto aspettare quattro
ore. Secondo più testimoni, il letto operatorio per le emergenze di
ostetricia era occupato per un intervento non di emergenza
all'intestino. Questo è un ospedale in cui, su cinque dipartimenti da
poco ispezionati, nessuno compila le liste d'attesa delle operazioni e
dei ricoveri nei registri ufficiali. La confusione e l'uso di quaderni e
bigliettini volanti aiuta i medici a mandare avanti i pazienti
raccomandati da cliniche e studi privati. Così non è stato difficile
convincere i genitori che le condizioni del loro piccolo fossero già
gravi e che il suo destino fosse comunque segnato. E il bimbo che ha
dovuto aspettare quattro ore prima di nascere dopo qualche giorno ha
smesso di respirare.
apparecchiature abbandonate
Nessuno si aspettava in un anno la ristrutturazione di tutto l'ospedale
e dei suoi decrepiti corridoi sotterranei. Ma la buona gestione dei
dipartimenti, il rispetto delle norme igieniche, la separazione dei
percorsi tra pazienti e rifiuti dovrebbero sempre far parte dei servizi
garantiti. Invece nemmeno le tante indagini sul Policlinico aperte nel
2007, amministrative e penali, sono state un deterrente. Lo studio più
promettente l'aveva avviato in Senato la Commissione parlamentare di
inchiesta sull'efficacia e l'efficienza del servizio sanitario
nazionale. In 12 mesi non ha prodotto nulla, se non una corposa raccolta
di resoconti in cui amministratori locali, medici e professori hanno
messo a verbale la loro versione del mondo. Il viaggio per raccontare
cosa non è mai cambiato nel più grande ospedale d'Italia può partire
proprio dai banchi dei 21 senatori di maggioranza e opposizione guidati
dal presidente di Forza Italia, Antonio Tomassini.
Il 7 novembre la commissione di inchiesta convoca il commissario
per il contrasto della corruzione, Achille Serra. In ottobre
gli agenti in borghese dell'Alto commissariato sono entrati nel
Policlinico Umberto I. E in 16 giorni sono riusciti a vincere la
diffidenza, tanto da mettere a verbale le testimonianze di alcuni
medici, di infermieri e strumentisti. Sono le prime testimonianze
spontanee sotto il coperchio di omertà che da anni consiglia al
personale il silenzio per paura di ritorsioni professionali e fisiche.
Il verbale della seduta è pubblico. Serra riassume le gravi irregolarità
riscontrate in quattro dipartimenti di chirurgia e in quello di
ginecologia. Ma sotto accusa, invece della gestione del Policlinico,
finisce l'Alto commissariato. Le lamentele sono affidate al senatore di
An, Cesare Cursi: "Vorrei ricordare a me stesso e ai presenti che le
singole aziende ospedaliere e i policlinici sono di competenza
regionale... Questa commissione doveva essere informata di un'indagine
che, a mio parere, ha poco a che vedere con le funzioni di prevenzione e
contrasto della corruzione e di altre forme d'illecito". Insomma, gli
agenti anticorruzione non dovevano ficcare il naso nelle storie del
Policlinico perché, tra l'altro, già lo stava facendo la commissione di
inchiesta del Senato. E le pesanti testimonianze raccolte dall'Alto
commissariato che nessuno altrimenti avrebbe conosciuto?
A leggere il verbale, nessun senatore sembra interessarsi. Il
particolare non è di poco conto per il futuro dell'inchiesta
parlamentare e per l'efficacia delle direttive che il Parlamento
dovrebbe fornire. Perché Cesare Cursi è il relatore dell'indagine sul
Policlinico e sugli altri ospedali universitari italiani. E il percorso
che seguirà la commissione dipende soprattutto da lui che durante il
governo Berlusconi è stato sottosegretario alla Salute. Un esperto di
sanità con qualche problema di conflitto di interessi in casa, come ha
scoperto "L'espresso". La moglie del senatore, Lia Viviani, possiede e
dirige una casa editrice, la Viviani Editore, che infatti ha tra i suoi
principali clienti colossi della farmaceutica come Baxter, Fondazione
Pfizer e Serono. Le tre società sono tra i fornitori del Policlinico
Umberto I. E proprio per la Baxter il Policlinico ha sperimentato
l'efficacia dei suoi farmaci nell'oncologia pediatrica. In altre parole,
la famiglia del senatore che indaga sul Policlinico è in affari, secondo
il sito Internet della Viviani Editori, con società che in via teorica
potrebbero essere penalizzate o favorite dall'inchiesta sulle spese e
gli sprechi dell'ospedale universitario. Questo, va detto, non è
assolutamente un reato. Secondo il galateo anglosassone della politica,
però, il senatore Cursi avrebbe dovuto dichiararlo pubblicamente prima
di assumere l'incarico dell'inchiesta. A Londra i ministri si dimettono
per molto meno. Ma siamo al Policlinico di Roma. E ai commissari del
Senato italiano evidentemente sta bene così.
Le testimonianze raccolte dall'Alto commissariato contro la corruzione
sono state intanto inviate alla Procura di Roma e ai magistrati della
Corte dei Conti. L'elenco delle irregolarità è ormai conosciuto. La
mancanza di liste d'attesa ufficiali. La sostituzione di medici in sala
operatoria con colleghi esterni, senza nessuna registrazione nelle
cartelle cliniche, nelle note di intervento e nei documenti: un caso è
stato accertato con l'attività non dichiarata al Policlinico di un
primario del Campus Biomedico, l'università romana dell'Opus Dei. Fino
all'occupazione dei posti letto senza giustificati motivi per un totale
di 11 mila 500 giornate di degenza oltre la soglia. Ma nei verbali
inviati alla Procura e alla Corte dei Conti c'è una parte segreta. La
più pericolosa per gli interessi che a Roma legano medici e cliniche,
sanità pubblica e affari privati.
Un professore racconta che, per aggirare le lunghissime liste d'attesa,
i pazienti sono indirizzati ad altre strutture collegate a un direttore
di dipartimento. I malati che possono permetterselo, dopo essere
operati al Policlinico, vengono medicati negli studi privati.
Altrimenti dovrebbero aspettare troppo tempo: l'inefficienza è diventata
una forma di pressione per spingere i pazienti verso l'attività privata.
Un altro medico rivela di aver curato persone trattate prima in clinica
dai suoi superiori e poi ricoverate all'Umberto I senza transitare dai
canali ordinari. Anzi, avrebbero dovuto ricoverarle in altri reparti con
la specifica competenza e le attrezzature adeguate. Ma lì non avrebbero
trovato il dottore che le aveva raccomandate. Alcuni dipendenti parlano
delle presunte irregolarità nel dipartimento ostetrico-ginecologico. La
divisione ha due letti operatori, di cui uno da utilizzare soltanto per
le urgenze. Secondo la denuncia, però, la sala d'emergenza viene
quotidianamente usata per operare pazienti senza urgenza. Spesso
interventi oncologici di lunga durata. Così più volte si sono avuti casi
di sofferenza fetale acuta perché il letto operatorio era occupato.
L'ultimo episodio conosciuto, quello del 18 ottobre. Quattro ore di
criminale attesa e la morte del neonato.
Ne parla anche il commissario anticorruzione davanti alla commissione di
inchiesta: "Abbiamo verificato che i letti per l'urgenza non sempre
erano occupati da chi doveva subire un intervento urgente, ma magari
assegnati a chi doveva affrontare un intervento programmabile entro
cinque o sei ore o addirittura tre o quattro giorni", spiega Achille
Serra: "Da alcune audizioni abbiamo appreso della morte di un neonato,
la cui concausa sarebbe proprio la mancanza del letto d'urgenza,
occupato da chi invece non aveva urgenza di essere operato". Se fosse
andata così, sarebbe un omicidio colposo. Quel giorno però i senatori
della commissione sono più infastiditi dal fatto che l'Alto
commissariato anticorruzione si sia occupato dell'Umberto I.
Non sempre gli agenti in borghese hanno trovato la collaborazione del
personale del Policlinico. Il clima di cortesia e disponibilità in
alcuni dipartimenti si è subito dissolto. E, davanti all'ispezione, un
medico si è accasciato per un malore.
In un'azienda che funziona, se un dipendente commette un'irregolarità
viene richiamato o sottoposto a provvedimento disciplinare. Non
all'Umberto I. È il risultato della separazione di responsabilità tra
l'ospedale e il personale medico, che dipende quasi totalmente
dall'Università La Sapienza. Il direttore generale, Ubaldo Montaguti,
l'ha più volte dichiarato: "Le contestazioni disciplinari finiscono
regolarmente nel nulla: quando si tratta di personale universitario, la
competenza passa all'Università che, da quando sono direttore generale,
non ha mai dato seguito alle sanzioni disciplinari".
Sarà anche per questo che in novembre ricercatori e professori hanno
rieletto con un plebiscito il preside di Medicina, il prorettore della
Sapienza, Luigi Frati: 900 voti contro le 122 preferenze dell'unica
sfidante, la prima in 18 anni. Frati è il Policlinico. Il suo è il
settimo incarico consecutivo dal 1990 al vertice di Medicina. Indizio
che allo staff universitario l'Umberto I piace così com'è. Non importa
se sia l'unica università occidentale in cui i ricercatori vengono
selezionati e assunti con il seguente giudizio: "Il curriculum
scientifico non soddisfa... ma le prove hanno soddisfatto la
commissione". In fondo gli elettori di Frati li paghiamo noi. A
cominciare dai 202 stipendi da primario sui 148 previsti dall'atto
aziendale che attende ancora la valutazione della Regione Lazio. Sono 54
dirigenti più del necessario. E quando manca il candidato con il dovuto
curriculum professionale? Ci si arrangia. È per questo che due
primariati di chirurgia sono andati a un cardiologo e a un fisiopatologo
respiratorio.
Il peso dell'Università conta anche quando qualche medico del
Policlinico finisce sotto inchiesta per omicidio colposo. Non si trova
mai un consulente tra le facoltà di medicina di Roma che si metta contro
La Sapienza. E quelli che accettano l'incarico di solito assolvono i
loro colleghi. Proprio per questo la Procura da anni sta archiviando
tutte le denunce per morte attribuita alla mancata somministrazione di
farmaci contro l'embolia postoperatoria. A volte perfino di fronte a
cartelle cliniche che definire poco chiare è un benevolo eufemismo.
Il costo di questi farmaci per il servizio sanitario nazionale è di 19
euro a confezione. La loro mancata somministrazione in Italia provoca
una strage. Il presidente della commissione Sanità del Senato, Ignazio
Marino, stima 15 mila morti l'anno per tromboembolismo venoso. Tanto da
suggerire come in Gran Bretagna l'introduzione di protocolli uniformi
sulla profilassi e l'adozione nei reparti della valutazione del rischio
tromboembolico per ogni paziente. A Bologna, un urologo del Sant'Orsola
che aveva tentato di aggiungere la terapia anticoagulante nella cartella
clinica di una paziente morta in settembre per tromboembolia post
operatoria, è stato arrestato. A Roma molto probabilmente sarebbe stato
prosciolto.
Un anno fa, nel suo intervento su "L'espresso", il ministro della
Salute, Livia Turco, aveva scritto queste parole: "Siamo pronti a
mettere in gioco la nostra credibilità per riaffermare la fiducia e la
partecipazione dei pazienti e degli operatori sanitari, quali requisiti
fondamentali per un servizio sanitario realmente vicino ai cittadini e
ai suoi bisogni". Il direttore generale, Ubaldo Montaguti, finito a sua
volta sotto inchiesta per avere affidato un incarico alla moglie, medico
di direzione sanitaria, aveva accusato la politica nazionale: "Sono
andato da Micheli che è il sottosegretario di Prodi. Sono andato dal
senatore Mazzucchelli che è sottosegretario del ministro della Salute,
Livia Turco. Ho fatto informare il ministro Padoa-Schioppa e ho parlato
con il suo capo di gabinetto...". Qualcosa nel frattempo è stato fatto.
Il corridoio sotterraneo che porta a chirurgia 3 e a pediatria è stato
chiuso per la ristrutturazione. Sono state rimosse le discariche abusive
di rifiuti sotto il reparto di rianimazione. Tutti i locali sono stati
inventariati e assegnati. L'ufficio tecnico ha lavorato. I frigoriferi
soprattutto non se la passano male. Quelli pieni di provette contagiose
vengono finalmente chiusi a chiave. E ne sono stati comprati di nuovi.
Ma è la gestione di tutti i giorni che sorprende.
Così non resta che continuare il giro tra reparti e corridoi. Con la
solita macchina fotografica e la telecamera. I mozziconi di sigaretta
abbandonati accanto alla terapia intensiva pediatrica arrivano al
massimo di 13 il 27 dicembre. Lo stesso giorno dell'anno scorso erano
32: ma solo perché da una settimana non li raccoglieva nessuno. I
pazienti seminudi della rianimazione continuano a essere spinti in
barella lungo lo stesso sotterraneo dello smaltimento rifiuti. E spesso
agli stessi orari dei carrelli elettrici che trasportano l'immondizia ai
camion. Il personale esce ed entra nei corridoi asettici senza cambiarsi
gli zoccoli. I secchi per lavare il pavimento del pronto soccorso sono
incrostati di nero. Lungo il percorso verso immunologia barelle e
carozzelle vengono trascinate dentro un cunicolo basso da cui pendono
cavi elettrici e tubi scrostati. Nei corridoi di reparto ci sono armadi
non chiusi dove è possibile leggere le cartelle di centinaia di
pazienti. Basta aprire a caso qualche porta dei sotterranei e si
scoprono rottami, bombole di gas da cucina e di ossigeno vuote e
arrugginite, vecchi mobili di legno e plastica in locali senza nessun
sistema antincendio. E poi i cani randagi. La notte sono loro i padroni
del corridoio sotto il reparto di malattie infettive. Di giorno restano
gli escrementi. Passano medici e infermieri, qualche volta con i
pazienti. Una pensionata protesta lungo tutto il percorso perché la sua
mamma di 92 anni ora in carozzella l'hanno fatta aspettare sei ore su
una panchina. Le ruote delle lettighe e delle biciclette usate per gli
spostamenti interni hanno disseminato cacca per una decina di metri. Il
personale in camice bianco guarda e tira dritto. Come se quello schifo
non riguardasse il loro ospedale.
Pochi giorni prima di Natale su un muro appare un cartello con la
freccia: "Endemol". È la casa di produzione, stanno girando un film.
Fuori, davanti alle finestre di anestesiologia e rianimazione sembra il
Grande raccordo anulare durante l'esodo d'agosto. Arrivano camion con
luci e scenografie. I generatori diesel restano accesi ore, sotto nuvole
di smog e rumore. Da un minibus scendono gli attori. Un letto al
Policlinico non si nega a nessuno.
4 gennaio
Salari a
terra: -10%
Persi dieci punti di
potere di acquisto in 5 anni, i sindacati ribadiscono: giù
le imposte sul lavoro o sarà sciopero. Damiano: detassare
gli aumenti
Antonio Sciotto
Roma
E' un calcolo che sicuramente
non giunge nuovo ai lavoratori italiani, ma sicuramente è
l'ennesima conferma dello stato pietoso a cui siamo
arrivati: in cinque anni i salari del nostro paese hanno
perso il 10% del potere di acquisto. Lo studio è della OD&M,
risultato ottenuto rielaborando i dati Istat. Giustamente i
sindacati si sono pervicacemente concentrati sul tema, che
non è certo peregrino, anche se la fissazione odierna si
concentra tutta sulle tasse, e scende in secondo piano -
purtroppo - il fatto che ormai gran parte dei salari è
composta dalle buste paga di cococò e cocoprò, a compenso
libero e dunque ancor più rosicchiate dall'inflazione ed
escluse dalle statistiche ufficiali. E per i precari non
pare esserci alcuna soluzione, dato che il Protocollo sul
welfare li ha condannati a restare di serie B. In ogni caso,
per chi resta coperto dai contratti collettivi nazionali,
resta in piedi la minaccia dello sciopero generale, ribadita
ieri dal segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani:
ma è più nello sfondo, dato che comunque il premier Romano
Prodi ha convocato le parti sociali per la settimana
prossima (l'8), per un primo faccia a faccia.
Dal fronte governativo, ieri è arrivata anche una prima
«apertura», da parte del sottosegretario all'Economia
Alfiero Grandi: ha detto che «il governo si impegna a
ridurre il carico fiscale sui lavoratori», aggiungendo che
«anche le imprese però dovranno fare la loro parte per
affrontare la questione dei salari». Ma, ha concluso, «il
fisco non è in grado di sostituirsi agli incrementi
salariali che devono venire dalle imprese, dunque dai
rinnovi contrattuali e dalla contrattazione aziendale».
Sempre di detassazione si tratta, ma il riferimento lo ha
fatto il ministro del lavoro Cesare Damiano agli aumenti del
contratto nazionale: ieri ha aperto esplicitamente a una
richiesta classica della sinistra cosiddetta «radicale»,
affermando di non essere «contrario» all'idea di detassare
anche gli aumenti fissati con il contratto nazionale, però
«tenendo conto delle compatibilità finanziarie». Dall'altro
lato, Damiano ha aggiunto di essere favorevole a che i
contratti arrivino ad avere «una vigenza triennale».
Riferimento non casuale, dato che sul tavolo, a parte la
questione fiscale, finirà probabilmente anche il tema della
riforma dei modelli contrattuali.
A sinistra, d'altra parte, dopo la maxi-batosta del
Protocollo, che ha allontanato ancora di più gli elettori
dai partiti Rifondazione-Pdci-Verdi-Sinistra democratica, si
tenta di mettere una nuova toppa rinviando la «rivincita»
dei lavoratori alla cosiddetta «verifica» di gennaio. Quando
si aprirà un nuovo tavolone governativo, che rischia però di
essere un replay del vertice di Caserta: tanta fuffa
mediatica e niente arrosto, con la situazione dei precari
che rimane intatta e la Confindustria che resta salda al
timone della maggioranza di governo. Ma tant'è: la prossima
battaglia di Rifondazione è quella di tentare una nuova
stretta sui contratti a termine, annunciava ieri il
responsabile Lavoro Maurizio Zipponi. Questa volta chiudendo
i contratti a termine a un massimo di tre anni, dopodiché
scatterebbe l'assunzione a tempo indeterminato.
Intanto l'8 gennaio non sarà solo la data del tavolo
governo-parti sociali: riprenderanno anche le trattative tra
Fim, Fiom, Uilm e Federmeccanica per il rinnovo dei
meccanici. Il direttore generale di Federmeccanica si dice
fiducioso sull'esito, ma per aumenti più sostanziosi
rispetto all'attuale offerta ipotizza un aumento della
vigenza del contratto. Sono in tutto 6 milioni i lavoratori
in attesa del contratto: gli animi sono sempre più pronti
allo sciopero generale, tanto che l'incontro tra i direttivi
unitari di Cgil, Cisl e Uil per fissare la data di un
eventuale stop è previsto il 15 gennaio.
Maurizio Beretta di Confindustria però avverte il
«sindacato»: la minaccia di sciopero è «inutile e dannosa,
prosegua la concertazione».
Usura e
truffe all'Ue, la cronaca che non sfonda sui media
Non c'è solo il caso
Tassitani, ma anche un'inchiesta «stoppata» sulla Compagnia
delle opere e una superbanca «abortita»
Alpi Eagles sull'orlo del fallimento e le mitiche biciclette
Bottecchia che producono in Vietnam. L'altra faccia di un
«miracolo» sfumato
Ernesto Milanesi
Padova
L'ultimo Nordest non rimbalza in
prima pagina. Occorre l'orribile morte di Iole Tassitani (la
figlia del notaio rapita a Castelfranco e trovata a pezzi nel
garage del falegname di Bassano del Grappa) per accorgersi del
«primitivismo» che sta dietro l'apparente ricchezza. La cronaca,
qui, non fatica a regalare altri episodi meno eclatanti che
suonano da campanello d'allarme.
Padova è diventata la capitale delle truffe e dell'usura, «ramo
d'azienda» della malavita che si adatta all'ambiente e ne
sfrutta i punti deboli. Lo documenta il bel libro di Giampiero
Beltotto e Giancarlo Giojelli (Nuovi poveri, Piemme, pagine 206,
euro 12,90), prontamente rimosso dai cantori del «modello
veneto».
Intanto, nella procura della Repubblica viene abilmente
«stoppata» l'inchiesta della Guardia di Finanza sulla truffa
milionaria dei fondi europei. Pronto il fascicolo che avrebbe
messo spalle al muro i sei indagati (tutti appartenenti alla
holding della Compagnia delle Opere), ma non si è potuto
eseguire il provvedimento a causa di una formale interpretazione
giuridica: gli uomini del Nucleo tributario, coordinato dal
maggiore Antonio Manfredi, hanno dovuto ricominciare tutto da
capo.
Sempre a Padova, capodanno con brindisi per i direttori generali
dell'Azienda ospedaliera e dell'Usl 16: Adriano Cestrone e
Fortunato Rao hanno ottenuto la conferma dal governatore
Giancarlo Galan. La sanità è la «grande fabbrica», città nella
città che tiene insieme servizio pubblico e potere accademico,
ricerca d'eccellenza e appalti d'oro. Nella primavera 2004, un
furto stupefacente: 44 chili di droga evaporati dalla camera
blindata dell'Istituto di medicina legale. Nessuno ne ha più
saputo niente. Ora si profila la costruzione del nuovo ospedale
vicino allo «stadio delle tangenti», mentre si rattoppa il
vecchio policlinico con un piano triennale di lavori che vale
151 milioni di euro (più il mega-bando da 60 milioni, di cui si
ignora l'esito).
Una montagna di soldi pubblici alimenta anche i corsi di
formazione, specialità delle stesse associazioni di categoria e
sindacati d'impresa che sbraitano sul libero mercato e contro le
tasse. Ogni sigla ha clonato la sua società di servizi per la
gestione dei ricchi contributi che transitano dalla Regione.
Soltanto Carlo Covi (eletto nelle liste Sdi) ha sollecitato una
commissione d'inchiesta sul «portafoglio» affidato all'assessore
Elena Donazzan di An. Nessuna risposta, finora, agli atti del
consiglio regionale.
Schei sinonimo del Nordest che continua a mungere Roma e
Bruxelles, anche se ha perso le sue banche. Ed è passata sotto
silenzio l'abortita fusione concepita sull'asse Vicenza-Treviso,
la linea pedemontana dove la Lega Nord strizza l'occhio agli
industriali e amministra come la vecchia Dc dorotea. Banca
Popolare Vicenza e Veneto Banca contavano di diventare, insieme,
la nuova «cassaforte» del Veneto. La superbanca avrebbe dovuto
mettere d'accordo Gianni Zonin e Flavio Trinca con Vincenzo
Consoli (l'uomo del dopo Fiorani a Lodi) dietro la scrivania di
amministratore delegato. E' saltato tutto sulla spartizione
delle poltrone del consiglio di amministrazione: Vicenza ne
pretendeva nove, Treviso non si accontentava di sette.
Un altro segnale che dovrebbe mettere i brividi arriva dal cielo
sopra Tessera. Alpi Eagles, la compagnia aerea nata nel 1996 da
una pattuglia acrobatica, è di fatto sull'orlo del fallimento.
Simbolicamente, lo schianto delle ambizioni di un'imprenditoria
che ha provato a spiccare il volo fuori dai confini regionali.
Inutile l'aumento di capitale (6 milioni): ormai si sta
trattando la vendita della società di Paolo Sinigaglia.
Ancora cronaca, ma dal mare. Una vicenda emblematica che
racconta cos'è il «miracolo Nordest». Al porto di Venezia, da un
container sono spuntati telai e forcelle per le mitiche
biciclette Bottecchia. E' l'azienda trevigiana che sulle due
ruote vanta una storia secolare, oltre all'invenzione della
«Graziella». Un marchio di qualità internazionalmente
riconosciuto. Peccato che le componenti metalliche delle famose
biciclette arrivino via nave... dal Vietnam.
Neo gollismo e neo
colonialismo
Le accuse di Sarkozy alla Siria
portano alla rottura diplomatica. Sulla pelle del Libano
“La Siria ha deciso di porre fine alla
cooperazione con la Francia per la soluzione della crisi libanese”.
Walid al-Moallem, ministro degli Esteri siriano, si è fatto ieri
portavoce del risentimento di Damasco verso il presidente francese
Nicholas Sarkozy, incontrando il presidente Mubarak in Egitto, ha
attaccato tre giorni fa il governo della Siria.
Rottura
diplomatica. “La Francia non avrà più contatti con la Siria
fin quando Damasco non avrà dato prova della sua volontà di lasciare
che il Libano elegga in modo concordato un nuovo presidente”, ha
dichiarato Sarkò, che da subito ha basato il suo appeal politico
sulla fermezza e sull'allergia alle mezze misure.
Crisi diplomatica in atto, dunque,
sull'asse Damasco – Parigi, anche se il tavolo della partita è il
Libano, sempre più paralizzato dall'incapacità di eleggere un
presidente della Repubblica.Il prossimo tentativo per trovare un
accordo, che ormai in linea di massima pare raggiunto attorno alla
figura del capo delle forze armate Michael Suleiman, andrà in scena
al parlamento di Beirut l'11 gennaio prossimo, dopo 11 tentativi
andati a vuoto e dopo che a fine novembre è scaduto il mandato di
Emile Lahoud.
L'exploit di Sarkozy denota che la
Francia ha perso la pazienza e che ritiene responsabile del blocco
il fronte filo-siriano, vicino a Damasco come e quanto lo era prima
che le truppe della Siria lasciassero il Libano nel 2005.
Promesse
e interessi. Non a caso, all'inizio di dicembre, Sarkozy
aveva telefonato al presidente siriano Assad, chiedendo con
chiarezza che Damasco la smettesse di interferire con la politica
interna libanese. Il colloquio, considerate le dichiarazioni del
primo cittadino di Francia, non deve essere andato per il meglio,
anche se Moallem ha specificato ieri che era stato raggiunto un
accordo tra i due presidenti.
Il nuovo presidente libanese sarebbe
stato scelto con il consenso delle parti, dopo la formazione di un
governo di unità nazionale, che avrebbe provveduto a una nuova legge
elettorale. Per la Siria però, secondo quanto dichiarato ieri dal
suo ministro degli Esteri, gli Stati Uniti remano contro, perché un
accordo di questo genere non può prescindere dal consenso di
Hezbollah. Gli Usa non vedono di buon occhio un coinvolgimento della
milizia sciita filo-iraniana nei giochi di potere sul futuro del
Libano, ma Hezbollah è una realtà della quale non è possibile non
tener conto.
Neo
colonialismo. Lo screzio diplomatico, ancora una volta, ha
sottolineato come esista ancora una forma invasiva da parte della
grandi potenze d'intendere gli affari interni dei paesi ritenuti
strategici. E il Libano non fa eccezione. Se infatti Sarkozy accusa
la Siria di interferire nella vita libanese, tradisce allo stesso
tempo l'assoluto coinvolgimento di Parigi nel destino di Beirut. La
Francia, dopo la Prima Guerra mondiale e il dissolvimento
dell'Impero Ottomano, governò il Libano fino al 1943, quando il
'paese dei cedri' ottenne l'indipendenza, anche se le truppe
francesi abbandonarono il paese solo tre anni più tardi. Ma Beirut,
non a caso chiamata la 'Parigi del Medio Oriente', restò il punto di
riferimento della politica estera francese nel quadrante.
La Francia non è mai rimasta estranea
alla politica interna libanese, anche durante gli anni della guerra
civile (1975 – 1990), facendo spesso leva sui cristiani libanesi
come elemento di garanzia dei propri interessi nel paese. Adesso
Parigi ha anche rilevato il comando della missione Unifil, il
contingente Onu inviato in Libano dopo la guerra tra Hezbollah e
Israele del 2006.
L'atteggiamento neo gollista di
Sarkozy lascia intravedere una Francia sempre più protagonista in
politica estera, a cominciare dal Libano.
Un inciampo, una fatalità e tutto si
trasforma, l'esistenza deraglia
Storie di senzatetto fra vecchie coperte distese sui marciapiedi e mille
rimpianti
Vivere (e morire) da barbone
Quando la vita ti butta sulla strada
di FABRIZIO RAVELLI
GIANNI LA SCIARPA
a disegni Burberry se l'arrotola bene intorno al collo, poi infila il
cappotto blu che sarebbe anche elegante, blu anche il berretto di panno
a visiera tipo lupo di mare. Ha due borse, una 48 ore nera e una sacca
grigia. Scarpe nere moderne. La vestizione è alle cinque e mezza della
mattina, nella sala d'aspetto della stazione ferroviaria di
Greco-Pirelli. "Prima sistemo le mie cose. Ho i cartoni sotto, poi una
coperta, e il sacco a pelo. Piego tutto, e metto dietro la panchina di
fuori. Fanno tutti così, nessuno tocca niente. Se posso, faccio
colazione, sennò salto". Poi si avvia verso la sua giornata, e sembra un
viaggiatore in arrivo. "Certo io non mi sento un barbone. Non ho fatto
questa scelta".
Diventare barbone è un attimo, un inciampo, una fatalità. Brutta parola
barbone, ce ne sono di più corrette: va molto clochard, elegante, o
senzacasa, senzadimora. Gianni ha 57 anni, nato a Ragusa. Da tre anni
vive per strada. Non si sente un barbone, ma ha grande solidarietà e
rispetto per i suoi compagni di vita. Il suo amico Daniele, per esempio,
51 anni, droga e galera alle spalle, senza casa da una vita. Magro,
piccolo, e tossisce di continuo in questa mattinata di neve. "Daniele,
bisogna che ti curi, che vai dal medico". L'altro scuote le spalle e
tossisce. "Testa dura di un valtellinese, hai fatto la broncopolmonite
anche l'anno scorso".
L'inciampo di Gianni, quello che l'ha fatto deragliare, è stata una
malattia: "Epatite B, quando me l'hanno trovata ho perso il posto. Ero
chef sulle navi da crociera della Festival Cruise, in Oriente". E poi un
furto: "Sono tornato in Italia, e a Roma mi hanno rubato la 24 ore.
Dentro c'era il mio passaporto, e c'era la protesi. Sì, la dentiera. Era
il 2004. Siccome ero residente nelle Filippine, là avevo moglie e due
figlie, ci hanno messo un anno per ridarmi il passaporto, un calvario.
Da allora sto per strada. Senza dentiera, nessuno mi dà un lavoro. Lo
vedi? Mi restano solo questi tre denti davanti. Ho fatto dieci colloqui,
ma mi guardano in bocca e dicono di no".
Gianni parla sei lingue: "Quattro parlate e scritte: inglese, francese,
tedesco, spagnolo. Due solo parlate: cinese e giapponese". Nel suo
italiano c'è traccia di pronuncia inglese. Ha girato il mondo. In borsa
ha un curriculum che comincia nel '63, scuola alberghiera Tre Stelle di
Stresa e finisce sulla motonave Flamingo, Festival Cruise Line. In
mezzo, quattro diplomi in Food and Beverage Management, e tredici posti
di lavoro: hotel, ristoranti, navi, in tutto il mondo. Ha una domanda di
impiego in inglese, ("applicazione", dice traducendo), con tanto di
indirizzo e-mail e cellulare ("Usato, me l'ha regalato una suora amica
mia"). Il suo indirizzo è quello del Centro Sos, comunità Exodus di don
Mazzi: "Ci vado spesso, si possono vedere gli amici e fare quattro
chiacchiere, e c'è da leggere". A cento metri dal Grand Hotel Gallia,
dove Gianni è stato assistente chef nel '74-'75.
La sua giornata è questa: "Mi alzo alle cinque e mezza. C'è anche chi
dorme fino alle sette, ma io lo faccio per rispetto dei viaggiatori.
Dobbiamo liberare la sala. Adesso siamo otto singoli e due coppie. La
sala è riscaldata, ci lasciano stare, e nessuno fa casino o si ubriaca".
Prende su le sue borse, e si incammina verso la fermata dell'81. "Vedi,
il mio segreto è questo: io faccio come se dovessi lavorare, come se
avessi sempre un'occupazione. Vivo di espedienti, sì. Però non rubo, e
non chiedo l'elemosina per strada. Per me è una questione di orgoglio
personale". Si arrabatta: "Ho chiesto il sussidio del Comune, ma dicono
sempre che si deve riunire la commissione. Conosco qualche prete e
qualche vescovo, che a volte mi allungano dei soldi. Io non sono
insistente, non assillo la gente. So stare al mondo, e sono gentile".
Con le sue borse, come un viaggiatore. Basta non sentirsi un barbone.
"Per mangiare, faccio così. Per esempio: il mercoledì sera alle nove,
davanti alla stazione di Porta Garibaldi, viene il furgone di Sant'Egidio
con del cibo caldo. Io e Daniele prendiamo il treno delle 20,58 da Greco
a Garibaldi". In borsa ha la guida della Comunità di Sant'Egidio
"Milano, dove mangiare, dormire, lavarsi". C'è tutto, ci sono anche gli
ambulatori dove Daniele non vuole andare. Lui non dorme in stazione:
"Mai stato in un dormitorio. Voglio stare da solo. Poi c'è quello che
puzza, quello che non ha rispetto. E io ho un cattivo carattere". Poi ci
porta a vedere "casa sua". Non l'ha mai mostrata nemmeno a Gianni.
Sotto la neve, in mezzo a questa nuova Milano della Bicocca, il teatro
degli Arcimboldi, l'università e i palazzoni disegnati da Gregotti, il "Caffè
Harry's Scala". Daniele sta su un pianerottolo, al livello 2 del
posteggio sotterraneo, aperto al gelo. Una coperta stesa in verticale a
far da muro. Sacchi a pelo, coperte, borse, scarpe, tre lumini da
camposanto: "Io qui non sento nemmeno l'umidità". E tossisce. Il suo
amico Enzo, titolare del secondo sacco a pelo, è in giro. C'era
Donatella, ora è a Bologna. Lì sotto il tunnel del tram c'è altra gente:
"Come quei due ragazzi poveri, Antonio e Ludmilla, e i loro cani, vivono
in una tenda". Casa sua Daniele la tiene mezza segreta, "perché mi hanno
insegnato che si fa così, non si sa mai".
Daniele si arrabbia se lo chiamano barbone "con superiorità", ma ha una
sua filosofia della strada: "Il vero barbone è quello che non chiede
niente, che fruga nei cestini e fuma i muccetti". Lui, che ha un
sussidio di 160 euro al mese dal Comune, non vede che strada nel suo
futuro. Gianni è amico suo, divide con lui anche un pasto completo 6
euro alla trattoria di via Breda: "Gestiscono dei cinesi, sono gentili,
e quando ho qualche soldo ci vado". Ma per lui la strada è provvisoria,
dice: "C'è chi l'ha scelta e chi non l'ha scelta. Chi l'ha scelta è
diverso da me. Io mi curo esteriormente e interiormente, per essere una
persona normale. Su tanti argomenti ho cultura, so fare discorsi. Potrei
lavorare ancora qualche anno, se trovassi".
Già, la dentiera, sempre lì torna. "Ho questo preventivo, fatto dal
dentista di fiducia di un amico vescovo: 3.600 euro. E come faccio? Mi
sono informato: in Ungheria costa meno. Il viaggio 580 e la protesi
1.300 circa". A questo pensa, marciando con le borse per la sua Milano
di mense religiose, centri di assistenza, bagni pubblici: "Vado in
quello di via Pucci, 50 centesimi e ti danno anche l'asciugamano". Su e
giù da tram e autobus. A pranzo da suor Carmela in via Ponzio: "La 90
fino a piazza Piola, poi la 93". A cena dai francescani di viale Piave,
oppure il tè e le brioche della Croce Rossa a Greco. Daniele prendeva
anche l'Intercity, due fermate, per mangiare a Pavia: "Il primo potevi
mangiarlo anche tre o quattro volte, roba buona. Ma era troppo uno
sbattimento".
E Gianni, che non si sente un barbone, lo accudisce come un fratello
maggiore. Poi dà una mano al dopolavoro ferrovieri, sportello d'ascolto
sotto la massicciata della stazione Centrale: "Abbiamo appena
organizzato il Capodanno della solidarietà, 1200 pasti". Mimmo Vastola,
il responsabile, ha un solo sogno: "Che restiamo disoccupati, nel senso
che non ci sono più emarginati da assistere. Ci vorrebbero soluzioni
vere. E invece i senza casa aumentano". A Milano c'è un esercito di
gente che si dedica a loro, fra laici e religiosi. In questi giorni di
neve e gelo, distribuiscono anche coperte e sacchi a pelo.
Gianni aspetta solo che finisca, questa sua vita di
strada: "Ho tre mesi, fino a marzo, per risolvere il problema della
dentiera. Perché poi ci sono gli ingaggi sulle navi, sono pronto a
partire per il mondo". Nelle Filippine ha due figlie, ospiti delle
suore. La moglie è morta nell'alluvione del 2002. "Ogni tanto telefono,
se ho abbastanza soldi". Intanto, c'è da badare a quegli altri: "Hassan
il marocchino, anche lui dorme con me a Greco: bravo ragazzo, con un
caffè lo fai felice. Al bar, ogni sera ci regalano quello che è
avanzato: brioche o panini". Aspetta anche che finisca l'inverno:
"D'estate vado in Toscana, ho degli amici che mi aiutano". Liscia il
cappotto blu, sistema la sciarpa, saluta gli amici della "sala". Non
sentirsi un barbone è già qualcosa. Se poi ci fosse anche una dentiera,
per ricominciare la sua vita deragliata, sarebbe tutto a posto.
Petrolio a 100 dollari, ora è un'altra storia
In una sola seduta,
il greggio aumenta di 4,02 dollari e sfonda «quota
cento», per poi chiudere a 99,62. L'oro vola a 855
dollari l'oncia. Wall Street perde quasi il 2%, mentre
l'euro ora vale 1,473 contro il biglietto verde
Maurizio Galvani
Per la prima volta nella
storia il petrolio ha toccato, ieri, la mitica soglia
dei 100 dollari a barile. Un aumento fulmineo, nella
giornata, di 4,02 dollari. Lo scorso 21 novembre, il
Light crude aveva raggiunto il precedente record: 99,29
dollari a barile, per poi decrescere fino ai 90. Anche
il Brent, al mercato di Londra, ha segnato un nuovo
massimo schizzando fino a quota 97,07.
La reazione di Wall Street è stata istantanea e nervosa,
anche perché condizionata fin dall'apertura dalle
pessime notizie sul fronte industriale: l'indice Ism,
che monitora il comparto manifatturiero, è sceso a
dicembre per il sesto mese consecutivo. Peggio ancora: è
finito sotto «quota 50» (47,7), convenzionalmente
ritenuta la porta di ingresso per la recessione. Il dato
ha sorpreso, ovviamente in negativo. Tutte le previsioni
erano infatti largamente superiori.
A risollevare il morale del mercato statunitense non
poteva bastare la notizia del piccolo aumento - lo 0,1%
- della spesa per l'edilizia. Gli investimenti sono
stati indirizzati soprattutto alla costruzione di
edifici pubblici e di istituti scolastici. E la sua
dimensione non basta a far recuperarela flessione
(-0,4%) registrata a novembre.
Sia l'indice Dow jones che il Nasdaq hanno accusato
perciò perdite massicce, che a un certo punto superavano
i due punti percentuali; per poi limitare i danni a
-1,33% e -1,17% a un'ora dalla chiusura. A conferma
dell'ondata di panico, i metalli preziosi - tradizionali
beni rifugio - segnavano tutti un forte rialzo: l'oro
toccava i massimi di 855 dollari l'oncia e, come non
accadeva dal lontano 1980, il platino veniva scambiato a
quota 1544 dollari; idem per il palladio, a 373.
In fibrillazione, di conseguenza, anche il mercato delle
valute con l'euro che correva fino a 1,4731 contro il
dollaro. Del resto, tutti i principali analisti danno
per scontato che la Federal Reserve procederà a giorni a
un nuovo taglio del tasso di interesse (portandolo
perciò sotto l'attuale 4%). A sostenerlo non è servita
neppure la rivalutazione dello yuan - la moneta cinese -
che concorre in qualche misura a rendere meno drammatica
la situazione della bilancia dei pagamenti con l'estero.
Si è così delineato il leit motiv che potrebbe dominare
lo scenario sui mercati internazionali nell'anno 2008.
Salvo ovviamente che la debolezza dell'economia Usa non
arrivi a manifestarsi con una palese recessione.
Impressione confermata in serata dalla pubblicazione dei
verbali dell'ultima riunione del comitato operativo
della Fed (quella in cui è stato deciso di portare,
secondo cui «le incertezze sull'andamento dell'economia
sono crescenti» e «il tasso di sviluppo del 2008 sarà
inferiore a quanto stimato in precedenza».
La corsa del petrolio ha quindi una motivazione
monetaria (la debolezza del dollaro, sua unità di
misura); ma è sostenuta anche da ragioni geopolitiche,
oltre che da movimenti speculativi. Ieri hanno pesato
gli attacchi portati dai guerriglieri del delta del
Niger agli impianti petroliferi delle multinazionali (il
paese è il quinto esportatore mondiale di petrolio) - 12
persone morte a Port Harcourt. Ma nei giorni scorsi
aveva concorso alla stessa dinamica rialzista
l'instabilità politica del Pakistan, che minaccia ormai
l'intera regione. Ha un peso, anche se forse non
decisivo, anche la situazione di guerra civile in Kenia.
Allo stesso tempo, la speculazione finanziaria sta già
«anticipando» la stima sulle scorte strategiche
statunitensi (date in diminuzione), così come la caduta
produttiva degli impianti messicani. Ma si sa che la
speculazione «annusa il sangue», avventandosi là dove ci
sono difficoltà reali. Aggrava i problemi, insomma, ma
non li causa.
Il superamento di «quota 100» ha comunque un'indubbia
forza simbolica. Come spiegava diversi anni fa in
un'intervista l'ex presidente dell'Eni, Franco Bernabè,
«è finita l'era del petrolio facile». Ovvero a basso
prezzo. Questo sta diventando ora evidente anche ai non
addetti ai lavori. Ma non sembra che i «padroni del
mondo» abbiano in mente di favorire cambiamenti di
paradigma.
Un altro anno di sangue
Sono almeno 24mila i civili iracheni
morti nel 2007. L'anno appena trascorso è stato anche quello con più
vittime Usa: 899
''Le violenze in Iraq stanno diminuendo d'intensità, ma questo non
toglie che per circa 24mila civili iracheni, per le loro famiglie e
i loro amici, il 2007 sia stato un anno terribile''.
Questo il commento laconico che gli analisti di
The Iraq
Body Count ( Ibc) hanno posto a margine del
rapporto presentato ieri alla stampa.
Più
di 80mila vittime civili. Ibc, un network di ricercatori
universitari britannici e statunitensi, nato nel 2003 per calcolare
l'impatto della guerra sui civili iracheni, monitora da quasi cinque
anni il numero delle vittime non combattenti in Iraq. Restano quindi
fuori dalle sue statistiche i miliziani armati, i militari della
Coalizione e tutti coloro che, in qualche modo, sono parte in causa
del conflitto iracheno. I ricercatori dell'Ibc si basano sulle
testimonianze raccolte negli obitori, dalle organizzazioni non
governative locali e da fonti giornalistiche in loco. E' evidente
come il calcolo, che stima in almeno 87683 le vittime civili
dall'inizio della guerra, nel marzo 2003, sia di gran lunga
sottostimato.
Ma non per questo meno inquietante. Negli ultimi mesi, da più parti,
si è sottolineato come il numero delle vittime e degli episodi di
violenza sia calato grazie, secondo molti osservatori, a una
migliore strategia di contenimento delle truppe straniere in Iraq.
Per altri è invece un calo fisiologico della guerriglia ad aver
ridotto il numero degli attacchi, mentre per altri ancora è
l'innalzamento della qualità dell'addestramento di militari e
poliziotti iracheni a portare dei buoni risultati.
Record
di vittime militari Usa. La sostanza però, dopo cinque anni
di guerra, quasi più della Seconda Guerra mondiale, è che in Iraq si
continua a morire e altre 24mila vittime ne sono la testimonianza.
Stesso discorso per il fronte militare. Nei dati diffusi in
occasione della fine del 2007, il comando militare Usa in Iraq ha
reso noto che quello appena trascorso è stato l'annus horribilis
per le truppe statunitensi in Iraq dall'invasione del paese nel
2003. Sono 899 i militari Usa morti negli ultimi dodici mesi, la
cifra più alta dall'inizio della guerra.
Con loro, sale a 3904 il numero totale dei militari statunitensi che
hanno perso la vita in Iraq dal 2003 a oggi, ai quali vanno sommati
i militari di altri contingenti, che portano il numero delle vittime
della Coalizione a 4211.
Più di 90mila morti dunque, senza contare tutti i guerriglieri dei
quali nessuno tiene il conto. E senza contare che molti militari Usa
sono stati dichiarati morti solo dopo un ultimo disperato volo verso
gli ospedali militari statunitensi in Kuwait, in modo da non
contabilizzarli nel conflitto in corso. Allo stesso modo restano
esclusi dal conto tutti i civili morti che Ibc, per svariati motivi,
non è riuscito a monitorare.
La
guerra in casa. Ma non si muore solo al fronte. Secondo
un'inchiesta del quotidiano statunitense Usa Today,
pubblicata il 14 dicembre scorso, il 2007 è stato l'anno con il
maggior numero di suicidi nelle forze armate Usa. Dall'inizio
dell'anno al 27 novembre, sono 109 i soldati suicidi, secondo dati
forniti dal Pentagono. Di questi sono 27 i suicidi avvenuti in Iraq
e 4 quelli avvenuti in Afghanistan. Dal 1990, il maggior numero di
suicidi (102) si era verificato nel 1992, dopo il primo conflitto in
Iraq. La media del 2007 quindi, secondo la ricerca, è di 18,4
suicidi su 100mila, ed è la più alta da quando le forze armate hanno
inaugurato questo tipo di statistica nel 1980. Tra i civili, la
media è di 11 su 100mila (2004).
C'è davvero poco da festeggiare, anche perché nei discorsi di fine
anno degli uomini più potenti della Terra, l'Iraq sembra finito in
una sorta di dimenticatoio. Perfino nella corsa per le elezioni
presidenziali negli Usa, l'Iraq non sembra più un argomento
centrale.
3 gennaio
Oggi i sentimenti più cupi "abitano" a destra, proprio come
due-tre anni fa erano a sinistra
Il privato unico rifugio di speranza. L'auspicio che i giovani salgano a
posti-guida
Il Paese del disincanto
invoca il ritorno al futuro
di ILVO DIAMANTI
Il clima d'opinione di un'epoca è segnato dalle
"parole". Formule, frasi, slogan, modi di dire, che scandiscono i nostri
discorsi. Li ripetiamo all'infinito. Senza accorgercene. Influenzano la
nostra visione delle cose, disegnano la realtà intorno a noi. Perché le
parole non sono neutrali. Possono cambiare significato, in base all'uso
che ne facciamo. Ma, al tempo stesso, il loro uso ripetuto cambia
significato alle cose.
Oggi, ad esempio, noi siamo colmi di "sfiducia". E dei suoi derivati:
delusione, insoddisfazione, risentimento, disagio, malessere. È il
linguaggio del tempo. Ci induce ad essere aggressivi, per autodifesa.
Dirsi "buoni" suscita sospetto; oppure sorrisi di comprensione. Perché è
sinonimo di "ingenui". Persone perbene ma poco furbe. Mentre a dirsi
soddisfatti e ottimisti, a predicare fiducia e benessere, si rischiano
commenti e giudizi "storti". Come è capitato a Prodi e Napolitano. I
quali, nei loro discorsi di fine anno, hanno parlato, in modo
premeditato, di serenità, fiducia.
Elencando altre "virtù" indicibili. Non contenti, hanno ribadito,
entrambi, che l'economia e la società italiana non sono in "declino".
("La Spagna", ha ribadito il premier, "non ci ha superato").
Prevedibili le ironie di testate e commentatori che della dissacrazione
hanno fatto un brand. D'altronde, la sfiducia e il declino sono
meccanismi di delegittimazione istituzionale efficaci. Erodono il
consenso di chi governa, da quando l'Opinione Pubblica sovrana non vota
più per "atto di fede". E neppure per soddisfazione. Ma, al contrario,
per insoddisfazione. E, visto che è insoddisfatta e sfiduciata da una
quindicina d'anni, a ogni elezione punisce, puntualmente, chi governa.
Per questo, il sondaggio Demos-Eurisko - dedicato a rilevare gli
atteggiamenti degli italiani nel passaggio tra vecchio e nuovo anno -
registra una gran dose di pessimismo. Distribuito e tarato, però, su
basi rigorosamente "politiche". Il pessimismo, infatti, cresce
esponenzialmente scivolando da sinistra a destra.
Dalla maggioranza all'opposizione. Su tutti i temi: dall'economia
nazionale al reddito personale; dalla sicurezza alle tasse. Fino alla
Politica: la Madre di Ogni Malessere. Certo, qualcuno potrebbe osservare
che motivi per essere ottimisti e per "pensare positivo" non ve ne siano
molti. Citando, a ragione, le difficoltà crescenti che condizionano la
vita di una parte della società ben definita. I lavoratori dipendenti
del privato a reddito fisso. Oltre agli intermittenti e agli atipici (in
gran numero fra i giovani).
Ma è anche vero che il pessimismo più elevato affligge i lavoratori
autonomi e i liberi professionisti più degli operai. Non "gli ultimi",
dunque; ma almeno i "quartultimi". Inoltre, qualche sospetto può
emergere di fronte a un'impronta politica così marcata. E così
variabile. Se oggi il pessimismo abita prevalentemente a destra, due o
tre anni fa gravitava esattamente sull'altro versante. A sinistra. Che,
allora, stava all'opposizione. Se nuove elezioni rovesciassero l'attuale
assetto, è, dunque, probabile che le parti si invertirebbero di nuovo. E
la nuvola del pessimismo tornerebbe a oscurare il cielo del
centrosinistra.
Tuttavia, al di là del pregiudizio politico che vizia il giudizio sulle
cose che ci riguardano, resta l'ipoteca delle parole. Gli italiani,
conferma il sondaggio Demos-Eurisko, continuano a dirsi "felici". Anche
se in misura minore degli anni scorsi. Dal 90% di due anni fa si è scesi
all'80% delle ultime settimane. Però, accettano di dirsi felici solo in
"privato". Ma anche rispetto al loro "privato". Sono, dunque, disposti a
scommettere che la loro vita "personale", perfino il loro "reddito
familiare" possano migliorare, nel corso del 2008. Però, all'esterno, di
fronte agli altri, non lo ammetteranno mai.
Invece, la definizione più adatta a descrivere gli italiani - secondo
gli italiani - è, coerentemente: "arrabbiati". Seguita, a distanza, da
"opportunisti". È probabile, a questo proposito, che gli intervistati
ritengano se stessi "arrabbiati" e gli altri "opportunisti". Certo:
riusciamo ancora a definirci "ingegnosi", "creativi" e perfino
"generosi". Ma usiamo queste etichette con minore convinzione di un
tempo. Mentre cresce la tentazione di dirsi "depressi" ed "egoisti".
Il mito degli "italiani brava gente", in altri termini, sembra
definitivamente tramontato. Dissolto. Appartiene a un passato che è
passato per sempre. Anche se si trattava, appunto, di un mito. Una
leggenda, che non reggeva alla prova dei fatti. Un luogo comune; magari
poco fondato, ma, appunto, "comune". Condiviso. Orientava la nostra
immagine pubblica. Ma anche la nostra auto-immagine. E, di conseguenza,
la nostra condotta. Ma oggi pochi italiani accetterebbero di venir
chiamati "brava gente". Soprattutto all'estero. Si sentirebbero
squalificati.
Imprigionati nell'antica iconografia: sole-pizza-mandolino. (E, tra
parentesi, mafia). Oggi la "brava gente" sembra, invece, seriamente e
sinceramente incazzata. Perché la criminalità ci insidia, le
retribuzioni sono troppo basse, i prezzi continuano a crescere. Mentre i
politici si interrogano e discutono a tempo pieno sulla "legge
elettorale", che interessa al 4,5% dei cittadini. Nessuno, insomma.
Per questi motivi crediamo che ci si debba (pre) occupare maggiormente
delle parole. Del linguaggio con cui esprimiamo la nostra vita
quotidiana e il nostro mondo.
Non possiamo che essere "arrabbiati" se le parole di pace e dialogo sono
bandite, inutilizzate, inutilizzabili e inutili. Se, quando vengono
usate in tivù e nei giornali, noi giriamo pagina e cambiamo canale. Se,
quando sono pronunciate da una figura pubblica, diamo per scontato che
siano false. Menzogne pronunziate ad arte. Se, quando le sentiamo
esprimere nella vita quotidiana, guardiamo chi le ha pronunciate come
fosse un nane (dalle mie parti: un tonto). Se, infine, quando le diciamo
noi, sentiamo il dovere di scusarci subito.
Il 2008 si inscrive a pieno titolo nell'Era degli Apoti, in cui siamo
entrati da tanti anni. Apoti, per citare Giuseppe Prezzolini: quelli che
non la bevono. I disincantati. Non i "delusi": ma i "disillusi". Quelli
che sono "delusi" per cautela metodica. Per difesa preventiva. Quelli
che, negli ultimi vent'anni, hanno visto cadere muri, sistemi politici,
regimi, partiti e leader. E li hanno visti riemergere e risorgere.
Magari con altri nomi. Per cui non la bevono più. Pronunciano ogni
parola con sospetto. Quest'anno sono in allarme di fronte alle
incombenti celebrazioni di un quarantennale pericoloso.
Il Sessantotto. Un altro mito rivoluzionario, che evoca sogni, movimenti
e mutamenti. Invecchiati e contestati. Come molti dei suoi profeti.
Figurarsi: nell'Anno degli Apoti. Meglio neppure pronunciarlo. Un'altra
parola-da-non-dire.
Gli italiani, oggi, sono naturaliter arrabbiati. Tuttavia, stimolate,
due persone su tre ammettono di pensare al futuro con "speranza".
Speranza: una parola sopravvissuta a stento allo spirito (cinico) del
tempo. Si associa all'auspicio maggiormente condiviso dalla popolazione,
per il nuovo anno: "più giovani ai posti di comando". Immediatamente
seguito da: "migliorare la scuola e l'università". E' il "futuro" che
avanza.
Sopravvissuto alla revisione del nostro vocabolario.
Impoverito dal senso cinico dominante. Non sappiamo per quanto tempo
ancora. Perché, di questo passo, molto presto anche il futuro non avrà
più un nome. Una parola per dirlo. Così, fra un anno, festeggeremo
ancora il 2008.
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