
27 novembre
Non ci restano
che i cammelli
La missione Onu disposta a usare
gli animali per sostituire gli aerei da trasporto in Darfur
L'ultima trovata dell'Onu, per
sopperire alla mancanza di mezzi di trasporto per la missione di
peacekeeping in Darfur, è stata chiedere all'India la disponibilità
dei cammelli da combattimento, impiegati dall'esercito alle
frontiere con il Pakistan. Nonostante il sostegno diplomatico alla
missione, che dovrebbe sbarcare nella regione sudanese nei prossimi
mesi, i Paesi occidentali sono restii a impegnarsi in prima persona,
mettendo a disposizione i mezzi per garantirne il buon esito.
Vanificando così un anno di sforzi diplomatici per far accettare a
Khartoum l'invio dei caschi blu.
I cammelli da combattimento
dell'esercito indiano
Missione. Non sono bastati gli
appelli di Jean-Marie Guehenno, responsabile Onu per le missioni di
peacekeeping, il quale aveva più volte avvertito che, senza mezzi
adeguati, la missione Onu Unione Africana è destinata a fallire. A
poche settimane dallo sbarco dei primi contingenti, che dovranno
integrare la missione di 7.000 uomini dell'Ua già presente sul
terreno, l'organizzazione è in alto mare. E così, l'Onu dovrà
ricorre agli animali indiani, capaci di trasportare armi, munizioni,
viveri e acqua per circa 80 km al giorno, addestrati a non
impaurirsi in caso di scontri e a seguire le mosse dei soldati,
strisciando per terra se necessario.
Oltre a mancare i mezzi aerei, l'installazione delle basi e delle
infrastrutture necessarie non decolla, nonostante la comunità
internazionale abbia investito molto, soprattutto a livello
diplomatico, per far accettare al Sudan l'invio dei caschi blu. Un
braccio di ferro, quello tra Khartoum e i membri del Consiglio di
Sicurezza, durato più di un anno. Da una parte, i Paesi occidentali
non hanno molta fiducia nella leadership militare (quasi tutta
africana) che guiderà la missione, dall'altra il Sudan ha più volte
annunciato che non tollererà contingenti non venuti dal continente,
ad eccezione di qualche reparto di specialisti messo a disposizione
dalla Thailandia e dai Paesi scandinavi.
Campi profughi. Intanto, oggi l'esercito sudanese darà il via
a una vasta operazione di sicurezza, che nei sei giorni successivi
dovrebbe portare al sequestro di tutte le armi illegali presenti nei
campi di sfollati del Darfur. Il primo a essere interessato sarà il
campo di Kalma, presso la città di Nyala, nel Darfur meridionale,
una struttura che ospita circa 90.000 persone. I tre giorni di
tempo, dati dall'esercito ai civili perché consegnassero
spontaneamente le armi, non hanno sbloccato la situazione. Anzi, gli
sfollati ne avrebbero approfittato per erigere barricate all'interno
del campo e impedire così all'esercito di entrarvi. I civili temono
i possibili abusi dei soldati, e hanno paura che il provvedimento
sia un pretesto per evacuare il campo e trasferire la popolazione.
Una pratica che, secondo alcune testimonianze, il governo avrebbe
cominciato ad adottare dallo scorso mese.
Anche le trattative di pace sono al palo: il meeting di Tripoli, che
avrebbe dovuto segnare la riconciliazione tra i gruppi ribelli e il
governo, si è concluso con un nulla di fatto, con i gruppi armati
che da quattro anni combattono il regime di Khartoum incapaci di
trovare una posizione comune al tavolo dei negoziati. Per la fine
della guerra, cominciata nel febbraio 2003 e costata finora almeno
200.000 vittime, bisognerà ancora attendere.
Matteo Fagotto
Afghanistan,
stragi insabbiate
Le bugie della Nato sulle vittime
civili dei bombardamenti
Assadullah è un contadino di Kakrak,
un villaggio sulle montagne della provincia centrale di Uruzgan: una
delle tante zone controllate dai talebani.
Una sera di fine settembre era uscito di casa per andare a trovare
un suo amico poco lontano. Ero appena fuori dal mio villaggio quando
ho sentito gli aerei e le esplosioni delle bombe. Sono corso
indietro per vedere se la mia famiglia era sana e salva. Ho trovato
la mia casa ridotta in macerie. Ho iniziato a scavare e ho trovato i
miei quindici nipoti, maschi e femmine, stesi nei loro letti, morti
nel sonno. Il più piccolo aveva sei mesi, il più grande diciassette
anni. Poi ho trovato i corpi senza vita di mia madre, delle mie due
mogli e dei miei due fratelli. In quel momento ho pensato che tutto
il mondo fosse morto e mi chiedevo perché io fossi ancora vivo. Il
giorno dopo ho scoperto che altri due villaggi vicini erano stati
bombardati: sessantasette morti in totale.
La versione ufficiale della Nato. I giorni successivi i
comandi Nato hanno diramato un bollettino nel quale si leggeva che
laviazione e lartiglieria della Coalizione hanno bombardato le
posizioni nemiche nella zona di Kakrak, provincia di Uruzgan,
uccidendo 65 talebani. Tre civili sono rimasti feriti.
Il 17 novembre, Assadullah e altri capifamiglia della zona hanno
ricevuto, senza clamori, un risarcimento monetario per i familiari
uccisi.
Non fosse stato per linviato del Time magazine, la verità su quello
che è successo a Kakrak non sarebbe mai venuta fuori. Sorge una
domanda: quanti di quelle decine di talebani uccisi ogni giorno
dalle bombe occidentali sono in realtà civili inermi?
Almeno mille civili uccisi questanno. Louise Arbour, capo
della Commissione Onu per i diritti umani in questi giorni in visita
a Kabul, ha definito allarmante la percentuale dei civili uccisi
durante le azioni militari della missione Isaf-Nato: Una violazione
del diritto internazionale e un fatto che erode il sostegno popolare
alla missione Nato e al governo Karzai. La Arbour si riferisce
ovviamente ai dati ufficiali sulle vittime civili dei bombardamenti:
337 dallinizio dellanno secondo le cifre fornite dalla Nato su un
totale di oltre seimila morti. In realtà, se solo si tengono in
considerazione le rare denunce fatte dalla popolazione afgana come
quelle di Assadullah i civili uccisi risultano essere almeno un
migliaio dal 1° gennaio 2007. Ma probabilmente si tratta ancora di
una cifra ampiamente sottostimata. Sempre secondo i dati ufficiali
forniti dalla Nato, questanno sono stati ufficialmente uccisi più di
cinquemila talebani: quanti di loro, da vivi, erano civili?
23 novembre
Sempre più
poveri?
di Paola Pilati
Perdita di potere d'acquisto.
Aumento delle disparità a vantaggio dei lavoratori autonomi. Ma per
16 milioni di dipendenti il 2008 potrebbe andare meglio. Se non
fosse per l'inflazione
Per gli economisti si chiama 'effetto
tunnel'. Bloccato dal traffico in un tunnel a due corsie nello
stesso senso di marcia, quando vedi che la corsia a fianco si muove,
sei sollevato perché sai che tra un po' toccherà anche a te. Ma se
questo non accade, ti sentirai imbrogliato, monterai su tutte le
furie e alla fine cercherai di superare a tutti i costi la doppia
striscia bianca che separa le due corsie. È la fotografia degli
italiani del lavoro dipendente alle prese con gli stipendi, i conti
di fine mese, e la percezione delle disuguaglianze: c'è una massa di
lavoratori che sta da tempo nella corsia bloccata.
In attesa più o meno dal 2000-2002, cioè dall'ingresso dell'euro.
Vedono con la coda dell'occhio muoversi la fila accanto, cioè le
famiglie dei lavoratori autonomi e dei dirigenti, che hanno
vistosamente migliorato la propria situazione economica dal momento
che una fetta crescente delle risorse del Paese è finita nelle loro
tasche, e tollerano.
Ma la loro fila non riparte. "Quanti decideranno di attraversare la
doppia striscia bianca prima che questa fila torni a muoversi?", si
chiedeva in un suo articolo ('Stato e Mercato', agosto 2005) Andrea
Brandolini, economista della Banca d'Italia.
A due anni da questa osservazione, il tunnel sta per ripartire?
O meglio, il governo Prodi ha messo in atto delle misure di
riequilibrio tra le fasce sociali con le sue due leggi finanziarie?
Insomma, se i conti del 2007 sono ormai quasi chiusi, e nonostante
le parziali restituzioni del 'tesoretto' non è stato certo un anno
di Bengodi per i lavoratori dipendenti, possiamo almeno sperare che
nel 2008 le cose andranno meglio per i bilanci delle famiglie che in
questi anni si sono dovuti beccare lo smog di quel dannato tunnel
bloccato?
La risposta è no. Anche l'anno prossimo ci sarà poco da scialare:
nelle tasche dei 16 milioni di italiani che vivono di ciò che
incassano il 27 del mese, entreranno magari più quattrini, ma ne
usciranno anche di più. Se la nuova legge finanziaria restituisce
risorse ai redditi medi, fa sconti a chi ha la casa (l'Ici e il
nuovo tetto di mutuo detraibile) e anche a chi non ce l'ha (sconti
per l'affitto sotto i 30 mila euro), a chi va in autobus o è
pendolare (detrazione Irpef del 19 per cento fino a 250 euro di
spesa), e via dicendo, ci penseranno poi l'inflazione, i rincari di
certi beni come la benzina, e gli aumenti delle tariffe (già in gran
parte annunciati) a far stringere la cinghia. Insomma, nel 2008 il
governo Prodi ci darà l'illusione di essere un po' più ricchi (non
tutti, intendiamoci, ma quelli sotto una certa soglia di reddito,
grosso modo 40 mila euro), ma sarà appunto solo un'illusione. Se non
riparte la dinamica salariale, il potere d'acquisto perderà terreno.
Più di quanto non abbia già fatto negli ultimi sei anni, secondo uno
studio dell'Ires Cgil: dal 2002 al 2007, per una retribuzione di
fatto media annua di 28.890 euro, l'effetto sommato del mancato
adeguamento dei salari all'inflazione e del fiscal drag, ha portato
alla perdita cumulata di 1.896 euro. Circa un euro perso al giorno.
L'immagine di un 2008 più povero emerge da un esercizio svolto
dalla Cga (l'associazione Artigiani e Piccole Imprese) di Mestre
per 'L'espresso'. Come si vede nelle tabelle in queste pagine, in
tutti e tre i casi presi in considerazione, e che possono essere
considerati situazioni tipo, i contribuenti ci guadagnano. I
benefici della legge Finanziaria attualmente in discussione in
Parlamento funzioneranno perfettamente quando si tratterà di fare la
dichiarazione dei redditi nel 2008. Per i proprietari di casa il
risparmio medio sarà di 60-90 euro, la detrazione per l'abbonamento
per il trasporto pubblico sarà di 47,5 euro, e la detrazione degli
interessi passivi sui mutui si tradurrà, secondo i calcoli
dell'ufficio studi della Cgia, in un risparmio massimo di 73 euro
per chi è ai primi anni di pagamento del mutuo, di solito i più
pesanti.
Ma l'aumento di reddito disponibile che risulta dai calcoli (236,
134,97 e 197,50 euro di tasse in meno nei tre casi in esame) dovrà
continuare a fare i conti con il rosicchiamento prodotto
dall'inflazione, che il prossimo anno si stima sarà almeno del 2 per
cento, ma che si spalmerà in modo diverso sui consumatori. Gli
economisti di Mestre hanno immaginato panieri diversi a seconda dei
diversi nuclei familiari, e hanno calcolato l'incremento della spesa
media mensile. Come si vede nella tabella a pagina 181, i rincari si
mangiano tutto il risparmio fiscale, e anche di più.
Per non perdere ancora terreno in termini di potere d'acquisto, quei
redditi dovranno migliorare: e come, se non attraverso i contratti?
Circa 30 contratti aspettano di essere rinnovati nel 2008, e
coinvolgono quasi otto milioni di lavoratori (il 65 per cento del
monte retribuzioni globale). Ebbene: per non andare sotto il livello
attuale di potere d'acquisto, l'incremento, dicono i tecnici della
Cgia, dovrà essere almeno del 2,5 per cento. Agostino Megale, che
dirige l'Ires Cgil, rilancia al 3,5 per cento: con l'obiettivo di
recuperare il terreno perduto in passato, di stare al passo con
l'inflazione 2008, e per incassare nei contratti gli aumenti di
produttività.
Realistico? Stando a Mario Vavassori, presidente della Od&m, società
che fa periodiche indagini sulle retribuzioni nelle aziende
italiane, nel 2008 l'incremento lordo degli stipendi dei dirigenti
(250 mila in totale) sarà del 4,4 per cento, dei quadri (700 mila) e
degli impiegati (5 milioni ) del 3 lordo, degli operai (5 milioni)
del 2-2,5 per cento. Non solo, ma l'impressione è che le aziende
tendano prima a verificare cosa prendono i lavoratori dallo Stato:
"se hai qualcosa da lì, da me prenderai meno", è il ragionamento
corrente.
"In realtà in passato il fisco ha sempre compensato i vuoti
contrattuali", osserva Salvatore Tutino del Cer, il centro studi che
sta per sfornare il suo nuovo Rapporto: "Se non fai rivendicazioni
salariali ti diamo sgravi fiscali", era lo schema compensativo
adottato di fatto. Nel 2007, questo schema si rompe: si apre al
massimo la forbice tra salario lordo (che cresce del 2,5 per cento)
e salario netto (che scende dell'1 per cento), osserva il Cer. Non
solo. "Gli interventi del fisco, indirizzati a correggere il
prelievo sui contribuenti con carichi di famiglia, lasciano il
lavoratore single ai margini dell'area della tutela fiscale", scrive
il centro studi.
Giusto o sbagliato? I single possono diventare soggetti a rischio
povertà? In effetti la famiglia resta un grande ammortizzatore
sociale. Altrimenti campare diventa a volte molto difficile. Se
la 'linea di povertà' stabilita nel 2006 per una famiglia di due
persone è pari a una spesa uguale o inferiore ai 970 euro, basta
guardare i salari netti mensili che percepiscono 14 milioni di
lavoratori secondo l'Ires-Cgil: vanno da 854 euro a 1.171 euro (vedi
grafico a pag. 177). E la maggior parte sono giovani. Nelle
statistiche, il 13 per cento della popolazione italiana è povero, ma
tra i giovani (18-34 anni) la percentuale sale al 13,7.
A fare la differenza non è solo il lavoro, ma anche la casa. Così
non c'è scelta, o si è condannati a restare 'bamboccioni',
mantenendo in questo modo un tenore di vita accettabile e
contribuendo alle economie di scala di genitori anziani (ma con un
appartamento), o si è destinati entrambi all'indigenza: il giovane
che esce, gli anziani che restano.
Nello studio dell'Istituto Cattaneo per il Mulino, intitolato'Povertà
e benessere' (a cura di Andrea Brandolini e Chiara Saraceno) c'è un
giudizio molto severo sull'efficacia delle riforme fiscali quanto a
effetto redistributivo. "La debolezza dello Stato sociale italiano
sul piano dell'equità appare derivare non tanto dal basso livello di
spesa sociale, quanto da una sua concentrazione su strumenti poco
efficaci sul piano redistributivo", sintetizzano i curatori.
Insomma, le differenze si possono colmare soprattutto fornendo buoni
servizi pubblici, dalla sanità alla scuola. È probabile che questo
accadrà nel 2008? "Propongo di impostare la questione in altro
modo", dice il direttore del Censis, Giuseppe Roma: "Nel 2008 non
saremo più ricchi perché guadagneremo di più, poiché la dinamica dei
redditi non cambierà. Non c'è più tanta voglia di secondo lavoro, e
anche la 'famiglia spa' è in difficoltà. Quello che possiamo
cambiare è il nostro modo di spendere". Ed ecco il nuovo trend
individuato dal Censis: si mettono in campo strategie 'low cost' per
una serie di consumi come l'alimentazione e l'abbigliamento (vedi
grafici a pag. 179). Ma non si riesce a tenere dietro ai nuovi
consumi richiesti dalla 'knowledge society': il corso di inglese, la
palestra, che costano sempre di più. Se staremo meglio o peggio nel
2008 dipenderà anche da questo.
8 novembre
«La strage»
Sicurezza sul
lavoro, ecco la vera emergenza
Cinque morti e due feriti in un
giorno. Da Torino a Cosenza, il lavoro che uccide
Sara Farolfi
Cinque morti e due infortuni gravi.
«Una strage», «un bollettino di guerra» - la si chiami come si
vuole. Ma non si dica che c'è fatalità nel morire in un cantiere
della metropolitana di Brescia, «precipitando in una buca profonda
20 metri che può essere dove c'è movimento macchine». O nel rimanere
gravemente feriti alle Carrozzerie di Mirafiori, durante la
manutenzione di un macchinario, nell'ora di inizio turno, «con la
fretta del produttivismo a tutti i costi».
«E' una vergogna, non si può lavorare così», è la reazione tranchant
di Francesco Cisarri, della Fillea di Brescia. Nei cantieri della
metropolitana, ieri, si è registrato il secondo infortunio mortale
nel giro di poche settimane. Un operaio di 40 anni, dipendente della
ditta Astaldi (l'impresa che ha acquisito l'appalto per la
realizzazione della metropolitana) è precipitato, mentre era alla
guida di una ruspa, in una buca di 20 metri, rimanendo schiacciato.
Il 26 settembre scorso era morto un altro operaio, dipendente di una
delle ditte che lavorano in subappalto per Astaldi. 171 morti
nell'edilizia dall'inizio dell'anno, 32 soltanto in Lombardia, 16
nel solo mese di ottobre, 3 nella sola giornata di ieri - il secondo
infortunio mortale, a Rovigo, il terzo nel cosentino: sono questi i
costi del nuovo boom economico, quello delle costruzioni. Oggi
scioperano per l'intera giornata i lavoratori di tutti i cantieri
Metrobus di Brescia.
Alle Carrozzerie di Mirafiori, reparto lastratura, un lavoratore di
55 anni è rimasto incastrato in un macchinario, durante i controlli
prima dell'avvio degli impianti. L'incidente è avvenuto a inizio
turno, «nella fretta di fare iniziare la produzione» spiega Giorgio
Airaudo, segretario della Fiom torinese. L'uomo, un manutentore
dipendente Fiat, ha riportato un trauma cranico toracico, ed è
ricoverato in coma farmacologico indotto. L'impianto è stato posto
sotto sequestro, e verifiche per accertare le cause del grave
infortunio sono in corso. Fim, Fiom e Fismic però non hanno dubbi:
«L'incidente è la conseguenza di un continuo taglio di organici che
si riscontra in particolare nelle manutenzioni, attività che
richiede un margine di sicurezza elevato». Per questo è stato
proclamato immediatamente uno sciopero di un'ora, sul primo e sul
secondo turno. Sciopero a cui non ha aderito la Uilm, che in maniera
piuttosto contraddittoria ha parlato prima di uno sciopero inutile
(«lava coscienza», per esattezza), lanciando poi la proposta di una
mobilitazione di 4 ore sul tema della sicurezza del lavoro.
Impietosi testimoni, i numeri dicono cosa sia il lavoro oggi. Ancora
ieri, un operaio di 38 anni è morto nella provincia di Rovigo,
cadendo e rimanendo schiacciato sotto il peso del rullo compressore
su cui era al lavoro. In un cantiere edile della provincia di
Cosenza, un lavoratore di 44 anni, al lavoro su una betoniera, è
rimasto folgorato da un cavo elettrico. Un'operaia di 46 anni, madre
di tre figli, è morta schiacciata da un macchinario nella ditta
conserviera per cui lavorava ad Angri, in provincia di Salerno. In
Alto Adige, un agricoltore è caduto in una vasca per il letame, e
deceduto per le gravi lesioni riportate. In provincia di Imperia,
infine, un operaio di 30 anni è rimasto ferito, cadendo dal
terrazzino di un palazzo in costruzione: l'uomo è ricoverato
all'ospedale di Sanremo.
Ieri, di morti sul lavoro, è tornato a parlare il presidente della
Camera, Bertinotti: «Non si può smettere di pensare a cosa fare
perchè non possa più accadere, altrimenti è la politica che muore».
«La lotta agli infortuni resta prioritaria per il governo» ha detto
il ministro Damiano.
Oggi a chiedere risposte c'è la protesta dell'Associazione nazionale
mutilati e invalidi sul lavoro (Anmil), con due presidi al ministero
del lavoro e dell'economia. Per chiedere al governo «azioni concrete
che assicurino giusta tutela alle famiglie e ai lavoratori vittime
di incidenti o di malattie professionali».
Salari: la
straordinaria capacità tutta italiana di non pagare
Fernando Vianello
In un articolo comparso su il
Sole-24Ore del 30 ottobre 2007 Innocenzo Cipolletta propone un
semplice ragionamento, illustrato da un esempio numerico che proverò
a riformulare per renderlo meno indigesto al lettore. Un'economia
produce due sole merci, diciamo due tipi di automobili:
un'utilitaria, venduta a 100, e una Ferrari, venduta a 2000. Si
producono 10.000 utilitarie e 50 Ferrari. Se ora, restando costante
l'occupazione complessiva, un certo numero di lavoratori viene
spostato dalla produzione delle utilitarie (il cui numero,
supponiamo, si dimezza) alla produzione delle Ferrari (il cui
numero, supponiamo, raddoppia), è evidente che il numero complessivo
di automobili diminuisce; e che diminuisce, a parità di tecniche
impiegate, la produttività del lavoro, se quest'ultima è definita
come il rapporto fra il numero delle automobili prodotte e il numero
dei lavoratori. Altrettanto evidente è, tuttavia, che la produzione
in valore e la produttività in valore risultano aumentate.
Il ragionamento di Cipolletta presenta un evidente punto di contatto
con l'impostazione del problema che emerge da una serie di studi
sulle esportazioni italiane promossi dalla Fondazione Manlio Masi e
riuniti sotto il significativo titolo Eppur si muove (a cura di A.
Lanza e B. Quintieri, Rubbettino editore, 2007). La perdita di quote
di mercato delle esportazioni italiane, così spesso indicata come la
prova irrefutabile del «declino» industriale del paese, è molto
forte quando le esportazioni siano calcolate in volume (il numero di
automobili dell'esempio), ma risulta allineata agli standard europei
quanto le esportazioni siano calcolate in valore, tenendo così conto
dell'innalzamento dei valori unitari conseguente ai miglioramenti
qualitativi dei beni esportati e al riposizionamento degli
esportatori su segmenti più "alti" del mercato.
«Il nostro sistema», ha affermato il governatore della Banca
d'Italia nella recente lezione tenuta alla Società italiana degli
economisti, «ha sofferto una crisi di competitività internazionale».
E' una storia ben nota, ripetuta ad nauseam dai teorici del
"«declino» industriale. Ma le cose stanno davvero così?
Un banchiere che ho citato altre volte, e che gode di un invidiabile
punto di osservazione, Pietro Modiano, ha affermato: «Dal 2001 si è
imposta la retorica del declino, basata sul pregiudizio che il
nostro paese avesse una struttura di specializzazione arretrata e
una dimensione di impresa troppo esigua. La prova provata era che il
Pil non cresceva. Peccato che questo indicatore non possa misurare
gli effetti più profondi dell'internazionalizzazione del Quarto
Capitalismo» (Il Corriere della sera, 16 novembre 2006).
Manca qui lo spazio per esaminare in dettaglio i due aspetti della
tesi del «declino» indicati da Modiano. Ma per vedere quanto utili
siano le grandi classificazioni sulla cui base si giudica del
carattere arretrato o avanzato del modello di specializzazione di un
paese, è sufficiente osservare che le utilitarie e le Ferrari
dell'esempio cadono nella medesima categoria di beni «a tecnologia
matura»: se dunque si passa dalle prime alle seconde, il modello di
specializzazione non se ne accorge. (Invece i componenti di un iPod
prodotti da un'oscura impresa sudcoreana, che si appropria di una
quota risibile del valore aggiunto complessivo, finiscono dritti
nella categoria hi-tech).
Per quanto riguarda il secondo aspetto, quello relativo al «nanismo»
delle imprese italiane, va purtroppo registrato il completo
abbandono di una prospettiva di ricerca incentrata non sull'impresa
isolata, ma sui sistemi di imprese. E cioè sulle complesse relazioni
di collaborazione che legano fra loro imprese appartenenti alla
stessa filiera, relazioni attraverso le quali il problema del
coordinamento dell'attività produttiva viene risolto in modi non
meno efficienti di quelli propri delle grande impresa.
Per sapere cosa succede nell'industria occorre (può parere una
banalità) studiare l'industria, come hanno fatto i teorici dei
distretti industriali e come fanno, per le medie imprese, gli autori
dell'indagine Mediobanca-Unioncamere.
Chi segue questa strada si accorge facilmente che la struttura
industriale italiana, pur dominata dalle piccole e medie imprese,
mostra uno straordinario dinamismo e una forte capacità di innovare
e di competere sui mercati internazionali.
Per questo ho sostenuto in un precedente articolo (il manifesto, 1°
novembre 2007) che la spiegazione dei bassi salari italiani non va
ricercata in menzognere statistiche della produttività. Negli anni
'70 del secolo scorso si diceva che i bassi salari delle piccole
imprese riflettevano la loro scarsa «capacità di pagare», dovuta a
una bassa produttività. Quando le inchieste sul campo hanno mostrato
che le piccole imprese subfornitrici impiegavano le stesse macchine
che erano in uso nei corrispondenti reparti delle grandi imprese, si
è compreso che non di limitata «capacità di pagare» si trattava, ma
di una elevata «capacità di non pagare». Lo stesso si deve dire oggi
delle imprese italiane, grandi medie e piccole, che pagano salari
più bassi di loro concorrenti stranieri. Da dove nasce questa loro
straordinaria «capacità di non pagare»? Provi, il lettore, a
rispondere a questa domanda.
7 novembre
Uffici chiusi
per malattia 'da ponte'. Ispezione all'Anagrafe
Quattro
impiegati, tutti malati il 2 novembre, proprio in coincidenza con il
ponte. E l'ufficio anagrafe del II municipio chiude. Una
testimonianza che arriva dopo la denuncia dell'assessore al
personale del Comune: "Ogni giorno mancano il 30% dei dipendenti"
E' il due novembre, e molti fanno il
ponte: uffici a mezzo servizio, strade semivuote, tutto un po'
rallentato. Ma fuori dagli uffici dell'anagrafe del II municipio, in
piazza Grecia, c'è la coda: tutti gli impiegati sono malati, spiega
il commesso, e nessuno può fare i certificati. La situazione si
risolve quando scende un funzionario che chiude l'ufficio. "Fossi in
voi reagirei alla stessa maniera", spiega. E tutti a casa. Un caso?
Un'epidemia proprio il giorno dei morti, in coincidenza con il
ponte? Evidentemente sì.
«L´anagrafe è un servizio a carattere istituzionale. La sua
interruzione è un fatto di grande gravità. Per questo sono deciso ad
andare fino in fondo e a far emergere tutte le responsabilità del
caso». L´assessore al Personale di Roma, Lucio D´Ubaldo, ha letto la
denuncia di Repubblica e provvede per un'ispezione.
I dati sulle presenze degli impiegati capitolini in ogni caso non
sono testimoniano un'assidua presenza la lavoro. La denuncia arriva
dall´assessore al Personale Lucio D´Ubaldo: ogni giorno dell´anno,
in Campidoglio, mancano all´appello tra il 25 e il 30 per cento dei
dipendenti comunali, assenti giustificati per le ragioni più varie,
malattie, congedi, aspettative, ferie, permessi sindacali.
Per questo D'Ubaldo, insieme al direttore del Dipartimento, Pietro
Barrera, sta mettendo a punto un "pacchetto efficienza" finalizzato
a riorganizzare le risorse umane all´interno dell´amministrazione,
che entro novembre sarà presentato ai sindacati. «Quando ti accorgi
che nei nostri uffici, tutti i giorni, mancano in media 6-7mila
persone a fronte di una platea di 25mila assunti e 2mila precari in
via di stabilizzazione, ti spieghi come mai la produttività sia
tanto bassa», spiega l´assessore D´Ubaldo.
Il rapporto dell'Agenzia europe per
la sicurezza e la salute. Tutti i rischi degli impieghi saltuari.
"Serve la prevenzione"
Il "mal di
vivere" del precariato: quando il lavoro fa male alla salute
di TULLIA FABIANI
Gli effetti vanno dall'insicurezza
psicologica, progressiva, allo stress eccessivo e possono seguire
gastriti, disturbi cardio-circolatori, problemi nervosi. Prima ci
sono contratti a progetto e lavori in affitto; c'è la questione
sicurezza, la mancanza in molti casi di strumenti di protezione, la
privazione di tutele e la relativa probabilità di infortuni. Perciò
la diagnosi è molto seria: il lavoro precario fa male alla salute.
Occorrono prevenzione e cura. Quanto prima.
A fare il check-up delle condizioni in cui versa il lavoro atipico e
soprattutto delle conseguenze per i lavoratori così impiegati è uno
studio dell'Osha, l'Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul
lavoro (http://osha.europa.eu), che evidenzia l'insorgere di vari
rischi legati alle nuove forme di organizzazione del lavoro.
Temporaneo o a progetto, prestazione d'opera, finto lavoro "in
proprio", e outsourcing,: secondo l'indagine, pubblicata nelle
settimane scorse, da queste nuove forme di contratto derivano
altrettanti nuovi rischi per la salute dei lavoratori. E di fatto
oggi chi è impiegato attraverso questo genere di contratti è più
esposto.
Il malessere degli atipici. Nel corso della ricerca l'Agenzia
ha interpellato esperti di vari paesi, (Europa e Stati Uniti) e
professionisti dell'Ilo (l'agenzia dell'Onu per il lavoro) e ha
chiesto loro di valutare la presenza, o meno, di nuovi rischi per la
salute derivanti dalle forme di organizzazione del lavoro recenti e
atipiche. Dalle risposte sono emersi vari elementi critici: i
precari hanno occupazioni più rischiose, condizioni di lavoro più
scarse, e raramente ricevono una formazione adeguata su salute e
sicurezza. Inoltre, la sequenza spesso convulsa e scostante di
contratti a breve termine "aumenta la sensazione di insicurezza e
marginalità, provocando l'incremento di stress e preoccupazione, con
rischi per la salute molto gravi".
Le interruzioni tra un contratto e l'altro rappresentano infatti una
discontinuità della responsabilità legale del datore di lavoro. E
questo, secondo gli esperti, finisce per essere ulteriore elemento
di malessere.
Quindi, a confronto con coloro che sono impiegati in un lavoro
stabile, i lavoratori precari risultano maggiormente vulnerabili.
Molto più deboli. E non solo per quel che riguarda contributi,
indennità, stipendi. "La lettura data - dichiarano i ricercatori
dell'agenzia - è ampiamente supportata dalla letteratura scientifica
in materia: ci sono dimostrazioni che le caratteristiche di queste
nuove forme di lavoro non tradizionali portino a rischi peculiari
per la salute".
Le condizioni di lavoro. Un altro aspetto riguarda i carichi
di lavoro: le statistiche europee indicano che oltre metà degli
occupati dichiara di lavorare ad alte velocità e pressione per tre
quarti del tempo, con un trend che pare essere in aumento. A questo
proposito lo studio sottolinea anche la frequente esclusione dei
lavoratori precari dai tavoli sindacali su salute e sicurezza e il
minore accesso (o del tutto assente) ad attrezzature e strumenti di
protezione. I risultati di tale sistema si traducono dunque in
condizioni fisiche di lavoro peggiori, insicurezza psicologica e
stress eccessivo, un maggior carico d'impiego, incidenti più
frequenti.
"Si va rafforzando una sorta di mal di vivere perché l'incertezza
del lavoro e la precarietà continua finiscono per far morire la
speranza nel futuro - sostiene Filomena Trizio, segretaria generale
di Nidil-Cgil - le nuove generazioni sono circondate da questo tipo
di contesto lavorativo e senza dubbio sono più esposte al malessere.
Altro che bamboccioni, la condizione di disagio in cui si trovano i
giovani è frutto di scelte politiche e sociali precise. E su queste
si deve intervenire".
Ma oltre a ravvisare un legame tra i nuovi pericoli per i lavoratori
(soprattutto lo stress e le conseguenti malattie psicosomatiche) e i
nuovi equilibri economici e organizzativi, nella ricerca viene
riscontrato anche un collegamento tra la maggiore competitività sul
luogo di lavoro e gli episodi di bullismo e molestie; infine la
sottolineatura di un altro aspetto: la connessione tra lo scarso
equilibrio della vita professionale e quello della vita privata e
famigliare.
Situazioni che fanno del lavoratore precario un soggetto a rischio e
concorrono ad aumentare i danni alla salute derivanti dal lavoro.
Sintomi che spingono gli operatori del settore, come l'Agenzia
europea, a ribadire la necessità di trovare presto vaccini e
terapie: un maggiore controllo degli ambienti di lavoro e un
incremento reale di garanzie e tutele. In altre parole: nuove,
differenti politiche per un lavoro diverso, stabile e sicuro.
6 novembre
I deportati del lavoro |
Più di 4mila lavoratori stranieri saranno espulsi dagli
Emirati per aver osato scioperare |
Verranno puniti e serviranno da esempio. In modo che nessuno si permetta
più di alzare la testa. Una punizione esemplare che colpirà, secondo
quanto dichiarato dal ministro del Lavoro degli Emirati Arabi Uniti
Humeid bin Deemas, più di 4mila lavoratori immigrati che verranno
espulsi.
La loro colpa? Aver scioperato.
Diritto
allo sciopero. Lo scorso fine settimana, dopo mesi di relativa
calma, era esplosa di nuovo la rabbia dei lavoratori immigrati negli
Emirati, impiegati in massima parte nei cantieri edili. Singalesi,
thailandesi, pakistani, indiani e bengalesi hanno incrociato le braccia,
per chiedere condizioni più umane di lavoro e un aumento anche minimo
della paga da fame. I più esagitati tra i dimostranti hanno occupato
qualcuno dei sontuosi palazzi in costruzione e danneggiato alcune
strutture dei cantieri. Questo è bastato perché arrivassero le forze di
sicurezza che hanno represso nel sangue la dimostrazione. Ma era già
capitato in passato, e il governo degli Emirati ha deciso che non si può
tollerare oltre questa reazione di questi moderni servi della gleba, che
si ribellano alle condizioni inumane di lavoro. “Gli organi competenti
dello Stato sono stati interessati sulla vicenda”, ha dichiarato il
ministro bin Deemas, “e prenderanno tutte le misure necessarie. Gli
operai che non vogliono lavorare sono liberi di farlo, e non possono
essere costretti a farlo. Quindi verranno accompagnati al confine”.
Deportazione
di massa. Che significa deportati. Sia lo sciopero che le
rappresentanze sindacali sono proibite negli Emirati Arabi Uniti, che
sfruttano questa situazione per imporre ai circa 700mila lavoratori
immigrati, in gran parte dall'Estremo Oriente, condizioni di lavoro
disumane: giornate lavorative di 15 ore, nessuna tutela sanitaria e di
sicurezza sul luogo di lavoro, stipendi irrisori e condizioni abitative
al limite della dignità umana. Grazie a tutto questo, il costo del
lavoro è quasi nullo, e i sette ricchi emirati che formano il paese
hanno conosciuto un boom economico senza precedenti, in particolare nel
settore edilizio.
Ma negli ultimi anni gli operai hanno cominciato a ribellarsi, prima con
manifestazioni di protesta come quella del fine settimana scorso, poi
con il tentativo di dar vita a una
rappresentanza
sindacale. Pressato anche dalla comunità internazionale, il governo
degli Emirati Arabi Uniti aveva promesso un giro di vite nel settore,
impegnandosi a costringere le aziende a fornire condizioni di lavoro e
di vita più umane agli operai. A giugno scorso, l'esecutivo ha varato un
pacchetto di leggi che prevedeva anche la regolarizzazione di più di
280mila di questi lavoratori, ma non è successo nulla, e la tensione è
tornata a salire.
Un quadro della complessità della situazione è dato da un documentario
prodotto da al-Jazeera, che si chiama Blood, Sweat and Tears,
che offre uno spaccato dell'inferno nel quale si genera lo sviluppo
degli Emirati Arabi Uniti.
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