
27
settembre
Antipolitica, per chi suona la campana
EZIO MAURO
C'è qualcosa di impopolare e tuttavia
necessario da dire ancora sull'assalto dell'antipolitica al
cielo italiano di questo sgangherato 2007. Niente di ciò che sta
avvenendo sarebbe possibile se sotto la crosta sottile di questa
crisi dei partiti che diventa crisi di rappresentanza, si
allarga alle istituzioni, corrode il discorso pubblico, non ci
fosse un'altra crisi ben più profonda che continuiamo a ignorare
perché non la vogliamo vedere. E' la decadenza del Paese,
l'indebolimento della coscienza di sé e della percezione
esteriore, la perdita di peso specifico e di identità culturale.
Ciò che dà forma contemporanea ad un'idea dell'Italia, la
custodisce aggiornandola nel passaggio delle generazioni, la
testimonia nel mondo, garantendo una sostanza identitaria agli
alti e bassi della politica, ai cicli dell'economia,
all'autonoma rappresentazione del Paese che la cultura fa nel
cinema, nella letteratura, nel teatro, nella musica, nei media o
in televisione.
Se questa idea che il Paese ha di se stesso, e che il mondo ha
di noi, non si fosse fiaccata fino a confondersi e smarrirsi, il
sussulto di ribellione ai costi crescenti della politica, alla
lottizzazione di ogni spazio pubblico con l'umiliazione del
merito, all'esibizione pubblica dei privilegi avrebbe preso la
strada di una spinta forzata al cambiamento e alla riforma. Non
di un disincanto che si trasforma in disaffezione democratica
mentre la protesta diventa una sorta di secessione dalla vita
pubblica: un passaggio in una dimensione parallela - ecco il
punto - dove l'idea stessa di cambiamento cede alla ribellione,
e alla cattiva politica si risponde cancellando la politica e
abrogando i partiti. Come se cambiare l'Italia fosse
impossibile. O, peggio, inutile.
Un Paese che dedica quattro serate tv a miss Italia, riunisce
una trentina di persone in un vertice di maggioranza attorno a
Prodi, inventa un cartoon politico come la Brambilla per
esorcizzare il problema politico della successione a Berlusconi,
vede restare tranquillamente al suo posto il presidente di
Mediobanca rinviato a giudizio con altri 34 per il crac Cirio,
forma due partiti anche per discutere l'eredità Pavarotti e dà
ogni sera al Papa uno spazio sicuro nel suo maggior
telegiornale, ha la proiezione internazionale che questo triste
perimetro autunnale disegna. Un'Italia in forte perdita di
velocità, dove l'unico leader capace di innovazione è un manager
straniero come Sergio Marchionne mentre il ceto politico è
l'elemento più statico, immobile, in un sistema che perde peso e
ruolo in Europa e nel mondo. Perché la moda, il Chianti e le
Langhe non possono da soli sostenere e rinnovare la tradizione e
l'ambizione di un Paese che non può essere soltanto l'atelier
dell'Occidente, o la sua casa di riposo.
Ma se tutto questo è vero, e purtroppo lo è, l'antipolitica è
soltanto una spia - e parziale - dell'indebolimento di un
sentimento pubblico e di uno spirito nazionale, qualcosa che va
molto al di là delle dimensione strettamente politica e
istituzionale. È quel che potremmo chiamare il senso di una
perdita progressiva di cittadinanza in un Paese che perde
intanto ogni piattaforma identitaria comune, ogni appartenenza
sicura, qualsiasi cultura di riferimento. Come può questo Paese
non perdere sicurezza, coscienza, peso, capacità di
rappresentare se stesso e di valorizzarsi, innovando e
modernizzando?
Il "V-day", a mio giudizio, è una prova di questo impoverimento.
Solitudini politiche sparse, delusioni individuali, secessioni
personali si riuniscono in uno show, come se cercassero
"soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche". È quella
che Zygmunt Bauman chiama la comunità del talk-show, con gli
idoli che sostituiscono i leader, mentre il potere dei numeri -
la folla - consegna loro il carisma, capace a sua volta di
trasformare gli spettatori in seguaci. Attorno, la celebrità
sostituisce la fama, la notorietà vale più della stima, l'evento
prende il posto della politica e trasforma i cittadini da attori
a spettatori: pubblico.
Ma come si fa a non vedere che in questa atrofia del discorso
politico, che cortocircuita se stesso trasformando il
"vaffanculo" nella massima espressione di impegno civile
dell'Italia 2007, c'è la decadenza di ogni autorità, il venir
meno di ciò che si chiamava "l'onore sociale" dei servitori
dello Stato, il logoramento vasto del potere nel suo senso più
generale: il potere in forza della legalità, in forza "della
disposizione all'obbedienza", nell'adempimento di doveri
conformi a una regola.
Se è questo che è saltato, il vuoto allora riguarda tutti, non
soltanto la classe politica. È l'establishment del Paese nel suo
insieme che invece di sentirsi assolto dal pubblico processo al
capro espiatorio politico, deve rendere conto di questo deficit
complessivo di rappresentanza, di questo impoverimento del
sistema-Italia, di questa secessione strisciante, dello
smarrimento non solo del senso dello Stato ma anche di uno
spirito repubblicano comune e condiviso. Troppo comodo
partecipare al valzer dell'antipolitica dagli spalti di un
capitalismo asfittico nelle sue scatole cinesi, di una finanza
che cerca il comando senza il rischio, di un'industria che dello
Stato conosce solo gli aiuti e mai le prerogative.
Quando la crisi è di sistema e
l'indebolimento del Paese è l'unico risultato visibile ad occhio
nudo, davanti alla secessione strisciante di troppi cittadini
dalla cosa pubblica bisognerebbe che l'establishment italiano
evitasse di contare in anticipo le monetine da lanciare contro
la politica, aspettando la supplenza e sognando l'eredità.
Meglio chiedersi, finché c'è tempo, per chi suona la campana.
Crawford, Texas: a un mese dal
conflitto Bush
e Aznar si vedono per decidere la strategia
Iraq, come si
prepara una guerra
I verbali segreti dell'attacco
Ecco le
carte segrete che raccontano tutto ciò
che si dissero in quel giorno decisivo
Il 22 febbraio 2003, quattro settimane
prima dell'invasione dell'Iraq, il presidente George Bush
incontra nel suo ranch di Crawford, in Texas, l'allora premier
spagnolo José Maria Aznar e lo informa che è giunto il momento
di attaccare l'Iraq. Ecco il testo integrale della loro
conversazione pubblicato su El País.
Bush: "Siamo favorevoli a ottenere una seconda
risoluzione del Consiglio di sicurezza, e vorremmo farlo in
fretta. Vorremmo annunciarla lunedì o martedì (24 o 25 febbraio
del 2003, n. d. r.)".
Aznar: "Meglio martedì, dopo la riunione del Consiglio
affari generali dell'Unione Europea. È importante mantenere il
momentum [lo slancio] che abbiamo ottenuto per la risoluzione
dal vertice dell'Unione Europea (a Bruxelles, lunedì 17
febbraio, n. d. r.)".
Bush: "Potrebbe essere lunedì sera. Comunque, la prossima
settimana. Consideriamo la risoluzione scritta in modo che non
contenga elementi vincolanti, che non menzioni l'uso della forza
e che constati che Saddam Hussein non è stato in grado di
rispettare i suoi obblighi. Una risoluzione di questo tipo la
possono votare in molti".
Aznar:"Sarebbe presentata di fronte al Consiglio di
sicurezza prima e indipendentemente da una dichiarazione
parallela?"
Rice: "In effetti, non ci sarebbero dichiarazioni
parallele. Stiamo pensando a una risoluzione il più semplice
possibile, senza tanti dettagli di adempimento, che potrebbero
servire a Saddam Hussein per utilizzarli come tappe e poi non
rispettarle. Stiamo parlando con Blix (il capo degli ispettori
dell'Onu, n. d. r.) e altri del suo team per ottenere delle idee
utili per introdurre la risoluzione".
SBARAZZARSI DI LUI
Bush: "Saddam Hussein non cambierà, continuerà a giocare.
È arrivato il momento di sbarazzarsi di lui. È così. Da parte
mia, cercherò di usare una retorica il più sottile possibile,
fintanto che cerchiamo di far approvare la risoluzione. Se
qualcuno metterà il veto (Russia, Cina e Francia, con Stati
Uniti e Regno Unito, hanno il diritto di veto al Consiglio di
sicurezza, n. d. r.), noi andremo avanti. Saddam Hussein non si
sta disarmando. Dobbiamo beccarlo adesso. Finora abbiamo
mostrato una pazienza incredibile. Restano due settimane. In due
settimane saremo pronti, dal punto di vista militare. Credo che
ce la faremo con la seconda risoluzione. In Consiglio di
sicurezza abbiamo i tre africani (Camerun, Angola e Guinea, n.
d. r.), i cileni, i messicani. Parlerò con loro, e anche con
Putin, naturalmente. Saremo a Bagdad a fine marzo. Ci sono un 15
per cento di possibilità che per quella data Saddam Hussein sia
morto o fuggito. Ma queste possibilità non esistono finché non
avremo mostrato la nostra risoluzione. Gli egiziani stanno
parlando con Saddam Hussein. Sembra che abbia fatto sapere che è
disposto ad andare in esilio se gli permetteranno di portare con
sé un miliardo di dollari e tutte le informazioni che desidera
sulle armi di distruzione di massa. Gheddafi ha detto a
Berlusconi che Saddam se ne vuole andare. Mubarak ci dice che in
queste circostanze ci sono forti probabilità che venga
assassinato.
"Ci piacerebbe agire su mandato delle Nazioni Unite. Se agiremo
militarmente lo faremo con grande precisione, e focalizzando i
nostri obbiettivi. Decimeremo le truppe fedeli a Saddam, e
l'esercito regolare capirà in fretta che sta succedendo. Abbiamo
fatto arrivare un messaggio chiaro ai generali di Saddam Hussein:
li tratteremo come criminali di guerra. Sappiamo che hanno
accumulato enormi quantità di dinamite per far esplodere le
infrastrutture e i pozzi petroliferi. Abbiamo previsto di
occupare questi pozzi rapidamente. Anche i sauditi ci
aiuterebbero, mettendo sul mercato il petrolio che sarà
necessario. Stiamo elaborando un ingente pacchetto di aiuti
umanitari. Possiamo vincere senza distruzioni. Stiamo
progettando già l'Iraq del dopo Saddam, e credo che ci siano
buone basi per un futuro migliore. L'Iraq dispone di una buona
struttura burocratica e di una società civile relativamente
forte. Potrebbe organizzarsi in una federazione. Nel frattempo,
stiamo facendo tutto il possibile per soddisfare le esigenze
politiche dei nostri amici e alleati".
Aznar: "È importante poter contare su una risoluzione.
Agire senza una risoluzione non è la stessa cosa. Il contenuto
della risoluzione dovrebbe constatare che Saddam ha perso la sua
occasione".
Bush: "Sì, naturalmente. Sarebbe meglio così che fare
riferimento ai "mezzi necessari"(si riferisce alla risoluzione
tipo dell'Onu che autorizza a usare "tutti i mezzi necessari",
n. d. r.)".
Aznar: "Saddam Hussein non ha cooperato, non si è
disarmato, dovremmo fare un riassunto delle sue inadempienze e
lanciare un messaggio più elaborato".
Bush: "La risoluzione sarà fatta in modo da poterti dare
una mano. Del contenuto, a me importa poco".
Aznar: "Ti faremo arrivare alcuni testi".
Bush: "Noi abbiamo solo un criterio: che Saddam Hussein
si disarmi. Non possiamo permettere che la tiri fino all'estate.
In fin dei conti, ha già avuto quattro mesi".
IL MOMENTO DI AGIRE
Aznar: "Mercoledì prossimo (16 febbraio, n. d. r.) vedrò
Chirac. La risoluzione avrà già cominciato a circolare".
Bush: "Mi sembra ottimo. Chirac conosce perfettamente la
realtà. I servizi segreti gliel'hanno spiegata. Gli arabi stanno
trasmettendo a Chirac un messaggio chiarissimo: Saddam Hussein
se ne deve andare. Il problema è che Chirac crede di essere
"Mister Arab", e in realtà sta rendendo loro la vita
impossibile. Ma io non voglio avere nessuna rivalità con Chirac.
Abbiamo punti di vista differenti, ma vorrei che ci si limitasse
a questo. Porgigli i miei più cari saluti. Sinceramente! Meno
rivalità sentirà tra noi e meglio sarà per tutti".
Aznar: "Come si combinerà la risoluzione con il rapporto
degli ispettori?"
Rice: "Non ci sarà nessun rapporto il 28 febbraio, ma gli
ispettori presenteranno un rapporto scritto il primo marzo, e
comparirà di fronte al Consiglio di sicurezza non prima del 6 o
7 marzo 2003. Non ci aspettiamo grandi cose da questo rapporto.
Ho l'impressione che Blix sarà più critico di prima rispetto
alla buona volontà degli iracheni. Una settimana dopo che gli
ispettori saranno comparsi davanti al Consiglio, dovremo
prevedere il voto sulla risoluzione. Nel frattempo gli iracheni
cercheranno di spiegare che stanno adempiendo ai loro obblighi.
Il che non è vero e non sarà sufficiente, anche se annunceranno
la distruzione di qualche missile".
Bush: "È come la tortura della goccia cinese. Dobbiamo
mettere fine a questa storia".
Aznar: "Sono d'accordo, però sarebbe meglio contare su
più gente possibile. Abbi un po' di pazienza".
Bush: "La mia pazienza è esaurita. Penso di non andare
più in là di metà marzo".
Aznar: "Non ti chiedo di avere una pazienza infinita. Ti
chiedo semplicemente di fare il possibile perché tutto quadri".
Bush: "Paesi come Messico, Cile, Angola e Camerun devono
sapere che c'è in gioco la sicurezza degli Stati Uniti e agire
con un sentimento di amicizia nei nostri confronti. Il
presidente Lagos deve sapere che l'Accordo di libero scambio con
il Cile è in attesa di conferma da parte del Senato, e che un
atteggiamento negativo potrebbe metterne in pericolo la
ratifica. L'Angola sta ricevendo fondi del Millennium Account, e
anche questi potrebbero essere compromessi se non si mostreranno
positivi. E Putin deve sapere che col suo atteggiamento sta
mettendo in pericolo le relazioni tra Russia e Stati Uniti".
Aznar: "Tony vorrebbe arrivare fino al 14 marzo".
Bush: "Io preferisco il 10. È come il gioco del
poliziotto cattivo e del poliziotto buono. Non mi importa di
essere il poliziotto cattivo e che Blair sia quello buono".
UN CRIMINALE DI GUERRA
Aznar: "È vero che esistono possibilità che Saddam
Hussein vada in esilio?"
Bush: "Sì, esiste questa possibilità. C'è anche la
possibilità che venga assassinato".
Aznar: "Esilio con qualche garanzia?"
Bush: "Nessuna garanzia. È un ladro, un terrorista, un
criminale di guerra. A confronto di Saddam, Milosevic sarebbe
una Madre Teresa. Quando entreremo, scopriremo molti altri
crimini e lo porteremo di fronte alla Corte internazionale di
giustizia dell'Aja. Saddam Hussein crede già di averla scampata.
Crede che Francia e Germania abbiano fermato il processo alle
sue responsabilità. Crede anche che le manifestazioni della
settimana scorsa (sabato 15 febbraio, n. d. r) lo proteggano. E
crede che io sia molto indebolito. Ma la gente che gli sta
intorno sa che le cose stanno in un altro modo. Sanno che il suo
futuro è in esilio o in una cassa da morto. Per questo è
importantissimo mantenere la pressione su di lui. Gheddafi ci
dice indirettamente che questo è l'unico modo per farla finita
con lui. L'unica strategia di Saddam Hussein è ritardare,
ritardare, ritardare".
Aznar: "In realtà, il successo maggiore sarebbe vincere
la partita senza sparare un solo colpo ed entrando a Bagdad".
Bush: "Per me sarebbe la soluzione perfetta. Io non
voglio la guerra. Lo so che cosa sono le guerre. Conosco la
distruzione e la morte che si portano dietro. Io sono quello che
deve consolare le madri e le vedove dei morti. È naturale che
per noi questa sarebbe la soluzione migliore. Inoltre, ci
farebbe risparmiare 50 miliardi di dollari".
Aznar: "Abbiamo bisogno che ci diate una mano con la
nostra opinione pubblica".
Bush: "Faremo tutto quello che possiamo. Mercoledì
prossimo parlerò della situazione in Medio Oriente, proponendo
un nuovo piano di pace, che conosci, e parlerò delle armi di
distruzione di massa, dei benefici di una società libera e
collocherò la storia dell'Iraq in un contesto più ampio. Forse
vi servirà".
Aznar: "Stiamo attuando un cambiamento profondo per la
Spagna e per gli spagnoli. Stiamo cambiando la politica che il
Paese ha seguito negli ultimi 200 anni".
IL GIUDIZIO DELLA STORIA
Bush: "Io sono guidato da un senso di responsabilità
storico, come te. Quando tra alcuni anni la Storia ci giudicherà
non voglio che la gente si domandi perché Bush, o Aznar, o Blair
non fecero fronte alle proprie responsabilità. In definitiva,
quello che la gente vuole è godere di libertà.... Ho preso io la
decisione di andare in Consiglio di sicurezza. Nonostante le
divergenze nella mia amministrazione, ho detto ai miei che
dovevamo lavorare insieme ai nostri amici. Sarebbe fantastico
contare su una seconda risoluzione".
Aznar: "L'unica cosa che mi preoccupa di te è il tuo
ottimismo".
Bush: "Sono ottimista perché credo di essere nel giusto.
Sono in pace con me stesso. Ci è toccato affrontare una grave
minaccia contro la pace. Mi irrita tantissimo vedere
l'insensibilità degli europei riguardo alle sofferenze che
Saddam Hussein infligge agli iracheni. Forse perché è scuro,
lontano e musulmano, molti europei pensano che tutto vada bene
con lui. Non mi dimenticherò quello che mi disse una volta
Solana: perché noi americani pensiamo che gli europei siano
antisemiti e incapaci di far fronte alle loro responsabilità?
Questo atteggiamento difensivo è terribile. Devo riconoscere che
con Kofi Annan ho degli ottimi rapporti".
Aznar: "Condivide le tue preoccupazioni etiche".
Bush: "Tanto più mi attaccano gli europei, tanto più sono
forte qui negli Stati Uniti".
Aznar: "Dovremmo rendere compatibile questa tua forza con
l'apprezzamento degli europei".
18
settembre
Manifestazione con Bertinotti a Casal di Principe
Saviano
contestato: «La camorra non esiste»
E tra il
pubblico il padre del boss
CASAL DI PRINCIPE (Caserta) — Sembra tutto come un anno fa, a Casal di
Principe. Un anno fa c'era Bertinotti, c'era Roberto
Saviano, e c'era una piazza piena di bambini e ragazzi,
gli studenti di Casale e quelli dei paesi vicini e i
loro professori e i genitori. Per inaugurare l'anno
scolastico si parlava di camorra. Anche oggi s'inaugura
l'anno scolastico, e anche oggi ci sono Bertinotti e
Saviano, e ci sono gli studenti, anche quelli venuti da
Locri, i primi a manifestare e a sfidare la 'ndrangheta
(«Adesso uccideteci tutti», recitava uno striscione)
dopo l'omicidio del vicepresidente del consiglio
regionale calabrese, Francesco Fortugno.
E
anche oggi si parla di camorra. Sembra tutto
uguale, ma soprattutto il peggio è rimasto uguale.
Roberto Saviano, per esempio in qualcosa è stato
costretto a cambiare. Un anno fa arrivò in piazza da
solo, e da solo se ne andò. Ma quando spiegò ai giovani
del suo paese che cos'è la camorra, dal palco si rivolse
direttamente ai camorristi: «Non valete niente. Ve ne
dovete andare da qui». Oggi Saviano arriva con l'auto
blindata e la scorta, i poliziotti non lo perdono
d'occhio nemmeno per un attimo, ci sono pure gli agenti
con i fucili di precisione appostati sui terrazzi per
proteggerlo, e per proteggere Bertinotti, ovviamente.
Quelle parole all'autore di Gomorra (diventato un best
seller pure in Olanda e in Germania, oltre che in
Italia) i clan di Casal di Principe — clan più mafiosi
che camorristici — non gliele hanno mai perdonate. Per
quelle parole rischia la vita, Saviano.
Oggi non possono fargli niente, certo, ma come un
anno fa anche i camorristi, o gli amici dei camorristi o
i parenti dei camorristi, sono in questa piazza. Allora
c'erano per ascoltare, per capire, ora sono qui per
insultare, calunniare. A loro modo contestano, anche se
non alzano la voce. Sono piccoli gruppi sparsi nella
piazza. Dicono: «Qui stiamo bene, e Saviano scrive tutte
fesserie. Vuole solo farsi pubblicità per andare a fare
il deputato ». Oppure: «La camorra non esiste, la
camorra sono i giornalisti e le loro infamità ». Nicola
Schiavone, il padre del boss Francesco, soprannominato
Sandokan, vorrebbe addirittura salire sul palco per dire
la sua. Lo fermano, e allora lui approfitta del
microfono dell'inviato delle Iene: «Saviano è solo un
pagliaccio qui la camorra l'inventa lui».
Ecco che cosa è davvero uguale a un anno fa, a
Casal di Principe: l'arroganza e il potere della
camorra. Con arroganza i clan mandano i loro messaggi
approfittando di microfoni e telecamere; con un potere
ancora intatto i boss governano i grandi affari
continuando a sfuggire alle ricerche di polizia e
carabinieri. L'assessore regionale all'Istruzione
Corrado Gabriele, l'uomo che ha organizzato questa
manifestazione come quella di un anno fa, nei giorni
scorsi aveva provocatoriamente invitato a Casale Michele
Zagaria e Antonio Iovine, i capiclan latitanti, e alla
manifestazione ha voluto lasciare due sedie vuote in
prima fila con i loro nomi scritti sopra: «Vorremmo
vederli seduti qui con un bel paio di manette, perché
sono loro i principali responsabili di un Mezzogiorno
che non funziona», dice Gabriele prima di lasciare la
parola a Bertinotti e Saviano.
Il presidente della Camera parla della necessità
di «un rinnovato patto tra istituzioni democratiche e
cittadini », per poter sconfiggere camorra, mafia e
'ndrangheta. Saviano supera lo sconforto che pure gli è
venuto di fronte alle parole che ha sentito e parla ai
ragazzi di ciò che ai ragazzi più sta a cuore: il
futuro. «Anche i giovani di Casal di Principe hanno
diritto alla felicità ed in queste terre ciò significa
poter lavorare senza la pressione continua del
precariato, che nasce anche per volontà dei clan
camorristi», dice. E chiude con un appello: «Il silenzio
che troppo spesso c'è stato in questa terra ha lasciato
sole moltissime persone. Ora occorre che questo silenzio
venga riscattato».
13
settembre
Welfare,
Giordano: "Governo ci ascolti"
Epifani al Prc: "Basta ingerenze"
E contro le proposte dell'esecutivo le varie sigle
dell'ultrasinistra propongono lo sciopero generale
Il
segretario generale della Fiom Gianni Rinaldini
ROMA - Mentre arriva dai direttivi unitari di Cgil Cisl e
Uil il via libera all'accordo del 23 luglio 2007 sul welfare,
che apre la consultazione tra i lavoratori e i pensionati che
dovranno dare il via libera definitivo all'intesa, non si
placano le polemiche sul "no" espresso dalla Fiom. Con Guglielmo
Epifani che chiede ai partiti di fare "un passo indietro",
lasciando autonomia alle organizzazioni sindacali. Il
riferimento, ovviamente, è al Prc. Che, a sua volta, esorta il
governo a tenere conto della bocciatura del pacchetto, da parte
di una fetta di lavoratori.
Fiom: "No a crisi di governo". Il segretario generale
della Fiom Gianni Rinaldini torna sulla questione, assicurando
che il
no all'accordo non ha l'obiettivo di provocare una
crisi di governo. "Siamo contrari alla crisi di governo", dice
Rinaldini, intervenendo a Rainews24. "Non c'è nessuna crisi
nella Cgil", aggiunge inoltre Rinaldini. Il segretario dei
metalmeccanici della Cgil spiega inoltre che l'ultima parola
spetta ai lavoratori e che "non ci sarà nessun invito" a votare
contro l'accordo nell'ambito delle consultazioni.
Prc: "Accordo da cambiare". Il capogruppo alla Camera di
Rifondazione comunista, Gennaro Migliore, rilancia l'intento di
modificare in Parlamento il protocollo sul Welfare varato dal
governo: "Ribadiamo il nostro giudizio e il nostro impegno
nell'iter parlamentare a modificare questo accordo", dichiara.
Mentre il segretario Franco Giordano afferma che "La Fiom, il
più grande sindacato di categoria in Italia, esprime la
sofferenza e il malessere di tanti operai. La politica, che è in
crisi di credibilità, dovrebbe avere l'umiltà di ascoltarli e il
governo non può volgere lo sguardo dall'altra parte, deve
interpretare e risolvere i problemi sollevati".
Epifani, stop ai partiti. "Le forze politiche devono fare
un passo indietro quando al parola spetta ai lavoratori",
stigmatizza però il leader della Cgil, Guglielmo Epifani,
commentando la posizione di Rifondazione Comunista. Come a dire:
nessuna interferisca con le decisioni del sindacato.
Gli altri sindacati. Con la decisione di ieri la Fiom "si
prende una grave responsabilità e ne risponderà di fronte ai
lavoratori, perché il movimento sindacale è altra cosa rispetto
ai radicalismi e alla indisponibilità a qualsiasi sintesi che
invece va ricercata con molta pazienza", accusa il segretario
della Cisl Raffaele Bonanni. Dal segretario della Uil Luigi
Angeletti arriva un appello per la ratifica dell'accordo: "Non
possiamo permetterci il lusso di essere usati dalla politica.
Noi dobbiamo chiedere ai lavoratori un giudizio sul merito di
ciò che abbiamo negoziato. Questo accordo deve essere
approvato".
"Sciopero generale". Una giornata di
protesta nazionale contro l'accordo sul welfare, con
manifestazioni in tutta Italia tra la fine di ottobre e
novembre, promosso dai sindacati di base, dalle forze della
sinistra di opposizione e da ampie aree del movimento no global
a partire da quelle del nord-est di Luca Casarini. E' questa la
proposta uscita dall'assemblea nazionale a Roma delle varie
forze dell'ultrasinistra. Il primo passo sarà un'assemblea
nazionale. Tra le sigle promotrici Cobas, Rdb-Cub, Sdl, Sinistra
critica, Partito comunista dei lavoratori, Action.
Il
volume presentato a Roma. Il nostro Paese cresce di un grado,
contro lo 0,74 globale.
Più ondate di calore e meno piogge, anche se quelle torrenziali
sono in controtendenza
"L'Italia si scalda più del resto del mondo".
Studio del Cnr su clima e ambiente
ROMA - Il riscaldamento della
superficie terrestre è un problema globale. Però in Italia
l'allarme è ancor più rosso, se si pensa che negli ultimi cento
anni la temperatura nel nostro Paese è cresciuta di un grado,
contro lo 0,74 della media mondiale. A rivelare questo dato è
uno studio del Cnr, il centro nazionale delle richerche,
contenuto nel volume presentato questa mattina a Roma nella sede
dell'istituto.
Con il suo studio, il Cnr anticipa la conferenza nazionale sul
clima, il prossimo 12-13 settembre a Roma. E' un contributo che
mette insieme le principali ricerche su clima e ambiente, 205
articoli realizzati da circa 500 studiosi. "Il volume", spiega
il direttore del Dta del Cnr, Giuseppe Cavarretta, "fornisce una
rassegna dei risultati ottenuti, sia sulle problematiche
generali ancora aperte, sia sugli effetti locali dei cambiamenti
climatici". Le ricerche sul clima negli ultimi decenni hanno
avuto una crescita esponenziale a livello internazionale, e
l'Italia vuole fare la sua parte.
E' Michele Colacino, del dipartimento Terra e Ambiente, a
spiegare le possibili cause del maggior riscaldamento italiano.
La prima riguarda "l'aumento della temperatura superficiale del
Mar Mediterraneo, che diminuisce il suo effetto di
raffreddamento invernale della temperatura". La seconda è più
contingente: "Molte stazioni per il rilevamento della
temperatura sono ubicate all'interno delle città, per cui i dati
potrebbero risentire delle isole di calore e dell'aumento delle
dimensioni delle città".
Le ondate di calore aumentano, le piogge diminuiscono. Il numero
dei giorni caldi registrati nei mesi estivi, da giugno a
settembre, è passato dal 10% del decennio 1960-70 al 60% del
decennio 1990-2000. Le precipitazioni, al contrario, negli
ultimi 50-60 anni, si sono fortemente ridotte: nell'Italia
meridionale piove il 12-13% in meno, in quella settentrionale la
diminuzione è compresa tra 8 e 9%.
Un altro trend è molto interessante: le precipitazioni leggere o
moderate (inferiori a 20 millimetri al giorno) calano, le piogge
intense o torrenziali (maggiori di 70mm/g) crescono in maniera
intensa. Dati che comportano per l'Italia una doppia
penalizzazione: diminuisce l'acqua come risorsa e aumentano gli
eventi estremi, quelli che provocano alluvioni, esondazioni,
frane, smottamenti e altri dissesti idrogeologici.
Il Cnr analizza poi singoli casi: l'aumento delle alluvioni nel
bacino dell'Arno, il raffronto tra Roma e Firenze per le
emissioni-serra, le piogge in Calabria, la grandine in Toscana.
E le conseguenze sulla fauna: il rischio estinzione per lo
stambecco nel Parco Nazionale del Gran Paradiso e la
fluttuazione delle sardine in relazione ai cambiamenti
climatici.
Anche le acque profonde del Lago Maggiore si stanno riscaldando,
mentre Pianosa, nell'arcipelago toscano, può essere considerata
un pozzo per la Co2, perché l'assorbimento supera le emissioni.
L'isola è un laboratorio talmente interessante da aver spinto il
Cnr a creare un Pianosa Lab.
Per dare rispondere adeguate alla sfida del riscaldamento
globale il ruolo della ricerca scientifica è essenziale. Ecco
perché dal professor Franco Prodi, direttore dell'istituto
Ibimet Cnr di Bologna, parte un invito alle giovani generazioni:
"Il ruolo della ricerca non è mai sufficiente. Dobbiamo
convincere i giovani che è questa del clima la sfida del secolo,
che la scienza è ancora bella e utile". Altro che finanza
creativa, è nella ricerca il futuro del Paese.
11
settembre

Il testamento di
Salvador Allende
|
L'ultimo discorso del presidente cileno da Radio Magallanes.
"La storia è nostra e la fanno
i popoli"; perché è troppo vero, è troppo bello, è troppo giusto
ed opportuno.
"Pagherò con la mia vita la difesa dei principi che sono cari a
questa patria. Cadrà la vergogna su coloro che hanno disatteso i
propri impegni, venendo meno alla propria parola, rotto la
disciplina delle Forze Armate. Il popolo deve stare all’erta,
vigilare, non deve lasciarsi provocare, né massacrare, ma deve
anche difendere le sue conquiste. Deve difendere il diritto a
costruire con il proprio lavoro una vita degna e migliore.
Una parola per quelli che, autoproclamandosi democratici, hanno
istigato questa rivolta, per quelli che, definendosi
rappresentanti del popolo, hanno tramato in modo stolto e losco
per rendere possibile questo passo che spinge il Cile nel
baratro.
In nome dei più sacri interessi del popolo, in nome della patria
vi chiamo per dirvi di avere fede.
La storia non si ferma né con la repressione né con il crimine;
questa è una tappa che sarà superata, è un momento duro e
difficile. E’ possibile che ci schiaccino, ma il domani sarà del
popolo, sarà dei lavoratori. L’umanità avanza per la conquista
di una vita migliore.
Compatrioti: è possibile che facciano tacere la radio, e mi
accomiato da voi. In questo momento stanno passando gli aerei.
E’ possibile che sparino su di noi. Ma sappiate che siamo qui,
per lo meno con questo esempio, per mostrare che in questo paese
ci sono uomini che compiono la loro funzione fino in fondo. Io
lo farò per mandato del popolo e con la volontà cosciente di un
presidente consapevole della dignità dell’incarico. Forse questa
sarà l’ultima opportunità che avrò per rivolgermi a voi.
Le Forze Aeree hanno bombardato le antenne di radio Portales e
di radio Corporacion. Le mie parole non sono amare ma deluse;
esse saranno il castigo morale per quelli che hanno tradito il
giuramento che fecero.
Soldati del Cile, comandanti in capo e associati -
all’ammiraglio Merino - il generale Mendoza, generale meschino
che solo ieri aveva dichiarato la sua solidarietà e lealtà al
governo, si è nominato comandante generale dei Carabineros.
Di fronte a questi eventi posso solo dire ai lavoratori: io non
rinuncerò. Collocato in un passaggio storico pagherò con la mia
vita la lealtà del popolo.
E vi dico che ho la certezza che il seme che consegnammo alla
coscienza degna di migliaia e migliaia di cileni non potrà
essere distrutto definitivamente.
Hanno la forza, potranno asservirci, ma non si arrestano i
processi sociali, né con il crimine, né con la forza.
La storia è nostra e la fanno i popoli.
Lavoratori della mia patria, voglio ringraziarvi per la lealtà
che sempre avete avuto, la fiducia che avete riposto in un uomo
che é stato soltanto interprete di grande desiderio di
giustizia, che giurò che avrebbe rispettato la costituzione e la
legge, così come in realtà ha fatto. In questo momento finale,
l’ultimo nel quale io possa rivolgermi a voi, spero che sia
chiara la lezione. Il capitale straniero, l’imperialismo,
insieme alla reazione ha creato il clima perché le Forze Armate
rompessero la loro tradizione: quella che mostrò Schneider e che
avrebbe riaffermato il comandante Araya, vittima di quel settore
che oggi starà nelle proprie case sperando di poter conquistare
il potere con mano straniera a difendere le proprietà e i
privilegi.
Mi rivolgo, soprattutto, alla semplice donna della nostra terra:
alla contadina che ha creduto in noi; all’operaia che ha
lavorato di più, alla madre che ha sempre curato i propri figli.
Mi rivolgo ai professionisti della patria, ai professionisti
patrioti, a coloro che da giorni stanno lavorando contro la
rivolta auspicata dagli ordini professionali, ordini di classe
che solo vogliono difendere i vantaggi di una società
capitalista.
Mi rivolgo alla gioventù, a quelli che hanno cantato la loro
allegria e il loro spirito di lotta.
Mi rivolgo all’uomo del Cile, all’operaio, al contadino,
all’intellettuale, a quelli che saranno perseguitati, perché nel
nostro paese il fascismo è già presente da tempo negli attentati
terroristici, facendo saltare ponti, interrompendo le vie
ferroviarie, distruggendo oleodotti e gasdotti. Di fronte al
silenzio di quelli che avevano l’obbligo di intervenire, la
storia li giudicherà. Sicuramente radio Magallanes sarà fatta
tacere e il suono tranquillo della mia voce non vi giungerà.
Non importa, continuerete ad ascoltarmi. Sarò sempre vicino a
voi, per lo meno il ricordo che avrete di me sarà quello di un
uomo degno che fu leale con la patria.
Il popolo deve difendersi ma non sacrificarsi. Il popolo non
deve lasciarsi sterminare e non deve farsi umiliare.
Lavoratori della mia patria: ho fiducia nel Cile e nel suo
destino. Altri uomini supereranno il momento grigio ed amaro in
cui il tradimento vuole imporsi.
Andate avanti sapendo che, molto presto, si apriranno grandi
viali attraverso cui passerà l’uomo libero, per costruire una
società migliore. Viva il Cile, viva il popolo, viva i
lavoratori!
Queste sono le mie ultime parole, ho la certezza che il
sacrificio non sarà vano.
Ho la certezza che, per lo meno, ci sarà una punizione morale
che castigherà la vigliaccheria, la codardia e il tradimento. |
I segreti della Shoah
Entro il 2009 il più grande archivio
sull'Olocausto si aprirà agli storici. Ma l'Italia non ha ancora ratificato
il protocollo.
Scritto da
L'archivio segreto di Bad Arolsen
renderà disponibili le schede sulla Shoah che custodisce dal 1955: 47
milioni di file, di cui un terzo è già stato digitalizzato e inviato in
doppia copia al Museo dell'Olocausto di Washington e allo Yed Vashem di
Gerusalemme.
Bad
Arolsen. Situata al centro di quelle che erano le quattro zone di
occupazione e con le infrastrutture in buono stato, questa città tedesca
è stata scelta per raccogliere tutti i documenti rinvenuti nei campi di
concentramento dopo l'arrivo degli Alleati. Nei 26 kilometri di archivio
ci sono i registri trovati negli ospedali, negli alloggi della Gestapo e
negli armadi delle SS: tutte le informazioni che qualcuno ha riportato
su carta. Bad Arolsen contiene i registri di morte, l'elenco degli
informatori e degli arresti, le motivazioni per cui una persona si
trovava nel campo e anche la lista di chi aveva deciso di collaborare
per sopravvivere. Una sezione è dedicata alle cartelle cliniche degli
internati, di cui si possono sapere le malattie e le malformazioni,
oltre a particolari degli esperimenti medici che venivano condotti nei
campi. Le SS annotavano tutto, e si può risalire anche alla vita
sessuale di molte vittime: chi faceva la prostituta, chi era accusato di
reati come l'incesto o la pedofilia, chi era omosessuale. Tra queste
informazioni di cittadini comuni, emergono anche informazioni famose
come la Schindler's list (i 1000 ebrei salvati da Oskar Schilndler e
raccontati da Spielberg), la scheda di Anna Frank e il Totenbuch di
Mathausen. Fino a oggi agli studiosi era vietato l'ingresso, e delle
150.000 richieste di consultazione che ricevevano all'anno solo poche
erano esaudite. Per entrare a Bad Arolsen le regole sono rigide. Entrano
i sopravvissuti, chi ha avuto parenti scomparsi nei lager o i loro
legali, chi era residente nel Reich tra il 1939 e 1945 e chi era
minorenne negli anni della guerra ed è stato separato dai genitori.
Ovviamente, possono consultare solo i file che li riguardano.
Chi
fa le regole. Gli Alleati, alla fine della Seconda guerra mondiale,
hanno affidato i documenti alla Croce rossa internazionale. Nel 1955,
undici Paesi (Belgio, Olanda, Francia, Polonia, Germania, Lussemburgo,
Usa, Germania, Grecia, Italia e Israele) si sono accordati per la
gestione dell'archivio e hanno firmato il Trattato di Bonn, che ne ha
vietato la divulgazione e la pubblicazione. Una minima parte era
consultabile dalle famiglie delle vittime, il resto sotto chiave. A
custodire l'archivio viene creato un organismo apposito, l'International
tracking service (Its), con sede a Ginerva, e l'obbligo di avere uno
svizzero alla poltrona di direttore.
Nel 1999 lo stesso Its ha iniziato a prendere posizione per l'apertura
dell'archivio agli studiosi. "E' giusto dare libera circolazione e
libero accesso a queste informazioni", ha detto il direttore Reto
Meister. Concordano gli Usa con Edward O'Donnell, il responsabile per le
questioni relative all'Olocausto, che ripete in più occasioni che "Il
governo Usa auspica l'apertura di tutti i documenti sulla Shoah". A
opporre resistenza è più che altro la Germania: teme di dover pagare
ulteriori riparazioni, vuole prima chiarire la sua posizione legale. In
più, ha una legge sulla privacy molto più restrittiva di quella
statunitense. Ma dopo varie consultazioni con il direttore del Museo
dell'Olocausto di Washington Sara Bloomfied, il ministro della Giustizia
Brigitte Zypries annuncia che la Germania ha dato il suo assenso. E il
26 luglio del 2006 il Trattato di Bonn viene modificato: i 47 milioni di
file di Bad Arolsen verranno digitalizzati e trasferiti in Usa e
Israele. Per ora il lavoro è stato fatto su 12 milioni di schede, una
prima tranche, mentre il progetto si concluderà nel 2009.
La
posizione dell'Italia. A un anno dalla firma, a Roma non si parla di
ratifica delle modifiche al trattato. Il 4 aprile del 2007, in una
seduta della Camera, il deputato del Nuovo Psi Lucio Barani propone di
demandare la gestione dell'archivio all'Unione europea. Ma dato che Usa
e Israele non ne fanno parte, qualsiasi decisione sarebbe mutilata.
Liliana Picciotto, del Centro di documentazione ebraica di Milano, ha
spiegato a Peacereporter che la reticenza dell'Italia é legata a cavilli
legali. "Non teme di dover pagare nulla - ha detto - non ha coscienza
delle sue responsabilità. A bloccare la ratifica sono la legge sulla
privacy e il regolamento sugli archivi si stato", con cui il
provvedimento dei firmatari di Bonn è incompatibile. All'articolo 122
del Decreto legislativo 42 del 21 gennaio 2004, si legge che "gli
archivi storici contenenti dati sensibili sulla salute, la vita sessuale
o rapporti riservati di tipo familiare possono essere aperti solo dopo
70 anni". Che dal 1955 non sono ancora passati. Quindi, nel dubbio e in
buona compagnia (non hanno ratificato nemmeno Francia e Grecia),
l'Italia temporeggia.
6
settembre
Il medico in
mimetica
Richiamato alle armi il
responsabile dell'ospedale di Bolzaneto durante il G8
Spiccate doti professionali.
Esiste una speciale sezione, nelle Forze Armate italiane, di cui
pochi sono a conoscenza. Si chiama 'Riserva Selezionata', fa parte
delle Forze di completamento ed è costituita da civili, ai quali può
venir conferita la nomina di ufficiale fino al grado di Maggiore.
Della riserva fa parte chi è in possesso di spiccate doti
professionali, abbia specializzazioni difficilmente reperibili in
ambito militare e dia ampio affidamento per prestare la propria
opera nelle Forze Armate. Così, deve essere stato perché in possesso
di questi requisiti che il dottor Giacomo Toccafondi, medico
chirurgo, nato a Genova il 6 marzo del '54, è stato scelto dalle
Forze Armate italiane per partecipare alla missione italiana in
Bosnia. E deve essere stato sempre per 'spiccate doti professionali'
che il magistrato Alfonso Sabella, capomissione del Dap
(Dipartimento per l'amministrazione penitenziaria), durante il G8 di
Genova, lo nominò dirigente sanitario dell'ospedale all'interno del
carcere di Bolzaneto, dove decine e decine di manifestanti feriti
negli scontri arrivarono per subire ulteriori pestaggi e feroci
umiliazioni.
Abusi e minacce. Il dottor Toccafondi è uno dei 45 imputati
nel processo in corso a Genova per le torture inflitte a molte delle
250 persone, italiane e straniere, che nel luglio del 2001 furono
'ospitate' nel carcere provvisorio di Genova Bolzaneto. Carabinieri,
agenti di polizia, agenti di custodia, medici ed infermieri
carcerari sono accusati di un vasto campionario di reati: abuso
d'ufficio, violenza privata, lesioni personali, percosse, ingiurie,
minacce, falso ideologico, abuso di autorità contro i detenuti.
Nessun provvedimento a carico. Al medico Toccafondi, i Pm
hanno contestato anche violazioni dell'ordinamento penitenziario e
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
libertà fondamentali. In particolare, gli è stato contestato di
"aver effettuato egli stesso, ed avere comunque consentito che altri
medici effettuassero, i controlli e il cosiddetto 'triage' e le
visite mediche al primo ingresso con modalità non conformi ad
umanità e tali da non rispettare la dignità della persona visitata,
così sottoponendo le persone ad un trattamento penitenziario anche
sotto il profilo sanitario inumano e degradante". Nonostante i gravi
capi di imputazione, il dottor Giacomo Toccafondi non è stato
trasferito, rimosso o licenziato, ma, al contrario, è rimasto aiuto
chirurgo nell’ospedale di Pontedecimo gestito dalla Asl n. 3 di
Genova, continuando addirittura a svolgere la mansione di direttore
sanitario nel carcere femminile di Pontedecimo. Come numerosi
indagati o rinviati a giudizio, anche nei suoi confronti nessuna
sanzione disciplinare è stata adottata. Come i poliziotti Alessandro
Canterini, (capo del VII nucleo antisommossa responsabile dei
pestaggi alla Diaz) e Alessandro Perugini (vice-capo della Digos
genovese), promossi da dirigenti semplici a dirigenti superiori
benché rinviati a giudizio; così, anche il dottor Toccafondi, poco
più di un mese fa, è stato richiamato in servizio dallo Stato
italiano, presso il ministero della Difesa, nella sezione Forze di
completamento. Lo attesta una delibera dell'Asl 3 genovese, presso
la quale il medico presta servizio con contratto a tempo
indeterminato.
Missioni all'estero. Il Maggiore Toccafondi (tale è il suo
grado nelle Forze di complemento dell'Esercito) è stato 'richiamato
alle armi', prestando servizio presso il ministero della Difesa, dal
25 al 26 giugno di quest'anno. Lo attesta la delibera numero 909
della Asl 3 del 1 agosto 2007. Come è stato impiegato? In una nuova
missione 'di pace' come in Bosnia? Per qualche perizia medica, per
la quale erano indispensabili le sue 'spiccate doti professionali'?
Per un colloquio di lavoro, in vista di un ulteriore e ben
remunerato incarico da parte del ministero della Difesa? Dal Comando
militare di Genova fanno sapere che in quei giorni il medico è stato
convocato a Trieste, al Comando militare che lo 'arruolò' per la
Bosnia, per una semplice 'sessione informativa'. Ma non è tutto.
Andando a spulciare tra le delibere dell'Asl, si scopre che nel 2004
il medico, per il quale i Pm del G8 avevano già chiesto al Gip il
rinvio a giudizio, era stato richiamato in servizio dall'Esercito
per un incarico ben più importante e duraturo: il Kosovo. Della
richiesta di 'congedo' dal lavoro, l'Asl prende atto nella delibera
numero 854 del 22 giugno 2005. Il medico ha prestato servizio nel
contingente militare italiano dal 29 settembre al 10 dicembre del
2004.
Nei confronti del dottor Toccafondi, l'Asl numero 3 di Genova ha
avviato un procedimento disciplinare, che rimarrà tuttavia sospeso
fino a quando non si concluderà l'iter giudiziario che lo vede
imputato.
L'infermiere che lo denunciò. Delle 'gesta' del medico
durante i giorni del G8, resta agli atti la testimonianza
dell'infermiere che lavorò a stretto contatto con lui a Bolzaneto,
Marco Poggi, oggi 55enne. Contattato da PeaceReporter, Poggi ha
raccontato per l'ennesima volta come si svolsero i fatti. "Il medico
era quasi sempre vestito con tuta mimetica, con una maglietta blu
con scritto 'Polizia penitenziaria'. Io, in tanti anni, non ho mai
visto un medico prendere servizio con la mimetica. Non aveva
l'atteggiamento che dovrebbe tenere un medico in quelle circostanze,
e cioè di mettere a proprio agio i pazienti, specie i traumatizzati.
Aveva un modo di fare spavaldo. Diceva ai giovani manifestanti: 'Te
lo dò io il Che Guevara', 'Sento puzza di comunismo', oppure 'Sei un
brigatista'. Era un esaltato, uno che si sentiva onnipotente.
Toccafondi aveva messo da parte alcuni oggetti dei manifestanti.
Disse che erano 'trofei'. Si vantava anche dei trofei che aveva
raccolto in Bosnia, e che conservava in un sacchetto. Un
comportamento e un linguaggio che denunciano uno scarso rispetto
della dignità umana. Nella mia decennale esperienza, sia in carcere
che in manicomio, non ho mai visto un comportamento così. Mi ha
segnato. E se ha segnato me, pensi quei poveri ragazzi, che
arrivavano in infermeria feriti e terrorizzati". Cosa si aspetta
dalla giustizia? "Per me, sinceramente, niente. Mi aspetto che ci
sia giustizia per i ragazzi". Secondo lei il dottor Toccafondi è
colpevole?. "Senza il minimo dubbio".
Luca Galassi
Chiuso per razzi
Gli studenti di Sderot entrano in
sciopero per chiedere protezione dai razzi Qassam
“Un regalo per il nuovo anno
scolastico dei bambini di Sderot”. Così i militanti palestinesi
della Jihad Islamica hanno definito il razzo Qassam che ieri è
caduto nei pressi di una scuola, nella cittadina che sorge a poca
distanza dal confine della Striscia di Gaza, spaventando a morte 12
bambini israeliani. Oggi i circa 2500 studenti delle scuole
superiori della cittadina hanno iniziato uno sciopero per chiedere
più protezione da parte del governo. Se cadranno altri razzi, domani
sciopereranno anche i ragazzini delle elementari. Sempre mercoledì è
in programma una protesta davanti alla Knesset, il parlamento
israeliano, dove il comitato dei genitori di Sderot monterà una
specie di scuola e protesterà con quaderni in mano e zaini in
spalla.
Sicurezza o ritorsione. I residenti di Sderot protestano da tempo
per l'inefficenza del sistema di protezione della cittadina,
provvista di un sistema di allarme antimissile che, spesso, suona un
attimo prima che il razzo si schianti al suolo. Gli studenti
chiedono inoltre che vengano accelerati i lavori per blindare le
aule, un processo che a loro avviso va a rilento. La reazione del
governo israeliano è stata però tutta politica e rivolta alla
controparte palestinese. “Il governo israeliano sarà costretto ad
agire” ha esortato il ministro degli Esteri Tzipi Livni alla vigilia
dell'importante seduta di domani del Consiglio di Difesa. Il premier
Olmert ha minacciato la ripresa degli omicidi mirati dei miliziani
responsabili dei lanci di razzi, mentre il suo vice, Haim Ramon, ha
ipotizzato una punizione collettiva per la popolazione di Gaza: “Per
ogni razzo lanciato su Sderot -ha minacciato- taglieremo per due o
tre ore l'erogazione di acqua, elettricità e carburante alla
Striscia di Gaza”. Ritorsioni contro i palestinesi a parte, nella
cittadina la gente è esasperata dalla situazione di minaccia
continua: qualcuno chiede lo spostamento delle scuole fuori dalla
portata dei razzi, mentre molti si dicono favorevoli al capo del
Likud, Benyamin Netanyahu, che ha proposto una nuova offensiva
terrestre, per occupare nuovamente le aree a nord della città di
Gaza, da cui vengono lanciati i Qassam.
Occhio per occhio. “Lo sciopero di Sderot dimostra che i razzi
Qassam sono in grado di turbare le vite degli israeliani, così come
le azioni militari israeliane rovinano la vita dei palestinesi” ha
dichiarato Abu Ahmet, il portavoce delle Brigate Al Quds
-Gerusalemme- a un quotidiano israeliano. Rispetto alle minacce del
governo israeliano il portavoce del braccio armato della Jihad
Islamica replica che “non sono una novità. Se ci sarà un'operazione
militare nella Striscia non sarà in risposta ai lanci dei razzi,
perché l'esercito israeliano agisce già per impedirli. I soldati
israeliani entrano nel territorio della Striscia ogni volta che
hanno l'opportunità di assassinare dei miliziani”. Israele dispone
di velivoli senza pilota, i droni, che sorvolano la Striscia 24 ore
su 24 per individuare e colpire i responsabili dei lanci, ma i razzi
continuano ugualmente a venire sparati. “Questo dimostra che abbiamo
imparato le lezioni del passato e ora operiamo in modo più
organizzato” risponde Ahmet, che poi conferma che la ripresa dei
lanci proprio nel periodo dell'inizio delle scuole non è casuale:
“Come l'embargo israeliano su Gaza impedisce agli studenti
palestinesi di iniziare normalmente le scuole, oltre che di
comperare vestiti, cartelle e cancelleria -sia per l'embargo che per
la povertà diffusa- vogliamo che anche gli israeliani di Sderot non
si sentano sicuri, nemmeno gli studenti delle elementari”.
Naoki Tomasini

Rallentano le retribuzioni delle
forze dell'ordine (+0,3%), militari, difesa e assicurazioni (+0,6%)
Gli aumenti maggiori nell'energia
elettrica, gas ed acqua (+5,1 per cento)
Gli stipendi a
luglio crescono dell'1,8%
E' il valore più
basso da quattro anni
Diminuisce la copertura
contrattuale: solo il 25% dei contratti nazionali non è scaduto
Nei primi cinque mesi del 2007
scende del 63% il numero di ore non lavorate per scioperi
ROMA - Non sorridono i lavoratori
italiani. Le retribuzioni contrattuali crescono ma a ritmi minimi. I
più bassi degli ultimi quattro anni. Nel mese di luglio, le
retribuzioni sono cresciute dello 0,1 per cento rispetto al mese
precedente. Lo scostamento rispetto a luglio dell'anno scorso è
invece dell'1,8 per cento, di un soffio sopra l'inflazione che nello
stesso mese è stata pari all'1,6%. A renderlo noto è l'Istat. Per
trovare un dato simile, spiegano dall'Istituto di statistica, è
necessario andare indietro fino al giugno 2003 quando l'incremento
fu dell1,7 per cento.
Chi rallenta di più. A subire il maggiore rallentamento sono
state le retribuzioni delle forze dell'ordine che sono cresciute
solo dello 0,3 per cento. Sono aumentati poco anche i valori
contrattuali degli addetti del settore militare e della difesa e del
comporato delle assicurazioni (+0,6%). Variazione nulla per i
contratti di pubblici esercizi e alberghi, credito, scuola,
ministeri, regioni, autonomie locali e servizio sanitario nazionale.
Chi sale di più. A crescere di più, tra luglio 2006 e luglio
2007, sono stati invece gli stipendi degli addetti del comparto
dell'energia elettrica, gas ed acqua, dove l'incremento ha toccato
il 5,1 per cento, seguiti da quelli dall'edilizia (+4,1%) e dai
servizi alle famiglie (+3,5%).
Minore copertura contrattuale. Cresce il numero dei contratti
scaduti in attesa di rinnovo. A luglio solo il 25% dei contratti era
in vigore mentre nel mese di giugno erano il 40 per cento. Sono
infatti solo 40 gli accordi non scaduti che regolano il trattamento
economico e normativo di 3,4 milioni di dipendenti.
Sono invece 36 i contratti decaduti che regolano il rapporto di
lavoro di circa 8,9 milioni di dipendenti e al 74,3% del monte
retributivo totale.
Gli incrementi sul mese. Il rialzo dello 0,1% registrato nel
mese di luglio è riconducibile agli aumenti tabellari di alcuni
contratti vigenti (cemento, calce e gesso, gomma e plastiche,
trasporti aerei-servizi a terra e banca centrale) e alla revisione
degli importi dell'indennità di vacanza contrattuale per il settore
del commercio, delle poste e dei servizi di smaltimento rifiuti.
Hanno inciso anche lacune specifiche indennità per gli addetti del
settore del vetro, dell'energia elettrica e dell'edilizia.
Gli scioperi. Nei primi cinque mesi del 2007 sono state 824
mila le ore non lavorate per conflitti causati dal rapporto di
lavoro: il 63,4% in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso
anno. La gran parte degli scioperi sono riconducili al rinnovo del
contratto e alle altre cause residuali, con quote percentuali sul
totale delle ore non lavorate rispettivamente pari al 26,2% e al
41,1%.
3
settembre

Terai, il
business scappa dal conflitto |
Nella regione più industrializzata
e fertile del Paese, i conflitti tra Madhesi e Governo più
l'anarchia degli ex ribelli maoisti fanno chiudere l'economia |
Gli uomini d'affari vogliono
lasciare la regione meridionale nepalese del Terai, stufi di
ricatti, interruzioni alla produzione e blocchi continui dei
trasporti dovuti allo stato di costante conflitto tra minoranza
Madhesi e Kathmandu da una parte, e alle frazioni di Maoisti che
continuano a vivere con le armi in pugno. La Camera di commercio
nazionale ha preso atto del difficile momento economico, dicendo
che è "il peggiore nell'ultimo decennio, sta andando peggio
adesso che durante il conflitto tra Governo e Maoisti".
Blocco
nei trasporti. Quasi tutte le aziende di trasporti
hanno avuto ultimamente difficoltà a consegnare i loro carichi
verso la capitale a causa dei taglieggiamenti degli ex ribelli
maoisti incapaci di riciclarsi in una vita senza divisa. Nelle
ultime settimane Kathmandu non ha quasi ricevuto mercanzie dalla
ricca regione del Terai, cuore produttivo industriale ed
agricolo del Nepal. IL 60 percento della produzione agricola di
queste rare terre in piano nel Paese himalayano è diretto verso
il distretto della capitale. "La situazione adesso è peggiorata
rispetto alla guerra tra Maoisti e Re, perchè allora dovevamo
contrattare solo con un gruppo di ribelli, mentre ora abbiamo
perso il conto di quanti siano" ha detto a un operatore
umanitario l'imprenditore Binod Shreshtra dal Terai.
Oppressi
da estorsioni e ricatti Le estorsioni dei gruppi
maoisti sono adesso divenute mensili, da quando il comitato
centrale del Partito è andato al potere nello scorso aprile in
seguito all'applicazione degli accordi di pace, siglati nel
novembre 2006. La ong nepalese Insec, (Centro servizi
Informazione del terzo settore) ha raccolto un ampio dossier con
le denunce degli operatori della regione al confine con l'India,
che denunciano sistematicamente il 'pizzo' da pagare a elementi
fuoriusciti dal partito e dal sindacato Maoista. Secondo questi
rapporti, i leader del partito trasferitisi a Kathamndu non sono
più in grado di controllare la loro truppa sciolta sul
territorio. Scontri tra Maoisti e indipendentisti Madhesi come
la Jtmm (Janatantrik Teerai Mukti Morcha) sono sempre
più frequenti. I Maoisti avevano infatti appoggiato la lotta
delle fazioni Madhesi per ottenere maggiore autonomia dalla
maggioranza Pahadi che controlla Kathmandu, ma adesso che sono
al potere nella capitale, non avrebbero bisogno di questi gruppi
che reclamano maggiore potere per un gruppo etnico, di origini
indiane, che rappresenta un terzo dei 27 milioni di nepalesi. I
gruppi indipendentisti stanno portando avanti con costanza
ricatti ed intimidazioni ai danni dei manager Pahadi; sono le
élitès del gruppo maggioritario a dirigere quasi tutte
le fabbriche con manovalanza Madhese. "La situazione è ormai
fuori controllo e noi manager non abbiamo più nessuna garanzia
contro questa anarchia, che ci costringerà ad abbandonare la
regione" ha detto un componente del Cda della Confindustria
nepalese, Damodar Acharya. E la situazione è pesante anche per i
Madhesi: "Tra un mese non avrò più niente da mangiare per i miei
figli: la mia fabbrica ha chiuso. Il mio unico futuro è emigrare
in India" ha dichiarato alla Ong il sindacalista Ramu Biswakarma.
|
A pochi chilometri dal centro la
capitale si fa povera e pericolosa
La polizia: "Dopo il terrorismo è il più grande problema che abbiamo"
Londra, tra i dannati delle
baby gang
"Tremila reati commessi da under 10"
ENRICO FRANCESCHINI
LONDRA - Queste non sono le strade conosciute
dai turisti. Questa non è la città scintillante, dispendiosa, alla moda,
percorsa da milioni di visitatori. Alle undici di un sabato sera, tra la
stazioncina ferroviaria di Hackney e il parco dove si tiene una specie di
campionato mondiale di calcio con squadre di ogni origine etnica, sembra di
essere precipitati indietro nel tempo: in un'altra Inghilterra, dura,
povera, squallida. E pericolosa. Qui vicino, due mesi fa, un ragazzo di 17
anni è stato assassinato mentre rientrava a casa. Dietro la stazione, la
settimana scorsa, tre giovani sono rimasti feriti in una rissa.
E lungo il limitare di Hackney Marsh, il parco che prende il nome da un
acquitrino, anche ora c'è gente che con quegli incidenti potrebbe avere a
che fare: un branco di ragazzi dalla pelle scura, pantaloni troppo larghi
che cadono sui fianchi, berretti da baseball in testa, catene d'oro al
collo, musica rap che esce a tutto volume dagli stereo delle auto
parcheggiate a portiere spalancate. Tutto intorno, casette divorate
dall'umidità, muri coperti di graffiti, misere botteghe, ristorantini
puzzolenti di fritto. Un mondo dimenticato dal boom degli anni di Blair e
Brown. Il mondo in cui prosperano le gang.
"Provare a sopprimerle è come tenere un pallone sott'acqua, prima o poi
salterà fuori colpendoti in faccia", dice il detective Barry Norman,
responsabile di Scotland Yard per la violenza giovanile. "Con l'eccezione
del terrorismo, è il più grosso problema d'ordine pubblico che abbiamo a
Londra e in tutta la Gran Bretagna - ammette - In trent'anni di servizio non
avevo mai visto niente del genere". Il quartiere di Hackney, nel nord-est
della capitale, è la punta dell'iceberg: qui opera il maggior numero di
bande, ventidue, e questo è l'epicentro della criminalità giovanile.
Ma il fenomeno è ovunque, in ogni sterminata periferia della metropoli:
quelle che nelle mappe della metropolitana sono delimitate come "zona 5",
"zona 6", e oltre, dove il metrò non arriva. E' in queste periferie che ci
sono stati diciotto omicidi di minorenni dall'inizio dell'anno: l'ultimo una
settimana fa. Un rapporto preparato in agosto dalla polizia indica che oggi
a Londra esistono quasi 170 gang giovanili. Ciascuna ha in media da venti a
trenta membri, ma le più grosse arrivano a cento. Sono suddivise etnicamente:
afro-caraibici, i più numerosi, poi nell'ordine asiatici e bianchi.
Prediligono le piccole pistole calibro 9. Vestono con colori che demarcano
appartenenza e territorio, come i loro eroi, i Blood e i Crisp, le gang di
Los Angeles diventate così famose da finire in un film di Hollywood. A
Lewisham, quartiere a sud di Londra, i membri della banda vestono di blu. A
Bromley, quartiere confinante, di verde. In uno scontro di frontiera tra
"blu" e "verdi", in giugno, il 16enne Ben Hitchcok è stato ucciso a
coltellate. Un delitto irrisolto, come la maggior parte di quelli di questo
tipo.
"Il motivo per cui questi giovani si lasciano affascinare dalle gang è la
mancanza di modelli positivi", osserva Raymond Stevenson, direttore di Dont'
Trigger (Non tirare il grilletto), una campagna finanziata dal governo.
"Sono figli di ragazze-madri o di padri alcolizzati. Smettono di andare a
scuola. Considerano la società come un nemico. L'unico tipo di glamour che
vedono attorno a sé è rappresentato dalle gang". Alcune offrono loro anche
soldi e un impiego, mettendoli al servizio dei trafficanti di droga. Ma il
narcotraffico non spiega perché così tanti ragazzi "di borgata", a Londra ma
pure a Manchester, Liverpool, Birmingham, Glasgow, aderiscono a una gang o
comunque ne sentono il richiamo.
"In una gang ti senti più sicuro, perché c'è qualcuno più vecchio che ti
protegge", racconta Nathan, uno dei pochi che è riuscito a uscire dal giro.
"La vita da queste parti è come una guerra e chi vorrebbe combattere una
guerra tutto solo? In una gang, ti muovi sempre in gruppo. Hai un'identità.
Hai un posto dove andare andare, gente con cui stare. E' perfino più facile
trovarsi una ragazza".
Il concetto si insinua perfino fra chi sarebbe troppo giovane per pensare
alle ragazze: in Inghilterra, nel 2006, quasi tremila reati sono stati
commessi da bambini sotto i 10 anni, troppo piccoli per essere arrestati e
processati. Lawrence Lee, avvocato di due ragazzini di 10 anni che rapirono
e uccisero, dopo averlo seviziato, un vicino di casa di 2 anni, propone
perciò di abbassare l'età minima per la responsabilità penale, che è già la
più bassa d'Europa, da 10 anni a 8. Criticando la presunta passività del
governo laburista di Gordon Brown, David Cameron, leader dell'opposizione
conservatrice, chiede un pugno di ferro come quello con cui l'allora sindaco
Giuliani ripulì New York dal crimine negli anni Novanta.
Ma proprio questo, probabilmente, è il punto: Londra e la
Gran Bretagna, la capitale e la nazione più dinamiche d'Europa, somigliano
più all'America che all'Europa in materia di alienazione giovanile,
criminalità, violenza. Mancanza di una rete di aiuti familiari, minori
protezioni del welfare, diversità socioeconomiche: tante possono essere le
ragioni. C'è solo da augurarsi che questo trend, come molti che nascono
oltre Atlantico e poi approdano sulle rive del Tamigi, non cominci ad
arrivare anche da noi.
Casa Nostra
di Marco Lillo
Ministri, presidenti delle
Camere, sindacalisti, politici. Attuali ed ex. Hanno acquistato attici e
appartamenti da enti pubblici o da privati a prezzi di favore. Rendendo
doppio il privilegio che spesso già avevano come inquilini. Ecco nomi e
cifre dell'ultimo scandalo immobiliare
Ci sono ministri e leader di partito,
ex presidenti del Parlamento e della Repubblica, magistrati e
giornalisti. La nazionale dell'acquisto immobiliare scontato
è talmente vasta e assortita che ci si potrebbe fare un ottimo
governo di coalizione. Si va dall'ex presidente della Repubblica
Francesco Cossiga ai presidenti della Camera e del
Senato del primo governo Prodi: Luciano Violante e
Nicola Mancino.
Dalla famiglia del presidente dell'Udc Pier Ferdinando
Casini a quella del ministro della Giustizia
Clemente Mastella passando per la figlia del deputato di An
Francesco Proietti. C'è il candidato leader del
Partito democratico, Walter Veltroni e il
presidente del Senato Franco Marini. Non mancano la
Borsa, con il presidente della Consob Lamberto Cardia
e il mondo del lavoro con il segretario della Cisl Raffaele
Bonanni. C'è il senatore Udc Mario Baccini
e il responsabile della Margherita in Sicilia Salvatore
Cardinale. Situazioni diverse tra loro che talvolta
convivono nello stesso palazzo.
Prendiamo lo stabile Inpdai di via Velletri, a due
passi da via Veneto. Al primo piano la moglie di Walter
Veltroni ha comprato più o meno allo stesso prezzo pagato
dall'ex sottosegretario Marianna Li Calzi che abita
al quarto. Ma le due storie sono diverse. Li Calzi ha ottenuto il
suo attico alla vigilia della svendita a seguito di una discussa
procedura pubblica. Veltroni invece è nato nelle case dell'ente
previdenziale dei dirigenti. L'Inpdai aveva affittato sin dal 1956
un appartamento al padre, dirigente Rai. Nel 1994 i Veltroni
restituirono all'ente i due alloggi nei quali vivevano Walter e la
mamma per averne in cambio uno più grande, il famoso primo piano di
via Velletri da 190 metri quadrati che nel 2005 è stato acquistato
dalla moglie del sindaco, Flavia Prisco, per 373
mila euro. Il prezzo è basso per effetto non di un'elargizione
personale ma per il meccanismo degli sconti collettivi concessi a
tutti allo stesso modo. Altra cosa ancora sono gli acquisti delle
case dell'Ina ora finite a Generali e Pirelli. Questi colossi
privati in alcuni casi si sono comportati come spietati alfieri del
libero mercato.
Altre volte hanno fatto prezzi
bassi per blocchi di appartamenti finiti poi a
famiglie dai nomi noti come Mastella e
Casini. Scelte discutibili per società quotate in Borsa
come Pirelli e Generali che dovrebbero puntare solo al profitto e
che, evidentemente, hanno pensato di fare gli interessi dei propri
azionisti cedendo appartamenti ai politici e ai loro amici a valori
bassi. Insomma, ci sono differenze radicali tra venditore privato e
ente pubblico ma anche all'interno delle due categorie. Se non
bisogna far di tutta l'erba un fascio però ci sono due cose che
accomunano i protagonisti della nostra inchiesta: sono potenti che
hanno pagato troppo poco ieri per l'affitto e oggi per l'acquisto.
Inoltre nella maggioranza dei casi in quegli immobili sono entrati
grazie a conoscenze, entrature e amicizie. Questa disparità
di trattamento con i comuni mortali non è una novità.
Emerse con violenza populista nel 1996 durante il primo Governo
Prodi grazie alla campagna 'Affittopoli' de 'il Giornale' di
Vittorio Feltri. Oggi quegli stessi immobili affittati dieci anni fa
ad equo canone sono stati svenduti definitivamente e il privilegio è
stato reso eterno.
Per fare qualche esempio: Lamberto Cardia,
presidente Consob, pagava 1 milione e 100 mila lire al mese di
affitto nel 1996 e ha comprato nel 2002 a 328 mila euro 10 vani e
due posti auto a due passi dal Palaeur. Maura Cossutta,
onorevole dei Comunisti Italiani, pagava 1 milione e 50 mila lire
allora e compra nel 2004 quattro camere, due bagni e balconi a due
passi da San Pietro a 165 mila euro. Franco Marini
pagava 1 milione e 700 mila lire allora e compra nel 2007 a un
milione di euro due piani ai Parioli. A rendere 'svendopoli' ancora
più odiosa di 'affittopoli' c'è il peggioramento drastico del
mercato della casa. Il trattamento di favore diventa un'offesa
insopportabile per chi è costretto a combattere ogni giorno con
l'ufficiale giudiziario che vuole sfrattarlo.
L'ex presidente della camera
Pier Ferdinado Casini
Per capire 'svendopoli' bisogna
iniziare il nostro viaggio da via Clitunno, nel quartiere Trieste.
In questa strada immersa nel verde, ci sono due palazzi che facevano
parte del patrimonio Ina-Assitalia e che rappresentano bene il
confine tra i sommersi e i salvati delle dismissioni. Lì abitava,
prima della separazione, Pier Ferdinando Casini con
la prima moglie Roberta Lubich e le due figlie
minorenni. Nello stabile accanto abitava una coppia di dipendenti
Assitalia: Davide Morchio e la moglie Maria
Teresa.
Negli anni Novanta le famiglie Morchio
e Casini sono uguali: entrambi inquilini delle
Generali, pagano un canone basso e sperano di poter comprare
l'appartamento con lo sconto. Poi arrivano le vendite tanto attese e
l'uguaglianza svanisce: la famiglia Lubich-Casini rileva a prezzi di
saldo tutto il palazzo. Morchio insieme ad altre 19 famiglie deve
andar via. Nessuna offerta per lui dalla nuova proprietà, che per
ironia della sorte è Caltagirone, il nuovo suocero di Casini. Gran
parte degli inquilini, come l'ex ministro verde Edo Ronchi che può
permettersi di comprare lì vicino, lascia il campo. La famiglia
Morchio invece resiste all'ufficiale giudiziario che chiede
l'intervento della forza pubblica. "Abbiamo un contratto che ci dà
il diritto di prelazione", spiega Davide Morchio, "ed è stato
ignorato. Nel palazzo vicino hanno potuto comprare a prezzi di
favore. È un'ingiustizia".
Anche l'immobile dove vive la prima moglie di Casini è stato ceduto
in blocco ma con una procedura atipica. Ha comprato a un prezzo
basso, 1 milione e 750 mila euro, la Clitunno Spa, società creata
appositamente da un manager bolognese di area Udc, amico di Casini e
della prima moglie. Si chiama Franco Corlaita e ha già
rivenduto tutto. Indovinate a chi? Alla famiglia
Lubich. Nel novembre del 2006 la mamma di Roberta compra
per 586 mila euro il secondo piano. Ad aprile del 2007 la prima
moglie di Casini compra il piano terra, a 323 mila euro. Passano due
mesi e il 21 giugno scorso l'operazione si chiude con la cessione
alle due figlie minori di Casini del terzo piano (306 mila euro per
5 vani catastali) e del primo piano (8,5 vani per 586 mila euro).
Casini partecipa all'atto (mediante un procuratore) in qualità di
genitore anche se il notaio precisa che paga tutto la moglie. Per
convincere il giudice tutelare ad autorizzare la stipula dell'atto,
i genitori presentano una perizia da cui risulta che l'acquisto è
'molto conveniente'. Generali non fa una piega. Inutile dire che gli
inquilini del palazzo vicino sono infuriati e ipotizzano una
simulazione dietro questo strano giro. Nella sostanza, dicono,
la famiglia Casini ha comprato con lo sconto e noi no.
Alla beffa contro i vicini, si aggiunge quella agli inquilini, senza
alcuna distinzione di rango. Al primo piano del palazzetto
Lubich-Casini vive in affitto Roberto Barbieri, senatore del
centrosinistra e presidente della Commissione parlamentare sui
rifiuti. Paga un canone di ben 3 mila euro ma è stato trattato come
gli altri. Nessuno gli ha detto che il suo appartamento è diventato
della figlia di Casini. Nessuno gli ha proposto l'acquisto a 586
mila euro. Con tremila euro al mese avrebbe potuto accendere un
mutuo per comprare. Invece a maggio del 2008 dovrà lasciare.
Anche il caso della famiglia Mastella dimostra che
non sempre le società private sono così cattive. Il ministro della
Giustizia abita all'ottavo piano di un palazzo sul
lungotevere Flaminio che ha fatto la stesa trafila di
quello di via Clitunno. Da Ina-Assitalia a Initium, società di
Pirelli e Generali. Initium è proprietaria anche dei condomini di
via Nicolai alla Balduina, dove abita l'ex ministro Baccini e di via
Visconti a Prati, dove vive Francesco Cossiga. Gli inquilini di
questi palazzi non sono stati trattati come quelli di via Clitunno.
Stavolta Initium ha concesso prelazione e sconto. Così nel 2004
Baccini ha comprato la sua reggia da 15 vani, due terrazze e 4 bagni
per 875 mila euro e Cossiga è diventato proprietario di casa,
soffitta e magazzino per 710 mila euro.
Clemante
Mastella con la moglie Sandra
Nel caso di Mastella però
Initium ha fatto di più. Il 3 dicembre del 2004 nello
studio del notaio Claudio Togna (dell'Udeur anche lui) c'era una
riunione familiare. I Mastella al gran completo facevano la fila per
stipulare atti e il povero Togna sfornava atti come una pizzeria di
Ceppaloni. Sandra Mastella ha comprato l'appartamento dove
dorme il marito e si è impegnata a prendere la residenza lì
per ottenere le agevolazioni fiscali. Per lei un ottimo affare: 500
mila euro per un appartamento che include una veranda abusiva
(condonata) e la terrazza su tre lati che guarda il Tevere e Monte
Mario dall'ottavo piano. Subito dopo la moglie del ministro ecco
arrivare i figli Elio e Pellegrino.
Comprano altri quattro appartamenti, due a testa. I prezzi
erano davvero allettanti. A Pellegrino vanno il primo piano
da 4,5 vani per 175 mila euro e altri 6 vani al quarto piano per 300
mila euro. Va ancora meglio al fratello che si accaparra un terzo
piano con 5,5 vani per soli 200 mila euro e un miniappartamento con
ingresso, camera, bagno e terrazza a livello per 67.500 euro,
nemmeno il costo di un box in periferia. Le case sono state pagate
in gran parte grazie ai mutui concessi da San Paolo (400 mila euro
alla moglie) e Bnl (un milione e 100 mila euro ai figli che dovranno
versare una rata mensile di 6.430 euro). E che nessuno vada in giro
più a dire che Initium è cattiva con gli inquilini.
Anche Francesca Proietti, socia di Daniela Fini e
figlia di Francesco, deputato di An e braccio destro di Gianfranco,
ha comprato un appartamento a un prezzo d'occasione: 267 mila euro
per un secondo piano con terrazza su tre lati, salone e due camere
all'Eur. Sempre dal patrimonio ex Ina arrivano gli immobili di
Nicola Mancino e Luciano Violante. L'ex magistrato torinese ha
pagato con la moglie 327 mila euro nel 2003 un gioiello incastonato
tra i Fori Imperiali e piazza Venezia: due terrazzette, tre livelli
e una settantina di metri quadrati coperti.Nicola Mancino
ha comprato insieme alla figlia Chiara nel 2001 una dimora da 10
vani più una soffitta autonoma su Corso Rinascimento, a due passi
dal Senato per 1 miliardo e 550 mila lire del vecchio conio. Sempre
dal gruppo Pirelli Giuliano Ferrara ha acquistato
l'appartamento ex Ina da 7,5 vani in piazza dell'Emporio al
Testaccio nel palazzo che un tempo veniva chiamato 'il Cremlino' per
l'alta percentuale di comunisti. Ferrara, che un tempo tuonava
contro De Mita per il suo affitto a Fontana di Trevi, ha rilevato
un sesto piano con terrazzo a 890 mila euro.
Molto più bassi i prezzi praticati dagli enti previdenziali.
Grazie al doppio sconto (30 per cento più 15 a chi compra tutto il
palazzo) le parlamentari Franca Chiaromonte e Maura Cossutta hanno
stipulato un atto collettivo per due appartamenti in via della
stazione San Pietro rispettivamente per 113 mila e 165 mila euro.
Notevole anche il caso di Raffaele Bonanni. Il segretario della Cisl
ha conquistato nel 2005 un grande appartamento dell'Inps al sesto
piano in via del Perugino, nel cuore del quartiere Flaminio: otto
vani a 201 mila euro. Con quella cifra in zona si compra solo un
garage.
L'anno scorso ha fatto il colpo del secolo anche l'ex ministro e
deputato della Margherita siciliana Totò Cardinale.
In via degli Avignonesi, una strada bellissima tra il Tritone e via
Veneto, ha messo le mani su un terzo piano da otto vani con affaccio
su via delle Quattro Fontane : un gioiellino da due milioni sul
mercato libero portato via per 844 mila euro. L'ultimo è
stato Franco Marini. Il presidente del Senato ha stipulato
il rogito il 23 aprile scorso. Un milione di euro per aggiudicarsi
la casa assegnata alla moglie dall'Inpdai in via Lima: due livelli
per 14 vani nel cuore dei Parioli.
Se Marini è il politico che ha pagato il prezzo più alto (per una
casa che vale comunque il doppio) l'oscar del rapporto
qualità-prezzo spetta al senatore UdcFrancesco Pionati.
L'uomo che ha sfornato per anni pastoni per i telespettatori del Tg1
ha comprato un attico e superattico da favola in via Traversari.
L'appartamento è aggrappato alla collina di Monteverde ed è
affacciato su Trastevere. Grazie al solito doppio sconto ha speso
un'inezia. L'allora mezzobusto del Tg uno aveva fatto ricorso al Tar
per ridurre ulteriormente la valutazione e in Parlamento gli amici
dell'Udc avevano presentato pure un'interrogazione parlamentare per
contestare il prezzo esorbitante: 509 milioni di lire nel 2001 per
10 vani con doppia terrazza. Sì, un prezzo veramente scandaloso
Uno studio choc pubblicato dal
quotidiano inglese The Guardian: il rebus biocarburi
Il cambio di destinazione provoca l'aumento dei costi delle derrate
Il mondo rischia di finire il
cibo
Troppi campi dedicati al biofuel
Meno prodotti
agricoli, sempre più cari. Aggiungete carenza d'acqua
disastri naturali e sovrappopolazione: è la ricetta per il disastro
ENRICO FRANCESCHINI
LONDRA - Da anni
viviamo con l'incubo del riscaldamento globale. Ma un'altra minaccia, ancora
più immediata, potrebbe essere la fame globale: sempre meno prodotti
alimentari disponibili, sempre più cari, contesi da una popolazione
terrestre sempre più grande, in un periodo già reso critico da risorse
idriche sempre più scarse e da un clima sempre più imprevedibile. "La fine
del cibo", riassume il titolo del Guardian di Londra, puntando il dito
contro un fenomeno che sta accelerando il deficit alimentare: sempre più
terre, in America e in Occidente ma anche nel resto del pianeta, finora
utilizzate per coltivare prodotti agricoli, adesso vengono adibite alla
coltivazione di biocarburi, come l'etanolo e altri carburanti "puliti", sia
per ridurre l'inquinamento atmosferico, sia per ridurre la dipendenza
dall'energia petrolifera di un esplosivo e instabile Medio Oriente. E'
questo, sostengono gli esperti, il fattore scatenante dell'aumento dei
prezzi del cibo. Aggiungendovi il declino delle acque, i disastri naturali e
la crescita della popolazione, ammonisce il quotidiano londinese, si arriva
a "una ricetta per il disastro".
Lester Brown, presidente della think-tank Worldwatch Institute e autore del
best-seller "Chi sfamerà la Cina?", presenta così la questione: "Siamo di
fronte a un'epica competizione per le granaglie tra gli 800 milioni di
automobilisti del pianeta e i due miliardi di poveri della terra". Come in
quasi tutte le sfide tra ricchi e poveri, non è difficile immaginare chi la
stia vincendo.
Esortati dal presidente Bush a produrre entro dieci anni un quarto dei
carburanti non fossili di cui necessitano gli Stati Uniti, migliaia di
agricoltori americani stanno trasformando il "granaio d'America" in una
immensa tanica di biocarburi. L'anno scorso già il 20 per cento del raccolto
di granoturco Usa è stato usato per la produzione di etanolo, i cui
stabilimenti raddoppiano di anno in anno. Una politica analoga è in corso un
po' ovunque, dall'Europa all'India, dal Sud Africa al Brasile. Diminuendo la
terra destinata alla coltivazione di grano, il prezzo del frumento è
aumentato del 100 per cento dal 2006, e ciò sta portando ad aumenti da
record dei prezzi dei generi di prima necessità: pane, pollo, uova, latte,
carne.
Ad accrescere le preoccupazioni del dottor Brown c'è il boom demografico ed
economico di Cina e India, i due giganti in cui vive il 40 per cento della
popolazione mondiale: anche perché cinesi ed indiani stanno abbandonando la
loro tradizionale dieta ricca di verdure a favore di un'alimentazione più
"americana", che contiene più carne e latticini. Non tutti condividono gli
scenari catastrofici. "Il Brasile ha 3 milioni di chilometri quadrati di
terra arabile, di cui solo un quinto è attualmente coltivato e di cui solo
il 4 per cento produce etanolo", dice il presidente brasiliano Lula. Ma le
Nazioni Unite calcolano che la richiesta di biocarburi aumenterà del 170 per
cento solo nei prossimi tre anni. Ci sarà abbastanza cibo per tutti? O
presto verrà il giorno in cui dovremo scegliere tra una pagnotta e un pieno
di biocarburi per la nostra auto?
In vista del congresso del Partito
comunista chiedono stampa libera
e scarcerazione dei prigionieri politici: non accadeva da Tienanmen
Cina, la rivolta degli
intellettuali
L'appello: "Vogliamo democrazia"
dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
Una
parata in piazza Tienanmen
PECHINO - La Cina
democratica esiste e non ha paura di sfidare il regime autoritario. Ieri il
movimento per i diritti civili è uscito allo scoperto con un'iniziativa
clamorosa, lanciata non appena il partito comunista ha convocato il suo
prossimo congresso nazionale. Subito dopo che l'agenzia stampa Nuova Cina ha
divulgato la data del congresso (15 ottobre), più di mille personalità hanno
reso nota una lettera aperta al presidente della Repubblica e segretario
generale del partito, Hu Jintao. I firmatari chiedono la liberazione
immediata dei prigionieri politici e la libertà di stampa, come condizione
per "creare una nuova immagine del paese".
"Secondo la Costituzione della Repubblica popolare - si legge nell'appello
pubblico - il partito comunista si è impegnato solennemente a governare il
paese come uno Stato di diritto, rispettando i diritti umani. In realtà la
polizia e la magistratura sotto il comando del partito hanno continuato ad
arrestare e condannare scrittori, giornalisti, avvocati e militanti
democratici negli ultimi tre anni, per reati d'opinione, di parola, e per
l'espressione di idee politiche".
La lettera aperta naturalmente è stata censurata da tutti i mezzi
d'informazione e la massa dei cittadini cinesi non ne verrà mai a
conoscenza. Tuttavia l'ampiezza del numero dei firmatari è significativa.
Era dai tempi del movimento di Piazza Tienanmen (primavera 1989) che non si
manifestava un fronte così ampio per chiedere al regime le riforme politiche
e le libertà individuali.
La coraggiosa iniziativa ha coinciso ieri con l'ultimo giorno della visita a
Pechino del cancelliere tedesco, Angela Merkel. A differenza del suo
predecessore Gerard Schroeder che coi cinesi parlava solo di affari, la
Merkel ha dato alla sua visita una forte impronta di impegno sui diritti
umani. Ha incontrato un gruppo di giornalisti dissidenti, tra cui il celebre
Li Datong, che fu licenziato dalla direzione del Quotidiano della Gioventù
per non essere abbastanza "in linea" con Hu Jintao.
In un discorso pubblico prima di partire la
Merkel ha dichiarato che "in preparazione delle Olimpiadi di Pechino del
2008 il mondo guarda alla Cina con un'attenzione senza precedenti. Resta da
verificare come la Cina si presenterà a quell'appuntamento, sul terreno
della libertà di espressione e della libertà di stampa. I diritti umani sono
cruciali per la percezione della Cina in Germania".
Gli oltre mille firmatari dell'appello a Hu Jintao hanno voluto sfruttare la
"finestra di opportunità" dei Giochi. Con l'avvicinarsi delle Olimpiadi, che
il regime ha inteso sfruttare per consacrare definitivamente la sua
rispettabilità internazionale, i dissidenti sperano di ottenere più
attenzione nel resto del mondo. I promotori della lettera aperta si augurano
che al prossimo congresso possa emergere un'ala riformista del partito,
quella componente democratica che prima del massacro di Piazza Tienanmen
aveva autorevoli esponenti anche al vertice della nomenklatura.
Il 17esimo congresso sarà un evento cruciale per gli equilibri di potere
interni al regime. Hu Jintao, insieme con il fedele premier Wen Jiabao, si è
preparato con cura negli ultimi anni. Da una parte Hu ha consolidato
l'influenza di una nuova generazione di cinquantenni nei ruoli chiave della
nazione. Questa leva di dirigenti ha quasi sempre una formazione
tecnocratica, talvolta cosmopolita. Non solo Hu e Wen sono ingegneri, ma
nell'ultimo rimpasto di governo hanno cooptato un ministro degli Esteri che
ha studiato alla London School of Economics, e un ministro della ricerca
scientifica laureato in Germania e con una lunga carriera nel management
tedesco della Audi.
Un'altra caratteristica che unisce molti dirigenti della nuova generazione è
la provenienza dalle file della Gioventù comunista di cui Hu Jintao fu a
lungo il segretario generale. D'altra parte il numero uno del regime non ha
esitato a usare metodi molto antichi per rafforzarsi, come le inchieste
giudiziarie sulla corruzione, che hanno sistematicamente epurato esponenti
del vecchio clan legato al precedente presidente Jiang Zemin, come il
sindaco di Shanghai arrestato l'anno scorso.
L'ideologia di questo gruppo dirigente è stata enunciata con chiarezza da Hu
Jintao negli ultimi tre anni. Sul fronte politico, nessuna concessione alle
"concezioni occidentali della democrazia". Sul fronte economico Pechino
punta a una moderata svolta in senso "socialdemocratico", riequilibrando la
crescita in favore dei ceti più poveri e delle campagne, e riducendo i costi
ambientali dello sviluppo. Ma finora queste ambizioni sono irrealizzate.
Una delle ragioni è proprio il rifiuto di affrontare la
questione della democrazia. Senza i contrappesi di uno Stato di diritto la
corruzione dilaga e i clan di potere locali disattendono le direttive del
governo. Sul fronte dell'informazione l'approssimarsi del Congresso e delle
Olimpiadi ha segnato addirittura una stretta del controllo autoritario. Sono
state inasprite le leggi sulla censura di Internet e proprio da ieri è
entrata in funzione una nuova cyber-polizia: immagini animate di poliziotti
in divisa appaiono all'improvviso sugli schermi dei computer, per ammonire
gli utenti a non visitare siti proibiti.
31 agosto
Ci sono due notizie sulle spese del Senato. Una buona e una cattiva.
Entrambe riguardano un gadget che sa di privilegio: l'agenda che
viene regalata a Natale, con il prestigioso logo di Palazzo Madama e
che i rappresentanti eletti dal popolo donano a nostre spese. Quella
buona è che grazie a una gara europea le rubriche del 2008
costeranno molto meno. Si risparmieranno 50 mila euro rispetto al
2007 e ben mezzo milione di euro rispetto al 2006. E' bastato fare
quello che andrebbe sempre fatto, cioè evitare le trattative
private, perchè le agendone da tavolo calassero da 33 euro a 14,20
mentre quelle piccole dimagrissero da 20,28 euro a 6,96. Ottimo.
La cattiva notizia è quanto il
contribuente spreca per questo rituale. Il parco 2008 prevede un
esborso di 258.572 euro, mentre nel 2005 durante la presidenza di
Marcello Pera erano stati buttati via ben 744.156 euro. Pensate: un
miliardo e mezzo di vecchie lire soltanto per il cadeaux di fine
anno. Ma i senatori potrebbero fare ancora di più. E concedere un
regalo di natale a tutti gli italiani: rinunciare alle agende. Con
quei soldi si potrebbe ripulire un'area archeologica. O modernizzare
un reparto d'ospedale. O attrezzare un parco pubblico. Piccoli
gesti, che sarebbero almeno un segnale di buona volontà per l'anno
nuovo.
Svimez: tra chi è emigrato al Nord
accade solo nel 12% dei casi
Quasi inutile il collocamento. Nel Settentrione più contratti a termine
Nel Meridione un
laureato su 4
trova lavoro solo per conoscenza
ROMA - Nel Sud un
laureato su quattro trova lavoro, entro tre anni dalla tesi, grazie a canali
"informali". Vale a dire, grazie alle conoscenze. Cosa che accade invece
solo al 12 per cento dei ragazzi che si sono trasferiti a Nord per studiare.
Lo rilevano le anticipazioni di uno studio di Margherita Scarlato che sarà
pubblicato sul prossimo numero della Rivista Economica del Mezzogiorno,
trimestrale della Svimez, Associazione per lo sviluppo dell'industria nel
Mezzogiorno.
Nel Sud, infatti, laurearsi è importante, si legge nel rapporto, ma "se si
proviene dalla famiglia 'giusta', non solo perché ricca ma pure perché
inserita in un reticolo di rapporti sociali". Infatti i canali più
utilizzati dai neo-laureati restano la conoscenza diretta, la segnalazione
da parte di parenti o amici oppure la prosecuzione di un'attività familiare.
Immobilità sociale. Tuttavia la "raccomandazione" non ha solo
conseguenze positive (trovare un posto): i "canali informali", infatti,
funzionano bene su scala locale, e di solito in piccole imprese o per ruoli
modesti. Chi entra nel mondo del lavoro per conoscenze rischia dunque di non
fare carriera, anche perché i posti "alti" sono occupati da chi ha alle
spalle famiglie più forti. E questo spiega perché la mobilità sociale è
bassa: nel Mezzogiorno il 72 per cento dei lavoratori è "immobile", non
avanza cioè professionalmente.
Canale fisiologico o patologia. Ma dare lavoro a qualcuno per
conoscenza è giusto o sbagliato? Dipende, spiega lo studio. Le reti
informali, infatti, sono "un canale fisiologico per rendere più fluido
l'incontro tra domanda e offerta". Ma diventano un "problema patologico
quando le credenziali del sistema scolastico e universitario sono poco
utilizzabili dai datori di lavoro ai fini della valutazione dei giovani".
Collocamento. La conoscenza al Sud sembra però funzionare molto più
degli altri metodi per iniziare a lavorare. Gli ultimi dati disponibili
risalgono al 2004: allora il 15 per cento dei giovani ha fatto un concorso
pubblico per trovare un impiego. Solo per una piccola percentuale il
collocamento è servito a qualche cosa. Le società private hanno rimediato un
posto a un esiguo 2,3 per cento, peggio ancora sono andate le liste
pubbliche: utili solo nell'1,7 per cento dei casi.
Per tutti gli altri resta la "spintarella". Fondamentale è la famiglia che
si ha alle spalle: per i nuclei dei ceti sociali più bassi, rileva lo
studio, l'investimento negli studi universitari può essere rischioso. "La
laurea - si legge nel rapporto - riduce il rischio che lo studente resti
disoccupato, ma non riduce il rischio di trovare un'occupazione mal
retribuita".
Nord e Sud. Inoltre restare in un luogo "protetto", evitando di
allentare i legami familiari e di conoscenze, aiuta a puntare a un contratto
a tempo indeterminato. Tra chi è emigrato al Nord si registra infatti la
percentuale maggiore di contratti a termine: il 60,3 per cento contro il
41,7. E chi ha lasciato il Meridione risalendo la penisola corre anche
maggiori rischi di lavorare senza contratto: si tratta dello 0,9 per cento
dei casi contro lo 0,3.
Chi va al Nord, infatti, spesso lo fa proprio perché "l'emigrazione offre
un'alternativa alla ricerca di una protezione locale". Chi non ha "agganci"
dove è nato, dunque, cerca di farsi una carriera altrove. Anche se, fa
notare lo studio, spesso si continuano a usare "le norme e le reti sociali
di origine poiché il processo di apprendimento di codici nuovi di
comportamento è lento".
La storia dei due anarchici è stata
ripresa da cinema e teatro
La loro morte, 80 anni fa, è destinata a rimanere nella nostra mente
Sacco e Vanzetti, una
sporca faccenda
nell'America della pena capitale
Nicola Sacco e
Bartolomeo Vanzetti
di ANDREA CAMILLERI
Il secolo che ci siamo lasciati alle spalle appena sette anni fa è stato
brillantemente descritto dallo storico britannico Eric Hobsbawm "il secolo
breve". Una definizione forse più esatta, però, sarebbe "il secolo
compresso", perché mai un periodo di 100 anni ha visto così tante guerre
mondiali, così tanti progressi scientifici e tecnologici, così tante
rivoluzioni, così tanti eventi epocali ammonticchiati l'uno sull'altro. Il
secolo passato sembra come una valigia troppo piccola per contenere tutto
quello che è successo: è troppo piena di vestiti vecchi, e ce ne sono alcuni
che ci impediscono di chiuderla e metterla via in soffitta una volta per
tutte. Uno di questi è il caso di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Nel
secolo trascorso, milioni di uomini e donne sono morti in guerre, epidemie,
genocidi e persecuzioni, e purtroppo la loro memoria corre serissimo rischio
di scomparire.
Eppure la morte di Sacco e Vanzetti sulla sedia elettrica 80 anni fa, così
come la morte di John e Robert Kennedy sotto i proiettili dei killer, sono
destinate a rimanere nella nostra mente.
Forse perché, come per i fratelli Kennedy, troviamo ancora difficile
accettare le ragioni, o la mancanza di ragioni, della loro morte. E in
Italia, dove l'omicidio insensato (o fin troppo sensato) è stato per lungo
tempo un elemento del panorama politico, questo disagio lo si avverte con
asprezza.
Nel caso di Sacco e Vanzetti, sembrò subito chiaro a molti, in Europa e
negli Stati Uniti, che il loro arresto, nel 1920 - inizialmente per possesso
di armi e materiale sovversivo, poi con l'accusa di duplice omicidio
commesso nel corso di una rapina nel Massachusetts - i tre processi che
seguirono e le successive condanne a morte erano pensati per dare,
attraverso di loro, un esempio. E questo nonostante la completa mancanza di
prove a loro carico, e a dispetto della testimonianza a loro favore di un
uomo che aveva preso parte alla rapina e che disse di non aver mai visto i
due italiani.
La percezione era che Sacco, un calzolaio, e Vanzetti, un pescivendolo,
fossero le vittime di un'ondata repressiva che stava investendo l'America di
Woodrow Wilson. In Italia, comitati e organizzazioni contrari alla sentenza
spuntarono come funghi non appena essa fu annunciata. Quando la sentenza fu
eseguita, nel 1927, il fascismo era al potere in Italia da quasi cinque anni
e consolidava brutalmente la propria dittatura, perseguitando e
imprigionando chiunque fosse ostile al regime, inclusi naturalmente gli
anarchici. Eppure, quando Sacco e Vanzetti furono giustiziati, il più grande
quotidiano italiano, il Corriere della sera, non esitò a dedicare alla
notizia un titolo a sei colonne. In bella evidenza tra occhielli e
sottotitoli campeggiava un'affermazione: "Erano innocenti".
Non c'è probabilmente un solo quotidiano italiano che non abbia dedicato un
articolo a questo caso, ogni 23 agosto, dal 1945 a oggi.
Nel 1977 fu dato grande risalto alla notizia che Michael Dukakis, all'epoca
governatore del Massachusetts, aveva riconosciuto ufficialmente l'errore
giudiziario e aveva riabilitato la memoria di Sacco e Vanzetti.
In Italia, la loro storia diventò il soggetto di uno spettacolo teatrale,
che ebbe grande successo prima di venire trasformato, nel 1971, in un
bellissimo film, diretto da Giuliano Montaldo, con splendide interpretazioni
e una colonna sonora di Ennio Morricone, che comprendeva anche canzoni di
Joan Baez. (Anche l'album di Woody Guthrie, Ballads of Sacco and Vanzetti,
del 1960, ebbe un grande successo in Italia.). E nel 2005, la Rai, la
televisione pubblica italiana, ha prodotto un lungo programma sui due
italiani giustiziati. (Stranamente, per qualche ragione, la Rai non ha mai
trasmesso, nonostante ne abbia acquisito i diritti molto tempo fa, The
Sacco-Vanzetti Story, un film per la televisione girato nel 1960 da Sydney
Lumet.)
E adesso un sito italiano ospita una vivace discussione sul caso dei due
anarchici. Uno dei tanti partecipanti al dibattito scrive: "L'unica colpa di
quei poveracci era di lottare contro il razzismo e la xenofobia".
E un altro: "Che cosa è cambiato? La pena di morte in America esiste ancora,
certe volte perfino per degli innocenti, e il razzismo e la xenofobia sono
in aumento". E un terzo: "È impossibile fare paragoni fra quel periodo e
questo. Oggi i tribunali fanno errori, errori gravi, ma comunque errori,
mentre allora fu commesso un omicidio bello e buono, a fini esclusivamente
politici. E anche se il razzismo è ancora vivo e vegeto negli Stati Uniti,
sono stati fatti grandi passi avanti". Infine, una conclusione: "Fu una
faccenda sporca in un'epoca difficile".
Una faccenda sporca davvero se gli italiani, solitamente indulgenti verso la
terra che ha accolto così tanti loro concittadini bisognosi che partivano
emigranti, ci si soffermano ancora, dopo tutti questi anni. Il dibattito, a
quanto sembra, è tuttora in corso. Un segnale, forse, che la ferita non si è
ancora cicatrizzata. E che ancora, per quanto ci sforziamo, non riusciamo a
chiudere quella valigia.
I manovali
dell'autodistruzione
di MICHELE SERRA
La costa tirrenica
della Sicilia in fiamme
Sul Sud che brucia per
mano di alcuni suoi scellerati abitanti si è già detto tutto o quasi. Che la
colpa è di interessi speculativi e malavitosi legati all'edilizia; di leggi
buone ma tanto per cambiare inapplicate o inapplicabili; di cascami di una
cultura agropastorale riottosa ai rimboschimenti; di mezzi di spegnimento
mai abbastanza poderosi e moderni a fronte della progressione geometrica dei
fronti di fuoco; del clima che rinsecchisce la Terra. Addirittura di qualche
giovane idiota che appicca le fiamme per svago, divertimento congenere ai
sassi dai cavalcavia.
Ma nessuna di queste ragioni, tutte purtroppo verosimili e molte già
verificate, basta a spiegare una catastrofe così reiterata e sadica. Lo
scarto tra i famosi "interessi speculativi" e lo scempio del tessuto
ambientale e sociale è infatti così macroscopico, così mostruosamente empio,
da far venire in mente piuttosto categorie psichiatriche: pazzia, istinto di
autodistruzione, voglia di morte. Se un consesso umano è un organismo, potrà
bene ammalarsi come un singolo individuo.
Nessuna persona sana di mente, per quanto disonesta o avida, vorrebbe
ridotti in cenere il suo paese, le sue case, la sua gente, la sua terra, nel
nome di qualche suo progettino commerciale. Per bruciare un pezzo di Italia
con tanta determinazione, in più punti, profittando vigliaccamente del vento
che moltiplica i focolai, bisogna avere perduto ogni nesso logico tra le
proprie ambizioni, qualsiasi siano, e la realtà della vita. Non c'è mancanza
di coscienza ecologica o di rispetto ambientale che possa davvero spiegare
l'intenzione dei piromani, che non rimanda a una "normale" volontà
criminale, o a una volgare indifferenza per la collettività e il paesaggio,
quanto a una sorta di soluzione finale.
Terra bruciata. Esseri umani carbonizzati, boschi distrutti, attività
economiche abortite, turismo in ginocchio, case abbandonate, campi
improduttivi, pubblicità nefasta che fa il giro del mondo: come può tutto
questo rientrare in una partita di giro economica, in un cinico calcolo su
rimborsi e modifiche di piani regolatori? Siamo abituati (o rassegnati) a
spiegare tutto con l'economia, che è diventata la sola disciplina in grado
di mettere d'accordo il basso e l'alto, intellettuali e popolo, a scapito di
vecchie scienze umane come l'antropologia o la psichiatria. Ma guardando i
telegiornali, leggendo i giornali, ascoltando i racconti dei superstiti,
passando lo sguardo su quelle ustioni che hanno preso il posto degli alberi,
degli uomini e delle bestie, qualcosa ci dice che l'analisi non è completa,
che il "cui prodest" pan-economico non basta più a entrare nel cuore di un
crimine così spaventoso e funereo.
Di opinioni sentenziose e spesso para-razziste sulla deriva sociale
inarrestabile del Mezzogiorno italiano se ne sono sentite a iosa. E anche,
di contro, altrettante autogiustificazioni pietistiche e puerili, con la
gnola secolare sullo "Stato che non fa abbastanza". (Ma lo Stato, questa
volta, ha mandato l'esercito. Massima solennità simbolica, speriamo quasi
altrettanta efficacia repressiva). Ma il mistero di una psicologia civile
così autolesionista, di una comunità così ricca di risorse e qualità e così
permeabile dal crimine, dalla sopraffazione, dal macello sociale, in questo
caso perfino dall'autodistruzione, esiste e soprattutto resiste.
"Non si riesce a capire", in questo come in altri casi
"non si riesce a capire" come fermare il fuoco che consuma questo pezzo
meraviglioso e orrendo del nostro Paese, e si capisce soltanto che il
groviglio è tutto interno a quella società e quei luoghi, che i soli in
grado di spegnere le fiamme non sono i Canadair, non è "lo Stato" (che è
quello che è anche perché assomiglia terribilmente ai suoi cittadini: e in
questo caso, comunque, non appicca il fuoco ma si danna per spegnerlo), sono
le persone che lì abitano, lì sognano e lì patiscono. I piromani hanno
parenti, amici, figli a scuola, vanno negli stessi bar di chi ieri fuggiva
terrorizzato, evacuava ospedali e abitazioni, malediceva la sorte. Un senso,
una spiegazione (anche immateriale e terribile come una forma di follia
sociale irrefrenabile) ci dovrà pure essere, e non è lo Stato che può, da
solo, risolvere la faccenda come un Santo patrono. La faccenda è nelle mani
di chi è costretto a camminare sulla cenere. Di chi viene considerato da
suoi concittadini come stoppie da bruciare, rifiuti da eliminare, piccoli
ingombri umani sulla terra calva.
La lesbica iraniana che Londra vuole
cacciare
l'espulsione rinviata solo di pochi giorni
Salviamo Pegah dalla
lapidazione
di JOHN LLOYD
Pegah Emambakhsh
LAPIDARE un uomo o una
donna fino a farli morire può richiedere molto tempo, specialmente se coloro
che scagliano le pietre desiderano di proposito prolungarne l'agonia. Il
colpo di grazia alla testa, in grado di portare a uno stato di incoscienza o
alla morte, può farsi attendere anche un'ora, mentre le pietre di piccole
dimensioni che provocano contusioni sono rimpiazzate poco alla volta da
pietre di dimensioni maggiori in grado di frantumare gli arti. Soltanto
quando il corpo è in agonia in ogni sua parte può sopraggiungere la morte.
Questa è la sorte che potrebbe attendere Pegah Emambakhsh, una donna
iraniana di quaranta anni, il cui crimine è quello di essere lesbica. Pegah
Emambakhsh ha trovato rifugio nel Regno Unito nel 2005, in seguito
all'arresto, alla tortura e alla condanna a morte per lapidazione della sua
partner sessuale (non è chiaro, ad ogni buon conto, se la sentenza è stata
eseguita o lo sarà in futuro). La sua domanda di asilo però è stata
respinta: secondo l'Asylum Seeker Support Initiative di Sheffield, dove
Pegah si trova rinchiusa in un centro di detenzione, quando le è stato
chiesto di fornire le prove della sua omosessualità e lei non ha potuto
farlo, le è stato riferito che doveva essere deportata. L'estradizione, che
doveva avvenire oggi, all'ultimo momento è stata rinviata al 28 agosto: alla
fine del mese potrebbe essere già morta.
La Repubblica Islamica Iraniana, si legge in un recente rapporto, è "più
omofobica di qualsiasi altro paese al mondo o quasi. La tortura e la
condanna a morte di lesbiche, gay e bisessuali, caldeggiate dal governo e
contemplate dalla religione, fanno sì che l'Iran sembri agire in barba a
tutte le convenzioni sottoscritte a livello internazionale in tema di
diritti umani".
Leggere il rapporto, redatto da Simon
Forbes dell'organizzazione londinese Outrage, è terribile: vi si leggono
storie di giovani uomini e giovani donne perseguitati, arrestati, picchiati,
torturati e giustiziati - spesso con soffocamento lento - per avere avuto
rapporti omosessuali.
Il brutale giro di vite nei confronti dei gay iraniani - gruppo che non ha
mai goduto di grande supporto nel suo stesso paese - è iniziato dopo il 1979
e l'arrivo al potere del regime religioso ispirato dall'Ayatollah Khomeini.
All'epoca gli omosessuali colti in flagranza o sospettati di essere gay
erano impiccati agli alberi sulla pubblica piazza. In linea di massima si
trattava di uomini, ma non mancavano le donne. A quei tempi i diritti degli
omosessuali non erano una causa granché popolare da nessuna parte e il nuovo
regime, ispirato da un genere di fondamentalismo islamico che non poneva
limiti al proprio radicalismo e che addossava a Stati Uniti e Occidente la
responsabilità di tutti i suoi mali, non vedeva necessità alcuna di
dissimulare le proprie azioni. Tutto ciò è andato avanti fino alla fine
degli anni Ottanta, quando i diritti dei gay hanno riscosso ovunque maggiore
comprensione: le proteste internazionali hanno iniziato a moltiplicarsi e il
regime, preoccupato in maggior misura per la propria immagine a livello
internazionale, è diventato meno radicale e ha posto fine a queste
dimostrazioni.
Ciò non significa che le esecuzioni fossero cessate. Il 19 luglio 2005 due
adolescenti gay della città iraniana di Mashhad sono stati impiccati in
pubblico, giustiziati con un lento strozzamento. Sono stati condannati a
morte per il fatto di essere gay. Le autorità li avevano accusati di aver
rapito e stuprato un minore, ma a loro carico non è mai stata prodotta
alcuna prova. La comunità gay iraniana e i gruppi di difesa dei diritti
umani non hanno mai creduto alle accuse ufficiali. La loro condanna a morte
è servita a rammentare a tutti che l'omosessualità, nell'Iran di Ahmadinejad,
è tuttora considerata un reato punibile con la condanna a morte. Per gli
uomini o le donne sposate la condanna a morte è eseguita tramite
lapidazione, perché nel loro caso il reato è considerato più grave. (Pergah,
che ha due figli, ha dovuto contrarre un matrimonio organizzato).
Quantunque negli ambienti della middle-class di Teheran una certa discreta
attività gay sia ancora possibile, il rischio - estremo, di morte - lo si
corre sempre. Il rapporto di Outrage così commenta: "Affermare che per gli
omosessuali del 2006 alcune zone dell'Iran sono più sicure di altre equivale
ad affermare che per gli ebrei del 1935 alcune zone della Germania erano più
sicure di altre".
Deportare una donna sulla quale incombe una morte tramite lenta agonia per
il fatto di esercitare le proprie preferenze sessuali non è azione degna di
uno Stato civile: non possiamo che augurarci che le autorità britanniche
facciano dietrofront. Una speranza ancora c'è: uno dei membri del Parlamento
dell'area di Sheffield dove vive oggi Pegah, Richard Carbon, Ministro dello
Sport, alcuni giorni fa ne aveva bloccato la deportazione e le autorità
l'hanno rinviata a domani sera. Le associazioni gay hanno diffuso la notizia
in tutto il mondo e i media di molti paesi, Italia inclusa, hanno sollevato
il caso.
Per la Gran Bretagna in tutto ciò vi è un triste paradosso: essa è stata e
rimane il rifugio di molti musulmani che professano apertamente di odiarla,
in parte proprio per le sue opinioni relativamente liberali in fatto di
omosessualità, e per le sue leggi sui diritti umani. Alcuni musulmani,
accusati di istigare al terrorismo, sono stati deportati, la stragrande
maggioranza no. Eppure, adesso una donna che in Gran Bretagna ha trovato
salvezza da una pena efferata e che ha fatto appello alle autorità perché le
considerava tolleranti, potrebbe essere rispedita indietro e, di fatto,
mandata a morire. Deportare Pegah Emambakhsh non sarebbe semplicemente
un'ingiustizia: sarebbe indegno di uno Stato civile.
Consulenti d'oro
di Marco Lillo
Un miliardo e mezzo l'anno speso da
Stato e regioni per incarichi inutili. Concesso ad amici, politici,
faccendieri. E Palazzo Chigi frena la trasparenza. La rete dello
spreco
Una seduta della Corte dei Conti
Una città di 261 mila abitanti, tanti sono i consulenti esterni
della nostra pubblica amministrazione. Una massa enorme che succhia
ogni anno un miliardo e mezzo di euro dalle casse pubbliche.
Architetti, ingegneri, avvocati, commercialisti, ma anche personaggi
in cerca di contratto senza alcuna competenza, figli di ministri,
amanti, clienti e famigli, portatori di voti, politici trombati e
manager arrestati. Tutti in fila per incassare la loro fetta della
grande torta. Il ministero della Funzione pubblica tra poche
settimane presenterà in Parlamento la sua relazione sugli incarichi.
'L'espresso' è in grado di anticiparne il contenuto. A leggere le
tabelle, riferite al 2005, ultimo anno censito, c'è da restare a
bocca aperta.
I consulenti esterni sono 156 mila e 500, la popolazione di un
capoluogo di regione come Cagliari, vecchi e bambini compresi, a cui
vanno aggiunti i 105 mila pubblici dipendenti che eseguono
prestazioni extra per altri enti fino ad arrivare a un totale di 261
mila persone. Una città grande come Venezia che galleggia sulla
spesa pubblica. Basterebbe abolire le consulenze e si potrebbe
rimborsare l'imposta sulla prima casa a due italiani su tre. Ma non
si può. Il fenomeno è ormai strutturale: nulla riesce a combatterlo.
Rispetto al 2004 la spesa è ferma a 1 miliardo e 500 milioni di
euro. E anche se gli incarichi sembrerebbero diminuire, il
condizionale è d'obbligo: i burocrati tardano nel consegnare gli
elenchi degli ingaggi e quasi sempre il dossier finale lievita di
mese in mese, con rialzi di centinaia di milioni.
La spesa per gli incarichi esterni è ormai una montagna difficile da
ignorare anche per la politica italiana. La Finanziaria del 2005
aveva posto dei limiti precisi al potere discrezionale degli
amministratori, poi erano intervenuti il ministero con una circolare
e la Corte dei Conti. La Procura Regionale del Lazio, quella
competente sugli organi centrali, ha dato un segnale inequivocabile,
mettendo all'indice i vertici di 14 colossi pubblici. Si va dall'ex
commissario dell'Unire, l'ente delle razze equine, al quale sono
stati contestati 147 mila euro , fino alle consulenze elargite dai
tre ultimi ministri della giustizia: Fassino, Diliberto e Castelli.
Dal direttore generale dell'Istruzione, sotto accusa per 90 mila
euro di parcelle, all'Asi, l'Agenzia spaziale italiana, che avrebbe
mandato in orbita assegnazioni illegittime per un totale di 381 mila
euro.
Chi non pubblica paga
L'onda però è proseguita ignorando anche i fulmini della
magistratura contabile, fino a quando i senatori della Sinistra
democratica, Cesare Salvi e Massimo Villone, hanno tirato fuori dal
cilindro un'arma letale contro le consulenze facili dello Stato. Un
comma inserito nella manovra per il 2007, che rappresenta una miccia
accesa nel sottobosco della politica: "Nessuna consulenza può essere
pagata se non sia stata resa nota, con tanto di nome e compenso, sul
sito Web dell'amministrazione". E se l'incarico non viene
pubblicizzato, scatta una punizione micidiale: chi ordina il
pagamento e chi ne beneficia deve restituire i soldi di tasca sua.
Sembrava l'uovo di Colombo, in grado di trasformare il Palazzo in
una casa di vetro. Tutti avrebbero saputo in tempo reale con un
click i nomi dei 223 consulenti delle agenzie fiscali, dei 14 mila
uomini d'oro della sanità e soprattutto dei 4 mila e 563 prescelti
dai ministeri. Purtroppo, l'Eden della trasparenza telematica non si
è realizzato. Cavilli, circolari e ricorsi burocratici hanno
depotenziato l'arma letale. E alla fine più della metà dei ministeri
ha mantenuto il silenzio. Nella lista dei buoni figurano Funzione
pubblica, Comunicazioni, Interno, Solidarietà sociale, Commercio
estero, Salute, Sviluppo economico, Attuazione del programma, Affari
regionali, Economia. Mentre tra i bocciati troviamo a sorpresa un
paladino della lotta alle consulenze fasulle come Alfonso Pecoraro
Scanio. Il ministero degli Esteri, pur non avendo ancora sul sito la
lista, non ha avuto difficoltà a consegnarla a 'L'espresso', come
hanno fatto anche l'Enav, l'Unire e l'Aams. Va detto però che il
cattivo esempio viene dall'alto. I dipartimenti e gli uffici di
Palazzo Chigi non hanno ancora pubblicato l'elenco dei consulenti.
"Ma nel frattempo", spiega il segretario generale Carlo Malinconico,
"i pagamenti degli incarichi conferiti dopo la finanziaria del 2007
sono sospesi".
I beneficiati
Chi è sul Web invece può incassare. Ed ecco spuntare una lista
infinita di avvocati, ingegneri, commercialisti, architetti o
semplici ragionieri. Pochi i nomi noti. Come Pellegrino Mastella,
figlio del Guardasigilli e consulente di Bersani allo sviluppo
economico per 32 mila euro. Nelle liste dell'Inpdap spunta il
manager informatico Elio Schiavi. Chi è? Secondo Visco è stato una
vittima dello spoils system di Tremonti. E Schiavi, definito dal
viceministro diessino "l'inventore del fisco telematico", potrà
consolarsi con un contratto da 150 mila euro. Alla Farnesina si
segnala invece il rientro sulla scena dell'ex procuratore di Roma
Vittorio Mele. Sottoposto a procedimento disciplinare nel 1998 per i
suoi rapporti disinvolti con il re delle cliniche Luigi Cavallari,
Mele aveva lasciato la magistratura evitando il giudizio del Csm. Ha
appena firmato un contratto da 24 mila euro per quattro mesi e
mezzo. Altri 25 mila euro andranno invece a Giovanni Lombardi,
rappresentante dei Ds nel consiglio degli italiani all'estero, per
progettare il museo dell'emigrazione.
Le Poste pubblicano la lista più completa: 194 gli incarichi e un
paio di curiosità: i 200 mila euro a Maurizio Costanzo e gli 8 mila
euro a Giovanni Floris. Gran parte dei soldi però vanno agli studi
legali, come quello dell'onorevole di An Giuseppe Consolo (126 mila
euro per il 2007) o quello fondato da Giulio Tremonti che ha preso
25 mila euro. L'Anas invece mostra un profilo fin troppo basso.
Stando alle striminzite comunicazioni del sito, avrebbe speso finora
poco più di 400 mila euro per sei incarichi. Una carestia rispetto
ai 41 milioni del 2003 e ai 20,4 milioni dell'ultimo anno. Dov'è
finita l'azienda sprecona che regalava 2 milioni e mezzo di euro in
consulenze come buonuscita ai consiglieri? Basta fare un paio di
verifiche per scoprire che il lupo cambia colore politico ma non il
vizio. Sul sito non appare, per esempio, l'ingaggio da 100 mila euro
all'ex consigliere Alberto Brandani, vicino all'Udc. Perché?
Risposta burocratica: la commissione di cui fa parte è anteriore
alla nuova legge. Esemplare la vicenda di Giuseppe D'Agostino. Un
collaboratore da 50 mila euro l'anno, ignorato nella lista pubblica,
ma attivo in tutto il mondo, dove incontra ministri per conto dell'Anas.
In Moldavia ha presentato un accordo, seduto accanto al premier, per
rifare tutte le strade . Non figurano sul sito neanche i due
giovanissimi avvocati Sergio Fidanzia e Angelo Gigliola. Trent'anni
a testa, iscritti all'albo dal 2005, hanno ricevuto dall'Anas un
paio di arbitrati e la difesa della società nelle cause più
importanti, quelle contro le autostrade davanti al Tar e alla Corte
di giustizia europea. Per le stesse controversie è stato arruolato
anche Marco Annoni, legale arrestato dal pool di Mani Pulite che ha
patteggiato la sua condanna per tangenti. Il loro compenso è top
secret. Ma quella degli avvocati in carriera non è un'eccezione.
Perché con una direttiva firmata da Romano Prodi molte categorie
sono state escluse dalla trasparenza. Una deroga che regala
l'anonimato a tanti professionisti della parcella: tra loro artisti,
società di revisione e soprattutto avvocati patrocinanti.
Particolare piccante: il segretario generale di Palazzo Chigi che
sta seguendo la partita delle consulenze è l'ex avvocato Carlo
Malinconico, titolare dell'omonimo studio, chiuso dopo l'approdo a
Palazzo Chigi, nel quale hanno mosso i primi passi i giovani
Fidanzia e Gigliola.
Agenzie reticenti
L'Anas è in buona compagnia. Anche le agenzie fiscali seguono la
linea dell'ermetismo. A fine agosto, territorio, dogane, monopoli ed
entrate dichiarano sui rispettivi siti in tutto 21 consulenze. Nel
2004, secondo il ministero, le agenzie elargivano 223 incarichi. Che
fine hanno fatto? Una parte importante si trova nel calderone della
Sogei, che fornisce personale e servizi alle agenzie, e che però
copre i suoi consulenti con il silenzio. È il caso del braccio
destro del direttore dei Monopoli, Giorgio Tino. Si chiama Guido
Marino e lo accompagna persino alle audizioni in Parlamento. Proprio
a Marino, il direttore Tino ordina al telefono (intercettato dal
solito pm Woodcock) nell'aprile del 2005: "Procurami tutte le carte.
Poi leva da tutti i computer e lascia solo sul tuo senza farlo
vedere ai colleghi". Oggi Marino sul sito non c'è, anche se il suo
incarico, ottenuto da Sogei con una sorta di gara, potrebbe valere
circa 2 milioni di euro.
Situazione analoga all'Ice. L'Istituto per il commercio estero non
espone la sua lista e così è impossibile sapere quanto guadagna la
società Triumph, controllata da Maria Criscuolo, imprenditrice molto
amica di Umberto Vattani, come è emerso dalle intercettazioni di
un'inchiesta contro il capo dell'Ice. Anche la Triumph sarebbe
oscurata dalla solita direttiva Prodi. Attacca Cesare Salvi: "Quella
circolare limita moltissimo l'obbligo di trasparenza e va contro la
legge. Comunque non ci fermiamo. La strada è quella giusta e anche
il premier lo sa. Ora vogliamo chiedere che nella Finanziaria si
includa l'obbligo di pubblicare tutti gli atti di spesa. Anche se il
vero problema sono gli enti locali, sui quali non possiamo
intervenire. Lì accadono gli abusi peggiori".
Roberto Formigoni, presidente
della regione Lombardia
Bengodi locale
L'autonomia delle regioni è diventata libertà di spreco.
L'Eldorado delle consulenze è in Lombardia: il censimento parziale
del 2004 segnalava 45.500 incarichi con 185 milioni di euro
liquidati. E tutto calcolato per difetto: un quinto del totale
nazionale. Un sistema di potere parallelo, in parte all'insegna
della cultura del fare, nella presunzione che il professionista
esterno nominato direttamente faccia prima e meglio. Il modello caro
a Letizia Moratti, che in un anno a Palazzo Marino ha assegnato 91
incarichi. In parte però questo network nutre anche il sottobosco
del potere. L'ultimo scandalo è recentissimo, emerso alla vigilia di
Ferragosto con un'istruttoria penale per truffa. Al centro un
progetto finanziato dal Pirellone per costruire sul lago di Como il
Museo di Leonardo. Viene perquisita la Glr Consulting, controllata
dal consigliere regionale Gianluca Rinaldin di Forza Italia. In
Piemonte, nel 2005, regione, province e comuni hanno inghiottito
consulenze per 18 milioni di euro, un terzo dei quali ritenuto privo
dei requisiti. A Genova, le Fiamme Gialle hanno contestato un danno
erariale superiore ai 20 milioni: sotto accusa nove amministratori
dell'Istituto tumori. La Guardia di finanza spiega che, "a fronte di
enormi investimenti effettuati, non è stata prodotta alcuna attività
scientifica". Nel Lazio il meccanismo si è evoluto per aggirare i
controlli. E le designazioni vanno a carico delle società a
partecipazione regionale. Secondo una denuncia dei sindacati,
Sviluppo Lazio ne ha assegnate per un importo di 27 milioni; la
Filas per 8,2 milioni, la Bic per 5. In Abruzzo tra gli ingaggi
della giunta guidata da Ottaviano Del Turco si segnala il fotografo
personale del presidente e il vignettista. Il primo costa 60 mila
euro, il secondo 32 mila per occuparsi, tra l'altro, del cartoon
'Capitan Abruzzo'. Il fumettista è figlio del sindaco di Collelongo,
comune della Marsica che ha dato i natali a Del Turco.
Certo, a Sud la situazione è peggiore. C'è il caso Calabria che
spicca fra tutti. Quando i magistrati sono andati a mettere il naso
negli incarichi della Regione, si sono messi a piangere. In soli tre
mesi ne erano stati assegnati una valanga: metà con importi non
specificati, l'altra metà per oltre 487 mila euro. E tutti, ma
proprio tutti, illeciti. Persino quelli destinati all'attuazione del
'piano di legalità' non rispettavano le regole. In altre regioni gli
incarichi sono quasi dei benefit. In Molise lo scorso anno il
presidente della giunta ha nominato due consiglieri personali
costati 115 mila euro. Nella lista non manca una ricerca sui
molisani a Stoccarda per 41 mila euro e un intervento sperimentale
sulle lepri da 15 mila.
In Sicilia, invece, consulenza è sinonimo di favore. Talvolta anche
agli amici degli amici. Come nel caso di Francesco Campanella, il
mafioso ed ex presidente del consiglio di Villabate, oggi
collaboratore di giustizia. Anche lui non si lasciò sfuggire un bel
contratto. Nessuno oggi è in grado di stabilire quanti siano i
consulenti: c'è stato persino un esperto per la 'prevenzione dei
rischi connessi al diffondersi del bioterrorismo'. Un caso limite?
No: a Rosolini, comune in provincia di Siracusa, c'è stato l'esperto
per la lettura delle bollette telefoniche. A Catania ancora
ricordano l'affascinante Miriam Tekle. La splendida top model
eritrea, dopo aver partecipato alle finali di Miss Italia nel mondo,
venne nominata alle dirette dipendenze dell'assessorato comunale
all'Industria, per svolgere funzioni di 'supporto dell'attività
d'indirizzo'. Per quell'incarico, la bella Miriam avrebbe dovuto
percepire poco più di 24 mila euro all'anno. Dopo le proteste non se
fece nulla, perché Miriam, così c'è scritto, aveva 'poca attitudine
al ruolo'.
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L'isola che non c'era |
Vicino al Polo Nord, con lo scioglimento dei ghiacci,
emergono rocce non segnalate dalle mappe |
A causa del riscaldamento globale
dovremo ridisegnare cartine, planisferi e mappamondi. Almeno per
quanto riguarda il Polo Nord e i suoi non più ghiacciati
dintorni. Da quando la calotta polare ha cominciato a
sciogliersi, nell'arcipelago delle Svalbard, in Norvegia, sono
aumentate le isole: abbassandosi il livello delle acque, gli
scienziati hanno potuto scoprirne l'esistenza. Il primo a
trovarne una era stato il californiano Dennis Schmitt nel 2001.
Gli
studi. Da quando sono iniziate le misurazioni negli
anni '70, il livello dei ghiacci è il più basso in assoluto.
Secondo Carl Egede Boggild, docente all'Università di Svalbard,
ogni anno se ne scioglie una superficie pari a tre volte
l'estensione totale dei ghiacciai delle Alpi. Se il processo non
si può invertire, con lo stesso ritmo del ritiro dei ghiacciai
verranno scoperte nuove terre e nuove isole. E' proprio per
cercare di prevedere quali nuovi fenomeni naturali avranno come
teatro il Polo Nord che dal 20 al 22 agosto si sono riuniti a Ny
Alesund, in Norvegia, i massimi esperti climatici del pianeta.
Il pool di scienziati ha come obiettivo quello di disegnare una
mappa, seppur provvisoria, della zona, in collaborazione con la
Geological Survey of Denmark and Greenland.
L'organizzazione, che dipende dal governo danese, si occupa di
mappare il circolo polare artico in modo da localizzare le
risorse minerarie, petrolifere e naturali.
Che
cosa c'è sotto. Al Polo Nord, oltre alle isole,
emergono anche le possibilità di guadagno. Protetti dai ghiacci
ci sarebbero 50 miliardi di barili di petrolio o, se al conto si
aggiunge il gas naturale, il 25 percento delle risorse
energetiche mondiali non ancora scoperte. Lo ha dimostrato una
ricerca della Us Geological Survey del 2005, che ha
disegnato una mappa provvisoria dei tesori dei fondali marini
artici. Uno studio analogo russo, che puntava a scoprire le
riserve di gas naturale, ne rilevata una quantità pari a 10
miliardi di tonnellate. A questi dati, però, dicono gli esperti,
va fatta la tara. Bisogna sottrarre i costi per la costruzione
degli impianti estrattivi, il tempo necessario perché lavorino a
pieno regime e l'effettiva quantità di risorse estraibile.
Rimangono però i giacimenti di oro e diamanti, e di minerali.
Secondo la Us Geological Survey sotto il Polo Nord ci
dovrebbero anche imponenti giacimenti di uranio, oltre a rame,
zinco, nichel e alluminio.
Il
Polo della discordia. Scoperte le risorse, rimane il
problema dell'attribuzione. Adesso il Circolo polare artico non
è sotto la giurisdizione di nessuno stato ed è amministrato
dall'Isa, l'Autorità internazionale per i fondali marini, con
sede nella capitale giamaicana Kingston. Secondo la Convenzione
Onu del 1982 sul diritto del mare, i Paesi che si affacciano sul
Polo hanno diritto allo sfruttamento solo dei 320 km a nord
della loro linea costiera, a meno che non provino un ulteriore
collegamento sottomarino tra il loro territorio e l'artico. Di
cui nessuno vuole perdere i tesori sottomarini. La Russia è
stata la prima a conficcare la sua bandiera (di titanio) nella
banchisa artica, a 4.300 metri di profondità. Subito dopo il
premier canadese Stephen Harper ha lanciato "una politica
aggressiva", come ha ribadito in una sequenza di conferenze
stampa, da 5,3 miliardi di euro: costruirà 8 navi e una base
militare per farle attraccare. E lui stesso è andato in visita
ufficiale. Quello a cui punta il Canada sono i giacimenti
diamantiferi di cui si è parlato: il settore, nel Paese,
raggiunge all'anno un fatturato di due miliardi di dollari.
Arrivata terza e grazie a un rompighiaccio svedese, la
Danimarca. Helge Sander, il ministro delle Scienze, ha dato
inizio a una missione di un mese per provare la connessione
territoriale tra la Groenlandia, possedimento danese, e il Polo
Nord. "I risultati sono promettenti - ha detto la Sander - e
abbiamo già pianificato altre spedizioni per il 2009 e il 2011".
Gli Stati Uniti, invece, si dicono fuori dalla corsa all'Artico,
ma intanto venerdì scorso, dal porto di Barrow, in Alaska, è
partito il rompighiaccio a stelle e strisce. E' la quarta
spedizione in tre anni, dicono, e ha come obiettivo
l'aggiornamento della mappatura delle risorse.
Le
zone limitrofe. Nel frattempo, sono riemerse le dispute
per i dintorni del Polo tra coppie di Paesi. Danimarca e Canada
si contendono l'isola di Hans, nello stretto di Nares. Anche se
nel 1973 si sono spartiti tutti i territori, quei 100 metri
quadrati di roccia sono rimasti senza padrone e potrebbero
rivelarsi strategici per lo sfruttamento delle risorse polari.
Gli Usa, invece, non riconoscono la sovranità canadese sul
famoso "passaggio a nord-ovest" che collega Atlantico e
Pacifico, anche se sembra abbiano trovato un compromesso:
Washington avvisa se una sua nave attraversa le acque contese, e
Ottawa non può negare l'accesso. Sempre acqua anche tra Russia e
Usa, secondo cui la porzione di mare controllata da Mosca nel
"passaggio a nord-est", la via marittima che costeggia la
Siberia settentrionale, è superiore a quanto consentito dalle
leggi internazionali. Per provare la propria sovranità sul Polo
Nord e sulle zone limitrofe, i Paesi hanno tempo fino al 2014
per raccogliere prove scientifiche, poi l'ultima parola spetterà
alla Corte internazionale di Giustizia che deciderà a chi
attribuire la sovranità sul Polo. Ma potrebbe rimanere una terra
di nessuno.
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La dittatura
della violenza |
A Rio de Janeiro, negli ultimi 14
anni, sono scomparse oltre diecimila persone |
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Sono oltre diecimila, esattamente
10.464, e di loro non si hanno più notizie. Sono i
desaparecidos, gente scomparsa negli ultimi 14 anni, figli,
fratelli, padri mai più tornati a casa, ingoiati dall'oblio.
Siamo in Brasile, nel democratico Brasile, più precisamente a
Rio de Janeiro, la città del carnevale e delle belle donne, ma
anche delle 630 favelas, alveari di casupole di legno abitate da
milioni di poveri che altro non conoscono se non l'arte di
arrangiarsi. A qualunque costo. È in quella terra di nessuno,
dove anche lo Stato deve sgomitare per farsi posto, che si
registra questa tragica situazione.
Criminali
punto e basta. È l'anarchia a farla da padrona nella
periferia di Rio. La criminalità organizzata sguazza in uno
stagno di povertà, impunità e desolazione, e si erge quale
factotum che tutto controlla. Basata sul narcotraffico, sul
contrabbando di armi, su pizzi e contributi estorti alla gente
dei villaggi, la malavita si fa strada a suon di colpi d'arma da
fuoco. Uccide l'adepto che ha sbagliato, o quello che ha
tradito; si improvvisa in estemporanei duelli con pattuglie di
polizia la squadre di militari spedite a dare quanto meno la
parvenza della presenza statale; si scontra in quotidiani far
west con bande rivali per il controllo del territorio ed si
guarda le spalle da bande paramilitari, che si improvvisano
tutori dell'ordine a suon di mitra. Tutto questo, alla faccia di
donne, bambini, anziani, famiglie che tentato di vivere una vita
decente in una zona che di decente ha ormai ben poco.
La guerra delle favelas.
Il 70 percento dei desaparecidos denunciati dal
dipartimento Omicidi della capitale carioca, e resi pubblici dal
quotidiano brasiliano O Globo, sono vittime
proprio di narcotrafficanti, polizia e milizie. E si tratta di
un numero 54 volte superiore a quello riguardante le sparizioni
durante la dittatura militare in Brasile. Se poi si aggiungono
le migliaia di morti degli ultimi anni – 1631 solo da febbraio
scorso, in base al conto tenuto dal sito internet made in
Brasile Rio body count – il quadro è presto fatto. A
Rio c’è una vera e propria guerra, che tiene fuori dalla porta
democrazia e stato diritti. A Rio c’è una vera e propria
dittatura, la dittatura del terrore.
Almeno
i corpi. Le famiglie degli scomparsi non si danno pace.
Da anni reclamano informazioni sui loro congiunti, generalmente
giovani, molti dei quali minorenni. Le regole del gioco
criminale sono spietate: i cadaveri scomodi vengono sotterrati
alla zitta in luoghi ameni per evitare problemi con la polizia.
Chi è eliminato non ha nemmeno il diritto a un funerale. E, a
quanto raccontato alla polizia da alcuni narcos ‘pentiti’,
prima di essere uccisi, vengono persino torturati. Anzi, durante
un processo, uno di questi delinquenti raccontò, davanti alla
madre di uno dei giovani desaparecidos - la quale svenne - che
prima di finirlo, al ragazzo furono tagliate le narici con le
forbici. E, durante il percorso fino al luogo della sepoltura,
li vennero tagliati uno a uno ogni dito, le orecchie e la
lingua. Un'altra volta la vittima venne squartata ancora in vita
e i pezzi del cadavere vennero poi sparpagliate.
Libertà
d'informare. Una sorte simile toccò anche a un
giornalista. Si chiamava Tim Lopes e lavorava per O Globo. Prima
di venir ucciso a colpi in testa, venne barbaramente torturato.
Poi i suoi resti vennero carbonizzati. A raccontarlo, uno dei
delinquenti che prese parte al commando omicida, arrestato dalla
polizia.
Nelle favelas, il narcotraffico “ha
imposto il suo codice di leggi marzial”, ha commentato l’ex
ministro della Giustizia e attuale presidente della Commissione
diritti umani dello stato di San Paolo. La sparizione dei corpi
non è che una delle conseguenze della violenza che impera nelle
favelas, dove la gente ci vive e ci muore non gode degli stessi
diritti fondamentali degli altri cittadini. Le favelas sono un
posto altro dal Brasile delle cartoline. Sono la faccia oscura
di una gigante in marcia verso il boom economico, energetico,
alimentare. E i governanti lo sanno. Per questo Lula sta
investendo fette copiose del bilancio federale nel risanamento
urbano e nella lotta alla violenza. Ma poco si sta facendo,
ancora, per combattere disoccupazione e analfabetismo. Non è
militarizzando che si risolvono le gravi piaghe sociali. Questa
gente dovrebbe prima di tutto avere il diritto di vedere la
presenza dello Stato negli occhi di insegnanti e assistenti
sociali, e non solo nelle canne di fucile in dotazione
all’esercito.
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