Archivio notizie
ottobre 2007
30 ottobre

India, la marcia
per la terra
Circa 25mila persone hanno marciato
pacificamente su Delhi chiedendo condizioni di lavoro più dignitose
al Governo
Anche senza casa La battaglia
degli oltre 20mila senza terra indiani sembra abbia avuto un esito
positivo. Dopo l'arrivo a delhi domenica 28 ottobre di circa 25mila
persone indigene che protestavano per la loro esclusione dalla
coltivazione delle terre a beneficio del latifondo, il governo del
partito induista al comando ha deciso di avviare una riforma
agraria. Il governo ha concesso al movimento dei senzaterra un
'Tavolo di confronto sulla riforma della Terra coltivabile, che
studi punto per punto le proposte dei senza terra e dei popoli
indigeni, molto sensibili sulle lotte per i terreni coltivabili, a
discapito delle aree boschive. Gli aborigeni e i contadini delle
caste più basse e meno abbienti, hanno marciato per quattro
settimane attraverso le giungle per arrivare fino a Nuova Delhi dai
politici. Sostengono di essere gli unici nel miliardo di persone del
Paese, a non essere nemmeno sfiorati dal benessere che sta
investendo tutta l'India.
Soddisfatti e ben accolti “Le nostre richieste sono state
accolte. Al momento possiamo dirci soddisfatti” ha detto Bharat
Bhushan Thakum, uno dei capi della rivolta “le misure previste
abbasseranno drammaticamente i tempi per l'assegnazione di terreni
ai senza terra. Adesso ce ne possiamo tornare contenti ai nostri
campi” ha detto alle agenzie di stampa il campione sportivo. Il
governo indiano ha informato che circa metà dei seggi nel Tavolo
permanente dovranno rimanere sotto il controllo del Cremlino, se non
effettivamente dell'uomo che in quel momento sta in cima al vertice
del potere”. Ma inodi irrisolti verranno al pettine, sostengono
molti corrispondenti stranieri, principalmente perché il Governo non
ha ancora fornito delle date certe per scandire secondo un tragitto
di Pace (come la Road map in Terra Santa). La composizione sociale
della folla dei protestanti era formata, in primo luogo, da persone
realmente bisognose, che finora non avevano ottenuto niente, se non
che il conflitto venisse portato a casa loro attraverso la tv.
Adesso anche chi arriva dalle regioni meno povere può passare delle
ore seduto da solo, senza che i suoi maestri, o professori, non la
mettano sul pignolo.
Gianluca Ursini
25 ottobre
Democrazia e
religione
di EZIO MAURO
"Finiamola". Con questo invito che
ricorda un ordine il Cardinal Segretario di Stato della Santa Sede,
Tarcisio Bertone ha preso ieri pubblicamente posizione contro
l'inchiesta di Repubblica sul costo della Chiesa per i contribuenti
italiani, firmata da Curzio Maltese. "Finiamola con questa storia
dei finanziamenti alla Chiesa - ha detto testualmente il cardinal
Bertone - : l'apertura alla fede in Dio porta solo frutti a favore
della società". Per poi aggiungere: "C'è un quotidiano che ogni
settimana deve tirare fuori iniziative di questo genere. L'ora di
religione è sacrosanta".
Non ci intendiamo di santità, dunque non rispondiamo su questo
punto. Ma non possiamo non notare come il tono usato da Sua Eminenza
sia perentorio e inusuale in qualsiasi democrazia: più adatto a un
Sillabo.
L'attacco vaticano riguarda un'inchiesta giornalistica che analizza
i costi a carico dei cittadini italiani per la Chiesa cattolica,
dalle esenzioni fiscali all'otto per mille, al finanziamento alle
scuole private, all'ora di religione: altre puntate seguiranno,
finché il piano di lavoro non sia compiuto.
Finiamola? E perché? Chi lo decide? In nome di quale potestà? Forse
la Santa Sede ritiene di poter bloccare il libero lavoro di un
giornale a suo piacimento? Pensa di poter decidere se un'inchiesta
dev'essere pubblicata "ogni settimana" o con una diversa cadenza? E'
convinta che basti chiedere la chiusura anticipata di un'indagine
giornalistica per evitare che si discuta di "questa storia"? Infine,
e soprattutto: non esiste più l'imprimatur, dunque persino in
Italia, se un giornale crede di "tirar fuori iniziative di questo
genere" può farlo. Salvo incorrere in errori che saremo ben lieti di
correggere, se riceveremo richieste di rettifiche che non sono
arrivate, perché nessun punto sostanziale del lavoro d'inchiesta è
stato confutato.
La confutazione, a quanto pare, anche se è incredibile dirlo,
riguarda la legittimità stessa di affrontare questi temi. Come se
esistesse, lo abbiamo già detto, un'inedita servitù giornalistica
dell'Italia verso la Santa Sede, non prevista per le altre
istituzioni italiane e straniere, ma tipica soltanto di Paesi non
democratici. In più, Sua Eminenza è il Capo del governo di uno Stato
straniero che chiede di "finirla" con il libero lavoro d'indagine
(naturalmente opinabile, ma libero) di un giornale italiano.
Dovrebbe sapere che in Occidente non usa. Mai.
Stupisce questa reazione quando si parla non dei fondamenti della
fede, ma di soldi. E tuttavia se la Chiesa - com'è giusto - vuole
far parte a pieno titolo del discorso pubblico in una società
democratica e trasparente, non può poi sottrarsi in nome di qualche
sacra riserva agli obblighi che quel discorso pubblico comporta: per
tutti i soggetti, anche quelli votati al bene comune. Anche questo è
un aspetto della sfida perenne, e contemporanea, tra democrazia e
religione.
I dati dell'Osservatorio del
mercato immobiliare pubblicati dall'Agenzia del Territorio. Solo un
lieve rallentamento della crescita delle quotazioni: in tre anni
+26,5% per i capoluoghi
I prezzi delle
case continuano a crescere. Ma le vendite calano del 3,4% sul
semestre
ROMA - Da tempo si parla di una
diminuzione dei prezzi delle case, quantomeno di una frenata, ma
intanto dalle rilevazioni continuano a emergere solo ulteriori
aumenti. In soli tre anni, i prezzi delle case solo saliti di oltre
un quarto e continuano a crescere, rileva l'Osservatorio del mercato
immobiliare pubblicato dall'Agenzia del Territorio: in particolare,
per i capoluoghi si tratta di un aumento del 26,5% dal 2004 mentre
per i comuni non capoluogo l'incremento è stato del 23,2%. Nei primi
sei mesi dell'anno i prezzi delle case sono saliti del 6,6 per
cento.
A scendere, nello stesso periodo, è solo il numero delle
compravendite nel settore residenziale del 3,4%: questo perché
probabilmente c'è un atteggiamento 'attendista' degli aspiranti
acquirenti, che stanno rimandando la stipula del contratto in attesa
della sospirata discesa dei prezzi, auspicata anche dagli agenti
immobiliari.
Il volume delle compravendite complessivo è stato di 884.442
transazioni. I dati, sottolinea il direttore dell'Osservatorio
Gianni Guerrieri, fotografano comunque "una inversione di ciclo già
preannunciata, che si riflette innanzitutto sulle compravendite e
poi sui prezzi, per i quali si assiste ad un lieve rallentamento del
tasso di crescita, che comunque resta positivo".
Per quanto riguarda la quotazione media di riferimento, relativa al
settore residenziale, essa risulta pari a 1.518 euro al metro
quadro, in crescita del 2,8% rispetto al semestre precedente e del
6,6% su base annua, ma in rallentamento rispetto al secondo semestre
2006 (quando si era registrato un +3,7% semestrale e un +8,8%
annuo).
Tale rallentamento, sottolinea l'Osservatorio del mercato
immobiliare, è "più sensibile" per i capoluoghi che pure hanno
registrato un incremento pari al 2,7% sul semestre precedente (+4,1%
nel secondo semestre 2006) e al 6,9% su base annua (+10,5% nel
secondo semestre 2006).
Nei comuni non capoluogo, invece, le quotazioni aumentano del 2,9%
nel semestre (+3,4% nel secondo semestre 2006) e del 6,4% su base
annua (+8,1% nel secondo semestre 2006), con un incremento dal 2004
pari al +23,2%.
Sul piano territoriale, il Sud conta due primati. Uno, per il boom
dei prezzi negli ultimi anni; il secondo per il calo consistente
delle compravendite.
Nel dettaglio, nel Mezzogiorno, dal 2004 le quotazioni sono
aumentate del 32,7% nelle città e del 29,9% nella provincia e le
compravendite nel settore residenziale sono diminuite del 4,6%
contro il -2,6% del Centro e il -3,1% del Nord (in linea con il dato
nazionale). Sempre al Sud, i volumi di compravendite sono calati del
4,5% per le città e aumentati del 6,8% nei comuni minori. In alcuni
capoluoghi - come Napoli e Palermo - si sono avuti cali
rispettivamente del 14,2% e del 13,7%, seguiti subito dopo da Milano
(-13,5%) e Roma (-10,1%).
Chi controlla
Bassora?
Primo test per le forze irachene
che controllano Bassora al posto del contingente britannico
Questa mattina la città sembra
tranquilla, ma i disordini di ieri hanno lasciato tra la popolazione
un clima di insicurezza generale. Questa la situazione a Bassora,
nel sud dell'Iraq, dove ieri si è svolto il primo vero test per le
forze di sicurezza irachene, dopo il passaggio di consegne con il
contingente britannico, ritirato da settembre nella base creata
all'interno dell'aeroporto cittadino.
I fatti. Ieri la polizia locale ha dovuto affrontare scontri
a fuoco contro l'esercito del Mahdi, la milizia controllata da
Moqtada Sadr che, a un certo punto della serata, annunciava di aver
preso il controllo della città. Secondo l'emittente al Jazeera il
capo della polizia locale, Muhammad Qaji, è stato costretto alla
fuga e per qualche ora i miliziani sciiti hanno presidiato i palazzi
del potere e le vie del centro al posto della polizia. Il bilancio
degli scontri sarebbe di quattro morti e almeno dieci feriti. Pare
inoltre che i miliziani abbiano catturato 50 agenti della sicurezza.
Stando alle prime ricostruzioni la battaglia è iniziata quando la
polizia ha fermato uno dei capi dell'esercito del Mahdi,
apparentemente per una violazione stradale, e lo ha arrestato. A
quel punto i miliziani sadristi hanno attaccato la polizia per
liberarlo, inssescando scontri a fuoco in diverse parti della città,
in particolare nel quartiere al-Andalus e attorno al quartier
generale delle forze di sicurezza. La situazione è stata riportata
sotto controllo grazie alla mediazione del generale Mohan Firaji,
comandante delle forze di sicurezza irachene a Bassora. é stato un
incidente, un malinteso ha poi dichiarato Haider Jaberi, un membro
dell'esercito del Mahdi.
Milizie sciite contro. La scaramuccia di ieri tra milizie e
sicurezza irachena è scoppiata per un motivo di poco conto ma si è
conclusa con una schiacciante dimostrazione di superiorità da parte
delle milizie, che tra l'altro si ritiene abbiano ampiamente
infiltrato la polizia irachena. Negli ultimi mesi Bassora è stata
teatro di scontri tra i diversi gruppi sciiti: che fanno capo al
partito di Sadr, al Supremo Consiglio Islamico Iracheno e al Fadhila,
che governa ufficialmente la provincia. Mentre le forze britanniche
dallo scorso settembre si sono ritirate in una base fortificata
fuori dall'abitato di Bassora e hanno avviato un progressivo
ridimensinamento del contingente. Finchè la polizia non sarà in
grado di controllare il territorio la situazione nella città, ambita
da tutte le fazioni sciite e filo-iraniane per le sue immense
risorse petrolifere, è destinata a rimanere incendiaria. I
britannici tuttavia non mostrano particolare preoccupazione. Dopo
gli scontri il maggiore Jamie Halford-Macleod, uno dei portavoce del
contingente di Londra, ha dichiarato che manteniamo la
responsabilità complessiva sulla provincia di Bassora, e
risponderemo come riterremo sia necessario. Il contingente
britannico non è in grado di gestire la sicurezza dell'intera
provincia meridionale e mantiene la sua presenza nelle basi solo per
controllare i pozzi, gli oleodotti e le raffinerie. La popolazione
civile si trova sempre più spesso tra due fuochi, ma per le forze
della coalizione e il governo di Baghdad l'importante è che il
petrolio del sud non finisca nelle mani delle milizie sciite, o
peggio, degli iraniani.
100 miliardi
evasi
100 miliardi, pari a 7 punti di pil.
E' quanto brucia in una anno l'evasione fiscale in Italia. Ma tra il
2006 e il 2007 un quinto delle «mancate entrate» è stato recuperato.
E' il dato saliente del Rapporto al parlamento redatto dal
viceministro del'economia Vincezo Visco. Finita la stagione dei
condoni, i 23 miliardi di maggiori incassi sono dovuti sia
all'incremento degli accertamenti che all'adeguamento «spontaneo» da
parte dei contribuenti. Un risultato positivo che Visco definisce
«acquisito e non temporaneo». Diventerà consolidato solo se
continuerà la lotta all'evasione fiscale.
Il sommerso fiscale italiano supera almeno del 60% la media dei
paesi dell'Ocse. L'evasione coinvolge tutti i settori dell'economia.
Un buon 80% è generato nel settore dei servizi (alle imprese e alle
famiglie) e nel commercio. Costruzioni e servizi immobiliari celano
il 50% dell'imponibile, l'agricoltura nasconde il 39% del valore
aggiunto dell'Irap). Le grandi imprese evadono di più in valore
assoluto, ma in percentuale le piccole e medie si comportano peggio:
occultano il 55% in più di base imponibile delle grandi. Le
differenze tra Nord e Sud sono «minime», sostiene il rapporto,
rompendo lo stereotipo secondo cui al Sud si evade più che al Nord.
L'evaso Irap, in termini assoluti, è simile in Campania, Puglia,
Lombardia e Veneto. In alcune province sia del Nord che del Sud il
valore aggiunto evaso supera quello dichiarato.
Nel 2007 i controlli sostanziali antievasione sono stati 321mila
(+34%), quasi 9 mila le verifiche complesse (+29%.).
I maccheroni al
«cartello»
L'Autorità per la concorrenza
indaga sugli aumenti concordati dei prezzi
Roberta Carlini
Stavolta li hanno presi proprio con le
mani nel sacco. Di farina. I pastai italiani, riuniti
nell'associazione detta Unipi, sono da ieri ufficialmente sotto
indagine dell'antitrust per il rincaro dei prezzi della pasta.
L'accusa fatta dall'autorità antitrust agli industriali della pasta
è quella di aver concordato e deliberato l'aumento dei prezzi.
Com'è noto, e come da qualche mese non mancano di sottolineare
produttori e venditori, all'origine del rincaro degli spaghetti -
così come del pane - c'è l'aumento del costo della materia prima, la
farina, nella versione grano duro e grano tenero. Però i pastai sono
accusati di aver deciso al vertice il come, il quando e il quanto
del trasferimento del rincaro della materia prima al consumatore.
Cancellando così qualsiasi parvenza di quella libera concorrenza sul
mercato alla quale tutti fanno ferventi professioni di fede, a
partire dalla casa madre della stessa associazione dei pastai - la
Confindustria.
I fatti che hanno portato l'Autorithy garante della concorrenza e
del mercato guidata da Antonio Catricalà ad aprire l'istruttoria
annunciata ieri risalgono al 18 luglio 2007. Quel giorno, si legge
nel provvedimento dell'Antitrust che a sua volta cita il ricorso
della Federconsumatori della Puglia, si sono riunite a Roma una
cinquantina di imprese aderenti all'Unipi, l'Unione Industriale
Pastai Italiani, associazione di 160 imprese aderente a
Confindustria, che raccoglie l'85% della produzione complessiva
delle paste secche. In quest'incontro i padroni del maccherone hanno
preso in esame il rincaro del prezzo del grano che, a loro dire, è
stato del 50% dall'inizio dell'anno; il prezzo di un chilo di
farina, da gennaio all'estate, è salito da 24 a 35 centesimi di
euro. Di qui la decisione, presa in quella riunione, di aumentare il
prezzo della pasta: a fronte di un 50% di aumento della materia
prima, avrebbero deciso un 20% di aumento dei listini. Dunque,
l'associazione di categoria avrebbe agito come un vero e proprio
cartello, decidendo sui prezzi da applicare all'intero settore, in
barba alla concorrenza.
Questo il sospetto dei ricorrenti e della stessa autorità Antitrust,
che non ha per ora avuto bisogno di assumere Sherlock Holmes per
scoprire il fattaccio, dato che all'uscita di quella riunione fu lo
stesso presidente dell'Unipi Mario Rummo a dare pubblico annuncio
della decisione: «C'è bisogno di un ritocco dei listini del 20%,
riscontrabile sugli scaffali di vendita da settembre». Seguito a
ruota dal suo vicepresidente che precisò all'Ansa: «Parte degli
aumenti sono già stati applicati, i restanti aumenti saranno
graduali per arrivare a un aumento finale di 12-14 centesimi».
Detto, fatto: al rientro dalle vacanze è esploso il caro-pasta,
contemporaneamente al caro-pane. Ora, se è del tutto comprensibile
che l'aumento della materia prima - il grano - comporti prima o poi
un aumento anche dei prezzi al consumatore, è altrettanto evidente
che il peso del costo della materia prima può essere diverso da
produttore a produttore, e che ciascuno di questi può decidere,
nell'ambito della sua impresa, qua[ nta parte del rincaro trasferire
sui prezzi e quando farlo. Mettersi d'accordo per farlo tutti
insieme, è la semplificazione più chiara del "cartello", del patto
ai danni del consumatore: chi garantisce che davvero i prezzi del
grano sono saliti del 50% (gli agricoltori smentiscono)? E chi dice
che su tutti i produttori quell'incremento pesa esattamente allo
stesso modo?
Per indagare su questi fattacci, l'Antitrust ha preso un anno di
tempo: entro il 2008 infatti dovrà chiudersi l'istruttoria aperta
ieri. Che è diretta non già contro i singoli produttori - Barilla,
Divella, De Cecco, Amato, Agnesi ... - ma contro la loro
associazione, Unipi, nonché contro la corrispondente associazione
delle piccole e medie imprese, l'UnionAlimentari. Nel frattempo,
niente obbliga i singoli produttori ad abbassare i prezzi, anche se
potrebbero essere indotti a farlo per addolcire il verdetto finale
dell'Autorità. Che però è indebolita anche dalle regole sulla
determinazione della sanzione. Infatti questa dovrà essere inflitta
all'associazione, e non ai singoli produttori (le grandi industrie),
e dunque commisurata al suo (misero) fatturato.
Alla sbarra dell'Antitrust non c'è infatti mister Barilla, che con
la sua produzione di pasta secca copre il 40% del mercato, né il
signor Divella o la De Cecco o gli altri medi produttori. Al
contrario di quanto è previsto per l'antitrust europeo, la legge
antitrust italiana non consente di trasferire l'onere
dall'associazione agli associati, a meno di non prendere anche
questi platealmente con le mani nel sacco di farina.
Forse è per questo che, nel luglio di quest'anno, i rappresentanti
dei pastai non hanno fatto niente per nascondere quel che stavano
tramando dietro gli scaffali: sapendo che al massimo rischiavano una
piccola multa. E una gran brutta figura: l'apertura dell'indagine
antitrust non è proprio un bel viatico per le celebrazioni del
«World Pasta Day», che si terranno domani a Roma con gran finale
gastronomico alla casina Valadier.
Le ricchezze
eccessive di Piazzaffari
Mediobanca offre gli indici e i
dati dei successi azionari di banche forti e altre imprese scampate
g. ra.
Le banche italiane quotate in borsa
pagavano nel 1997 agli azionisti 1,7 miliardi di euro, in lire
naturalmente, perché l'euro non era ancora stato inventato. Nel 2001
l'ammontare era salito a 4,5 miliardi, per raggiungere i 12 miliardi
nel 2006. Oltre il 60% è la parte di due banche soltanto per il
2006: Intesa Sanpaolo con 4,9 miliardi e Unicredit con la metà, 2,5
miliardi di euro.
Oltre che offrire lauti dividendi, le banche hanno anche divorato
altre banche, tanto che di 51 istituti quotati nel corso dei dieci
anni presi in considerazione, ne sono in funzione ormai soltanto 26.
Ricchezza fragorosa e cannibalizzazione delle banche sono descritte
con il rigore delle cifre dall'edizione 2007 degli «Indici e dati»
di Mediobanca, presentati ieri e da ieri in rete.
Anche le compagnie di assicurazione si sono praticamente dimezzate,
riducendosi a 9. I dividendi lordi sono passati dai 686 milioni del
1997 ai 1.093 milioni di 2001, fino ai 2.221 milioni del 2006. Va
notato che nel 2005 il risultato complessivo era più ricco, e
arrivava a 2.692 milioni, per la presenza nel listino di due
assicuratrici storiche, Ras e Toro che sono sparite dal listino di
borsa.
Banche e assicurazioni coprono poco meno di metà dei dividendi
complessivi della borsa nel 2006. Questi infatti superano i 30
miliardi. Nel corso di 10 anni il dividendo complessivo si è
mioltiplicato per 5 o quasi. Era infatti di 6,5 miliardi nel 1997,
per crescere fino a 18,6 miliardi nel 2001 e agli attuali 30,4
miliardi di euro. Le altre società, cosiddette industriali (almeno
questa è la dizione di Mediobanca) sono 223, la prima è As Roma,
l'ultima è Zignago vetro, mentre altre 105, depennate, rimangono
solo per via del nome conservato negli elenchi per la storia. Spesso
furono imprese importanti, come Ferruzzi e Montedison e Pirelli e
Parmalat.
I dividendi pagati nell'ultimo quinquennio, tra 2002 e 2006 pari a
120 miliardi, sono poco meno del doppio di quelli pagati tra 1997 e
2001, pari a 67 miliardi. Tra le imprese industriali si può
ricordare l'andamento della Fiat che paga tra 1997 e 2000 un
dividendo complessivo immutato di 353 milioni annui. Nel 2001 riduce
la cifra quasi a metà, distribuendo 202 milioni. Poi per 4 anni non
paga dividendi, e sono gli anni del disastro industriale; e in
corrispondenza il valore delle azioni si riduce ampiamente, per poi
risalire negli ultimi tre anni, nell'epoca di Sergio Marchionne,
finché in relazione al 2006, viene distribuito un dividendo di 275
milioni.
Può essere interessante ricordare anche i risultati di Eni ed Enel.
La prima società quadruplica il dividendo nel corso dei dieci anni
considerati, passando dai 1.156 milioni del 1997 ai 2.876 milioni
del 2001 e ai 4.595 milioni di euro del 2006. Non troppo diverso
l'andamento dei dividendi dell'Enel. Evidentemente l'aumento di
prezzo del petrolio e del gas aumenta i successi della compagnia
elettrica che dai 1.453 milioni del 1999 (nel 1997 non era in
borsa), passa ai 2.183 milioni del 2001 e ai 3028 del 2006.
Una notazione soltanto. Una borsa così aumenta il divario di redditi
tra chi ha azioni e chi non ne ha.
23 ottobre
Gli Usa cacciati
da Manta
Costretti a lasciare l'Ecuador,
puntano a costruire una base in Perù
L'Ecuador di Rafael Correa sta per
segnare un altro punto nel braccio di ferro con il cosiddetto primo
mondo. Dal 1999, la base di Manta è usata dagli Stati Uniti, che la
considerano punto strategico per il controllo della regione. Ma fra
poco, quell'accordo scadrà e il governo non ha nessuna intenzione di
rinnovarlo. A spiegarci come la Casa Bianca abbia reagito a questa
presa di posizione del piccolo paese sudamericano è Ana Esther
Cecena, ricercatrice messicana esperta in materia.
I fatti. L'accordo sulla base
di Manta con gli Stati Uniti è decennale, dunque scadrà nel 2009
racconta - Tutto andava a gonfie vele per Washingotn fino all'arrivo
di Correa alla presidenza dell'Ecuador, che ha coinciso con una
forte pressione del movimento contro la guerra, di quello contro le
basi militari e della campagna per la smilitarizzazione delle
Americhe. Questi hanno cercato di convincere il presidente a non
ratificare un nuovo accordo con gli Usa e lui li ha ascoltati. Così,
per la prima volta nella storia latinoamericana, un presidente ha
detto no a una collaborazione militare con gli Stati Uniti. E i
militari nordamericani non potranno fare altro che andarsene da
Manta, uscendo definitivamente dal territorio ecuadoriano.
Soldato del comando Usa del sud,
Ecuador
La reazione. Adesso è però
importante vedere quale sia il progetto Usa per sostituire Manta,
dato che quella base ha una posizione molto strategica racconta
Cecena - Da lì controllano una grande fetta del territorio.
Perderla, dunque, implica due possibilità: o rinunciare a quel
potere di supervisione o conquistare altre posizioni che permettano
loro di coprire almeno il medesimo raggio di azione, se non di più.
E chiaramente gli Usa hanno puntato sulla seconda opzione. Quando
gli Stati Uniti decisero di trasferirsi a Manta riprende l'esperta
messicana - fu perché dovettero ritirarsi da Panama. Ma per supplire
a tale perdita crearono un triangolo che moltiplicò la loro
influenza. Costruirono la base Compalapa in Salvador, la Reina
Beatriz in Aruba, isola dei Caraibi a nord del Venezuela, la Hato
Rey in Curacao e, appunto, Manta in Ecuador. Quindi, lasciarono, sì,
un luogo strategico, ma solo fisicamente, dato che continuarono a
controllarlo spostandosi poco più in là e conquistando, in più,
molte altre postazioni, col risultato di ampliare la loro influenza
sulla regione. E, secondo Esther Cecena, con Manta sta succedendo
qualcosa di molto simile. Per rimediare alla perdita della base
ecuadoriana c'è già il progetto di costruirne una in Perù e un'altra
in Colombia, col risultato di ampliamento del loro raggio di azione.
Se in Colombia non vanno che a rafforzare una presenza già
massiccia, quella del Perù è una novità importante. La Casa Bianca
precisa la studiosa - è ultimamente molto preoccupata per quanto sta
avvenendo in quell'area. Quella del Cono Sud è una zona dove
guadagnare posizione è costato molta fatica. E adesso, questa sorta
di fuoco rosso incrociato fra Morales in Bolivia, Correa e il
venezuelano Chavez complica molto le cose. Per questo mettere piede
in Perù è fondamentale. Da un lato garantisce la loro presenza nello
stesso paese andino, da sempre molto inquieto; e dall'altro permette
loro di pressare l'Ecuador e di tenersi a due passi dalla Bolivia.
Quella da Manta è dunque contemporaneamente un'uscita e un
riposizionamento.
Uscita e riposizionamento. Ma
Ana Esther Cecena tiene a precisare che la presa di posizione
inedita di Correa non perde, comunque, di importanza. Il no
dell'Ecuador segna una sconfitta storica degli Stati Uniti, che di
fatto vengono cacciati fuori spiega -. E questo è importantissimo.
La reazione che sta avendo Washington non sminuisce la politica di
Correa, bensì conferma quante risorse abbiano gli Usa, dimostra come
ancora possano contare su paesi alleati che lo lasciano entrare,
fare e disfare. Il Perù, per esempio, in cambio di aiuti umanitari,
ha permesso agli Stati Uniti non solo di iniziare a costruire la
base, ma anche di stanziarsi nel nord del paese dove avvengono, da
due anni, esercitazioni di ogni genere. Si tratta di vere e proprie
ricognizioni militari sul territorio, molto meticolose. E non solo:
parlano con la gente, si inseriscono nella società e magari, capita
pure che costruiscono anche qualche scuola o centro medico, dove
tutti vengono curati con gli analgesici. Intanto, occupano un'area
fondamentale nello scacchiere geopolitico: non dimentichiamo
l'importanza strategica del nord del Perù e le sue risorse naturali.
Stando là si ha accesso all'area amazzonica e quindi a tutte le sue
risorse. È un modo per occupare il territorio.
Paesi amici. Attualmente in
America Latina le basi più importanti, oltre a Manta sono otto: 5 in
Colombia, ossia due al nord-est, al confine con il Venezuela, due a
sud, al confine con l'Ecuador, e una nei pressi di Panama, nel Choco,
area indigena e di afrodiscendenti, dove si registra un numero
impressionante di sfollati; una in Honduras, una in Salvador, e
quella di Guantanamo. Ma Ester elenca anche Haiti, che in qualche
modo è un paese occupato, che si può paragonare a una sorta di base
militare di controllo regionale. Mentre, nella tanto agognata Triple
Frontera, Brasile-Paraguay-Argentina, ancora non hanno potuto
costruire una vera e propria base, grazie alle reticenze argentine.
Ma in compenso sottolinea Cecena - hanno costruito l'ufficio della
Cia e della Dea e hanno stretto un accordo bilaterale con il
Paraguay che dà alle truppe nordamericane la totale immunità. C'è
anche un accordo per ripristinare una vera e propria base militare
in Paraguay, ma è stato sospeso per le proteste del movimento
pacifista, arrivate proprio in periodo elettorale. Ugualmente, la
presenza Usa nel paese latinoamericano si fa sentire con
l'occupazione di un areoporto immenso che permette l'atterraggio
degli aerei Galaxy, quelli che trasportano squadroni, carrarmati e
via dicendo. E comunque conclude - in tutti i luoghi più importanti
per le risorse energetiche e ambientali ci sono truppe Usa.
Nell'acquifero Guarani, per esempio, ci sono le basi operative della
Dea. E così è per ogni zona calda del continente.
Stella Spinelli
Gli sconcertanti dati della
Confesercenti sugli affari criminali: "La 'Mafia 'Spa è l'industria
italiana che risulta più produttiva"
"La mafia? E' la
prima azienda italiana". Per Sos Impresa 90 mld di utili l'anno
ROMA - Con un utile annuo pari a 90
miliardi di euro, una cifra equivalente a cinque manovre finanziarie
o, se si preferisce, alla somma di otto "tesoretti", l'"azienda
mafiosa" si classifica al primo posto nella classifica
dell'imprenditoria italiana. Un primato difficile da spodestare,
dato che il giro d'affari che ruota intorno a sfruttamento della
prostituzione, traffico di droga e armi, estorsione, rapine e usura
non sembra conoscere crisi.
Il rapporto sulla criminalità di "Sos Impresa" della Confesercenti
delinea un quadro drammatico. In base ai dati raccolti, l'usura
rappresenta la principale fonte di business criminale per la mafia,
con circa 30 miliardi di fatturato. Il racket frutta ai clan 10
miliardi, 7 miliardi arrivano dai furti e dalle rapine, 4,6 dalle
truffe, 2 dal contrabbando, 7,4 dalla contraffazione e dalla
pirateria, 13 dall'abusivismo, 7,5 dalle mafie agricole, 6,5 dagli
appalti e "solo" 2,5 dai giochi e dalle scommesse.
Dati che fanno ancora più impressione, se messi in relazione a tutti
gli organismi e ai cittadini coinvolti nel giro dell'illegalità. Il
racket delle estorsioni coinvolge 160 mila commercianti italiani,
con una quote di oltre il 20 per cento dei negozi e punte dell'80
per cento negli esercizi di Catania e di Palermo. I commercianti e
gli imprenditori subiscono 1.300 reati al giorno, praticamente 50
l'ora.
La collusione degli imprenditori. "Uno degli elementi che
colpisce maggiormente - sottolinea il documento - è l'espansione
della cosiddetta "collusione partecipata", un fenomeno che investe
il gotha della grande impresa italiana, soprattutto quella impegnata
nei grandi lavori pubblici. Gli imprenditori preferiscono venire a
patti con la mafia piuttosto che denunciare i ricatti".
Confesercenti fa anche alcuni nomi di aziende che hanno "ceduto"
alla criminalità. "Il colosso Italcementi - si legge nel rapporto -
è uno di quelli che ha ceduto alla morsa, supportando maggiori
costi, assumendosi numerosi rischi ed agevolando, così, l'espansione
economica della cosca dei Mazzagatti.
Anche per i lavori della Salerno-Reggio Calabria gli imprenditori
sono stati costretti a trattare con le cosche calabresi. La
Impregilo - sempre secondo Sos Impresa - aveva insediato nelle
società personaggi che, secondo gli inquirenti "da sempre avevano
avuto a che fare con esponenti della criminalità organizzata e con
imprese di riferimento alle cosche".
Aggressioni, risse e raduni
segreti. Centinaia di denunce sono arrivate negli ultimi sei mesi.
Tra Varese e Milano il nuovo laboratorio degli aspiranti
resuscitatori del Terzo Reich
Noi, nazisti
della porta accanto. Ecco i nuovi estremisti di destra
dal nostro inviato PAOLO BERIZZI
VARESE
- La bambina ha sei anni e il braccio teso nel saluto nazista. I
capelli biondi che le accarezzano le spalle, la frangetta, un
vestito bianco, il sorriso inconsapevole come se stesse giocando
alle belle statuine. In un'altra immagine è in piedi accanto al
padre. Riproduce il gesto che le ha insegnato papà, camerata
varesotto e nostalgico regimista. Poi ci sono i politici. Gente che
ricopre incarichi istituzionali, che siede nei consigli comunali di
importanti comuni lombardi. Nelle file di Alleanza Nazionale o del
Movimento nazionalsocialista dei lavoratori (la riproduzione del
partito nazista di Adolf Hitler, attivo dal 2002, tre seggi tra
Nosate e Belgirate alle ultime elezioni amministrative).
Le foto di cui Repubblica è entrata in possesso li ritraggono a
volto scoperto, sprezzanti di fronte all'obiettivo, in pose ardite.
La più truce è a metà tra una parata delle SS e un'istantanea di
terroristi Nar. I quattro nazisti, giubbotto e occhiali scuri, uno
di fianco all'altro, le mascelle serrate, salutano romanamente. Con
una mano. Con l'altra impugnano pistole semiautomatiche. Sono
puntate verso il fotografo. Uno la brandisce inclinandola in
orizzontale; un altro la tiene appoggiata al petto. Sono nazisti
d'Italia. Soldati delle nuova ultradestra del nostro Paese, una
galassia che, tra partiti ufficiali, movimenti e sigle minori, conta
qualcosa come 15 mila tra iscritti e simpatizzanti. Ben 97 episodi
criminali del 2006 sono riconducibili a gruppi neofascisti, quasi il
doppio di quelli registrati nel 2005. Un centinaio tra indagati,
denunciati e arrestati solo negli ultimi sei mesi di quest'anno, in
un'escalation di aggressioni e attentati soprattutto contro
immigrati e avversati politici.
I nazi che vi stiamo raccontando abitano nelle provincie di Varese e
Milano. E' il nuovo laboratorio degli aspiranti resuscitatori del
Terzo Reich. La Procura varesina li ha indagati per istigazione
all'odio razziale. Una cinquantina di persone. Non solo e non tanto
ragazzotti dai bicipiti gonfi e tatuati.
Piuttosto professionisti, 40-50 anni, commercianti, antiquari,
gioiellieri, politici noti, ben inseriti nel ricco tessuto sociale
brianzolo. Tutti con una passione comune: il culto del Fuhrer e del
Ventennio nazifascista. Li vedete immortalati in momenti di vita
quotidiana: il giorno del matrimonio e assieme ai figli, in gita in
montagna. Impegnati in parate militari nei boschi del varesotto,
davanti a svastiche e falò. O al pub, tutti insieme, uniti dal "Sieg
Heil!" e dal "Me ne frego!". Di fronte all'immagine di Hitler a
grandezza naturale. Avvolti in bandiere con croci celtiche e
uncinate e con il simbolo della Repubblica sociale italiana. Sono
prodotti di un vento nero e denso che spira sull'Italia democratica
del terzo millennio. Un vento che s'introduce nelle pieghe
dell'antipolitica, punge le memorie e si insinua, infestandoli, in
molti luoghi, e lì deposita una crosta sempre più spessa. Nelle
curve degli stadi e nei consigli comunali. Nei pub di provincia e
nelle sezioni dei partiti istituzionali (Fiamma tricolore, Forza
Nuova, Fronte Nazionale). Nelle borgate e nei pensatoi della droite
ezrapoundiana, lepeniana e franchista. Nei campi hobbit dove si
formano i moderni balilla e in quelli rom presi di mira a colpi di
molotov.
La galassia nera è in fermento, sempre più nostalgica, sempre più
violenta, sempre più sdoganata. In un hotel di Brescia sabato scorso
è nato il Partito fascista repubblicano, fondatore tal Salvatore
Macca, già combattente della Rsi e presidente emerito della Corte
d'appello bresciana. A Sassari hanno varato il collettivo Azione
fascista nazionalsocialista. A Latina è venuta al mondo Rifondazione
fascista. E questo per dire solo i battesimi. Poi c'è tutto il
resto: i raduni, i campi d'azione, i pestaggi rivendicati, i
pellegrinaggi nei campi di concentramento per farsi ritrarre con
l'accendino sotto le immagini delle sinagoghe bruciate (come i
nazi-irredentisti altoatesini raccontati da L'Espresso in gita nel
lager di Dachau). I negozi che vendono le felpe con il soldato SS
che spara da sdraiato e i convegni come quello promosso il 29
settembre a Roma. Titolo: "Il passaggio del testimone - Dalla Rsi ai
militanti del terzo millennio".
Ai nazisti piacciono le birrerie. 24 febbraio 1920: nella birreria
Hofbrauhaus di Monaco si proclama il manifesto del Partito
nazionalsocialista tedesco dei lavoratori. Un anno dopo la guida del
partito viene affidata a Adolf Hitler. 23 aprile 2007: al pub
Biergarden di Buguggiate, Varese, si celebra la nascita del Fuhrer.
Sono un centinaio a sbronzarsi di birra per festeggiare il
compleanno del Capo. Intonano cori contro ebrei e comunisti,
decantano la superiorità della razza ariana sui tavoli di legno del
locale di Francesco Checco Lattuada, capogruppo di An a Busto
Arsizio. "Sì, quella sera c'ero, ma solo perché il locale era mio"
(ora è chiuso), si difende con qualche imbarazzo Lattuada. C'erano
anche due suoi colleghi di partito, alla festicciola, Roberto Baggio
e Alessandro Stazi, consiglieri aennini rispettivamente a Legnano e
Rieti. Quest'ultimo accompagnato da un folto gruppo di camerati
saliti dal Lazio. Sono stati tutti denunciati a piede libero, ma
restano politicamente in carica.
Sembrava di stare a Braunau (paese natale di Hitler) quella sera a
Buguggiate. Ma il nazismo che andava in scena, spiato dalle cimici
della Digos di Varese, era tutto italiano. Odorava di periferia,
tracimava di odio contro gli immigrati. La bile che smuove il
naziskin 25enne che incontriamo in un bar di Busto Arsizio. Sta
piantato sugli anfibi con postura mussoliniana. "Di cosa
parliamo...?", taglia corto. Cranio lucido, jeans aderenti,
maglietta Blood and Honour (organizzazione internazionale per la
difesa della razza ariana, simbolo una svastica nera in campo
rosso). Solo la esse moscia lo umanizza un po', Andrea, il nome è
inventato. Il resto è trucidismo puro. "Gli immigrati? Sono come gli
ebrei, schifosi. Sterminarli tutti! Porco...", e giù una bestemmia,
il motore dell'odio a pieni giri.
Varese un po' più su. Gavirate. Agriturismo vista lago. Davanti a
una tavola apparecchiata con salumi e formaggi, il padrone di casa
Rainaldo Graziani, romano, figlio "orgoglioso" di Clemente,
fondatore di Ordine Nuovo, leader degli ultradestricattolici di
Compagnia Militante, prova a volare alto. "La nostra è una destra
pensata, come dire: colta, che va sui contenuti". Quali siano questi
contenuti un'idea se la sono fatta Maurizio Grigo e Luca Petrucci,
procuratore capo e sostituto procuratore di Varese, titolari
dell'inchiesta che ha stroncato, almeno per ora, il Movimento
nazionalsocialista dei lavoratori. In cambio, tante lettere di
minaccia. Graziani, pure indagato, se ne frega, atteggiamento che in
fondo ha una sua coerenza storica. Dice: "Qui abbiamo ospitato due
edizioni dell'Università d'estate, un forum di tutte le destre
radicali europee. Non mi importa se mi danno del nazista. A me
interessano altre cose: i valori naturali, la Fede, la patria,
l'onore del nostro popolo".
Altre parole, altri orizzonti. "Questo è l'avamposto dal quale
partire alla conquista dell'Italia" confida a un amico il "generale"
Pierluigi Pagliughi. 45 anni, commerciante da tempo convertito al
nazismo, Pagliughi è il leader del Movimento lavoratori, di cui è
consigliere comunale a Nosate. Secondo gli investigatori è lui
l'ideologo della nuova culla nazista brianzola. Il programma
politico? Un impasto di proposte di facile presa ("Tagliare i costi
della burocrazia") e slogan di ammirazione per Hitler ("Avrebbe dato
una Volkswagen gratis a tutti i tedeschi!"). Ma chi si muove alle
spalle di Pagliughi? Solo giovani teste rasate o anche padri di
famiglia con la camicia bruna nel cassetto? "Quello dei neonazisti è
un ambiente molto eterogeneo", dice Fabio Mondora, dirigente della
Digos di Varese. "Hanno un'organizzazione ben strutturata e
collegata con gruppi estremisti stranieri" - aggiunge il sostituito
procuratore Luca Petrucci.
Dalla Brianza al Veneto. Anzi, al Veneto Fronte Skinhead. Vi
ricordate il movimento nero più duro d'Italia, fondato nel 1986 e
capace di intercettare e amalgamare giovani squadristi curvaioli e
reduci repubblichini? Se lo davate per morto e sepolto, vi siete
sbagliati. Il Fronte c'è, e lotta. Giordano Caracino, 27 anni, di
lavoro fa il corriere. Guida il furgone dieci ore al giorno, poi, al
motto di "Mai domi!", riunisce i suoi, 200 sparsi in tutto il
Veneto, nei locali dell'hinterland vicentino. "Oggi il coraggio vero
è affrontare la vita come gli arditi del Piave - dice - Arrivare a
fine mese con i salari bassi e i mutui alti. Siamo noi i
rappresentanti della working class".
In passato il Fronte ha collaborato "in piazza" con il partito
egemone della destra radicale italiana: Forza Nuova. Diecimila
iscritti, il partito di Roberto Fiore ha messo il cappello sul "movimentismo"
nero anti immigrati: "Ormai non ci picchiamo più coi "compagni", è
più facile che ci siano risse con le compagnie interetniche - dice
Paolo Caratossidis, nel direttivo nazionale forzanovista - Dove ci
sono problemi di immigrazione, noi ci siamo". Se volano calci e
pugni, fa niente. "Calci e pugni" d'altronde è anche il nome di una
linea d'abbigliamento da stadio. La indossano i picchiatori neri
delle curve romane e i militanti milanesi di "Cuore Nero".
Alessandro "Todo" Todisco, 34 anni, operaio, ultrà interista, è il
leader: "Ci hanno incendiato la sede prima che la inaugurassimo.
Pensavano che avremmo sparato. Invece abbiamo fatto una festa. Vuole
sapere cosa penso del nazismo? Sono stati nostri alleati, per questo
dobbiamo rispettarli". Milano, Varese, Italia. I nazisti al
tricolore.
Emeriti
benefici: 30 uomini per ogni ex presidente
Ciampivacanza150_4 Si parla di tagli e
volano le polemiche. Fino a investire il Colle più alto della
Repubblica, quello del Quirinale. Francesco Cossiga non ha peli
sulla lingua: «Non metterò più piede là dentro nemmeno quando quelli
lì mi convocheranno per le consultazioni di rito in caso di crisi di
governo». Cossiga tuona, ma non è il solo a sentirsi colpito. Anche
Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi, gli altri due ex
presidenti della Repubblica, celano a fatica il loro disappunto e in
privato si lamentano delle ultime iniziative del Colle.
Nella corsa ai risparmi che dovrebbe portare a un dimagrimento dei
costi del Quirinale (217 milioni nel 2006), è stato preso di mira il
trattamento concesso agli ex capi dello Stato. Una voce di spesa che
per ragioni di riservatezza la presidenza della Repubblica
preferisce non divulgare: a Lespresso è stato opposto un cortese
rifiuto.
Cosa cè in ballo esattamente? A ciascuno dei presidenti cessati
dalla carica spetta una lunga serie di servizi a spese del Quirinale:
un dipendente della presidenza della Repubblica, con funzioni di
segretario, distaccato (in posizione di comando) nel suo staff; due
dipendenti, con funzioni di guardarobiere e di addetto alla persona,
distaccati presso labitazione privata. Ancora: un telefono cellulare
o satellitare, un fax, una linea urbana riservata, un collegamento
punto punto con il centralino della presidenza, uno con la batteria
del Viminale e una connessione diretta con la centrale dei servizi
di sicurezza del Quirinale. Con una particolarità: la duplicazione
di questi impianti, uno installato presso lo studio e laltro presso
labitazione. E non è finita: agli ex spettano anche collegamenti
(sempre duplicati) telematici per la consultazione delle agenzie di
stampa e di banche dati, e televisivi in bassa frequenza. Infine, cè
lauto, «dotata di telefono veicolare» e con autista, spettante anche
alla vedova dellex presidente o al primo dei suoi figli.
A questa dote a carico del Quirinale gli ex presidenti sommano
(oltre alluso di navi, aerei e treni a cura della presidenza del
Consiglio) pure le garanzie per i senatori a vita previste da
Palazzo Madama: un ufficio (tra i 150 e i 200 metri quadrati) e
segreterie particolari con un capufficio, tre funzionari, due
addetti alle mansioni esecutive, altri due addetti alle mansioni
ausiliari più, a scelta, un consigliere militare o diplomatico.
Senza contare le scorte: contando le postazione fisse davanti alle
case, ci sono una ventina di poliziotti e carabinieri. Insomma:
oltre 30 persone al servizio di ciascun ex presidente.
Vaticano: «Su
Eluana sentenza inaccettabile»
Duro attacco dell'Osservatore
romano alla Cassazione: «Orienta il legislatore verso l'eutanasia».
Un «relativismo di valori» da respingere
Mimmo de Cillis
Il nuovo corso dell'Osservatore Romano
inaugura il suo lavoro usando lo scudiscio. Non è andato per il
sottile il quotidiano della Santa Sede, diretto da qualche settimana
dal nuovo ticket Vian-Di Cicco, nel commentare la sentenza della
Cassazione sul «caso Eluana». Parola d'ordine: «inaccettabile», per
una serie di ragioni che, se possono sembrare ben argomentate e
legittime da un punto di vista filosofico-morale (la posizione della
Chiesa in merito è arcinota), non lo sono se si considera una
premessa: un organo di stampa vaticano sta dettando legge e
stigmatizzando la magistratura di uno stato sovrano, che ha il
compito di garantire l'applicazione della legge. La colpa della
Cassazione è, secondo l'Osservatore, che «nel vuoto legislativo, una
tale posizione, significa orientare fatalmente il legislatore verso
l'eutanasia», all'insegna di un «relativismo dei valori»,
«inaccettabile soprattutto se questi riguardano la conservazione o
meno della vita».
Il quotidiano vaticano critica soprattutto le basi su cui si fonda
la decisione della Cassazione: «Attribuire a ognuno una potestà
indeterminata sulla propria esistenza», infatti avrebbe «conseguenze
facilmente immaginabili, anche solo ragionando dal punto di vista
etico». Di più: introdurre il concetto di «pluralismo dei valori
significa aprire una zona vuota dai confini non più tracciabili». In
altre parole, l'uomo non è padrone della propria vita, che
appartiene solo a Dio. E dunque anche lo stato vegetativo in cui si
trova un essere umano potrebbe essere in qualche modo reversibile
(«nessun esperto potrebbe dichiarare l'irreversibilità», si legge
nella nota, «se non in base a una scelta puramente soggettiva»).
Allora nessuno, nemmeno i familiari più vicini, hanno il diritto di
staccare la spina a Eluana, soprattutto esaminando il caso specifico
della ragazza, di cui non si può presumere la volontà, «riguardo a
un trattamento che fra l'altro si pone al limite fra terapia e
nutrizione».
L'approccio del quotidiano vaticano, non è certo dei più morbidi, e
la nuova leadership - che agisce sotto l'ala protettiva di mamma
cardinal Bertone (il segretario di stato che segue da vicino le
pubblicazioni della Santa sede) - ha voluto mostrare ben presto di
che pasta è fatta. Nessuno sconto, nessun indugio. Nessuna remora a
intervenire (e interferire) su questioni che sono appannaggio del
potere legislativo e giudiziario del bel paese.
Facile sponda alla nota dell'Osservatore sono state le parole del
Segretario generale della Cei, Giuseppe Betori, che aveva ricordato
il principio cardine «la vita va difesa sempre», proprio mentre la
chiesa italiana riceveva la splendida notizia dell'elevazione
cardinalizia del presidente dei vescovi italiano, Angelo Bagnasco.
Un'eco alle dichiarazioni vaticane è giunto dall'associazione
«Scienza e Vita», che ha parlato di «accanimento ideologico nei
confronti di Eluana Englaro», dicendosi «preoccupata dalla palese
strumentalizzazione di un caso umano per forzare la mano al
legislatore». «Con l'invito a ricostruire la volontà pregressa del
malato, stabilita dalla Cassazione - dice l'associazione - in realtà
si tira la volata al testamento biologico che proprio in questo caso
si manifesta per quello che è: l'anticamera dell'eutanasia.
20 ottobre
Paura al
capolinea
di Fabrizio Gatti
Aggressioni. Molestie sessuali.
Furti. Ubriachi minacciosi. Così autobus e metrò si trasformano di
notte. I controlli scarseggiano. E sempre più italiani disertano i
mezzi pubblici
L'ultima moda è il film porno sul
telefonino. Grida e versi da Kamasutra a tutto volume hanno preso il
posto della classica manomorta: l'adattamento tecnologico di una
squallida violenza da mettere in scena su autobus, tram e metrò.
Come stasera sul 105 che ha appena lasciato alle spalle le luci di
Roma e punta verso la periferia di Tor Bella Monaca. Il maniaco di
turno potrebbe stancarsi in pochi minuti. Oppure continuare a
tormentare la ragazza biondo tinto con accento dell'Est e pedinarla
alla sua fermata. Infatti lui non si stanca. Lei, seduta di fronte
allo snodo centrale dell'autobus, urla spaventata: "Basta". Si alza,
cerca di farsi largo per avvicinarsi all'autista. Il maniaco, età
sulla trentina, odore di birra nel raggio di un metro e provenienza
indefinita, la segue. La folla di passeggeri sembra indifferente.
Invece qualcosa succede. Un pachistano non si sposta. Impedisce
all'ubriaco di raggiungere la ragazza. Un italiano lo aiuta. Sono
vicini all'uscita. Arriva la fermata. Si aprono le porte. L'autista
guarda nei monitor e non riparte subito. I passeggeri qui davanti,
nove su dieci stranieri, fanno muro. Il maniaco può solo scendere i
gradini. Le porte si richiudono.
La ragazza bionda sorride e ringrazia. Forse è finalmente il sintomo
di una nuova società civile. Italiani e immigrati uniti da un senso
comune. Peccato che avvenga soltanto su un autobus. Una volta scesi,
anche questo sottile legame tra sconosciuti si scioglie. Anzi, le
campagne sulla sicurezza hanno contagiato i mezzi pubblici. Tanto
che pochi italiani se ne servono la sera tardi o nei fine settimana.
Una conseguenza paradossale che aumenta traffico e inquinamento. E
soprattutto divide il Paese. Tra benestanti e nuovi poveri, tra chi
ha l'auto e chi non ce l'ha. Così alla fine, anche senza volerlo, la
differenza più apparente è tra chi è nato in Italia e chi è
immigrato da poco.
Un viaggio sulle linee della paura. Una discesa nelle stazioni del
metrò che a Milano, nonostante i pericoli, restano a volte
incustodite. Si può partire dalla metropoli lombarda, capitale
nazionale della sicurezza trasformata in politica. Proprio l'Atm,
l'azienda dei trasporti pubblici in città, è il luogo dove tutto
questo ha inizio. Primo giugno 1991, deposito di via Padova: pochi
tranvieri di un sindacato autonomo protestano contro una vicina
baraccopoli abitata da stranieri. Arriva il sindaco, Paolo
Pillitteri, socialista, cognato di Bettino Craxi. Fino ad allora la
politica di governo non si è mai spinta più a destra del Partito
liberale. E Pillitteri reagisce di conseguenza: "Sporchi fascisti",
grida il sindaco davanti alle telecamere del tg, "squadristi,
nazisti. Siete la vergogna di Milano. Straccioni, siete uno
pseudosindacato". Seguono querele e interrogazioni in Parlamento. Di
quei sindacalisti qualcuno ha fatto carriera nei comitati contro gli
stranieri, altri in An. E 16 anni dopo quel primo giugno, complice
la cronaca, il rapporto tra italiani e immigrati è quello che tutti
conosciamo.
L'aggressione può capitare su qualunque percorso, a qualunque ora.
Pochi giorni fa un'insegnante di 25 anni è sull'autobus che porta a
Baggio. Quando vede che sta andando in periferia, capisce di avere
sbagliato linea. Scende. Aspetta la coincidenza. È un martedì, metà
pomeriggio. Si avvicina un romeno di 36 anni che forse sta seguendo
la ragazza da qualche fermata. La trascina in un campo e la
violenta. L'uomo lo arrestano dopo qualche ora alla Stazione
Centrale. Le altre aggressioni dell'ultima settimana a Milano fanno
parte della quotidianità. Due controllori picchiati a colpi di
karate sulla linea 90 da un cinese senza biglietto. Una capotreno di
23 anni presa per il collo da un italiano su una carrozza del
Passante metropolitano. Più la solita rassegna di borseggi, molestie
sessuali, minacce.
Il sindaco Letizia Moratti l'ha ripetuto più volte nella campagna
che le ha fatto vincere le elezioni: la sicurezza è un diritto dei
cittadini. Ma chi prende i mezzi pubblici a Milano non può conoscere
quanti rischi corra davvero. Nemmeno quali siano le linee più
pericolose. L'Atm non dà aggiornamenti sui reati. "Sono dati
sensibili", spiega ufficialmente l'azienda. Il perché è chiaro.
Vengono censurate tutte le informazioni che potrebbero creare
allarme e ridurre la vendita di biglietti. Passano soltanto le
notizie rassicuranti. Come il comunicato in cui si annuncia che
entro il 2008 gli addetti ai controlli e alla sicurezza a bordo
aumenteranno da 120 a 240. Le prime sette squadre di rinforzo sono
già al lavoro: hanno scoperto che su tre importanti linee urbane
(90, 91 e 57) il 20 per cento dei passeggeri fermati non paga il
biglietto. Un'evasione spaventosa che, secondo l'azienda, riguarda
italiani e stranieri. Contro una media fisiologica che non dovrebbe
superare il 4 per cento.
Raddoppiare le squadre non è uno sforzo da poco in un'azienda che
non può aumentare il personale. Così sono stati ridotti gli agenti
di stazione nella metropolitana. 'L'espresso' ha scoperto che alcuni
ingressi ai treni restano incustoditi. Sono tra le fermate più
affollate della città: Loreto, Lambrate, Porta Venezia, Duomo. I
monitor nella cabina accanto ai tornelli li lasciano accesi, ma non
c'è nessuno a guardarli. Il controllo in realtà esiste: dovrebbe
essere fatto a distanza con le telecamere. Ma le inquadrature sono
troppo strette. Basta mettersi bene in vista nei mezzanini del
metrò, scattare fotografie e aspettare la reazione. Fare foto è
vietato. Soltanto una volta, però, a Lambrate l'addetto ai monitor
se ne accorge e avvia la procedura d'allarme. Arrivano due agenti di
stazione. Avvertono la polizia. Poi chiedono gentilmente di
cancellare le immagini: "Misure antiterrorismo", spiegano. Il sabato
e la domenica si può tornare con macchina fotografica e telecamera
senza che intervenga nessuno. Dall'alba alle sette di sera questi
mezzanini sono senza personale. Meglio non dare altri particolari
sulle vie di accesso. Il metrò è il mezzo di trasporto più
vulnerabile in una città. Nel 2002 uno squilibrato in nome di Allah
ha incendiato una bombola di gas all'ingresso della stazione Duomo.
Una sera di queste quella bombola sarebbe potuta finire sul treno.
Il pericolo non è solo legato alle minacce del terrorismo. In caso
di emergenza, chiunque potrebbe correre a chiedere aiuto all'agente
di stazione. Se si sale la scala sbagliata, in alcuni orari della
settimana ci si ritrova in un mezzanino completamente vuoto. Inutile
tentare di telefonare al 113: nei sotterranei della metropolitana di
Milano (ma anche a Roma), i telefonini non hanno campo. Nemmeno nei
punti più delicati come sotto il consolato americano (o sotto piazza
San Pietro a Roma). Così, per mostrare più sicurezza in superficie
si è ridotta la sorveglianza nel sottosuolo. Il personale parla
malvolentieri di questi aspetti. Un agente di stazione, Andrea
Pianeta, 56 anni, ci ha provato prima degli attentati a Madrid e a
Londra. Nel 2004 il consiglio di disciplina dell'Atm ha deciso il
suo licenziamento nonostante Pianeta fosse il rappresentante di un
sindacato autonomo. Denunciato per divulgazione di notizie false e
tendenziose, il Tribunale gli ha invece dato ragione. Pianeta ha
dunque presentato ricorso alla sezione del lavoro per essere
riassunto: il suo caso verrà discusso nel 2009. Intanto, rimasto
senza stipendio, ha perso la casa dove abitava in affitto. L'azienda
sostiene che il sindacalista sia venuto meno al vincolo fiduciario.
L'ex agente di stazione oggi vive alla giornata in un dormitorio.
La situazione dei trasporti urbani a Milano è molto simile a quella
romana. L'Atac, l'azienda della capitale, nonostante il corposo
ufficio pubbliche relazioni non è in grado di fornire dati sui reati
a bordo. Secondo le segnalazioni di autisti e pendolari, le linee su
cui è più facile assistere o essere vittima di molestie e
aggressioni sono la 105, la 55 notturna, la 784 per il quartiere
popolare di Corviale. Dopo un vertice in prefettura l'azienda da
qualche settimana ha modificato il percorso dei collegamenti locali
a Tor Bella Monaca. "Siamo stati più volte bloccati e rapinati da
una banda di ragazzini del posto", racconta un autista della linea
055, "non volevano soldi. Prendevano l'estintore di bordo e se ne
andavano. Oppure tiravano sassi contro il parabrezza. Così l'azienda
ha deciso di cambiare strada. L'altro problema sono gli ubriachi.
Salgono alla stazione Termini e quando arrivano al capolinea se la
prendono con noi perché vogliono tornare indietro".
Gli atti vandalici sono una spesa in più per i cittadini anche a
Napoli: 207 denunce nel 2006, 148 al 30 settembre di quest'anno. L'Anm
napoletana ha installato sistemi di videosorveglianza su 160 mezzi
destinati alle zone a rischio come Secondigliano, Scampia, i
quartieri flegrei. Le immagini vengono conservate per 48 ore. Tutti
gli autobus sono collegati alla centrale con un sistema di
telecontrollo satellitare.
Gli autisti di Bologna chiedono cabine di guida separate dai
passeggeri. Qualche sera fa un loro collega si è trovato intorno al
collo le mani di un ubriaco che voleva scendere a una fermata non
prevista. "Dall'accento era bolognese", racconta Anna, 26 anni, alla
guida di un autobus della linea che porta al quartiere Pilastro: "A
noi non importa se siano italiani o stranieri. Quello che avvertiamo
è l'aumento di piccole aggressioni nei nostri confronti da parte di
gente ubriaca. La maggior parte, va detto, sono stranieri che
salgono nella zona della stazione". Il 14 agosto a Bologna un
autobus con una ventina di passeggeri è stato dirottato da un
ragazzo armato di siringa. Nei mesi precedenti due ragazze sono
state seguite e, una volta scese, violentate.
L'Atc, l'azienda dei trasporti pubblici a Bologna, è la più
trasparente nel fornire dati, tra quelle interpellate da 'L'espresso'.
Le linee più critiche sono: 11, 13, 14, 19, 20, 25, 27 e 36. Sono le
stesse segnalate in un'indagine del 1994 e a fine degli anni
Ottanta: un problema fisiologico nella città, legato al tipo di vita
nei quartieri. Eppure di tutto questo, oggi viene data colpa solo
all'immigrazione. Nel 1994 Mike Davis, il sociologo urbano
americano, in un'intervista alla rivista 'Sicurezza e territorio' di
Bologna, inquadrava così la questione: "L'intero dibattito sulla
criminalità è in realtà un discorso sulla situazione razziale... La
sicurezza è anche sempre di più parte di uno stile di vita dove si è
protetti non dal contatto con ciò che è pericoloso, ma da quello che
è semplicemente fastidioso". Lorenza Maluccelli, l'autrice
dell'intervista, oggi lavora per il dipartimento di Scienze umane
dell'Università di Ferrara: "Anche se italiani e stranieri salgono
sullo stesso autobus, il legame sociale non si può solo evocare.
Esistono distanze oggettive: culturali, economiche. Questo è un
problema reale: la crisi è nella mediazione sociale". Mike Davis
parlava di Los Angeles. Ma le sue parole potrebbero valere oggi per
gli autobus di Bologna, Milano, Roma e città ad alta percentuale di
immigrati come Brescia: l'unico luogo dove italiani e stranieri
mettono in contatto i loro percorsi. E le loro paure.
Sono i piccoli figli di donne
carcerate. 42 in tutta Italia. Con le norme attuali, a tre anni
devono lasciare la madre
Quei bambini
dietro le sbarre, una legge potrebbe liberarli
Un ddl in discussione prevede la
detenzione in case famiglia protette, senza sbarre alle finestre e
con guardie in borghese
di ANNA MARIA DE LUCA
BAMBINI in carcere, in attesa di una
legge che li liberi. Sono 42 in tutta Italia, venti soltanto a Roma.
Da più di un anno alla Camera giace un disegno di legge che
permetterebbe di porre fine alla loro detenzione in quanto figli di
donne carcerate. Ma mentre i tempi della politica procedono lenti, i
piccoli continuano a vivere dietro le sbarre. Questa mattina,
l'associazione Antigone e Rifondazione hanno presentato alla Camera
un video girato nel nido di Rebibbia, dove vivono diciassette bimbi
rom e tre stranieri. Un tentativo per convincere il mondo della
politica ad accelerare i ritmi di risoluzione del problema. Nella
speranza che le immagini sappiano convincere più delle parole.
Il ddl "in panchina" interverrebbe nel perfezionare la legge
Finocchiaro (40/01). Infatti il problema da affrontare riguarda non
le madri condannate in via definitiva - per le quali sono già
previste misure alternative aldilà degli ordinari limiti - ma quelle
in attesa di giudizio. Per loro, il testo approvato in Commissione
giustizia della Camera il 13 dicembre del 2006 prevede la
possibilità di scontare la pena con i propri figli in case famiglia
protette. Con personale in borghese al posto delle divise, senza
sbarre alle finestre. Per alleviare ai bambini il disagio della
carcerazione.
Oggi nelle sezioni nido sono rinchiusi, tra divise e sbarre, bimbi
molto piccoli, in attesa di compiere il loro terzo anno. Un
compleanno drammatico, perché segna il distacco dalle madri per
l'affidamento alle famiglie. Con la nuova legge, invece,
alloggeranno presso le case famiglia tutte le detenute - sia quelle
condannate in via definitiva che quelle in attesa di giudizio - che
hanno figli con meno di dieci anni. E, in caso di malattia del
piccolo, si prevede che l'autorizzazione ad accompagnare il bimbo in
ospedale possa essere concessa anche dal direttore dell'istituto e
non solo dal magistrato di sorveglianza. Affinché non accada mai più
quel che è successo questa estate a Rebibbia, dove due detenute
straniere si sono trovate costrette a partorire nell'infermeria del
carcere perché la magistratura di sorveglianza non ha fatto in tempo
ad autorizzare il trasferimento in ospedale.
La situazione varia da città a città. "Si va da realtà come Roma -
spiega Gennaro Santoro di "Antigone" e del settore carcere di Prc -
dove il sabato i bambini di Rebibbia vengono portati fuori dai
volontari per vivere un giorno di normalità - a realtà come
Avellino, dove non esiste una convenzione tra carcere e asili
pubblici e quindi i bambini restano sempre rinchiusi". A Milano, in
attesa dell'approvazione del disegno di legge, è stata aperta una
casa famiglia senza sbarre né divise. Roma, Firenze e Venezia stanno
cercando di seguire la stessa via.
Il nervo
scoperto di Pechino
Il Dalai Lama visita Bush,
suscitando l'ira delle autorità cinesi
Scritto da Paolo Valori
Si è riaccesa la polemica fra la Cina
e il Dalai Lama. La concessione di una medaglia d'oro da parte del
Congresso degli Stati Uniti al leader tibetano, che vive in esilio
in India dal 1959 ha mandato su tutte le furie il governo cinese.
Parlando in una conferenza stampa a Pechino, il portavoce del
ministero degli Esteri Liu Jinchao ha detto che la Cina si oppone
con forza a qualsiasi paese e qualsiasi persona che usa il Dalai
Lama per interferire negli affari interni della Cina. Abbiamo già
comunicato solennemente questo agli Stati Uniti, ha aggiunto Liu. Il
Dalai Lama, al quale nel 1979 è stato conferito il premio Nobel per
la pace, chiede per il Tibet una vera autonomia, ma Pechino continua
a considerarlo un secessionista. Alla cerimonia che si svolgerà
domani al Campidoglio di Washington prenderà parte il presidente
degli Stati Uniti George W. Bush. La notizia della partecipazione di
Bush, che ha già ricevuto due volte il leader tibetano, ha scatenato
una pesante reazione da parte di Pechino, che ha ammonito gli Usa
che l'incontro potrebbe danneggiare le relazioni tra i due paesi.
Legge sulla reincarnazione. Le polemiche erano iniziate la
scorsa settimana, quando i principali mezzi di comunicazione cinesi
hanno rivolto pesanti attacchi al premio Nobel, accusandolo tra
l'altro di aver fatto assassinare una decina di persone e di essere
stato un promotore della setta giapponese Aum Shirikyo, i cui
attentati hanno causato la morte di decine di persone. A completare
il quadro c'è stata anche l'approvazione della nuova legge che
regola la reincarnazione dei lama e la pone sotto il diretto
controllo delle autorità cinesi. Tale emendamento ha scatenato la
rabbia di 35 giovani tibetani esiliati in India, che giovedì scorso
hanno attaccato l'ambasciata cinese a Nuova Deli. I giovani hanno
urlato slogan contro la repressione cinese nella regione, scritto
sui muri dell'ambasciata Liberate il Tibet e distribuito volantini
ai passanti. La protesta si è conclusa con l'arresto di 20
attivisti, rinchiusi nel carcere della capitale indiana.
La scelta del successore. I giovani tibetani hanno espresso
la loro indignazione per i nuovi regolamenti religiosi del governo
cinese, che rappresentano un aumento dell'oppressione nei confronti
del Tibet e cercano di minare l'autorità del Dalai Lama. Infatti,
secondo il testo di legge, saranno le autorità comuniste a decidere
chi sarà il loro prossimo capo del buddismo tibetano. Fino
all'arrivo dell'attuale quattordicesimo Dalai Lama, Tenzin Gyatso,
il successore veniva trovato grazie alle premonizioni, ai responsi
degli oracoli e ai segni divini. Il potenziale candidato era
sottoposto a una serie di prove atte a ricordare la vita precedente.
Se l'esito risultava positivo egli era riconosciuto come
reincarnazione del suo predecessore. Tenzin Gyatso ha però
dichiarato ufficialmente che, finchè la Cina non concederà
l'autonomia al Tibet, non si reincarnerà nella sua terra natia, e
che al completamento della democratizzazione del governo tibetano in
esilio il ruolo del Dalai Lama potrebbe diventare superfluo. Il 7
agosto 2006 ha proposto che la scelta del suo successore avvenga
mediante un'Assemblea composta dai più autorevoli Lama in esilio.
Problemi anche in India. Da quando Hu Jintao è divenuto
presidente, la Cina ha imposto misure ancora più severe al Tibet. Il
Panchen Lama, la seconda carica spirituale del buddismo tibetano,
sequestrato dal governo cinese e rimpiazzato con un monaco scelto
dai funzionari di Partito, è ancora disperso e vi sono centinaia di
monaci e fedeli arrestati senza motivo. L'India ospita il governo
tibetano dal 1959, anno in cui fallì una rivolta popolare
anti-cinese in Tibet. Da allora, il Dalai Lama e i funzionari
governativi vivono a Dharamsala, nel nord dell'India. Da alcuni
anni, tuttavia, il governo di Deli ha deciso di raffreddare le
relazioni con gli esiliati, per cercare di migliorare i suoi
rapporti con la Cina. Lo scorso anno, in occasione della visita di
stato del presidente Hu Jintao, il governo ha impedito ai tibetani
di manifestare contro Pechino.
Distruzione per
tutti
Dopo 4 anni la legge sugli standard
educativi voluta da Bush mostra tutti i suoi limiti
Non avranno esaminato con la dovuta
attenzione e il necessario scrupolo l'attuale condizione scolastica
del proprio Paese gli estensori della legge 'No child left behind',
se la premessa di partenza è il raggiungimento di un 'buon grado di
istruzione 'entro il 2014. Solo una percentuale infima delle scuole
statunintensi è sinora riuscita a raggiungere gli obiettivi
prefissati dal provvedimento quattro anni fa, quando il presidente
Usa, George Bush, propose un ambizioso progetto per migliorare il
livello di preparazione degli studenti statunitensi, ideando di
conseguenza il 'No Child left behind' (Nessuno studente sia lasciato
indietro). In via di rinnovo da parte del Congresso Usa, la legge è
arrivata al quarto anno di 'applicazione', ovvero alla resa dei
conti. Scaduto il quinquennio senza che gli standard vengano
raggiunti, insegnanti e dirigenti potrebbero venire licenziati, e
gli istituti affidati a società private, gestori provvisori o
passare direttamente allo Stato.
Legge inapplicata. La situazione non è rosea per nessuno,
rivela un recente articolo del Washington Post. In California, per
esempio, in più di mille istituti su 9.500 la situazione è stata
descritta come 'fallimentare'. In Florida, 441 scuole potrebbero
chiudere. Nel Maryland, nella sola Baltimora, 49 scuole risultano
palesemente al di sotto degli standard. Nello Stato di New York, 77
scuole necessitano di 'urgenti ristrutturazioni'. Mentre si sprecano
i giudizi e le valutazioni di merito, nessun cambiamento radicale,
come promesso da Bush ai genitori degli studenti, verrà adottato.
Finora gli Stati sono restii a farsi carico degli istituti
inefficienti, poichè sollevare i distretti scolastici, ovvero gli
organi che li amministrano, da tale compito, equivale a trasferire
la patata bollente in altre mani, quelle statali, che molto spesso
piangono miseria nel campo dell'istruzione o, più semplicemente, non
applicano la legge. Un'inchiesta condotta lo scorso anno da
un'agenzia federale ha messo in evidenza che nell'87 per cento dei
casi di 'inefficienza', gli Stati hanno sempre evitato di applicare
le sanzioni della legge, se si trattava di licenziare o
'ristrutturare' l'istituto.
Obiettivi lontani. Secondo il provvedimento, una scuola
etichettata come 'low-performing' per tre anni di seguito deve
offrire ai propri studenti insegnanti di sostegno gratuiti o dare
loro la possibilità di cambiare istituto. Dopo cinque, tali scuole
vengono classificate come 'senza speranza', ovvero, si azzera tutto
e si ricomincia: nuova struttura, nuovo direttore didattico, nuovi
insegnanti. A Los Angeles, l'obiettivo degli 'standard' di
istruzione universali previsti dalla legge per il 2014 sono più
lontani che mai: 59 scuole, sulle 91 della città californiana, sono
'al di sotto degli standard', con aule che scoppiano di studenti
provenienti da famiglie a basso reddito, anni scolastici sfalsati e
20 giorni di istruzione in meno all'anno per mancanza di fondi. "E
poi ci si chiede perché i nostri ragazzi non passino gli esami
finali", è l'amaro commento dei genitori.
Luca Galassi
17 ottobre
Gli sfollati di
Mir Ali
Waziristan, ancora isolati 50mila
sfollati di Mir Ali, dopo il raid militare che uccise 200 talebani
"o presunti tali"
I generi alimentari non arrivano da
una settimana in quella zona del Waziristan; ci sono interruzioni
all'energia elettrica continue; anche l'acqua corrente va e viene.
La gente di Mir Ali spesso ha dovuto portare i suoi feriti fino
all'ospedale coricandoli sui letti di casa e portandoli a braccia
per 50 chilometri. Una fonte di PeaceReporter nelle zone afgane
vicino il confine con la provincia pachistana NwFp spiega in che
condizioni si viva nei dintorni del capoluogo MiranShah da mercoledì
scorso, quando una dozzina di EuroFighter F-16 hanno preso di mira
la Provincia di Nord Est, luogo di frontiera dove vige la legge dei
talebani.
Talebani o presunti? L'esercito ha parlato di oltre 50
soldati pachistani morti e 250 vittime totali; 50 sarebbero civili
innocenti per ammissione di Islamabad, ma secondo indiscrezioni dei
capi talebani della zona i ribelli islamici avrebbero conosciuto
pochissime perdite. I morti sarebbero così una triste riedizione
pachistana della versione talebani o presunti tali con la quale in
Afghanistan si sentono spesso definire dei morti in abiti civili che
si vuole far passare per combattenti insorti.
Evacuati
Mir Ali, cittadina 25 chilometri a nord del capoluogo Miranshah, ha
conosciuto gli attacchi peggiori, dopo che un convoglio
dell'esercito pachistano aveva subito un agguato in una strada di
zona sabato 5 ottobre. Degli oltre 50mila abitanti della cittadina,
dopo il massiccio bombardamento dell'esercito, non è rimasto quasi
nessuno. Mir Ali e il vicino villaggio di Epi sono abitati fantasma
adesso; parecchie famiglie si sono trasferite 50 chilometri a Est
verso Bannu, dove quasi tutti i feriti sono stati trasportati. E' il
primo caso di sfollati interni nella lotta ormai senza quartiere del
rieletto presidente Pervez Musharraf ai talebani , che hanno il
controllo delle aree al confine con l'Aghanistan. E' stata anche la
prima volta in 50 anni di storia indipendente che i jet pachistani
hanno colpito sul territorio del proprio stato.
Sharia la comanda Intanto il controllo del Sud Waziristan e
delle zone limitrofe è del tutto sfuggito a Islamabad. Si teme per i
250 soldati regolari sequestrati nella provincia il 25 agosto per
ritorsione contro un giro di vite militare; oggi arriva la notizia
del rilascio di altri 30, in viaggio verso la loro caserma di Laddah.
Ma altri tre erano stati uccisi in questi giorni, dopo che i 25
rilasciati la passata settimana sembravano aprire uno spiraglio per
trattative. I talebani dettano in zona la loro legge e si fanno
giustizia da soli, applicando la Sharia. Venerdì scorso a Pandalai,
nella zona di Mohmand (Nwfp, North west frontier province) hanno
attaccato la roccaforte del bandito Yusufa Khan; 4 di loro sono
morti nell'assalto, nel quale è stato ucciso il capofamiglia e altri
5 membri del clan che non si volevano arrendere. Altri 6 sono stati
arrestati, e decapitati il giorno dopo sulla pubblica piazza del
villaggio. Un altro caso di Sharia applicata è arrivato domenica 14,
con tre capiclan condannati alla frusta nella valle di Swat da un
capo talebano per aver rapito una ragazza da dare in sposa ad un
membro della loro cosca. Shamroz, Bukhtyar e Muhammar Sher, di
Matta, hanno ricevuto 35, 30 e 25 frustate a testa, su condanna
della corte di Maulana (mullah) Fazlullah il nuovo vero capo
talebano della regione, che sta applicando oramai per contro proprio
la giustizia.
Gianluca Ursini
13 ottobre
Mogli e amici a bordo di un aereo
del corpo, e poi di un elicottero per una gara di sci sulle
Dolomiti. Una trasferta filmata:
ecco il video
Gite in montagna
e pesce fresco in baita
così Speciale usava l'Atr della
Finanza
di CARLO BONINI
ROBERTO Speciale con coppola e
montone. Le signore in pelliccia. Tutti a Passo Rolle. Per la festa
sulla neve. A bordo dell'Atr 42 della Guardia di Finanza. E a cena
pesce freschissimo. In casse caricate all'aeroporto di Pratica di
Mare e spedite con volo militare. L'ex comandante della Guardia di
Finanza ha chiesto al Paese cinque milioni di euro perché il suo
onore di "uomo delle Istituzioni" e di "ufficiale" con la schiena
dritta trovi giusto ristoro al "massacro" che ne avrebbero fatto in
Parlamento il ministro dell'Economia Padoa-Schioppa e il suo vice
Vincenzo Visco.
Un giudice amministrativo deciderà di qui a tre settimane del
risarcimento. E' un fatto che, liberi dalla sua ombra, gli archivi
della Guardia di Finanza cominciano a restituire qualche documento
che racconta chi è Roberto Speciale. Come ha interpretato il suo
comando. Quale uso abbia fatto delle risorse destinate al lavoro di
un Corpo che, spesso, a fine anno, non ha risorse per mettere la
benzina nelle sue macchine.
Parliamo di un filmato ufficiale girato in una fredda mattina del
febbraio 2005. A passo Rolle (Trentino Alto Adige) si apre la
55esima edizione delle "gare invernali di sci" del Corpo. Un
operatore delle Fiamme Gialle rivolge l'obiettivo della telecamera
sull'orizzonte cobalto della pista di atterraggio dell'aeroporto di
Bolzano. Nell'assolo trionfale e lancinante di una chitarra
elettrica che fa da colonna sonora alle immagini, un Atr 42
turboelica del Corpo (aereo destinato, secondo le informazioni
diffuse dal sito istituzionale della Finanza, al "contrasto del
contrabbando", alla "sorveglianza delle coste", alle "missioni
umanitarie", giocattolo da 3.500 euro l'ora, escluso il costo
dell'equipaggio) si posa a terra. Il bestione rulla, avvicinandosi
lentamente all'aerostazione e la musica cresce. Cresce nell'enfasi
compiaciuta della regia.
Un drappello di infreddoliti ufficiali si avvicina al portellone
posteriore, guidato dal generale Giulio Abati (allora comandante
regionale del Trentino Alto Adige). Attesa. Poi, ecco il primo
passeggero. Una signora avvolta in una pelliccia di volpe. La moglie
di Roberto Speciale. Ecco il secondo. Un'altra pelliccia di volpe.
La signora D'Amato, moglie del generale Salvatore D'Amato (all'epoca
comandante interregionale di Napoli). Ora, la terza pelliccia. Volpe
come sopra, ma rovesciata. Una giovane donna che nessuno dei
presenti sembra conoscere o riconoscere, salvo l'autista del
comandante generale che aspetta sottobordo e con cui scambia un
affettuoso bacio.
Quindi tocca agli uomini. Un ragazzone dall'abito sportivo con una
sporta di carta; un uomo di mezza età che sembra accompagni la più
giovane delle signore; il generale D'Amato, in giacca a vento e
quindi lui, il Comandante. Immagini di vederlo fare capolino in alta
uniforme. E invece il generale si è "messo" da montagna. Coppola,
giacca di montone con bottoni in osso, morbidi pantaloni in velluto
verde petrolio. Lo salutano militarmente. Lui risponde allungando
morbidamente la mano nel gesto dell'omaggio.
Da Bolzano a Passo Rolle sono 50 minuti di auto. La giornata è
serena. In fondovalle non c'è neve. Ma la comitiva, visibilmente
compiaciuta, non si nega lo spettacolo delle cime. Si accomoda su un
elicottero Ab 412 del Corpo che attende a bordo pista. La chitarra
elettrica della colonna sonora pesta in un ennesimo assolo, mentre
l'obiettivo stringe sulle signore in pelliccia issate a bordo, su un
comandante chino ad allacciare le cinture di sicurezza a chi non sa
neppure da dove si cominci. Su Speciale, che ora ha tolto la coppola
e inforcato dei "Rayban" a goccia con cui osserva compiaciuto il
lavoro agiografico del cine-operatore.
Di nuovo in aria. Il Cimon della Pala è magnifico. I tre generali
che attendono a Malga Fossa (Nino Di Paolo, generale di corpo
d'armata, comandante a Firenze; Luciano Pezzi, generale di
divisione, Lucio Macchia, generale di corpo d'armata) sono tre
deferenti statue di ghiaccio. Alla malga, ai piedi dell'elicottero
appena atterrato in una nuvola di neve farinosa, il cerimoniale si
ripete nella sua sequenza grottesca. Nessuno sa bene chi salutare.
Anche perché alcuni di quelle signore e signori non li conosce
nessuno. Finche una Land Rover blu notte tirata a lucido se ne va
con gli ospiti.
Non sembra questa la sola pagina umiliante scritta a Passo Rolle. Di
storie, nel Corpo, se ne raccontano di tutti i colori. E almeno una
ha lasciato tracce documentali e testimoniali. Speciale ama il pesce
fresco. E, si sa, le malghe non ne offrono. In un'occasione, dunque,
dall'aeroporto di Pratica di Mare viene fatto sollevare un Atr 42
con a bordo un metro cubo di pesce. Il piano di volo prevede
l'atterraggio a Bolzano, quindi il disimbarco e la consegna del
prezioso carico in montagna.
Il pilota è il maggiore Aldo Venditti. Ma il poveretto non ha
fortuna. Le condizioni meteo su Bolzano lo obbligano ad atterrare a
Verona, dove nessuno aspetta pesce. Tantomeno un drappello di
sconcertati "baschi verdi" che rifiutano di farsi facchini. Tocca al
pilota. E la storia smette di essere un segreto.
L'impero dei
super ricchi
Dal messicano Slim ai magnati
ucraini, dalla Thailandia a Mosca: la scalata dei miliardari
favorita dagli stretti rapporti con i governi. Con una fitta rete di
privilegi che stravolge le regole del mercato
Il numero dei miliardari è in
rapidissima ascesa. Ogni qualvolta si aggiorna l'elenco mondiale dei
super-ricchi vediamo emergere nuove facce, a volte dai luoghi più
impensati. Un esempio: il tycoon messicano Carlos Slim, spesso
citato come l'uomo più ricco del mondo, ha superato persino gli
americani Bill Gates e Warren Buffett, che possiedono una sessantina
di miliardi a testa. È vero che i tre generalmente si alternano nei
primissimi posti in classifica, a seconda delle vicende del mercato
azionario. Ma il patrimonio di Carlos Slim è cresciuto a un ritmo
molto più rapido di quelli di Gates e di Buffett: secondo il 'Financial
Times', in quest'ultimo anno Slim ha incamerato più di 52 milioni di
dollari Usa al giorno.
Secondo i dati emersi da un'inchiesta della rivista 'Forbes', nel
2007 il numero dei re di denari è aumentato fino a raggiungere un
record: sono ormai 946 gli individui che possiedono beni per un
valore superiore a un miliardo. Tra i 178 nuovi arrivati in quest'elenco
figurano 19 russi, 14 indiani, 13 cinesi, e per la prima volta anche
un rumeno, un serbo e un cipriota. La somma dei patrimoni di questi
super-ricchi ammonta a 3,5 trilioni di dollari Usa. Per rendersi
conto delle proporzioni basti pensare che nel 2006 l'intera
produzione economica di paesi quali la Germania o l'Italia ha
raggiunto, rispettivamente, un valore di 2,6 e di 1,8 trilioni di
dollari.
Ovviamente, il fatto che in ogni paese esistano individui o famiglie
in possesso di favolose ricchezze non è una novità. E purtroppo,
oggi come ieri in molte nazioni questi grandi ricchi coesistono con
situazioni di inimmaginabile miseria. Dagli zar russi ai maraja
indiani o alle dinastie cinesi, la storia mondiale fornisce infiniti
esempi di famiglie smisuratamente ricche che hanno vissuto e
prosperato in mezzo a popolazioni affamate.
La novità è che in alcuni paesi le maggiori fonti di ricchezza non
sono più le stesse. Ad esempio, il più delle volte la proprietà di
vasti terreni agricoli non basta a garantire un posto nell'elenco
dei nababbi; meglio possedere un qualche brevetto per le tecnologie
più richieste dal mercato globale. Ma per accumulare in poco tempo
masse di denaro c'è un altro modo, diffuso in particolare nei Paesi
emergenti quali la Cina, la Russia, la Grecia o l'Argentina:
l'accesso privilegiato ai settori dello Stato che regolano le
attività economiche, o anche a chi gestisce i processi di
privatizzazione di aziende di proprietà statale.
Nei paesi emergenti, alcune compagnie relativamente recenti stanno
trasformando il paesaggio economico planetario. Se alcune devono i
loro successi alla capacità di imporsi sui nuovi mercati globali, o
di affermarsi in vari settori produttivi nella competizione con
altri operatori, anche tradizionali; molte riescono a farsi largo
ottenendo dai rispettivi governi favori e privilegi, che consentono
ai loro proprietari di schizzare da un giorno all'altro in vetta
alle classifiche degli uomini più ricchi del mondo.
Il caso della società Infosys (India) illustra bene il primo caso:
quello di un'impresa che si è affermata puntando non su favoritismi,
ma sulle proprie capacità di competere sul mercato globale. Infosys
deve la sua rapida crescita alla grande espansione dell'outsourcing
internazionale, reso possibile dalla disponibilità di una forza
lavoro molto qualificata a costi bassissimi. Grazie al calo
verticale delle tariffe delle telecomunicazioni, questa società può
offrire a clienti di tutto il mondo servizi molto competitivi in
campo informatico. Un altro esempio è quello della sudafricana Sab
Miller, divenuta un gigante globale non solo grazie al nuovo mercato
mondiale reso possibile dalla moderna tecnologia, ma anche perché ha
saputo imporsi nella competizione con le maggiori industrie di un
settore antico: quello della birra. Ha infatti acquistato
stabilimenti un po' dovunque (compresi quelli dell'italiana Peroni),
ed è oggi una delle maggiori produttrici di birra a livello
mondiale. Inutile dire che gli azionisti della Infosys e della Sab
Miller hanno visto crescere notevolmente i loro conti in banca.
Mai però come il 46enne Viktor Pinchuk, residente a Dniepropetrovsk
(Ucraina), che secondo il 'Financial Times' ha ammassato un
patrimonio personale di ben 7 miliardi di dollari. Come? Vendendo
tubi d'acciaio. Nel 1990, forte della sua qualità di esperto del
settore, Pinchuk ha fondato la Interpipe, che in poco tempo è
diventata una grossa azienda; e ovviamente non ha mancato di
diversificare le sue attività, spaziando in numerosi altri campi,
compresa la politica. Genero dell'ex presidente ucraino Leonid
Kuchma, è stato deputato fino alla 'rivoluzione arancio'. Ma Mr.
Pinchuk non è l'uomo più ricco dell'Ucraina. Lo ha superato il
quarantunenne Rinat Akhmetov, che opera nei settori siderurgico,
carbonifero, energetico, bancario, alberghiero, televisivo, delle
telecomunicazioni e del calcio, e ha messo insieme un patrimonio
valutato a 16 miliardi di dollari. Non c'è da sorprendersi se a
parere dei critici, la rapidissima ascesa di questi magnati è dovuta
più agli appoggi politici di cui godono che alla loro abilità negli
affari.
La stessa diagnosi si applica ovviamente anche ai nuovi super-ricchi
di altri paesi, quali la Russia, la Cina, il Messico, l'Egitto, la
Romania, la Nigeria o gli Stati petroliferi del Medio Oriente. E
notoriamente la questione è molto discussa in Italia. A volte è più
facile far soldi a palate 'lavorando' i politici - o magari
diventando un politico - che servendo al meglio i bisogni dei
consumatori per affermarsi su un mercato concorrenziale. Il trucco è
semplice: basta fare in modo che il governo sbarri la strada ai
rivali, li privi dei presupposti per poter competere sul mercato a
pari condizioni. Ad esempio, Carlos Slim è riuscito a escludere dal
sistema telefonico messicano ogni possibile concorrenza. La sua
compagnia gode di una posizione di assoluto dominio, che ha fatto di
lui l'uomo più ricco del mondo. Ma questa situazione di monopolio ha
conseguenze gravose non solo sulle tariffe telefoniche (che in
Messico sono superiori alla media), ma anche sullo sviluppo
dell'intero paese, come risulta da un'inchiesta del 'Wall Street
Journal'.Indubbiamente Carlos Slim è abile negli affari, ma lo è più
ancora nel gestire i rapporti con i politici; altrimenti non si
spiegherebbe come mai tutti i governi che si sono succeduti in
Messico gli hanno consentito di prosperare senza mai dover fare i
conti con la concorrenza.
In molti paesi i maggiori operatori economici, non paghi di
esercitare la loro influenza sugli uomini di governo, decidono a
volte di eliminare ogni intermediazione per candidarsi a rivestire
cariche politiche. Questo fenomeno è ben illustrato dai molti
deputati milionari o miliardari del parlamento ucraino. Un altro
politico a nove zeri è il magnate thailandese Thaksin Shinawatra,
che col suo partito Thai Rak Thai (nome che significa Thais ama
Thais) vinse le elezioni del 2001 e quelle del 2005. Ma in quello
stesso anno, a pochi mesi dal voto, una serie di massicce
dimostrazioni di piazza contro il suo governo diede il via a un
colpo di Stato militare. Thaksin venne incarcerato e quindi
esiliato, e il suo partito fu sciolto e messo al bando. Oggi il
magnate thailandese, che dopo aver esordito come semplice poliziotto
ha costruito un impero economico, si è stabilito a Londra. E benché
in teoria tutti i suoi averi siano stati congelati dal nuovo governo
thailandese, nel luglio scorso si è tolto la soddisfazione di
acquistare, per 164,5 milioni di dollari, il club di calcio
Manchester City; dopo di che ha annunciato di aver reclutato come
nuovo manager della squadra l'ex allenatore della nazionale inglese
Sven-Göran Eriksson.
Senza alcun dubbio, la grande ondata della globalizzazione, che
dagli anni Novanta ha cambiato la faccia del pianeta, ha creato più
mercati e più concorrenza internazionale, riducendo l'ingerenza
degli Stati nella vita economica. Le nuove tecnologie hanno dato
vita a nuove industrie, offrendo a nuovi attori la possibilità di
entrare in concorrenza con gli operatori tradizionali. Molte aziende
di proprietà statale sono state vendute a investitori privati, e si
è facilitato l'accesso a nuovi concorrenti. Il mondo degli affari è
oggi più globale, più ampio e competitivo. Ma non dappertutto.
In taluni paesi, le nuove regole non hanno fatto altro che creare
nuove oligarchie di super-ricchi, che hanno avuto modo di prosperare
grazie alla loro abilità nell'influenzare i governi, manipolare i
mercati e ostacolare, se non bloccare del tutto la concorrenza. È
una realtà che appare evidente a chiunque voglia dare uno sguardo
all'elenco degli uomini più ricchi del mondo, e interrogarsi
sull'origine delle loro fortune. Il fatto positivo è che molti dei
detentori di questi immensi patrimoni hanno creato nuove tecnologie
e prodotti innovativi, grazie ai quali la nostra vita è più facile e
piacevole; e vari altri figurano in quell'elenco per diritto
ereditario. Ma non sono pochi quelli che devono la loro fortuna non
ai mercati, bensì ai favori ricevuti dai politici. Con conseguenze
negative per tutti noi.
Moises Naim è direttore della rivista 'Foreign Policy'
traduzione di Elisabetta Horvat
Corrotti
impuniti e felici
di Leo Sisti
Nell'Italia delle tangenti, in 20
anni solo il 2 per cento ha pagato con il carcere. In alcune regioni
non ci sono state condanne. E oggi nessuno indaga. I dati choc di
uno scandalo
C'era una volta la lotta alla
corruzione. Lotta dura, simboleggiata da Mani pulite. Lotta che ha
sconvolto l'Italia della politica e dell'impresa nella metà degli
anni Novanta. Memorabile l'immagine di quell'industriale che usciva
dal carcere milanese di San Vittore, borsa Vuitton in alto, simbolo
di ricchezza e del suo potere. Aveva resistito poche ore alle
manette. E giù una confessione-fiume sulle mazzette da lui girate a
questo o quell'uomo politico. Purché si aprissero dietro lui le
porte della prigione, in vista del processo. Ma, dopo le sentenze,
quanti corruttori o corrotti hanno veramente pagato? Quanti gironi
infernali hanno dovuto attraversare prima di riavere la libertà
definitiva? La sensazione che pochissimi fossero gli sfortunati era
diffusa. Ora c'è la certezza.
La legge non è uguale per tutti
Nell'arco di vent'anni, dal 1983 al
2002, compreso quindi il periodo di Tangentopoli, solo il 2 per
cento ha scontato pene in carcere, mentre il 98 per cento l'ha fatta
franca. O perché è scattata la sospensione condizionale (sotto i due
anni) o perché sono state riconosciute misure alternative (servizi
sociali: tra due e tre anni). E soprattutto perchè nell'87 per cento
dei casi la sentenza è stata mite: sempre meno di due anni.
Sono cifre rese pubbliche da una ricerca condotta dall'ex pm
Piercamillo Davigo, uno dei protagonisti di Mani pulite, ora giudice
di Cassazione, e Grazia Mannozzi, docente di diritto penale
all'Università dell'Insubria (Como e Varese). Ricerca riversata nel
libro 'La corruzione in Italia', editore Laterza, in libreria dal 5
ottobre. Due anni per un lavoro tutto sui numeri, tratti dal
Casellario giudiziale centrale. Una miniera di dati che inizialmente
dovevano dar vita a una smilza analisi destinata a una rivista
specializzata di diritto. Ne è venuto fuori invece un volume di 373
pagine, ricco di grafici e tabelle. Dentro, un inedito censimento
sulle tangenti 'made in Italy'. Con risultati choc. Ad esempio, solo
due condanne a Reggio Calabria (in vent'anni!). Ancora. Nessuno
riesce a immaginare che la Finlandia, il paese più 'virtuoso' in
Europa, secondo le statistiche di Transparency International, possa
registrare condanne per corruzione quasi uguali a quelle
dell'Italia. Che invece, sempre secondo Transparency International
(classifiche elaborate sulla base di indici di 'percezione'), è al
penultimo posto, davanti al fanalino di coda Grecia, la più
corrotta.
Strano. Forse il Casellario ha dimenticato di censire parte della
documentazione? Difficile, anzi impossibile. La realtà è un'altra.
Mentre una parte della vecchia classe politica della Prima
Repubblica, dal Psi di Bettino Craxi alla Dc di Arnaldo Forlani,
cadeva sotto i colpi delle procure più attive (pochissime. come si
vedrà), un'altra parte studiava come creare degli 'anticorpi'. Gli
'anticorpi' sono solo le manovre sfociate nel cosiddetto 'giusto
processo'. Ovvero nelle modifiche di alcune norme della Costituzione
(articolo 111) , e del codice penale. Cardine della riforma:
l'obbligo, per gli imprenditori che hanno versato tangenti, di
ripetere in fase di dibattimento quanto avevano messo a verbale
durante la fase delle indagini. Non è più sufficiente che il pm
presenti in aula il testo delle dichiarazioni rese in precedenza.
Insomma prima della riforma tutto questo bastava perché
l'imprenditore negoziasse il patteggiamento e potesse abbandonare i
tribunali il più presto possibile. Dopo avrebbe dovuto tornare nelle
stesse aule e rievocare spiacevoli episodi della propria vita, tutti
da dimenticare. Ma quando mai... Di colpo, un nuovo scenario si
affaccia nelle corti di giustizia: chi dovrebbe aprire la bocca
additando i corrotti fa invece scena muta. Grazie al giusto processo
e alle sue innovazioni vengono azzerate le prove. Morale: tante
belle assoluzioni.
E non è tutto. Nella prefazione al libro di Davigo e Mannozzi,
Vittorio Grevi, professore di procedura penale a Pavia, scrive: "I
risultati concreti dell'attività investigativa (...) sono stati
inferiori alle attese, a causa dell'ampiezza della 'cifra grigia'
dei fatti criminosi scoperti e accertati, ma non sanzionati da
condanna definitiva, molto spesso per via della prematura scadenza
dei termini di prescrizione". A proposito di risultati. I due autori
bacchettano i corpi di polizia che "tendono a privilegiare
l'attività di sicurezza pubblica rispetto a quella di polizia
giudiziaria", ossia trascurano le indagini delle procure. Per questo
annotano: "Non riteniamo di poter correlare alla (loro) attività la
massiccia emersione della corruzione negli anni '92-94". A buon
intenditor...
9 ottobre
Esplosione alla
Simmel, un morto e 15 feriti
L'incidente si è verificato stamani
nella fabbrica produttrice di missili e bombe a frammentazione
E' di un morto e 15 feriti, alcuni dei
quali in gravi condizioni, il bilancio dell'esplosione verificatasi
stamani nell'industria bellica 'Simmel Difesa' di Colleferro, in
provincia di Roma. Le cause dell'incidente non sono ancora state
chiarite. La vittima dell'esplosione aveva 35 anni, stava lavorando
a un macchinario che serve per la lavorazione delle polveri. La
fabbrica, attiva dal 1948, con un fatturato di 80 milioni di euro
all'anno, è specializzata in produzione di munizioni e spolette di
medio e grosso calibro, in particolare per i cannoni navali.
Concentra le proprie attività nella progettazione, sviluppo,
produzione e vendita di munizionamento convenzionale ed avanzato,
spolette meccaniche ed elettroniche, propellenti, esplosivi, teste
missilistiche, razzi e sistemi d'arma a razzo (Firos 30) alle Forze
Armate Italiane e del mondo. Ha circa 200 dipendenti negli
stabilimenti di Colleferro e Anagni, in provincia di Frosinone. Nel
maggio di quest'anno, l'intero pachetto azionario della ditta è
stato ceduto al gruppo britannico Chemring.
Spolette. Da tempo l'industria di Colleferro è nel mirino di
associazioni pacifiste perchè accusata di produrre "cluster bombs",
ordigni esplosivi che disseminano centinaia di submunizioni che
possono rimanere inesplose nel terreno, minacciando per anni la
popolazione. L'azienda ha però negato di produrre questi armamenti
ed ha fatto sapere di averli tolti dal proprio catalogo. Secondo
quanto riportano le ricerce condotto dal 'Coordinamento contro la
guerra di Valle del Sacco e Colleferro', tra alcuni degli armamenti
più letali nel catalogo prodotti della Simmel, figurerebbero bombe
da mortaio da 81 mm, razzi 'Medusa', razzi 'Firos' contenente 77
submunizioni e Bcr (Bomblets cargo round) da 155 mm contenente 63
submunizioni. Secondo il Comitato, l'industria produce spolette e
munizonamento per Stati come Gran Bretagna, Kuwait, Venezuela,
Messico, Corea del Sud, Turchia e Oman. Per il ministero della
Difesa italiano, la Simmel produce munizionamento per il veicolo 'Dardo',
un blindato da combattimento utilizzato in Iraq. Ma la presenza
dell'azienda nella valle del Sacco è criticata soprattutto per
l'impatto ambientale delle sue produzioni.
Inquinamento ambientale? Nel 2005, la Simmel ha acquistato un
macchinario per la macinazione del perclorato di ammonio, componente
chimico utilizzato come combustibile solido per razzi e missili.
Negli Stati Uniti, il composto è sotto osservazione da parte
dell'ente protezione ambientale in seguito a dati analitici rilevati
dal controllo delle acque e nei siti in cui sono presenti industrie
di armamenti o poligoni di tiro. Il perclorato può avere effetti
nocivi sulla salute umana, diffondendosi nell'ambiente attraverso
l'inquinamento delle falde acquifere. Alcuni studi epidemiologici
condotti nel complesso industriale di Colleferro, dove sono presenti
anche fabbriche di produzione di Ddt, hanno evidenziato un'elevata
mortalità nei lavoratori di alcune industrie dellarea e nella
popolazione residente. Altri studi condotti dall'Asl Lazio hanno
riportato unassociazione tra lesposizione a sostanze organoclorurate
(derivati dal cloro), in particolare PCB (policlorobifenili) e DDT,
ed effetti nocivi sulla salute delluomo, tra cui il tumore del
cervello, del pancreas, della tiroide, e sarcomi dei tessuti molli,
il morbo di Parkinson, lalterazione dello sviluppo nei bambini,
eventi avversi della riproduzione ed asma bronchiale. Non esistono
tuttavia ricerche sulla presenza di perclorato di ammonio nelle
acque del fiume Sacco, per cui un collegamento tra la nocività delle
produzioni della Simmel e l'elevata incidenza di tumori è per ora
solo ipotetico.
Luca Galassi
Lo scandalo Eads
raggiunge i vertici dello stato
Il colosso aeronautico francese al
centro di un'indagine per insider trading che coinvolge dirigenti
della società e Lagardere, l'amico fraterno di Sarkozy
Anna Maria Merlo
Parigi
Lo stato francese rifiuta ogni
implicazione nel nuovo scandalo che sta scuotendo Eads, il primo
gruppo aeronautico europeo, casa madre di Airbus. L'Amf (autorità
dei mercati finanziari) si è rivolta alla magistratura dopo aver
scoperto un enorme caso di insider trading, che ha coinvolto, tra il
novembre 2005 e il marzo 2006, i 21 principali dirigenti del gruppo
e della filiale Airbus, oltre a altre 1200 persone, al corrente
delle difficoltà a venire e che hanno «venduto più di 10 milioni di
azioni e intascato circa 90 milioni di euro di plusvalore». Ieri la
ministra delle finanze, Christine Lagarde, ha ripetuto di fronte ai
deputati quello che ha affermato il suo precedessore, Thierry Breton
: «lo stato ha sempre considerato la partecipazione in Eads un
investimento strategico e per questa ragione lo stato non ha mai
venduto titoli. A causa del patto tra azionisti, lo stato non doveva
né autorizzare né impedire la vendita di azioni da parte di altri
azionisti, che erano totalmente liberi nella loro strategia. E'
quindi falso dire che lo stato abbia autorizzato questa operazione.
Lo stato ha avuto un comportamento senza macchia».
Ma l'Amf accusa lo stato francese di essere stato al corrente di
questi movimenti. Una nota, redatta dopo una riunione tra i
dirigenti di Eads e l'agenzia pubblica di partecipazione di stato,
del 2 dicembre 2005, suggerisce addirittura allo stato di
disinvestire «per approfittare della valorizzazione attuale del
titolo», destinato a scendere a causa della «zona di turbolenze» che
Eads vrebbe attraversato per l'accumulazione di ritardi nella
costruzione dell'A380 e le difficoltà dell'A350. Il gruppo Lagardère,
l'azionista privato chiamato in causa, ha deciso ieri di sporgere a
sua volta denuncia. Nel governo, solo l'ex socialista Jean-Pierre
Jouyet, sottosegretario agli affari europei, ammette qualcosa: «se
questi fatti verranno confermati, sono estremamente gravi».
Le informazioni sull'inchiesta Amf arrivano in un momento delicato.
Eads ha cambiato presidente cinque volte in due anni. L'equilibrio
tra francesi e tedeschi è scosso da forti tensioni, mentre cresce la
preoccupazione tra i dipendenti, minacciati dal piano di risanamento
«Power 8», che prevede migliaia di licenziamenti. Tra meno di due
settimane, Airbus avrebbe dovuto consegnare, con mesi di ritardo, il
primo Airbus A380 a Singapore Airlines. Ma il nuovo scandalo rischia
di guastare la festa. Arnaud Lagardère, l'amico fraterno di Sarkozy,
implicato in prima persona (ha venduto nell'aprile 2006 il 7,5% di
Eads), ha intenzione di disimpegnarsi dal gruppo aeronautico. Se i
sospetti raggiuneranno anche i vertici dell'azionista tedesco
DeimlerChrisler - che ha anch'esso venduto il 7,5% nell'aprile 2006
- ci saranno conseguenze nel fragile equilibrio raggiunto pochi mesi
fa. Il 2 luglio, il presidente Noël Forgeard, l'amico di Chirac che
aveva suscitato scandalo con la vendita delle stock options, era
stato sostituito da Louis Gallois, ex presidente della Sncf, l'unico
dirigente che non è messo in causa dall'inchiesta dell'Amf, perché
arrivato dopo il crollo del titolo in Borsa. Nei primi sei mesi di
quest'anno, il gruppo Eads ha visto gli utili crollare del 93%, a
soli 71 milioni di euro, a causa delle difficoltà di Airbus e del
ramo di aeronautica militare (malgrado il contratto con la Libia per
i missili Milan, firmato come contropartita «segreta» nella
trattativa per la liberazione delle infermiere bulgare, cui hanno
dato la spinta finale Nicolas e Cécilia Sarkozy).
Bush taglia la
sanità per l'Iraq
Il presidente ha posto il veto a
una legge che estenderebbe l'assicurazione sanitaria ai bambini. Ma
intanto spende 700 miliardi di dollari per la guerra in Mesopotamia
Matteo Bosco Bortolaso
New York
Il presidente degli Stati uniti George
W. Bush ha posto il veto su una legge approvata dal Congresso
americano da democratici e repubblicani, bloccando l'espansione del
programma pubblico per l'assistenza sanitaria per i bambini
statunitensi. Il disegno di legge avrebbe garantito la famigerata
health care a circa dieci milioni di bimbi americani, contro gli
attuali 6,6 milioni. Le famiglie che avrebbero ricevuto l'aiuto
statale «non si possono permettere l'assicurazione sanitaria, ma non
si qualificano nemmeno per il programma pubblico Medicaid a causa
del loro reddito che è poco sopra la soglia di povertà» spiega il
notiziario specializzato Medical News Today. Secondo il disegno
vetato da Bush, la spesa per espandere l'assistenza sanitaria
sarebbe stata di 60 miliardi di dollari per i prossimi cinque anni.
Attualmente se ne spendono 25 miliardi.
Il presidente propone invece di non allargare il programma di
assistenza pubblica e di stanziare soltanto 5 miliardi, garantendo
solo 30 miliardi per il prossimo lustro. Bush ha firmato il veto
senza grandi fanfare, quasi alla chetichella, prima di partire per
Lancaster, in Pennsylvania. Sempre secondo Medical News Today, il
presidente aveva ribadito più volte di non voler approvare
l'allargamento del programma pubblico perché «espande il ruolo del
governo nell'assistenza sanitaria ed è finanziato da un enorme
incremento di tasse, mentre Bush preferisce un sistema di deduzioni
delle tasse per spingere verso le assicurazioni private», che in
questo modo non vengono danneggiate dalle scelte dello stato.
Sulla Casa bianca, intanto, piovono fiumi di polemiche. «Oggi
abbiamo imparato che lo stesso presidente che ha intenzione di
buttar via cinquecento miliardi di dollari in Iraq, non vuole
spendere meno di un decimo di questa cifra per portare assistenza
sanitaria ai bambini americani», ha tuonato il senatore Edward
Kennedy, capo della commissione parlamentare per istruzione, lavoro
e pensioni. Secondo alcuni, Bush spenderà ancora di più di quanto ha
dichiarato il senatore Kennedy. Le priorità del presidente, secondo
Rahm Emanuel, responsabile del Caucus democratico della Camera, sono
«700 miliardi di dollari per una guerra in Iraq, ma niente health
care per i bimbi meno abbienti». Il leader della maggioranza
democratica al senato Harry Reid ha detto che questo «veto senza
cuore» mostra quanto Bush sia «distaccato dalle priorità del popolo
americano».
La conferenza dei sindaci americani, guidata dal primo cittadino di
Trenton, in New Jersey, si è detta «scioccata e incredula» di fronte
al rifiuto di firmare un assegno di 35 miliardi di dollari per
l'espansione dello State Childrens Health Insurance, chiamato anche
Schip. »Questa azione non fa altro che colpire i bambini, il futuro
dell'America - ha dichiarato il presidente della conferenza, Douglas
Palmer - mentre il governo sta spendendo miliardi di dollari per
finanziare la guerra in Iraq, è un imperativo che l'amministrazione
riconosca la necessità di prendersi cura anche dei cittadini che
sono rimasti a casa».
Il veto è arrivato nonostante un tentativo di mediazione della
commissione finanze del senato, che aveva approvato - con un voto di
17 a 4 - un disegno che finanziava l'assistenza sanitaria ai bambini
attraverso un incremento delle tasse sul tabacco. La maggior parte
dei repubblicani avevano votato la proposta assieme ai democratici.
Attualmente si applica una tassa di 39 centesimi per ogni pacchetto
di sigarette. La proposta chiedeva di alzare il balzello ad un
dollaro per pacchetto e di tassare i sigari non cinque centesimi,
come avviene adesso, ma ben dieci dollari l'uno. Uno degli autori
del disegno, il senatore Charles Grassley, un repubblicano dell'Iowa,
ha detto che il piano di Bush sulla sanità è «irrealistico» e che si
non riesce a capire come un incremento di soli cinque miliardi -
nemmeno un centesimo di quanto si spende per l'Iraq - possa aiutare
a migliorare la situazione. Il presidente, però, ha preferito non
intralciare gli affari delle aziende del tabacco.
Sicko e Thank you for smoking, probabilmente, non vengono proiettati
alla Casa bianca, che adesso potrebbe ricevere un nuovo assedio
parlamentare. Il senato può facilmente aggirare il veto perché il
disegno bipartisan è stato approvato con più di due terzi dei voti
(67 contro 29).
Più complessa la situazione alla Camera, dove ci sono stati 265 sì
contro 159 no. Servono almeno una ventina di altri voti per riuscire
a superare lo stop imposto da Bush.
Aste immobiliari
in mano alle banche
Il ministero di giustizia taglia i
vecchi informatici precari e affida il servizio a una società
controllata dall'Abi (associazione delle banche). Che,
generosamente, lo farà gratis
Tommaso De Berlanga
Privatizziamo tutto, ma sì! Si sa che
i privati fanno tutto meglio del «pubblico» intrallazzone, che ruba
a man bassa e si fa gli affari suoi.
Non siamo impazziti. Il sospetto che dietro questi discorsi
mainstream si nascondano interessi corposi e maleodoranti lo avevamo
già. Vederseli comparire davanti, mentre alcuni precari protestano
davanti alla sede del ministero di giustizia (la «grazia» era già
stata abolita da un ingegnere leghista, Castelli), è comunque una
sorpresa.
La storia dei precari è semplice, nel suo ripresentarsi sempre
simile. Ma questi lavorano da anni, almeno otto, nei tribunali. Per
conto di due società private diverse - la Insiel e Data Service -
dovevano occuparsi di «formare» personale di ruolo nell'utilizzo dei
sistemi informatici: scannerizzazione degli atti processuali,
archiviazione elettronica, data entry, ecc. Naturalmente si sono
ritrovati ben presto a fare lavoro di cancelleria come gli altri
(con la già importante differenza di non essere entrati per concorso
e di non aver dovuto «prestare giuramento di fedeltà» allo Stato) in
gangli alquanto delicati come le esecuzioni immobiliari, le
procedure fallimentari, gli uffici dei giudici di pace, le corti
d'appello sia civili che penali, le stesse procure.
Con la finanziaria 2007 (l'anno scorso) sono stati tagliati un po'
di fondi anche alla giustizia e loro sono stati i primi a saltare.
Fin qui sono andati avanti a forza di proroghe, ma ormai i giochi
sono giunti al termine. Per quelli di Data Service c'è la cassa
integrazione e poi la mobilità; per quelli di Insiel niente di
niente. L'unico sindacato che ha cercato di difenderli è stato
finora la Cub-RdB.
Domanda: chi sostituirà questi tecnici (visto che al ministero non
ne hanno in organico)? Risposta semplice, almeno in alcuni uffici:
la Asteimmobili Servizi spa, società «basata» a Biassono, in
provincia di Milano. A favore di questa scelta sembra abbia pesato
un vantaggio competitivo imbattibile: il servizio è offerto
gratuitamente. Non avete letto male: gratis.
Seconda domanda, perciò: come mai un imprenditore dovrebbe offrire
una prestazione gratuita allo stato? Beh, la risposta è seccante:
perché la Asteimmobili ecc. è proprietà dell'Abi, l'associazione
delle banche italiane, che avrebbe investito 3,5 milioni di euro in
questa operazione. Un'offerta veramente generosa, segno
inequivocabile di quanto venga sentita la «responsabilità sociale»
ai vertici dei nostri istituti di credito.
Fatto sta che a Roma, Genova e Milano, all'interno di alcune stanze
dei tribunali, si sono già installati un po' dipendenti di questa
nuova società - precari, of course, con contratti a progetto e 950
euro al mese - tenuti rigorosamente separati dai «pubblici». I
precari vecchi, nonostante fossero ormai altamente qualificati, sono
stati scartati dopo un colloquio pro forma in quanto «troppo
sindacalizzati».
E così si va allargando a macchia d'olio questa occupazione bancaria
- privatissima, ne siamo certi - di attività piuttosto sensibili
come la trasformazione dei pignoramenti degli immobili (chiesti al
99% dalle stesse banche!) in vendite all'asta; oppure le procedure
fallimentari di società (che devono soldi alle banche, altrettanto
spesso); l'archiviazione (o no, si potrebbe anche sospettare, visto
che non sempre il deposito di un atto processuale di diritto civile
prevede rilascio di una ricevuta) degli atti e delle sentenze. Non
c'è dubbio: le banche gestiranno questi servizi con molta più
efficienza. Magari con un po' di minore attenzione per l'«interesse
pubblico». Come mettere Dracula a gestire la banca del sangue...
E' naturalmente possibile affermare che non ci sia qui un «interesse
privato in atti d'ufficio» e che le banche si siano convertite alla
beneficienza. Ma sarebbe veramente troppo chiedere a tutti noi di
crederci. E di chiedere a nostra volta: chi ha preso la decisione
politica di fare questo regalo incalcolabile alle banche? E ancora:
perché tutti, sindacati compresi, tacciono?
Ordine di
arresto per la famiglia Pinochet
L'accusa è sempre quella: peculato,
nell'ambito dell'ormai noto 'caso Riggs'
L'intera famiglia del dittattore
Augusto Pinochet, morto il 10 dicembre dello scorso anno, è stata
raggiunta da un ordine di arresto. L'accusa è di peculato, reato per
il quale era sotto processo anche il vecchio generale, autore del
golpe militare dell'11 settembre 1973, che portò alla morte del
presidente democraticamente eletto Salvador Allende. Durante la
dittatura, più di 3.000 persone furono uccise dalle forze di
sicurezza.
Augusto Pinochet
La svolta. A ordinare la
detenzione dei cinque figli e della vedova Pinochet, il giudice
Carlos Cerda, titolare dell'inchiesta sui fondi statali cileni
depositati dagli uomini della giunta militare in alcuni conti della
banca statunitense Riggs. Un procedimento che vede coinvolte 23
persone, che all'epoca lavoravano a stretto contatto con il
generalissimo. Fra questi 5 generali, 7 colonnelli e un capitano
dell'esercito. A questi si aggiungono l'ex diplomatico Patricio
Madariaga Gutierrez, due avvocati, l'esecutore testamentario di
Pinochet, Oscar Altken e la segretaria personale del dittatore,
Monica Ananias. Ad attendere gli uomini in divisa, il carcere
militare, i civili, invece, dovranno restare a disposizione della
Gendarmeria che deciderà dove rinchiuderli.
Le origini. Il caso Riggs, per il quale Augusto Pinochet
venne pure processato, trae origine da un'indagine del Senato degli
Stati Uniti del luglio 2004, dalla quale emerse che l'ex dittatore
cileno possedeva conti segreti nella Banca Riggs. Da questa prima
scoperta, emerse che Pinochet era arrivato a possedere 125 conti
bancari fuori dal Cile, per una fortuna stimata intorno ai 28
milioni di dollari.
Secondo quanto stabilirono le indagini, la Banca Riggs aveva
nascosto i conti del dittatore, molto tempo dopo la sua detenzione a
Londra, iniziata nel 1998 e ordinata dal giudice spagnolo Baltasar
Garzón per il delitto di genocidio, e dell'ordine internazionale che
ne scaturì per il congelamento dei fondi. Per impedirne
l'intercettazione, la banca cambiò il nome dell'intestatario da
"Augusto Pinochet Ugarte" a "A.P.Ugarte". Ma nel 2002, gli
statunitensi scoprirono il giochino e a quel punto la banca tentò di
occultare l'informazione chiudendo i conti e restituendo i soldi a
Pinochet, affinché potesse depositarli nuovamente con un'altra
identità, come dichiarò l'allora senatore Usa Carl Levin.
Gli ultimi passi. Le ulteriori fasi del processo sono
concitate e terminano adesso, con questa decisione epocale. Durante
il procedimento, infatti, la moglie e il figlio minore già erano
stati coinvolti per complicità nella frode. Era il giugno del 2005.
Ma allora erano stati poi scagionati dalla dichiarazione di Pinochet,
che si era assunto tutta la responsabilità dei conti. Una svolta si
intravide, poi, il 9 settembre dello stesso anno, quando il
Consiglio della difesa dello Stato affermò che esisteva una
connessione fra i conti di Pinochet e supposte commissioni per la
compravendita di armi. Il 19 ottobre 2005, la Corte suprema dette il
via a un giudizio contro il dittatore, per frode tributaria e per
altri delitti. Due giorni dopo, vennero processati anche il figlio
Marco Antonio Pinochet Hiriart e la moglie, Lucía Hiriart, per
complicità. Anche allora, titolare dell'inchiesta è Carlos Cerda,
che interrogò Augusto Pinochet quattro volte in nove giorni. Il caso
Riggs, dunque, portò l'ex dittatore alla sbarra per evasione
tributaria, falsificazione di strumento pubblico, falsificazione di
passaporti e omissione di beni. Il 3 gennaio di questanno, la Corte
d'Appello di Santiago ha però annullato quasi tutti i procedimenti
contro i familiari e i colleghi del defunto generale.
Poi, ieri, la svolta.
Stella Spinelli
6 ottobre
Le relazioni
pericolose
Erik Prince, presidente della
Blackwater

Il presidente della Blackwater
difende i suoi uomini in Iraq, ma la stampa Usa chiede di chiarezza
nei rapporti con la Casa Bianca
E' arrivato il giorno dell'avvocato
del diavolo, nel senso del presidente della Blackwater, il quale
dopo un periodo che ha visto la principale azienda di contractors
del mondo nell'occhio del ciclone, ha deciso di uscire allo scoperto
venendo meno all'abituale riservatezza della compagnia di sicurezza
privata per difenderne pubblicamente l'operato.
Difesa accorata. Ogni vita, compresa quella degli
statunitensi in Iraq, è preziosa. E' normale che si consideri quello
che è accaduto una tragedia, ma secondo le nostre informazioni il 16
settembre non è avvenuto nulla che non rientrasse in una normale
operazione in una situazione di guerra complicata come l'Iraq. A
parlare è Erik Prince, 38 anni, ex incursore dei temuti commando
della Marina Usa, fondatore (nel 1997) e attuale presidente della
Blackwater, checommenta così le polemiche emerse dopo la strage del
16 settembre scorso, quando alcuni uomini dell'azienda Usa, di
scorta a un uomo d'affari, hanno aperto il fuoco a Baghdad contro la
folla uccidendo 11 civili.
Prince ha difeso i suoi uomini, scegliendo la linea del 'deprecabile
incidente', e ha sottolineato come la stessa Blackwater, dall'inizio
della guerra, abbia perso 30 uomini mentre nessuna delle persone che
l'azienda ha scortato ha subito danni.
Un buon lavoro. Un 'good job' insomma, che non merita le
critiche piovute addosso alla compagnia negli ultimi giorni. Non la
pensa così Henry A. Waxman, deputato democratico che presiede la
commissione bipartisan del Congresso Usa che indaga su quanto
accaduto in Iraq con i contractors. Nei giorni scorsi la commissione
ha pubblicato un rapporto sulla Blackwater, che censura l'attività
degli specialisti della sicurezza privata in Iraq, accusando al
contempo l'amministrazione Bush di voler proteggere e coprire
l'operato dell'azienda. Nel rapporto è citata una missiva del
Dipartimento di Stato che faceva pressioni sulla Blackwater,
ordinandole di non diffondere informazioni sulle operazioni condotte
in Iraq senza autorizzazione dellamministrazione Bush.
Protezioni in alto. La procedura, piuttosto irrituale, è
stata censurata anche dai militari Usa che, secondo il Washington
Post, tollerano sempre meno la presenza di queste guardie private in
Iraq, che hanno creato spesso problemi ai militari causando danni
come la strage del 16 settembre, definita da una fonte vicina al
Pentagono citata dal quotidiano Usa un danno d'immagine peggiore di
quello di Abu Ghraib. Secondo l'inchiesta del Washington Post, dal
2004 a oggi, le spese sostenute per i contractors dal Dipartimento
di Stato superano quelle sostenute per il Pentagono. La Blackwater
ha incassato più di 800 milioni di dollari da Washington, mentre
sono circa 100 milioni di dollari quelli incassati dal Pentagono.
Una somma enorme, per un lavoro che ha portato per 195 volte a
scontri a fuoco in Iraq, e in 163 occasioni sono stati i contractors
ad aprire il fuoco per primi. In 25 casi i dipendenti della
compagnia di sicurezza privata Usa sono finiti sotto inchiesta in
Iraq per reati connessi all'abuso di droga e alcool, e in 28 casi
sono stati accusati di utilizzo disinvolto delle armi.
L'aspetto che incuriosisce di più la Commissione Waxman, e la stampa
Usa, è lo strano rapporto che pare legare la Blackwater
all'amministrazione Bush, dalla quale la compagnia di sicurezza
privata ha ricevuto dal 2001 appalti per un miliardo di dollari,
nonostante un rendimento non sempre soddisfacente.
Christian Elia
La guerra del
cibo
di Carlotta Mismetti Capua
Stop alle multinazionali, sì alla
biodiversità dell'agricoltura. L'indiana Vandana Shiva e l'africana
Aminata Traoré combattono le stesse battaglie
Vandana Shiva con il sari arrotolato
intorno al corpo e il bindi rosso sulla fronte. Aminata Traoré con
il copricapo in testa e il boubou colorato fino ai piedi. Vestiti
tradizionali e un carisma fuori dall'ordinario: così queste due
donne girano il mondo per difendere la loro terra, raccontando altre
verità.
L'una, Vandana Shiva, voce autorevole dell'India dei contadini.
L'altra, Aminata Traoré, leader radicale dell'Africa di chi non ha
voce. Sono due combattenti, volano da un continente all'altro come
ambasciatrici contro la globalizzazione. Parlano forte e chiaro, e
lo fanno in Paesi dove le donne non parlano affatto. Le loro sono
battaglie diverse ma in fondo simili perché combattute con strumenti
identici. Il nemico è lo stesso: i governi corrotti, le
multinazionali, il Wto, l'Occidente dei monopoli e del capitalismo
col turbo. Vandana Shiva è una fisica e una delle scienziate più
note del suo Paese: attivista lo è diventata dopo. Si batte per la
biodiversità in agricoltura, contro i semi geneticamente modificati
che vengono venduti agli agricoltori indiani e che li mandano in
rovina. Coordina una comunità che fa il possibile per aiutare i
coltivatori dei villaggi a liberarsi dalla schiavitù della
multinazionale Monsanto.
Ma lavora con i governi di tanti Paesi, in Italia con la Regione
Toscana (al progetto di San Rossore, luogo di elaborazione del
pensiero new global). "Il suicidio dei contadini indiani, che hanno
seminato i loro campi con gli Ogm venduti dagli americani",
racconta, "è il mio dolore, il mio pensiero quotidiano. Nell'ultimo
decennio, in India, più di 40mila agricoltori si sono suicidati -
anche se sarebbe più esatto parlare di omicidio, o addirittura di
genocidio", racconta Shiva, che con la sua organizzazione ha salvato
cinque villaggi, convincendo i loro abitanti a riconvertirsi ai semi
biologici. "La vita dei contadini è diventata molto difficile.
Perché le politiche economiche del governo non li aiutano. Vedo le
donne che non sanno come sopravvivere, che vedono il proprio lavoro
distrutto".
Per cercare soluzioni a questi problemi macroeconomici Shiva parte
dalle piccole cose. Per esempio si preoccupa del compost, il
fertilizzante che viene preparato partendo dagli escrementi delle
mucche. "Le donne indiane hanno sempre avuto il compito di preparare
il compost per nutrire i terreni. Oggi invece le multinazionali
vendono veleni: fertilizzanti che promettono miracoli. Ma che come
primo risultato di fatto estromettono le donne dal lavoro nei campi.
Il loro ruolo viene cancellato dalla chimica. Una chimica
guerrafondaia per origine e vocazione: i fertilizzanti furono
inventati in campo militare, e usati in Vietnam contro la
popolazione. Fanno male alla terra, fanno male alla salute, fanno
male alle donne".
Vandana è convinta che la biodiversità dell'agricoltura, i semi, i
sistemi di lavorazione, gli aratri, i trattori, i campi, i vigneti,
il granoturco potranno cambiare il mondo. "Certo, non è un risultato
al quale si arriva senza lottare", dice. "Credo che oggi sia in
corso una nuova Guerra mondiale: quella del cibo". Aminata Traoré è
un'intellettuale, una scrittrice. Ha la bellezza imponente di molte
donne africane: la voce è potente, rotta dalla rabbia spesso,
qualche volta dall'emozione. Quando parla è come se stesse
arringando le folle, come fosse sempre su un palcoscenico. È stata
ministro della Cultura del Mali, il suo Paese natale, poi consulente
economica di tantissime organizzazioni internazionali. Ha studiato
psicologia a Parigi, ha scritto molti libri denuncia, tutti tradotti
nelle varie lingue europee, italiano compreso. Ha anche inventato e
creato il Forum sociale africano, ed è stato un successo: si è
tenuto, nella prima edizione, a Bamako, prima di sbarcare quest'anno
a Nairobi.
"Un'altra Africa è possibile" era lo slogan delle duemila persone
che vi si sono ritrovate. Lo scopo era quello di parlare, conoscere
e dare obiettivi comuni agli attivisti sociali africani. Le
battaglie che li hanno uniti sono state quelle contro la povertà
assoluta, la corruzione, l'assenza di sicurezza sociale, le
politiche per l'Aids. "Ma soprattutto abbiamo dato al mondo
un'immagine diversa dell'Africa, un'Africa pronta a combattere e a
difendersi", racconta, sistemandosi ogni tanto il turbante che porta
come una corona. "Abbiamo bisogno di costruire una politica diversa,
libera, che parta dal basso", sostiene. "In Africa non abbiamo la
possibilità di spiegare, di far comprendere alla gente cosa succede
e perché. Le cose accadono senza che se ne conosca il motivo. È
questa la cosa più terribile".
Vandana Shiva è una scienziata che ha deciso di fare politica,
Aminata è un'intellettuale dalle teorie estreme: "Oggi il pianeta
vive le stesse difficoltà, ovunque: la sofferenza di un giovane
africano non è così diversa, né lontana, da quella di un giovane
italiano. Forse è utopico pensare che il Terzo mondo salverà i primi
due", dice, "ma quel che è certo è che la soluzione, la strada per
la salvezza del pianeta, non arriveranno da chi comanda ora. Io ho
diritto alla mia utopia, ovvero che l'Africa possa indicare a ogni
Paese la via di salvezza da questo mondo così tormentato. Penso
all'Africa delle relazioni umane, pacifiche, solidali, semplici: se
il continente da cui provengo non è precipitato nel caos più totale
è proprio grazie a questi legami deboli ma costanti tra la gente".
Nel libro L'immaginario violato (Ponte alle Grazie) Aminata Traoré
ha esposto chiaramente le sue teorie. E, prima di tutto ha
sottolineato che l'Africa, per le violazioni dei colonizzatori che
ha dovuto subire, non ha imparato a pensarsi. A immaginare un futuro
per se stessa, senza colonizzatori. Perché, secondo la Traoré, le
colonizzazioni in Africa non sono mai finite.
Aminata Traoré racconta di "provare dolore quando guardo la
televisione, non a casa mia, ma in Europa, nelle stanze d'albergo.
Perché nei telegiornali vedo cose che nel mio Paese non si vedono.
Per strada, seduta sulla mia veranda, vedo le donne andare al
mercato, i bambini a scuola. Non la miseria e la morte che viene
mostrata in Occidente. Certo, vedo i gommoni, le carrette, i
naufragi in mare, i nostri giovani che annegano. I figli dell'Africa
ci vengono tolti. Partono per pulire i cessi dei Paesi ricchi. Siamo
depredati delle nostre risorse: l'oro, i diamanti, il cotone. Non
vivo in un Paese in guerra, produciamo cotone di prima qualità, del
quale siamo i primi esportatori al mondo. Eppure restiamo poveri.
Tutto ci viene tolto. Ma più di ogni altra cosa siamo depredati
della risorsa più grande, i nostri ragazzi". La parola preferita di
Aminata è "speranza".
Quella di Vandana è "shanti", pace. "l'India è il Paese della pace,
della tolleranza. Sono valori che l'India può insegnare al mondo.
Anche l'incertezza, che ti spinge ad aprirti, ad adattarti, è un
valore. È la condizione primaria della vita in India, e l'incertezza
genera speranza". Le chiediamo infine cosa farebbe se fosse lei a
guidare il mondo. "Per prima cosa deciderei che non esistono "capi
del mondo". E, se anche così fosse, non vorrei essere il capo del
mondo", scuote la testa. "Voglio invece centinaia, milioni di capi
del mondo. Tutti diversi. Di legge ne farei una sola: vietato fare
la guerra".
5 ottobre
Rangoon: che
fine hanno fatto i morti?
I bloggers: cadaveri cremati
dall'esercito per cancellare ogni traccia
La definizione che si avvicina di più
alla realtà, riguardo ai fatti birmani, è stata data ieri
dall'ambasciatore britannico a Rangoon, Mark Canning: "Hanno messo
il tappo alla bottiglia, ma la pressione è pronta a farlo saltare di
nuovo". E' la rabbia dei birmani pronta a esplodere di nuovo, dopo
che ieri decine di migliaia di soldati hanno reso impossibile
qualsiasi mobilitazione di grandi dimensioni. Per evitare nuovi
spargimenti di sangue, l'opposizione cambia strategia, ma le ragioni
della protesta rimangono intatte: libertà, democrazia, diritti. Ciò
che ai birmani è stato negato in questi decenni di dittatura.
Piccole proteste, isolate ma efficaci, azioni dimostrative mordi e
fuggi. Laddove ne termina una, se ne accende rapida un'altra: sarà
questo, nel passaparola clandestino che in queste ore rimbalza di
casa in casa, il nuovo tentativo dei birmani per convincere i
militari ad abbassare la guardia, a non sparare sui civili. Ma
intanto, nel giorno dello sciopero generale, dalla capitale giungono
notizie che - se confermate - aprirebbero scenari orribili sulle
operazioni di occultamento dei cadaveri compiute dalle forze
speciali del generale Than Shwe, durante e dopo i giorni delle
grandi manifestazioni.
Dove
sono finiti i morti? Alcuni bloggers sarebbero riusciti a contattare
i residenti a Rangoon. Da una trascrizione telefonica pubblicata su
uno dei rari siti ancora in grado di fornire aggiornamenti
quotidiani sulla situazione sembrerebbe che numerosi cadaveri di
manifestanti siano stati bruciati nel crematorio di Yaeway. I
parenti avrebbero appreso la notizia dallo stesso personale del
crematorio, che ha ricevuto ordine dai militari a far scomparire
ogni traccia dei cadaveri. I dissidenti in esilio non confermano né
escludono tale notizia. "E' un fatto di cui non mi è giunta una
testimonianza diretta - ha riferito a PeaceReporter da Bangkok un
membro del National Coalition Government Union of Burma (Ncgub) - ma
potrebbe non essere escluso per un semplice motivo: secondo la
nostra esperienza, nel 1988, durante la feroce repressione morirono
centinaia, forse migliaia di persone, ma i loro cadaveri non furono
mai trovati. Perchè? I militari li bruciarono. Per eliminare ogni
traccia di un simile genocidio. Secondo alcuni soldati, numerosi
oppositori feriti furono cremati mentre erano ancora in vita.
Un'altro modo per fare scomparire i morti di questi giorni, a mio
giudizio, potrebbe essere stato quello di caricarli sulle navi della
Marina, portarli al largo e buttarli in mare".
Una lunga prigionia. Un'altra fonte contattata da PeaceReporter in
Thailandia, K. M., che si autodefinisce un 'attivista individuale' e
non desidera che il suo nome compaia per intero per ragioni di
sicurezza, ha riferito di aver sentito la notizia delle cremazioni
alla radio, ma di non averne avuto conferma da testimoni oculari. K.
M. sa invece cosa accadrà alle persone arrestate nei giorni scorsi.
"Le prigioni birmane sono luoghi senza speranza, noti per la rudezza
e la brutalità delle guardie carcerarie. I detenuti si potrebbero
vedere inflitti pene molto dure e scontare un lungo periodo di
detenzione, e forse non essere nemmeno sottoposti a un regolare
processo. Secondo le mie fonti, sono morte oltre un centinaio di
persone. Trentacinque nel Rangoon General Hospital, secondo il
registro dell'obitorio. Una trentina sono poi i cadaveri trovati per
le strade. Dei feriti, o delle eventuali vittime portate altrove,
non si ha notizia. I parenti chiedono costantemente informazioni
alle autorità sanitarie. Ma, costantemente, i militari fanno calare
un velo di silenzio sulla loro sorte".
Linferno fra le
mura di casa
Nonostante alcuni risultati
legislativi incoraggianti, continua l'allarme della violenza di
genere in Spagna
Scritto da Aura Tiralongo
Torna a imporsi allattenzione della
cronaca spagnola lemergenza violenza domestica sulle donne, fenomeno
che negli ultimi tre anni ha giustificato una mobilitazione
istituzionale senza precedenti in tutto il Paese. Solo nei dieci
giorni che vanno dall8 al 18 settembre, sono stati quattro gli
uxoricidi, ognuno di questi consumato in una diversa città della
Spagna.
Violenza di genere. Da Madrid a Barcellona colpisce ancora,
nonostante limpegno congiunto di amministrazioni pubbliche,
associazioni di donne e organizzazioni non governative, la mannaia
della violenza di genere, problema spesso nascosto dalle mura
domestiche e dallimpenetrabile rete delle relazioni affettive. Dopo
i dati allarmanti diffusi dallOsservatorio nazionale della violenza
sulla donna, che riportano circa una vittima ogni sei giorni, arriva
la notizia dellultimo omicidio, riguardante una ventottenne di
Barcellona, uccisa dal marito coetaneo a pochi metri dalla figlia di
due anni. Quando le autorità hanno interpellato i familiari della
coppia, la risposta allunisono è stata che il matrimonio fra i due
sembrava come tutti gli altri. Di fronte agli episodi dellultimo
periodo, e alle 56 donne assassinate da gennaio a oggi (pugnalate,
strangolate e più spesso picchiate a morte), si ripropone il
dibattito sulla Legge organica sulla violenza di genere, misura
demergenza introdotta nel dicembre del 2004 dal premier Zapatero e
completata dalla più recente Legge organica sulla parità effettiva
fra uomini e donne, approvata nel marzo di questanno.
Le leggi organiche. La nuova giurisdizione, che per la prima
volta introduce uno specifico principio di illegalità per le
violenze di genere, ha introdotto prima di tutto un inasprimento
delle sanzioni per gli uomini giudicati colpevoli di lesioni e
maltrattamenti, soggetti ora a un periodo di reclusione che va dai
due ai cinque anni. Rilevante inoltre la punibilità della minaccia,
da sei mesi a un anno di carcere, insieme alla sospensione (minimo
cinque anni) della patria potestà, nei casi più gravi.A sei mesi
dallapprovazione, la Prof.ssa Mercedes Arriaga, presidentessa
dellAssociazione universitaria di studi sulle donne (Audem),
conferma la portata dellimpegno istituzionale e lefficacia del nuovo
corpus di leggi, peraltro accolto da un ampissimo consenso sociale.
I fatti di cronaca - precisa Arriaga - dimostrano che la portata del
fenomeno lascia poco spazio al dibattito. Il numero delle donne
uccise parlano da soli e il problema è talmente complesso e radicato
nel tessuto sociale, che non ci si può aspettare unimmediata e
drastica diminuzione dei crimini. Daltra parte, riteniamo i dati
incoraggianti, poichè riscontriamo nellultimo anno un aumento del 70
per cento delle denunce di violenze allinterno della famiglia. Prima
delle nuove normative, infatti, il fenomeno era assolutamente
sotterraneo (e attualmente resta tale in molti paesi europei) e
spesso avallato proprio dalle donne, incapaci di rompere la gabbia
di omertà delle loro stesse famiglie perché prive di protezione o,
peggio, abituate a ritenere normali gli abusi.
La mobilitazione internazionale. Nel corso di una conferenza
svoltasi a Madrid nello scorso dicembre, Zapatero ha raccolto il
consenso della comunità internazionale, proponendo una comune
campagna di sensibilizzazione al problema e ribadendo il richiamo
alle persone decenti di vincere la violenza machista, creando leggi
più avanzate. La parità fra uomini e donne, dovrà quindi dora in poi
essere effettiva, così come viene precisato nel testo della Legge
Costituzionale del 22 marzo 2007, in cui il richiamo alla denuncia
delle violenze viene affiancato allaffermazione del diritto alla
parità e alla non discriminazione basata sul sesso, principio
cardine dell Unione europea e dei vari testi internazionali sui
diritti umani.
Luca Galassi
Esecuzioni
extragiudiziali
Guatemala, la polizia sequestra e
uccide senza un apparente motivo cinque giovani che giocavano a
calcio in un quartiere malfamato della capitale
I cadaveri di cinque giovani
sequestrati lo scorso fine settimana mentre giocavano a calcio in un
quartiere malfamato sono stati ritrovati ieri in una zona boschiva
nella zona meridionale della capitale guatemalteca.
Sui corpi delle vittime erano ben visibili i segni di uno
strangolamento. Anche per gli inquirenti, infatti, i giovani
sarebbero stati uccisi per soffocamento.
Isabel Mendoza, direttrice della Seguridad Publica della Policia
Nacional Civil ha fatto sapere che le autorità avrebbero ricevuto
una telefonata anonima che segnalava la presenza dei cinque cadaveri
e da qul momento sarebbero iniziate le ricerche.
Un giro veloce delle pattuglie di polizia nella zona citata nella
telefonata e l'ipotesi paventata dalla voce oltre la cornetta si è
trasformata in una macabra realtà.
I due agenti arrestatiLe ipotesi. Inizialmente, secondo la
Mendoza i dubbi erano veramente pochi: i giovani potevano essere
stati uccisi dalle bande criminali che gestiscono il voluminoso giro
d'affari legato allo spaccio della droga in uno dei quartieri più
disagiati della città, El Gatillo. E proprio a El Gatillo vivevano i
ragazzi ritrovati uccisi come conferma la denuncia arrivata al
distretto di polizia del quartiere.
Ma i dubbi hanno da subito alimentato le ipotesi sul reale
accadimento dei fatti, soprattutto se si pesano le parole dei
familiari delle vittime.
Secondo loro, come già hanno raccontato a diverse emittenti
radiofoniche locali, i ragazzi sarebbero stati sequestrati e
caricati con la forza su un'auto di grossa cilindrata che avrebbe
riportato la sigla Gar, Grupo de Accion Rapida, in pratica un
veicolo della polizia guatemalteca. Ci sarebbe stato anche un
tentativo di inseguimento non andato a buon fine per via
dell'intrusione di un'auto dell'esercito che ha in pratica sbarrato
al strada agli inseguitori.
Le novità dell'ultima ora. Un omicidio extragiudiziale
commesso da due agenti della polizia. Sarebbe questa la realtà dei
fatti. Quello che all'inizio sembrava un caso di sequestro e
omicidio nato e cresciuto negli ambienti della malavita via via è
andato delineandosi come un'azione commessa da due agenti di
polizia. Wilson Tobar Valenzuela e Sabino Ramos Ramirez,
rispettivamente ispettore e agente semplice della Pnc sono già stati
posti in stato di fermo (traditi forse dal localizzatore gprs
presente sulla loro auto pattuglia) e le polemiche non sono mancate.
Per nessun motivo al mondo tolleriamo abusi da parte dei membri
della polizia ha detto ai margini della conferenza stampa convocata
dopo gli arresti, il direttore della Pnc, Julio Hernandez Chavez.
Inoltre, Chavez ha voluto sottolineare che dal momento in cui sono
arrivate le prime segnalazioni sulla possibile complicità di agenti
della polizia l'Oficina de Responsabilidad Profesional della Policia
avrebbe iniziato le indagini che avrebbero portato all'arresto dei
due poliziotti.
Alessandro Grandi

4 ottobre
Cessate il fuoco
Questa settimana, in tutti i paesi ancora in guerra, sono morte
almeno 1.079 persone
Iraq
Questa settimana sono morte almeno 546 persone (533 iracheni e 13
militari della Coalizione).
Dallinizio dellanno i morti sono almeno 24.137
Israele e Palestina
Questa settimana sono stati uccisi 6 palestinesi nella Striscia di
Gaza. Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 386
Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 307 persone (di cui 18 civili,
276 talibani o presunti tali, 10 militari afgani e 9 soldati della
Nato).
Dallinizio dellanno i morti sono almeno 5.422 (1.175 civili, 3.506
talibani o presunti tali, 571 militari afgani, 182 soldati della
Nato)
Turchia
Questa settimana sono morte almeno 10 persone.
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 355
India Nord Est
Questa settimana sono morte almeno 14 persone. Dall'inizio dell'anno
i morti sono almeno 775
India Kashmir
Questa settimana sono morte almeno 16 persone. Dall'inizio dell'anno
i morti sono almeno 560
Nepal Maoisti
Questa settimana sono morte almeno 26 persone. Dall'inizio dell'anno
i morti sono almeno 104
Pakistan aree tribali
Questa settimana sono morte almeno 28 persone. Dall'inizio dell'anno
i morti sono almeno 1.979
Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno 74 persone. Dall'inizio dell'anno
i morti sono almeno 2.314
Thailandia del Sud
Questa settimana sono morte almeno 9 persone. Dall'inizio dell'anno
i morti sono almeno 378
Filippine Islamici
Questa settimana sono morte almeno 3 persone. Dall'inizio dell'anno
i morti sono 335
Filippine Npa
Questa settimana sono morte almeno 3 persone. Dall'inizio dell'anno
i morti sono almeno 122
Cecenia e Inguscezia
Questa settimana sono morte almeno 6 persone. Dall'inizio dell'anno
i morti sono almeno 633
Sudan
Questa settimana sono morte almeno 11 persone. Dall'inizio dell'anno
i morti sono almeno 512
Somalia
Questa settimana sono morte almeno 7 persone. Dall'inizio dell'anno
i morti sono almeno 1.837
Rep. Dem. Congo
Questa settimana sono morte almeno 6 persone. Dall'inizio dell'anno
i morti sono almeno 625
Colombia
Questa settimana sono morti 7 guerriglieri dell'Esercito di
Liberazione Nazionale. Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 390
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