NON servono i tortuosi giri di parole in uso nella
Prima Repubblica. Appannato dagli scandali privati, ossessionato dai guai
giudiziari, logorato da due anni di non-governo del Paese, Silvio Berlusconi è
riuscito in qualche modo a vincere anche queste regionali. Lo ha fatto
nell'unico modo che conosce, dall'epifanica "discesa in campo" del '94:
trasformando la contesa elettorale in un altro, esiziale "referendum" sulla sua
persona. Lo aveva detto lui stesso, alla vigilia di un test di medio-termine al
quale si avvicinava con una ragionevole preoccupazione: "Il voto regionale è
politico". Ha avuto ragione lui.
Non
ha certo ripetuto il plebiscito del 13 aprile 2008, di cui anzi ha dilapidato
tanta parte dei consensi. Il suo partito ha perso centinaia di migliaia di voti,
sfiorando il 27% nelle regioni in cui si è votato: 4,5 punti in meno rispetto
alle regionali del 2005, e addirittura 7 punti in meno rispetto alle politiche
2008. Quasi un tracollo, per il "partito del predellino", l'"amalgama mal
riuscito" nel quale il co-fondatore Gianfranco Fini sopravvive con crescente
imbarazzo. Ma pur con tutto il travaglio mediatico di questi ultimi due mesi, e
con l'evidente affanno politico di questi due anni, il Cavaliere ha comunque
vinto il referendum. Suo malgrado, verrebbe da dire.
Grazie alla Lega ha blindato il Nord, espugnando il Piemonte e spopolando in
Veneto. Nonostante il malaffare e il Cosentino-gate ha fatto il pieno anche al
Sud, strappando con margini bulgari la Campania e la Calabria. E a dispetto del
basso profilo della Polverini e dell'assenza del simbolo alla provincia di Roma,
ha conquistato anche il Centro, battendo nel Lazio un avversario di caratura
nazionale come Emma Bonino. Al centrosinistra restano le briciole. A
settentrione il piccolo presidio della Liguria di Burlando, nel Mezzogiorno la
sorprendente enclave della Puglia di Vendola, e in mezzo il solito insediamento
appenninico del vecchio Pci, dall'Emilia alla Toscana, dall'Umbria alle Marche.
Diario di una scrutatrice
Vivo e voto nel XX Municipio di Roma, uno storico
fortino di destra, più finiano che berlusconiano e piegato al berlusconismo dal
vento dominante. Un municipio dove Previti, candidato nel 2000 prese una
percentuale bulgara (quasi il 70%). Un municipio popolare, che negli anni è
diventato povero.
Sono aumentati gli immigrati, per lo più dell'est, per lo più manovali, che alla
giunta circoscrizionale piace nascondere, fomentando contemporaneamente, la
paura di quei nuovi poveri che per ammazzare il tempo, altro non possono se non
guardare la tv. Nelle loro case popolari. E poi l'altra faccia del municipio, le
zone residenziali e abusive nel Parco di Veio, che ospita oltre alle tante,
troppe ville dei commercianti di Roma Nord, la villa che fu di Livia, moglie di
Augusto. Ormai abbandonata.
Il municipio di via Gradoli, anche. Dei trans.
Il municipio, insomma, del caso Marrazzo.
Non avrei voluto fare la rappresentante di lista questa volta. Avrei voluto
osservare i dati, capirli. Poi la notizia dello spiegamento di forze dei
'gladiatori della libertà' mi ha spinto a chiedere un seggio di cui occuparmi ad
un partito di coalizione.
Mi è stato assegnato un seggio nella zona di via Gradoli.
Prima di attraversare la campagna per raggiungere quel limbo di Cassia che ha
smesso di evocare Moro, per evocare le morti misteriose di Cafasso e Brenda,
sono andata a votare nel mio seggio di appartenenza (accanto al 'bar dei rumeni'-
così lo chiamano gli abitanti del quartiere) dove gli ex dc, ora berlusconiani
la fanno da padroni.
Alla consegna del documento di identità il mio nominativo risultava aver già
votato.
I cinque giovanissimi che, per effetto di una legge che forse non conoscono, in
quella sede sono pubblici ufficiali mi dicono: "Sarà stato un errore, può votare
comunque!". E dunque voto. Chiamo il messo comunale e denuncio la vicenda,
riportandola nel verbale. Mentre mi sposto verso via Gradoli penso che avranno
sbagliato riga, confondendomi con una parente, penso che gli scrutatori siano
stati distratti, penso che gli scrutatori non dovrebbero essere distratti,
perché anche un banale broglio può passare per distrazione e solo a Roma ci sono
2600 seggi, che 2600 distrazioni sono potenzialmente 2600 voti persi, o
guadagnati.
Alle tre di ieri pomeriggio è iniziato lo scrutinio. Nel seggio oltre a me, un
rappresentante di lista dell'Udc, uno del Pd. Una presidente ostile e cinque
scrutatori appena ventenni.
Solo una contestazione, la mia. Mi trovo di fronte una scheda con due liste
sbarrate, la lista 'Polverini', l'Udeur. Accanto alla prima era scritto a matita
il nome della candidata presidente, il che costituisce già un'irregolarità
perché Renata Polverini non è inserita nella sua lista ( "è un rafforzativo del
voto" dice la presidente, prendo tempo). Ma era sbarrata anche la lista dell'Udeur,
con accanto il nome di un candidato non presente nella lista elettorale.
Ricapitolando: due liste sbarrate invece di una, con due nomi non presenti nelle
reciproche liste.
Una scheda nulla per il buon senso, ma nulla anche in osservanza del fonogramma
ministeriale spedito il 27 marzo per evitare che i nomi dei candidati esclusi
del Pdl potessero essere conteggiati come preferenze: "nella pubblicazione n°7
per le elezioni regionali è rappresentato testualmente che la giurisprudenza di
prevalente del consiglio di stato è comunque ferma nel ritenere che è nullo il
voto che contenga l'espressione di preferenza per un nominativo che non
corrisponde a quello di nessuno dei candidati costituendo siffatta erronea
indicazione un palese segno di riconoscimento del voto". Schede analoghe nei due
seggi accanto al nostro, sono state annullate senza troppe discussioni.
Leggiamo il fonogramma una , dieci, venti volte. Per la presidente è valida, per
me no. Le chiedo di chiamare il Ministero dell'interno. Ma si rifiuta. Chiedo al
poliziotto presente nella scuola di entrare ed essere testimone. Il poliziotto
chiede alla presidente se debba allontanarmi dal seggio. È in suo potere farlo.
Spiego al poliziotto che quella aveva tutta l'aria di essere una intimidazione
abbastanza manifesta. Quando lo vedo in estrema difficoltà, chiamo io, in viva
voce, il Ministero dell'interno. Spiegato il caso mi dicono che l'ultima parola
è della Prefettura. Così chiamo l'ufficio elettorale della Prefettura che
ammette l'inammissibilità del voto. La presidente si ostina. Ripetendo che nel
seggio, l'ultima parola spetta a lei.
Questa storia finisce così, con un voto convalidato e contestato da un lungo
verbale. Ma questa storia, per me, rappresentante di lista di una lista che
neppure mi rappresenta, finisce negli occhi dei cinque giovani ventenni
scrutatori che non hanno espresso un'opinione su quella scheda, che erano
indispettiti con me, perché mi ha detto una di loro: "stasera c'è la finale di
Amici, pensavo di tornare a casa presto", questa storia finisce negli occhi del
rappresentante di lista dell'Udc che dopo essere stato zitto per due giorni e
per tutto lo scrutinio mi dice " sai che c'è? Udc? Pdl? io vado con chi mi dà di
più, almeno non lavoro per due giorni e guadagno pure".
Negli occhi di tutti loro ho visto l'ignavia. E io, che trent'anni ancora non ce
l'ho, mi sono preoccupata.
Questa storia finisce in una sconfitta. Non solo elettorale. La sconfitta, fuori
da ogni demagogia, è non aver insegnato a quelli che ci sono e a quelli che
stanno sostituendo quelli che si sono stati, che il voto è espressione prima che
di una opinione, di una responsabilità. Ma gli elettori-scrutatori-
telespettatori esprimono solo lo spirito del tempo.
L'apparente pace armata
Una nuova squadra speciale è stata addestrata per
portare la pace nelle favelas di Rio de Janeiro in nome dello sviluppo e del
benessere. Ma la realtà dei favelados è vecchia di un secolo e dura a morire, ha
invaso la favela più vecchia della città. Ma se a prima vista poteva apparire
una delle tante incursioni di agenti addestrati e corazzati in una zona in cui,
nonostante tutto, le bande criminali legate al narcotraffico sguazzano come
pesci in mare, in realtà era tutt'altro. Per la prima volta, lo sbarco delle
spietate divise nere sul Morro da Providência non era quello di guerreggiare,
bensì di pacificare l'area. Come? Realizzando il progetto pensato e fortemente
voluto da Sergio Cabral, governatore dello stato di Rio: spianare la strada per
impiantare un'Unità di polizia pacificatrice (Upp) che in tre fasi porti al
totale cessate-il-fuoco in zone con livelli di morti ammazzati da paese in
guerra. Un progetto che già ha fatto il primo passo in sei favelas, da qualche
tempo sotto costante presenza militare, e che presto verrà allargato ad altre
otto. L'obiettivo è arrivare entro l'anno a coinvolgere 59 favelas per un totale
di 220mila persone, a cui il governatore intende migliorare la vita portando una
sorta di pace armata. Fra queste sono incluse anche le indomabili favelas della
zona nord, da sempre inespugnabili. E le perplessità si sprecano.
La polizia dovrà rimanere nei loschi vicoli per permettere l'ingresso dello
Stato e di tutte le infrastrutture e i servizi a esso connessi. Questo grazie
anche a quella speciale Unità, la Upp, appunto, che dovrà mantenere l'ordine e
assistere la cittadinanza. Secondo le autorità di Rio, infatti, soltanto in
assenza di scontri armati si potranno iniziare a cambiare le cose in questo
inferno. Ma farlo è complicato. Basta vedere come anche in quei luoghi già
militarizzati dalla fine dello scorso anno, la pace sia solo apparente: la
guerra fra bande e contro le forze dell'ordine continua a serpeggiare sotto la
cenere. I capi aspettano, fiduciosi e protetti, che prima o poi la polizia tolga
le tende per ricominciare tutto come e più di prima. E in mezzo, schiacciate fra
le parti in lotta, resta sempre la povera gente.
"Grazie alla sua posizione strategica, questa è stata una delle prime aree
studiate per ricevere una Upp e la sua installazione era in attesa solo della
fine del corso di formazione di una nuova squadra di polizia, programmata per
gli inizi di aprile con 1.300 uomini", ha spiegato la Segreteria di sicurezza
del Governo carioca in un comunicato. Il Morro da Providencia è una favela che
nasce esattamente nel cuore di Rio, e il raggio d'azione di una pallottola
vagante che spesso sfugge al tiro incrociato delle tantissime sparatorie che si
verificano ogni giorno - fra i pericoli maggiori per chi vive a Rio - arriva
fino al sambodromo, alla zona portuaria e alla Central do Brasil, la stazione
più importante della città. Con tutte le conseguenze del caso. Quindi va
pacificata, a ogni costo. Se a questo si aggiunge il fatto che quella zona sta
vivendo un totale restauro in vista delle Olimpiadi del 2016, i conti son presto
fatti: espellere il narcotraffico e riprendere il controllo garantendo la
sicurezza è un imperativo categorico.
Ma la Collina della Provvidenza non è solo questo. E' anche un luogo simbolico
per il Brasile e cambiarla dopo un secolo sarà impresa ardua. Non solo è il
primo insediamento nato ai margini della città, ma è anche la realtà da dove
deriva il termine stesso di favela, entrato poi nell'immaginario comune come
sinonimo di bidonville. Quell'agglomerato di case improvvisate che si arrampica
sulla collina fatta di vie sterrate e gente accalcata in frenetici via vai e in
lotta fra la speranza e la povertà, è chiamato, infatti, anche Morro da Favela,
un soprannome che risale addirittura all'Ottocento. Lo slum venne infatti
fondato dai soldati brasiliani nel 1897, al rientro dalla cruenta battaglia
contro i seguaci del predicatore Antonio Conselheiro nella campagna di Canudos,
città nell'attuale stato di Bahia. E fu in onore di quella vittoria che i
militari chiamarono la collina scelta per costruirci le loro case, "Collina
della favela", dal nome di un colle di Canudos così chiamato per la presenza di
una pianta autoctona con quella denominazione. Questa dunque è la prima favela,
l'originale, il modello, che si è moltiplicata a perdita d'occhio. Nei secoli
dei secoli. Che l'Upp rivoluzioni il corso della sua storia?
Stella Spinelli
25 marzo
L'oppio di Marjah
Le autorità afgane
consentiranno ai contadini di continuare a coltivare papaveri da oppio.
Malali Joya: "Lo scopo dell'operazione a Marjah era riprendere il controllo
delle principali piantagioni del paese"
L'operazione
'
Moshtarak'
- la più grande offensiva militare alleata dall'invasione dell'Afghanistan
nel 2001 - ha consentito alle autorità afgane di riprendere il controllo
della cittadina di Marjah e dell'intero distretto rurale di Nadalì, nella
provincia meridionale di Helmand. Gli emissari del governo Karzai, che sono
tornati ad amministrare queste terre dopo oltre due anni di contropotere
talebano, hanno promesso di riaprire le scuole, ristabilire le libertà
civili della popolazione e di sradicare la coltivazione dei papaveri da
oppio.
Marjah, la capitale dell'eroina.
"Distruggeremo le piantagioni di papavero di Marjah e Nadalì, perché la
produzione di oppio è illegale", ha dichiarato alla stampa Zalmai Afzali,
portavoce del ministero Antidroga, suscitando le proteste della popolazione
locale, la cui sussistenza dipende interamente dal '
tariàk',
la preziosa resina marrone che si estrae dai papaveri.
Secondo l'ultimo rapporto del dipartimento antidroga delle Nazioni Unite (Unodc),
la provincia di Helmand produce da sola quasi il 60 per cento di tutto
l'oppio afgano (4 mila delle 6.900 tonnellate totali e 70 mila ettari di
piantagioni su un totale nazionale di 123 mila), e il distretto di Helmand
in cui maggiormente si concentra la produzione (e la raffinazione) è proprio
quello di Marjah-Nadalì: zona non a caso nota come 'la capitale afgana
dell'eroina'. Ma anche capitale mondiale, visto che l'Afghhanistan produce
il 90 per cento dell'eroina che circola sul pianeta.
Nessuno distruggerà le
piantagioni. Ma nei giorni
scorsi, un esponente del governo afgano, che ha chiesto di non rendere
pubblico il suo nome, ha dichiarato a
Irin News,
l'agenzia giornalistica dell'Onu, che al di là delle dichiarazioni
ufficiali, le autorità hanno informalmente concesso ai contadini del
distretto di continuare a produrre oppio, per non alienarsi il sostegno
della popolazione locale che, senza i guadagni dell'oppio, finirebbe sul
lastrico. "Il governo � spiega la fonte � ha garantito che nessuna
distruzione di piantagioni verrà effettuata a Marjah e Nadalì, almeno per
quest'anno".
Una conferma esplicita viene dal nuovo governatore di Marjah: "Bisogna stare
attenti con la questione dell'oppio: non lotteremo contro il narcotraffico
distruggendo le piantagioni", ha dichiarato Haji Abdul Zahir all'inviato del
Miami Herald,
che a Marjah ha parlato anche con il maggiore dei Marines David Fennell:
"Noi non siamo venuti qui per sradicare i papaveri".
Rimane da capire che fine farà il prossimo raccolto.
Il vero scopo dell'Operazione 'Moshtarak'.
"L'unico vero scopo dell'operazione 'Moshtarak' - spiega a
Peacereporter
Safatullah Zahidi, un giornalista locale - era mettere le mani sulle
piantagioni di papavero da oppio. E quelle di Marjah e del suo distretto,
Nadalì, sono le più grandi e produttive di tutto l'Afghanistan. Grazie
all'operazione Moshatarak sono tornate sotto controllo del governo e degli
americani, giusto in tempo per il raccolto di marzo. E ora faranno lo stesso
con le piantagioni della seconda principale zona di produzione di oppio,
quella di Kandahar".
Un'interpretazione dei fatti clamorosa, ignorata in Occidente ma largamente
condivisa in Afghanistan. Anche da personaggi molto noti e autorevoli, come
l'ex parlamentare democratica Malalai Joya, nota in tutto il mondo per il
coraggio che ha sempre dimostrato nel denunciare i crimini e la corruzione
dei governanti afgani finanziati e protetti dall'Occidente.
Malalai Joya: "Americani
coinvolti nel narcobusiness''.
"L'obiettivo di queste operazioni militari - ci spiega Malalai - non è
quello di sconfiggere i talebani, che vengono regolarmente avvertiti prima
in modo da poter fuggire altrove. I talebani e i terroristi servono agli
americani per mantenere il mio paese nell'insicurezza, così da avere un
pretesto per rimanere in Afghanistan assicurandosi il controllo di questa
regione strategica, vicina all'Iran, alla Cina e ai paesi dell'Asia centrale
ricche di gas e petrolio, ma anche per continuare a fare affari con lo
sporco business dell'oppio. Oppio che, trasformato in eroina, frutta enormi
guadagni sia al governo afgano che alle forze americane, che portano la
droga fuori dall'Afghanistan con i voli militari che decollano dalle basi
aeree di Kandahar e di Bagram. Quest'ultima offensiva in Helmand, che tra
l'altro - sottolinea la Joya - ha causato molte più vittime civili di quelle
pubblicamente dichiarate, è l'ennesima conferma di ciò: l'obiettivo non era
colpire i talebani, che hanno avuto tutto il tempo di scappare, ma
semplicemente riprendere il controllo della principale zona di produzione di
oppio di tutto il paese".
Enrico Piovesana
Venezuela, fra arresti e
omicidi eccellenti
Militanti chavisti
uccisi senza scrupoli. Politici d'opposizione fermati e arrestati per
dichiarazioni irresponsabili. Oggi il Paese sembra diviso.
La
notizia che giunge dal Venezuela scatenerà sicuramente la polemica: Oswaldo
Alvarez Paz, oppositore politico al governo di Hugo Chavez e alla fine degli
anni Novanta governatore dello Stato di Zulia, quello del petrolio, il più
ricco del Paese, è accusato di cospirazione e per questo è stato arrestato.
Alvarez Paz è stato arrestato dagli uomini del Sebin (Servicio Bolivariano
de Intelligencia Nacional) dopo che la Fiscalia General ha emesso un ordine
di cattura nei suoi confronti.
Stando alle informazioni che giungono dall'area e da un approfondimento
delle pagine web della Bbc, sembra che durante un'intervista trasmessa
dall'emittente Globovision (da sempre molto critica nei confronto del
presidente Chavez), Alvarez Paz abbia detto che il Venezuela si è convertito
in un centro operativo che facilita i traffici legati al narcotraffico".
Affermazioni forti di cui Alvaro Paz si era assunto tutte le responsabilità.
Un affronto, però, secondo la Fiscalia General, punibile solo con l'arresto.
La notizia è stata confermata anche dalla Radio Nacional de Venezuela che ha
sottolineato che se fosse riconosciuta la colpevolezza per Alvarez Paz la
condanna potrebbe variare da un minimo di due a un massimo di sedici anni di
reclusione. E come ricorda la corrispondente della Bbc da Caracas Alvarez
Paz "sarebbe sotto processo per aver commesso un reato attraverso le
opinioni espresse durante un programma televisivo".
L'avvocato difensore di Alvarez Paz non ci
sta e accusa la Fiscalia di aver commesso un arresto politico. Le autorità
di Caracas dal canto loro e come spesso accade quando gli si chiedono
informazioni relative alle azioni dell'opposizione o in merito alla libertà
d'espressione vigente nel Paese, anche questa volta hanno glissato. Tutti
tranne uno. Il presidente della Commision de Cienca, Tecnologia y
Comunicacion Social, Manuel Villalba che dalle pagine web dell'Agenzia
Bolivariana de Noticias ha specificato come la limitazione della libertà nei
confronti di Alvarez Paz non ha nulla a che vedere con un arresto politico
come vorrebbero far credere i dirigenti dell'opposizione. Anzi è esattamente
il contrario: sradica dalla società il concetto d'impunità per accuse
irresponsabili e senza prove. Come appunto quelle rivolte da Alvarez Paz.
"Ma l'opposizione" continua Villalba " farà montare il caso raccontando che
Paz è l'ennesimo prigioniero politico di Chavez. è incorso nel reato di fare
accuse senza portare a supporto prove concrete. La realtà è che Alvarez Paz
non è un prigioniero politico ma un politico imprigionato per la sua
irresponsabilità".
Certo
è che questo arresto giunge in un momento dove la situazione socio politica
potrebbe anche degenerare. Le violenze infatti sono all'ordine del giorno.
L'ultima in ordine di tempo, riguarda il brutale assassinio di Rosalba
Molina, una militante del Psuv (Partito socialista unito del Venezuela),
avvenuto nello stato di Tachira sabato scorso. Molina non è sola. Nello
stato di Tachira infatti negli ultimi mesi sono stati massacrati altri suoi
quattro compagni di partito. E la polizia non esclude che gli autori
dell'efferato omicidio di Molina possano essere killer professionisti. Un
omicidio di sicuro mirato e ovviamente omicidio politico.
Lettera aperta della scrittrice albanese Elvira
Dones al premier Silvio Berlusconi in merito alla battuta del Cavaliere sulle
"belle ragazze albanesi". In visita a Tirana, durante l'incontro con Berisha, il
premier ha attaccato gli scafisti e ha chiesto più vigilanza all'Albania. Poi ha
aggiunto: "Faremo eccezioni solo per chi porta belle ragazze".
"Egregio Signor Presidente del Consiglio, le
scrivo su un giornale che lei non legge, eppure qualche parola gliela devo,
perché venerdì il suo disinvolto senso dello humor ha toccato persone a me molto
care: "le belle ragazze albanesi". Mentre il premier del mio paese d'origine,
Sali Berisha, confermava l'impegno del suo esecutivo nella lotta agli scafisti,
lei ha puntualizzato che "per chi porta belle ragazze possiamo fare
un'eccezione."
Io quelle "belle ragazze" le ho incontrate, ne ho incontrate a decine, di notte
e di giorno, di nascosto dai loro magnaccia, le ho seguite da Garbagnate
Milanese fino in Sicilia. Mi hanno raccontato sprazzi delle loro vite violate,
strozzate, devastate. A "Stella" i suoi padroni avevano inciso sullo stomaco una
parola: puttana. Era una bella ragazza con un difetto: rapita in Albania e
trasportata in Italia, si rifiutava di andare sul marciapiede. Dopo un mese di
stupri collettivi ad opera di magnaccia albanesi e soci italiani, le toccò
piegarsi. Conobbe i marciapiedi del Piemonte, del Lazio, della Liguria, e chissà
quanti altri. E' solo allora - tre anni più tardi - che le incisero la sua
professione sulla pancia: così, per gioco o per sfizio.
Ai tempi era una bella ragazza, sì. Oggi è solo un rifiuto della società, non si
innamorerà mai più, non diventerà mai madre e nonna. Quel puttana sulla pancia
le ha cancellato ogni barlume di speranza e di fiducia nell'uomo, il massacro
dei clienti e dei protettori le ha distrutto l'utero.
Sulle "belle ragazze" scrissi un romanzo, pubblicato in Italia con il titolo
Sole bruciato. Anni più tardi girai un documentario per la tivù svizzera: andai
in cerca di un'altra bella ragazza, si chiamava Brunilda, suo padre mi aveva
pregato in lacrime di indagare su di lei. Era un padre come tanti altri padri
albanesi ai quali erano scomparse le figlie, rapite, mutilate, appese a testa in
giù in macellerie dismesse se osavano ribellarsi. Era un padre come lei,
Presidente, solo meno fortunato.
E ancora oggi il padre di Brunilda non accetta che sua figlia sia morta per
sempre, affogata in mare o giustiziata in qualche angolo di periferia. Lui
continua a sperare, sogna il miracolo. E' una storia lunga, Presidente... Ma se
sapessi di poter contare sulla sua attenzione, le invierei una copia del mio
libro, o le spedirei il documentario, o farei volentieri due chiacchiere con
lei. Ma l'avviso, signor Presidente: alle battute rispondo, non le ingoio.
In nome di ogni Stella, Bianca, Brunilda e delle loro famiglie queste poche
righe gliele dovevo. In questi vent'anni di difficile transizione l'Albania s'è
inflitta molte sofferenze e molte ferite con le sue stesse mani, ma nel popolo
albanese cresce anche la voglia di poter finalmente camminare a spalle dritte e
testa alta. L'Albania non ha più pazienza né comprensione per le umiliazioni
gratuite. Credo che se lei la smettesse di considerare i drammi umani come
materiale per battutacce da bar a tarda ora, non avrebbe che da guadagnarci.
Questa "battuta" mi sembra sia passata sottotono in questi giorni in cui infuria
la polemica Bertolaso, ma si lega profondamente al pensiero e alle azioni di
uomini come Berlusconi e company, pensieri e azioni in cui il rispetto per le
donne é messo sotto i piedi ogni giorno, azioni che non sono meno criminali di
quelli che sfruttano le ragazze albanesi, sono solo camuffate sotto gesti
galanti o regali costosi mi vergogno profondamente e chiedo scusa anch'io a
tutte le donne albanesi.
Ragazzini, che i carabinieri starebbero per identificare, e un'ideologia
strisciante di estrema destra che si sta facendo strada tra i casermoni del
quartiere romano della Magliana. Potrebbe esserci questo dietro al raid che
domenica sera ha mandato all'ospedale quattro persone originarie del
Bangladesh, e che ha distrutto il bar «Brothers», uno dei punti di ritrovo
della comunità del Bangladesh, nonché uno dei pochi punti di luce di via
Murlo, stradina laterale dove alle sei di sera (la stessa ora in cui c'è'statol'attacco)non
c'è neanche un lampione acceso.
Sono entrati in quindici, forse venti. Tutti maschi, alcuni molto giovani,
altri più grandi. Un particolare importante: a volto scoperto. Che significa
impunità, copertura del quartiere. O forse solo sfrontatezza malriposta,
perché tanta tracotanza potrebbe aver accorciato il mistero: i carabinieri
sono già sulle loro tracce, per tutta la giornata e nella notte si sono
susseguiti gli interrogatori.
D'altronde, davanti al bar «Brothers», con i vetri spaccati e ancora le
tracce di sangue sul pavimento, una cosa sembrava chiara: erano in molti a
sapere chi fosse stato. Forse non proprio nome e cognome, ma i gruppetti che
perseguitano gli immigrati sono noti a tutti. Tra di loro si chiamano «la
commitiva», forse anche con tre «m». Sostano in una piazzetta del quartiere,
si spostano in motorino, hanno tra i 15 e i 20 anni e ce l'hanno con i
neri. «Ragazzini, ragazzini cresciuti male. Non sanno che fare e se la
prendono con noi», vale un'analisi sociologica l'osservazione di Huddin,
anche lui due mesi fa vittima di un'aggressione a tarda sera, quando tornava
da lavoro: si sono fermati due ragazzi in motorino, gli hanno chiesto una
sigaretta, «non fumo» la risposta «e perché non fumi?», poi la richiesta di
soldi. E alla fine gli spintoni, con qualche epiteto razzista e la frase di
rito: «Tornatene a casa tua».
Di
racconti così ce ne sono a decine. Ma chi siano i ragazzini che si divertono
a farla pagare agli immigrati - e in particolare i bangladeshi, proprio
perché sono tranquilli e non reagiscono facilmente alle provocazioni - li
conoscono benissimo anche «gli italiani» (le virgolette sono d'obbligo,
visto che diversi immigrati qui hanno la cittadinanza, compreso il titolare
del Brothers). Ieri in parecchi sostavano a via Murlo, avevano voglia di
dire la loro e soprattutto di difendere
l'immagine della Magliana: «Finitela con questa storia del razzismo, questo
è un posto tranquillo». La solidarietà verso chi è stato ferito c'è a parole
(«certo, così non si fa»), ma più forte è il fastidio per il degrado che si
respira in quella strada: «Qui di sera non si può passare. Qualcuno
evidentemente non ce l'ha fatta più e alla fine ha reagito», dice una
signora con la busta della spesa, che stabilisce una sottilissima e
velenosissima linea di demarcazione: «Non è un attacco razzista, tutt'al più
è una punizione». In molti approvano: certo, una punizione, il quartiere
prima o poi reagisce. E sul bar di via Murlo, più d'uno dice: «Li avevano
avvertiti».
Si narra,
ma è tutto da verificare, che le cose siano andate più o meno così. Prima
una lite tra alcuni quindicenni e alcuni ragazzi del Bangladesh (ma nessuo a
via Murlo ricorda screzi), i quali sarebbero quindi andati a chiamare
«quelli più grandi» in un bar della zona, notoriamente frequentato da gente
di destra e con qualche precedente penale, che avrebbe colto la palla al
balzo per «difendere» i ragazzini italiani. Il raggruppamento sarebbe
avvenuto in una strada adiacente a via Murlo, anche se le telecamere della
vicina banca non hanno ripreso nulla.
Di certo c'è soltanto che chi ha spaccato i vetri e il locale di Mohammed
Masum Miam lo ha fatto con paletti trovati per strada e gambe di tavolini.
Secondo il comandante dei carabinieri Alessandro Casarsa è un elemento che
ne connota la non premeditazione: «Sono oggetti facilmente reperibili e non
riconoscibili come armi». Altro elemento che viene preso in considerazione è
che, prima di andarsene, i cavalieri senza macchia che vogliono ripulire il
quartiere si sono intascati circa duecento euro trovati in cassa. Se ci sia
una matrice politica è tutto da verificare. Fa pensare, però, che proprio la
sera prima le vie del quartiere si siano riempite di scritte che recitano:
«Il quartiere cambia, Magliana nera».
Ma la Magliana non è fatta soltanto dei ragazzini della «commitiva» che
vivono la strada e che cercano il brivido compiendo la bravata di turno. E'
anche un quartiere con un tessuto associativo che proprio in questi anni sta
rinascendo, con una storia di lotte popolari, e dove - lasciando stare la
storia, che ricordano in pochi - di giorno è pieno di famiglie e bambini,
nei negozi si confondono famiglie italiane e straniere come nelle scuole.
Solo che passate le nove è il deserto dei tartari. In una zona che ospita
circa 20 mila persone non c'è un cinema, non c'è un teatro, non c'è -
neanche di giorno - un luogo di aggregazione giovanile. I ragazzini si
ritrovano nelle pizzerie al taglio e nelle sale giochi il pomeriggio, e la
sera al bar - quei pochi che rimangono aperti. Chi, tra gli adulti, sia
italiani che stranieri vuole farsi una bevuta pesante va a via Murlo dove
c'è un alimentari gestito sempre da bangladeshi che vende vino a pochi euro.
E' questo vuoto sociale che mettono sotto accusa i ragazzi di «Insensinversi».
Da un paio di anni hanno aperto una scuola di italiano per stranieri, sono
riusciti a creare un buon dialogo con moltissime persone, vogliono avviare
un progetto più ampio che cerchi di intercettare proprio i ragazzini della
Magliana per coinvolgerli in attività interculturali «ma chi fa un lavoro di
questo tipo - racconta Simone Sestieri - non viene facilitato, tutt'altro».
C'entra la politica nell'attacco dell'altra sera? «Questo non lo sappiamo,
di certo un progetto politico di estrema destra sta prendendo piede in
questa zona e sicuramente tra questi ragazzini che non hanno niente da fare
tutto il giorno si trova una manovalanza pronta a riconoscersi in ideologie
di quel tipo. Ma ci si può lavorare, e fermare questo declino, basta
volerlo».
Brescia capitale del creazionismo
di Paolo Vitale
J.B.S. Haldane, celebre biologo noto per il suo contributo alla nascita
della genetica di popolazioni, interpellato su come potesse essere
falsificata l'evoluzione diede una famosa risposta: Conigli fossili nel
Precambriano. In effetti nessuno ha mai trovato fossili di mammifero in
rocce più antiche di 250 milioni di anni, nemmeno nelle rocce sedimentarie
del territorio bresciano. Eppure a Brescia l'evoluzione dei viventi non è
considerata un fatto accertato da chi amministra la città. E non si tratta
di una diatriba scientifica, è solo una questione politica: nella città
lombarda il sindaco e l'assessore alla cultura, entrambi avvocati del Popolo
delle Libertà, non gradiscono che si parli di evoluzione, e soprattutto al
museo di Storia Naturale!
Tutto cominciò nel febbraio del 2009 quando, in occasione delDarwin
day,
UAAR e libreria Rinascita invitarono Telmo Pievani, studioso della teoria
dell'evoluzione e professore di Filosofia della Scienza all'Università di
Milano Bicocca, a presentare il libro di cui è coautore "Nati per credere".
Gli organizzatori dell'evento chiesero di poter svolgere la conferenza nello
stesso luogo in cui avevano, con la precedente amministrazione, organizzato
iniziative simili: l'auditorium del museo di Storia Naturale. Il sindaco
negò l'autorizzazione e il patrocinio del Comune e la conferenza fu spostata
nell'aula magna di un liceo cittadino.
Poche settimane dopo nello stesso auditorium, per ben tre serate
consecutive, un gruppo di creazionisti fu ospitato per esporre tesi bizzarre
e antiscientifiche, per giunta con il patrocinio del Comune. Immediate
furono le proteste nel mondo scientifico; anche Giacomo Giacobini,
Presidente dell'Associazione Nazionale Musei Scientifici, mandò una lettera
all'assessore alla cultura di Brescia. L'assessore rispose con un lungo
scritto in cui difendeva il diritto di parola anche dei creazionisti in un
istituto scientifico. Alle rimostranze di Telmo Pievani che chiedeva come
mai il diritto di parola gli fosse invece stato negato nessuno rispose. Ma
non finì così.
Nel 2010 l'UAAR e la libreria Rinascita organizzano altre due conferenze
analoghe, una ancora con Telmo Pievani e l'altra con Guido Barbujani,
genetista dell'Università di Ferrara. E quest'anno la strategia cambia: il
sindaco non nega l'uso della sala, ma solo il patrocinio. Si è ricreduto?
Niente affatto. Ha concesso l'uso della sala, prenotata con molto anticipo,
solo perché regolarmente autorizzato dai funzionari. Poi ha spedito il conto
all'UAAR. Il trucco è chiaro: la sala è stata semplicemente affittata per
qualche ora e questo non si può negare a nessuno, ma senza il patrocinio si
paga.
E i creazionisti? Hanno ottenuto il patrocinio 'per il rilievo culturale
dell'evento� e quindi non affittano l'auditorium del museo, lo usano a
beneficio della cittadinanza e non pagano nulla. Tutto ciò a Brescia dove
non si è scoperto nulla di nuovo sul passato dei viventi, ma solamente si
conferma che la cattiva politica è ostile al pensiero scientifico. E questo
accade nel Cenozoico, l'era geologica attuale.
16 marzo 2010 - Due mesi dopo
Ma i fatti di Rosarno
non sono serviti a nulla
I fatti di Rosarno non hanno insegnato
nulla. Ai politici della Lega, che continuano con leggi assurde e
vessatorie. Ai vescovi calabresi che si lamentano del “fango” gettato
dai media sulla loro regione. Ai media che proseguono un
autoreferenziale dibattito sul razzismo. A quanti continuano a parlare
di tratta, schiavi e migranti da assistere con progetti pensati solo per
gli italiani. Che hanno solo da imparare, invece, da chi per tre volte
in 14 mesi si è ribellato – spontaneamente e consapevolmente – a camorra
e ‘ndrangheta.
Non ti diamo il visto, potresti
diventare un clandestino. “Mi hanno detto che l’economia italiana
non è florida e quindi potrei essere tentato di fermarmi negli USA
oltre i sei mesi fissati dal visto”. Luca Damiani è un ciclista
professionista di Morbegno, in provincia di Sondrio. Con la sua
squadra, avrebbe dovuto partire per gli Stati Uniti per un lungo
periodo di ritiro stagionale. Ma il consolato di Milano gli ha
negato il visto di sei mesi. Perché potrebbe diventare un potenziale
irregolare. “Nel corso del colloquio il console mi ha chiesto se in
Italia sono proprietario di casa. Ma gli ho risposto che vivo ancora
in famiglia, quando non sono impegnato in gare in Italia o
all`estero. Ha voluto sapere se qui ho altri lavori stabili oltre a
quello di sportivo, evidentemente ritenuto poco redditizio,
spiegandomi che potrei essere tentato di fermarmi negli Usa oltre il
periodo fissato dal visto semestrale” . Non deve essere piacevole
vedere applicate a sé stessi i criteri che di solito riserviamo agli
stranieri. Eppure potrebbe accadere sempre più spesso.
1. Aria di neve: il Nord
Le leggi sull’immigrazione si
caratterizzano come “diritto speciale”, nel senso che vengono
adoperati da anni criteri diversi per italiani e stranieri.
L’esempio più grave è quello del permesso di soggiorno
revocato in caso di perdita del posto di lavoro. Se il criterio
fosse applicato agli italiani, significherebbe togliere la carta
d’identità a chi non ha il posto fisso. La proposta del “permesso a
punti” prosegue su questa direzione e dimostra che i fatti di
Rosarno non hanno insegnato nulla. Applicata agli italiani, ci
renderebbe tutti “clandestini”. Quanti di noi conoscono
perfettamente la Costituzione? Quanti sono perfettamente “integrati
nel tessuto economico-sociale”? Chi sta ai margini lo fa per sua
volontà o per una crisi sempre più difficile?
A questo si aggiungono i mille
provvedimenti presi nel Centro Nord dalle amministrazioni leghiste e
dai loro imitatori. Norme assurde, cattive, asfissianti, a tratti
ridicole, come il divieto di elemosinare ad Assisi o i limiti di
età per sedersi sulle panchine di diverse città. I migranti, resi
ricattabili da una legislazione oppressiva e dalla difficoltà di
trovare lavoro, che li trasforma in irregolari, fuggono ormai dal
Nord e finiscono nelle varie “Rosarno” d’Italia. Il provvedimento
più famoso è quello di Boccaglio, vicino Brescia: l’iniziativa
anti-immigrati chiamata “White Christmas”. A Cantù, c’è un numero
verde per segnalare la presenza di irregolari. Ad Adro, nel
bresciano, un premio di 500 euro ai vigili urbani per ogni
“clandestino” individuato. Ad Alassio, il divieto di trasporto di
mercanzia in borsoni e sacchi di plastica. Stessa cosa a Firenze e
Venezia. A Cittadella (Padova), schedatura di tutti gli stranieri. A
San Martino dall’Argine, nel mantovano, il comune invita a
denunciare la presenza di migranti senza documenti. Poi le ordinanze
anti-elemosina: da Cesena a Savona, da Firenze a Roma e persino ad
Assisi. Quelle anti-kebab (Lucca, Prato e tutta la Lombardia) e i
provvedimenti contro le moschee (Alessandria, Casalpusterlengo,
Como, Magenta, Piacenza, Varese).
Demenziali le ordinanze che
riguardano le panchine: a Lecco diventano più piccole, a Sanremo è
vietato sedersi per chi ha più di 12 e meno di 60 anni, a Vicenza
per chi ne ha meno di 70, a Voghera in più di tre persone. A
Cernobbio i vigili urbani entrano nelle case dei futuri sposi per
accertare la pulizia di muri e pavimenti. A Milano si propone che
gli autisti ATM siano solo italiani, e che ci siano vagoni del metro
riservati. Per qualche mese, autobus con le grate ai finestrini sono
stati usati per rinchiudere i migranti senza documenti . Un freddo
da Terzo Reich al Nord, la violenza senza misericordia della mafia
al Sud. I migranti stanno sperimentando il peggio dell’Italia. E la
nostra incapacità di guardarci allo specchio e trovare – subito –
soluzioni efficaci. Prima che tanta gente ignorata, sfruttata,
perseguitata e vilipesa si stanchi.
2. La tranquillità: il Sud
“Vogliamo che Rosarno torni alla
tranquillità”, diceva un comunicato di Forza Nuova scritto
all’indomani della rivolta degli africani. In 24 ore, dal 27 al 28
gennaio – dunque appena tre settimane dopo -, un omicidio
a Melito Porto Salvo, nei pressi di Reggio Calabria: un allevatore
ucciso a fucilate. Una bomba fa esplodere chiosco di gelati a Vibo
Valentia. A Guardavalle, Catanzaro, è grave un operaio ferito alla
testa da un’arma da fuoco. Arresti nel cosentino per traffico di
droga tra Calabria e Albania. Minacce di morte al giornalista de “Il
quotidiano” che si occupa della cronaca di Rosarno, ultimo di una
serie di cinque cronisti “intimiditi” in pochi giorni.
Eccola, la tranquillità calabrese
che gli africani avevano messo in discussione. Guai per chi si
ribella o ricorda gli effetti della devastante presenza mafiosa.
“Occorre misurarsi sui problemi con il linguaggio della verità
nuda e cruda, perché così agisce il medico che vuole veramente
guarire l’ammalato”, dice invece Giuseppe Lavorato, ex sindaco di
Rosarno, ormai unica voce differente rispetto alle solite frasi
fatte. “Rifuggano dalle parole consolatrici e soprattutto dalle
parole e dai comportamenti che piacciono alla ‘ndrangheta. [Bisogna]
combattere contro la mala pianta (come la definisce il procuratore
Gratteri) che costituisce il nemico di tutte le persone oneste e
laboriose e la cui estirpazione è la condizione imprescindibile per
avviare la nostra terra verso nuovi orizzonti di progresso civile e
sociale”.
3. Gettare fango
“Non abbiamo assistito a fenomeni
di razzismo da parte dei cittadini. Ciò va gridato contro tutte le
strumentalizzazioni dei media, e di quanti stanno dietro di loro,
sempre pronti a fare dei fatti che succedono in Calabria
un’occasione per gettare fango su di noi Calabresi e sulla nostra
Regione”.
I vescovi calabresi, che non sono
soliti “gridare” contro le azioni criminali della ‘ndrangheta, si
agitano – in un documento dello scorso 9 febbraio – contro i media
che ‘gettano fango’, ipotizzando persino che qualcuno stia dietro di
loro. La colpa di quanto accaduto sarebbe del governo e della crisi
degli agrumi. Ancora una volta, Rosarno non ha insegnato nulla.
Neanche ai media – nazionali e persino internazionali – che sembrano
appassionati ad un autoreferenziale dibattito: i rosarnesi sono
razzisti? E gli italiani? Sì, no. Intervistiamo i passanti,
ascoltiamo gli esperti. E dimentichiamo i problemi strutturali (le
leggi razziali, la disuguaglianza tra Nord e Sud del mondo, oppure
la mafia rosarnese o il vero funzionamento dell’economia degli
agrumi).
“In seguito ai recenti e gravi
fatti di Rosarno…”, esordiscono tanti documenti di associazioni,
partiti, sindacati. Troppi soggetti continuano a presentare progetti
con l’etichetta “immigrazione”, però pensati
esclusivamente per gli italiani. Percorsi di integrazione, workshop
e formazione, sportelli e tutto ciò che la fantasia riesce a
suggerire, ma che non sono utili a chi non ha neppure un documento
ed è costretto a nascondersi nei meandri dell’Italia. “Ma è reato
non denunciare un clandestino?”, chiese una studentessa di Enna nel
corso di un incontro pubblico sui temi dell’immigrazione. Era solo
qualche mese fa, nel pieno della campagna della Lega contro questa
umanità colpevole di non avere in tasca un foglio di carta.
La Rognetta, l’ex fabbrica nel
centro di Rosarno dove dormivano in particolare i magrebini,
ospiterà – nelle intenzioni- un’“area mercatale” e probabilmente
un centro di aggregazione per gli stranieri. Il fatto che al momento
non ce ne siano non sarà certo un ostacolo alla prosecuzione
dell’iter progettuale. L’area dell’ex Opera Sila – altra area
industriale lasciata all’abbandono – è ancora lì. Così come rimane
ancora la scritta murale “We will be remembered”. L’Osservatorio
Africalabria – in assoluta solitudine - ha proposto di trasformare
quella fabbrica in un museo contro il razzismo, per non dimenticare.
4. Trafficanti di falsi contratti
Sei milioni di euro per qualche
documento falso. Un ottimo rapporto fra incasso e sforzo profuso,
che non poteva sfuggire a lungo alla criminalità organizzata.
All’inizio di febbraio, la DDA di Reggio Calabria chiedeva la
custodia cautelare in carcere per 67 persone. Metà italiani, metà
indiani. Era l’operazione denominata “Leone”. Il reato ipotizzato
quello di associazione per delinquere finalizzata a favorire
l’immigrazione clandestina. I giornali titolarono: la ‘ndrangheta
gestisce il traffico degli schiavi. In realtà, i migranti erano
arrivati in maniera perfettamente regolare, con un visto in tasca e
spesso comodamente in aereo. Non c’erano né catene né viaggi
avventurosi, e i mafiosi coinvolti – Iamonte di Melito Porto Salvo e
Cordì di Locri – in India non c’erano mai stati. Il loro viaggio era
molto breve, fino all’Ufficio provinciale del lavoro del capoluogo
dove un funzionario compiacente metteva un timbro sui falsi
contratti. Non si può parlare né di tratta (persone trafficate
contro la loro volontà) né di contrabbando, perché i documenti utili
allo spostamento erano formalmente validi. Si dovrebbe iniziare a
parlare di “proibizionismo”, cioè delle ampie maglie che le leggi
d’ingresso – cattive e surreali – lasciano ai profitti facili dei
criminali.
Il sistema era molto semplice:
imprenditori compiacenti producevano contratti di lavoro fittizi,
grazie ai quali gli stranieri potevano richiedere il visto
d’ingresso in Italia. La richiesta di pagamento variava dai
10.000 ai 18.000 euro per ogni migrante. Nel periodo preso in esame,
dunque, si può stimare un incasso di oltre 6 milioni di euro. Le
indagini erano state avviate nel 2007 a seguito della denuncia di un
imprenditore agricolo della provincia di Reggio Calabria, costretto
da affiliati alla cosca Iamonte a cedere alcune sue aziende, e a
presentare documentazione di assunzione per legittimare l’ingresso
in Italia di immigrati provenienti dall’India e dal Pakistan.
Coinvolti, oltre le citate famiglie della ‘ndrangheta locale, anche
imprenditori, tre dipendenti dell’ufficio provinciale del lavoro di
Reggio Calabria e alcuni cittadini indiani che hanno reclutato nel
loro Paese centinaia di migranti.
5. A campione e non troppo vicini
A poche settimane di distanza, lo
Stato che aveva sgomberato in poche ore 1200 stranieri non riuscendo
a garantirne l’incolumità, prova a fare la faccia feroce. Il 17
febbraio sono stati “scoperti” 23 lavoratori bulgari e romeni,
impiegati in nero in otto aziende agricole della piana di Gioia
Tauro. A carico dei datori di lavoro sono state elevate sanzioni
amministrative per 91 mila euro. Altri 69 lavoratori stranieri in
nero erano stati scoperti nel corso di ispezioni fatte a gennaio. E’
la solita politica dell’emergenza, per cui le azioni repressive sono
avviate in seguito a fatti di cronaca “eclatanti”, a campione e per
brevi periodi. Infatti in tutta la zona il lavoro nero è la norma, e
non solo per gli stranieri. I centri commerciali, i negozi e tutte
le piccole e grandi attività possono contare sul fatto che una
visita degli organi ispettivi sarà altamente improbabile.
La raccolta è ormai alla fine.
Circa 300 africani sono tornati, secondo l’Ansa, molti dei quali si
sono adattati nei casolari di campagna rendendo difficile una stima
esatta. Le istituzioni non sembrano preoccupate dal numero
complessivo degli stranieri, ma dal loro concentramento e dunque
dalla visibilità che possono assumere. “Non saranno più tollerate –
dice il commissario prefettizio Bagnato - le situazioni di
sovraffollamento e promiscuità che si erano create in passato. Se si
dovessero verificare, scatteranno subito le ordinanze di sgombero” .
Recessione globale, ma
non per il commercio delle armi
Il rapporto dello Stockholm International Peace Research Institute dimostra che
la corsa agli armamenti non va mai in crisi
Anche in tempi di profonda crisi economica globale, c'è almeno un settore che
non conosce recessioni o periodi di decrescita. Potrebbe essere una buona
notizia, se non fosse che il settore in questione è l'industria bellica e degli
armamenti.
Proprio mentre si discute e si propongono nuovi accordi tra le potenze per la
riduzione degli arsenali nucleari, aumentano senza sosta la produzione e la
vendita di armi "convenzionali". Un rapporto dello Stockholm International Peace
Research Institute (Sipri) ha infatti rivelato che il volume medio dei traffici
- leciti - di armi è aumentato del 22 per cento negli ultimi cinque anni,
rispetto al quinquennio precedente. Il rapporto del centro di ricerca svedese
non fornisce dati sulle cifre, costi e ricavi, del commercio di armi, dal
momento che molti governi rifiutano di pubblicare le spese del settore. In
realtà, i freddi numeri e le percentuali dicono molto, illustrano soprattutto la
corsa agli armamenti in alcune aree del pianeta, e dunque descrivono l'assoluta
mancanza di controllo sui conflitti, latenti e manifesti. I rapporti politici
tra le nazioni si giocano anche sul sempre fiorente mercato bellico.
Anche nel periodo 2005-2009, è il continente asiatico il maggiore importatore di
armi, con una quota del 41 per cento. Cina e India sono naturalmente i
principali acquirenti di armi, munizioni e equipaggiamenti militari, non solo in
Asia, ma globalmente. Tuttavia i due paesi hanno ridotto le proprie spese nel
settore, rispettivamente del 20 e del 7 per cento. Nell'area del sud-est si
registrano invece altissimi aumenti nelle importazioni di armi. L'Indonesia le
ha aumentate di oltre l'80 per cento, Singapore del 150 per cento. La Malaysia
addirittura del 722 per cento negli ultimi cinque anni. Trent'anni dopo la fine
della guerra del Vietnam, Singapore è il primo paese della regione ad entrare
nella "top ten" degli importatori di armi. E' evidente che la sola concorrenza,
improponibile, con la Cina non può giustificare investimenti così cospicui. Il
rischio concreto è che la corsa agli armamenti destabilizzi la regione, dove la
competizione sembra giocarsi ormai sugli arsenali e non sui mercati finanziari
come negli anni novanta.
Oltre alle due superpotenze asiatiche, i maggiori compratori sono la Corea del
Sud, gli Emirati Arabi e la Grecia. I conflitti e le tensioni delle rispettive
regioni spiegano in parte gli acquisti di Seul e Abu Dhabi. Invece è
sorprendente che la Grecia, paese devastato dalla crisi economica, continui ad
essere il primo importatore europeo, soprattutto di aerei da guerra. L'Europa
acquista quasi un quarto delle armi convenzionali, ma sono europei sette dei
primi otto venditori. Stati Uniti e Russia si dividono oltre la metà del mercato
mondiale; la Germania, la Francia, la Gran Bretagna, i Paesi Bassi, l'Italia e
la Spagna si spartiscono il resto. La neutrale Svezia ne vende quanto la Cina.
Poco da dire sul Medio Oriente. La costante condizione di guerra nell'area fa sì
che l'area abbia assorbito il 17 per cento del commercio di armi. I paesi della
penisola arabica acquistano soprattutto dagli Stati Uniti e dall'Europa, mentre
l'Iran compra in Russia. Le importazioni iraniane, tuttavia, si sono mantenute
molto basse anche nel 2009, a causa dell'embargo imposto dall'Onu alla
Repubblica Islamica. Che è addirittura ventinovesima nella speciale classifica
di chi compra armi dall'estero. Israele è sesto.
E' invece interessante quanto accade in Sudamerica. Continente che acquista meno
del dieci per cento degli armamenti mondiali.La quota non sembrerebbe altissima,
ma in realtà testimonia le tensioni del continente. Rispetto al 2004, infatti,
le importazioni belliche sono aumentate del 150 per cento, sintomo evidente di
una pericolosa corsa agli armamenti. Il Venezuela ha ricevuto oltre due miliardi
di dollari in credito dalla Russia per acquistare sistemi di difesa aerea e
mezzi militari blindati. La Germania, il cui export nel settore è aumentato del
100 per cento, soprattutto con la vendita di carri armati e altri mezzi
corazzati, fa ottimi affari con Brasile e Cile.
Infine, l'Africa. Ultimo continente anche nelle spese militari, con il 7 per
cento. Ma in questo caso i numeri non dicono tutta la verità. Quote anche
limitate di mercato, infatti, nell'Africa sub-sahariana hanno effetti decisivi
sulle dinamiche delle crisi e dei conflitti regionali. Paesi dell'est europeo,
Russia, Bielorussia e Ucraina in primis, hanno venduto armi a paesi fortemente
instabili, come il Sudan e il Ciad, influendo irrimediabilmente sulle guerre
locali. Inoltre su dieci embarghi Onu vigenti nel 2009, sette riguardano proprio
paesi africani, dalla Costa d'Avorio alla Repubblica Democratica del Congo,
dalla Somalia all'Eritrea, restrizioni spesso violate.
Ma il rapporto, ricordiamolo, si limita a presentare le quote, talvolta solo
stimate, del commercio "legale" delle armi, che non risente della crisi.
Figurarsi il traffico illecito e criminale.
Michelangelo Cocco
Grecia in svendita
Sul terminal G2 le Toyota, Suzuki e Isuzu sono allineate a centinaia, appena
scaricate dal cargo Virgo leader. Con i certificati «export» appesi agli
specchietti retrovisori e le pellicole protettive sulle carrozzerie nuove di
zecca. I simboli della crisi, nella Grecia che non ha mai avuto una sua
industria automobilistica, giacciono, meno evidenti, poco oltre il tappeto di
macchine e hanno l'aspetto discreto di container grigi con una sigla blu, in
ideogrammi e caratteri latini, «Cosco».
Il 30 settembre scorso la società cinese ha stretto un accordo con l'Autorità
portuale del Pireo (Olp), assicurandosi per 35 anni la gestione dei terminal
Pier2 e Pier3 del porto di Atene, che con 1.600 impiegati (tra cui 400 portuali)
è uno dei più importanti del Mediterraneo. E ora i lavoratori temono che «i
cinesi» possano mangiarsi, pezzo dopo pezzo, l'intero scalo commerciale. «Stanno
vendendo tutto alla Cina», s'infervora Yannis Kydis, dipendente della Olp,
società a partecipazione statale quotata in borsa. Kydis non vuole fare la fine
dei suoi colleghi di Astakos - sul mare Ionio - dove «la Cosco ha già dettato le
sue regole, assumendo con contratti che non prevedono straordinari pagati». Dopo
una lotta durata mesi, Kydis e compagni hanno fatto naufragare il progetto di
Cosco di far sbarcare sulle banchine elleniche 2.500 operai «importati» da
Pechino. Ma dal 30 giugno prossimo l'amministrazione di Pier2 e Pier3 passerà
interamente ai cinesi.
Secondo il governo, l'accordo raggiunto con Pechino sul Pireo farà guadagnare ad
Atene 4.3 miliardi di dollari (in 35 anni), darà vita a un migliaio di nuovi
posti di lavoro e permetterà la creazione di terminal per container «moderni,
flessibili ed efficenti». Per Kydis invece «i cinesi non sono interessati ad
aumentare il traffico navale, ma mirano a importare componenti da assemblare qui
per produrre merci con marchio Ue, per questo stanno già acquistando una serie
di fabbriche dismesse qui vicino».
Pericle era convinto che fin quando Atene avesse mantenuto la supremazia sui
mari, sarebbe sopravvissuta a ogni attacco nemico. Gli spartani potevano anche
invadere l'Attica, distruggere le sue viti e i suoi ulivi: l'approvvigionamento
della capitale sarebbe continuato grazie al Pireo e via mare l'avversario
sarebbe stato infine sconfitto.
A 2500 anni dalla morte del leader della polis classica, questo simbolo della
Grecia sembra destinato a finire in mani straniere. Il perché lo spiega Jorgos
Nukutidis, presidente dei portuali della confederazione sindacale Gsee. «La Olp
faceva utili, aveva accumulato in cassa 50 milioni di euro. Sotto il precedente
governo di Nea Democratia aveva ottenuto un prestito di 90 milioni: tutti questi
soldi poi sono spariti, con una serie di ammodernamenti fittizi dei moli: a quel
punto i primi due terminal sono stati venduti ai cinesi".
Una situazione simile a quella dei lavoratori della Olympic, che per dieci
giorni hanno protestato occupando - 24 ore su 24 - il tratto di via
Panepistimiou tra la sede centrale della compagnia aerea e la Biblioteca
nazionale. La privatizzazione della compagnia di bandiera ha già causato
centinaia di licenziamenti. Ora si teme che la sua fusione con Aegean -
annunciata il mese scorso - possa produrre altri problemi occupazionali.
«Dall'inizio degli anni '90 socialisti e conservatori non hanno fatto nulla per
modernizzare l'azienda - denuncia Zavalos Zikos, dell'Unione del personale dell'Olympic
-. Al contrario, secondo la ricetta neo-liberista, hanno contribuito a
distruggerla, per poi privatizzarla». Zikos ritiene che la Grecia in questo
momento sia «un laboratorio dove sperimentare ricette per distruggere il
lavoro».
Terzo premier di una dinastia politica iniziata col nonno Gheorghios (tre volte
a capo dell'esecutivo) e proseguita dal padre Andreas (due mandati da primo
ministro), in campagna elettorale Jorgos Papandreou aveva promesso salari al
passo con l'inflazione e 3 miliardi di euro d'incentivi per rilanciare
l'economia. Dopo la scoperta di un deficit al 12.7% del prodotto interno lordo,
nascosto dalla precedente amministrazione conservatrice, si è rivelato al paese
nelle vesti di novello Dracone e negli ultimi tre mesi ha varato altrettanti
pacchetti
di misure economiche «lacrime e sangue» che prevedono, tra l'altro, tagli agli
stipendi pubblici, blocco delle pensioni, aumento dell'iva.
Papandreou ha assicurato alla popolazione che «suoi sacrifici non saranno
invano» e che, fra tre anni, il Paese sarà più sano e più giusto. Il premier,
con una serie di dichiarazioni rilasciate al quotidiano Ta Nea, ha di nuovo
invitato tutti i cittadini, due giorni dopo lo sciopero generale che ha
paralizzato la Grecia e il grande corteo sindacale di Atene, a unirsi intorno al
governo per ricostruire la Grecia.
«Il nostro primo compito è salvare l'economia, primo passo necessario nel
cammino verso il futuro» ha detto. Papandreou ha affermato che di fronte ai
sacrifici dei greci egli si impegna a «non tollerare lo scandaloso favoritismo
presentato come giustizia, i privilegi dei pochi come diritti acquisiti, la
ricchezza provocatoria come cultura, il profitto parassitario come imprenditoria
e l'evasione fiscale come frutto del buon senso».
Ma il Barometro di Public Issue per ilmese di marzo - diffuso dalla tv Skai -
rileva che, pur mantenendosi alta (66%), la popolarità di Papandreou ha perso 6
punti rispetto al precedente Barometro.
E mentre le proteste per i tagli non si placano, il governo e l'opposizione dei
partiti di sinistra Kke e Syriza (quella conservatrice è fuori gioco, perché
l'opinione pubblica la considera la principale responsabile del disastro dei
conti pubblici) si preparano già al prossimo scontro, una battaglia sulla
prevista ondata di privatizzazioni - di cui il Pireo e la Olympic non
rappresentano che la punta dell'iceberg - che si annuncia senza esclusione di
colpi.
In Italia il reddito di una donna è in media poco meno della metà di quello di
un uomo, un indicatore di disuguaglianza di genere che dovrebbe fare notizia.
Ancora più gravi sono i divari in alcune regioni italiane, ma - paradossalmente
- non esistono dati su redditi e tipologie di contratti di lavoro che
distinguano tra uomini e donne a livello regionale.
Alla vigilia delle elezioni regionali, la Campagna Sbilanciamoci ha pubblicato
un rapporto con i dati sulla Qualità regionale dello sviluppo (Quars, la più
accurata misura di benessere regionale esistente in Italia) relativi alle pari
opportunità. Quattro le dimensioni considerate: partecipazione politica (quota
di donne presenti nei consigli regionali) ed economica (differenza tra i tassi
di attività femminile e maschile) e politiche per l'autodeterminazione della
donna (asili nido comunali e consultori familiari).
I risultati mostrano un'Italia sempre più divisa, con buoni risultati delle
regioni centrali, dati superiori alla media al Nord e del tutto insufficienti al
Sud; in testa alla classifica si colloca la Valle d'Aosta per il dato
elevatissimo sui consultori, seguita dalla Toscana. Staccate dalla vetta
Emilia-Romagna, Marche, Umbria e Piemonte, con buoni risultati in tutti gli
indicatori. Sopra la media troviamoTrentino-Alto Adige, Lombardia, Liguria e
Veneto.
Sotto la media il Lazio, e poi Friuli-Venezia Giulia, Abruzzo, Sardegna e
Basilicata. Nel gruppo di coda Molise, Calabria e Sicilia e poi le due maglie
nere: Campania e Puglia.
Tra i dati più significativi - da ricordare alle prossime elezioni - la quota di
donne presenti nei Consigli regionali: la Toscana ha il miglior risultato, con
oltre un quarto dei consiglieri donne; le regioni del Centro-Nord si collocano
sopra il 10%, ad eccezione di Liguria e Friuli (7,5% e 5,1%), fanalino di coda
la Puglia, con solo il 2,9% di donne nel Consiglio regionale.
La partecipazione al mercato del lavoro riflette il classico divario nord-sud:
la differenza fra i tassi di attività maschile e femminile è intorno a 15 punti
percentuali in Valle d'Aosta, Emilia-Romagna, Umbria e Piemonte, mentre
raddoppia in Puglia, Sicilia e Campania.
Se passiamo ai confronti internazionali, la situazione italiana risulta
disastrosa. Il Rapporto sullo Sviluppo Umano dell'UNDP calcola l'indicatore di
Gender empowerment che misura le disparità di genere nella partecipazione alla
vita economica e politica. L'Italia si colloca al 21esimo posto su 109 paesi; è
al 64esimo posto per numero di parlamentari donna (20%), al 40esimo per la
percentuale di donne amministratrici di impresa o manager (34%), al 79esimo per
la percentuale di donne che fanno lavori in cui è richiesta una capacità tecnica
di alto profilo (47%) e al 118esimo per divario di reddito tra uomini e donne.
Peggio ancora la posizione italiana nel Gender equity index (l'indice di equità
di genere) calcolato da Social Watch, una rete di organizzazioni sociali attiva
in sessanta paesi. L'Italia è al 70esimo posto su centocinquantasette paesi, con
valori poco sopra la media mondiale e molto sotto la media europea.
Un rapporto del Consiglio di Sicurezza Onu ha
svelato il racket degli aiuti umanitari in Somalia nel quale sarebbero implicati
oltre i guerriglieri di al-Shabaab e i distributori locali anche dipendenti del
World Food Program
Non
sono solo gli AK-47 dei ribelli di al-Shabaab a bloccare la consegna degli aiuti
alimentari al popolo somalo. Un rapporto del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite ha appurato che dietro il giro fraudolento e l'appropriazione
indebita dei viveri destinati ai civili ci sarebbero anche contractors corrotti
e finanche alcuni impiegati dell'Onu che operano nello Stato africano in forza
al World Food Program (WFP). Pochi giorni fa un'esclusiva della Bbc aveva
svelato l'impossibilità per gli operatori del WFP di penetrare all'interno del
villaggio di Halgan, appena fuori Bu'aale, a causa dell'opposizione armata dei
miliziani islamici, alcuni dei quali giovanissimi. Oggi dal palazzo di vetro
nuove inquietanti rivelazioni hanno messo al corrente l'opinione pubblica
internazionale del fatto che anche fra gli addetti ai lavori c'è chi riesce a
intercettare, per guadagnarci sopra, i viveri destinati al sostentamento dei
civili. In calce al documento l'esecutivo dell'Onu si è appellato al Segretario
Generale Ban Ki-Moon affinchè apra un'inchiesta indipendente che faccia luce
sull'attività del WFP in Somalia.
Meccanismo perverso. A scorpirlo sono stati
alcuni osservatori delle Nazioni Unite inizialmente inviati in Somalia per
controllare eventuali abusi sull'embargo militare. Dopo le prime denuncie il
loro mandato è stato ampliato al fine di indagare sulla faccenda "aiuti rubati".
Attualmente gli ispettori minacciati di morte sono stati fatti rientrare a New
York attraverso il Kenya. Secondo quanto rivelato dal loro rapporto l'attività
illegale ha fruttato, solo nel 2009, la metà dei circa 485 milioni di dollari
che, poi, altro non erano che l'equivalente monetario degli aiuti destinati a 2
milioni e mezzo di cittadini somali che stanno morendo di stenti. Gli ingranaggi
del piano sarebbero particolarmente complessi e svelerebbero una grave
inadempienza degli organismi internazionali deputati a garantire il corretto
svoglimento delle operazioni di recapito degli aliementi. I quali, invece,
venivano gestiti da tre grossi distributori nazionali che si arricchivano dal
loro commercio sul mercato nero. "Alcune risorse umanitarie, in particolare gli
aiuti alimentari - si legge nel documento - sono stati dirottati verso usi
militari. Una manciata di imprenditori somali al servizio delle agenzie
umanitarie hanno formato un cartello e sono diventati importanti mediatori di
potere - alcuni dei quali hanno dirottato i loro profitti, e gli aiuti stessi,
direttamente ai gruppi di opposizione armata". I riflettori sono puntati su uno
di questi uomini d'affari, Abdulkadir M. Nur, alias Eno, considerato uno degli
uomini più ricchi del Paese. Attraverso la cooperazione della moglie, addetta a
uno degli uffici per la verifica della consegna merci, Eno avrebbe messo in moto
il proprio racket. Prima inscenava un furto a danno dei dei propri camion-merci
e poi, oltre a incassare il premio delle assicurazioni, si impossessava dei
viveri che poi avrebbe rivenduto sotto banco. Ma la quota dei contractors
ammonterrebbe solo al 10 percento della torta. Un altro 5/10 percento verrebbe
gestito dai gruppi armati e il restante 30 percento era sottratto dagli
impiegato Onu.
Complicità istituzionale. Il dossier ha inoltre svelato una pericolosa
connivenza fra diversi enti regionali del Paese, i pirati operanti sulle coste
somale e lo stesso governo di Mogadiscio. I primi due sarebbero legati dalla
copertura che le amministrazioni locali fornirebbero ai predoni durante i loro
saccheggi sulle navi in transito sulle coste nazionali. La seconda parte
dell'indagine ha poi svelato un presunto giro di visti diplomatici letteralmente
venduti dalle autorità centrali ai migliori offerenti, tra i quali anche i
pirati, per una cifra che si aggirerebbe fra i 10mila e i 15 mila dollari.
L'obiettivo era quello di fare espatriare i fuorilegge in Europa per
permettergli di aggirare i controlli all'interno del proprio paese. Pesanti
smentite sono arrivate tanto da Eno quanto dal presidente somalo Sharif Sheik
Ahmed che, in una missiva a Ban Ki-Moon, ha definito l'imprenditore persona
"molto coscienziosa, diligente e grande lavoratore". Oggi, tuttavia, è arrivata
la reazione del World Food Program che ha dichiarato che non sottoscriverà alcun
nuovo contratto con i tre distributori africani.
Situazione disperata. In alcune zone della Somalia la soglia di povertà è
così elevata che c'è chi per sfamarsi, e per sfamare i propri figli, è costretto
a consumare un piatto di foglie. Gli aiuti alimentari che il World Food Program
sta raccogliendo a favore dello Paese per quest'anno ammontano a circa 326
milioni di dollari, su un totale di 500 milioni per tutta la zona del Corno
d'Africa. Cifre importanti che non riescono, una volta dentro i confini del
continente nero, a essere impiegate per intero. Le ultime stime sulla situazione
somala hanno evidenziato che il 70 percento del patrimonio zootecnico del paese
è morto, che oltre due milioni di persone hanno urgente bisogno cibo per
sopravvivere e che altri 500mila vagano per il paese in cerca di aiuto presso le
agenzie umanitarie. Anch'esse lottano giornalmente con l'ostruzione delle bande
armate che impediscono con la forza l'arrivo a destinazione dei convogli degli
aiuti e irrompono nei villaggi violentando le donne, uccidendo gli abitanti e
depredando le abitazioni.
Si preparano manifestazioni per l'anniversario delle rivolte del 1959 e del
2008 e le autorità cinesi lanciano una nuova "campagna per la sicurezza"
La
celebrazione del secondo anniversario delle proteste esplose in Tibet il 10
marzo 2008, mette evidentemente in apprensione le autorità cinesi, che infatti
inaugurano nuove e più restrittive misure di sicurezza e potenziano i controlli.
Il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la Democrazia (Tchrd) denuncia che da
almeno una settimana, da quando cioè è iniziata la nuova "campagna per la
sicurezza", sono stati arrestati circa cinquecento tibetani nella sola città di
Lhasa. In realtà, anche gli organi di informazione governativi confermano gli
arresti. Gli stessi giornali ufficiali, controllati da Pechino, hanno diffuso
nei giorni scorsi la notizia che le autorità di polizia della capitale Lhasa e
di tutto il Tibet hanno lanciato la nuova campagna di sicurezza "Strike Hard".
Colpire duro: poco spazio all'immaginazione, come già nelle omonime operazioni
del gennaio 2009.
Per l'occasione è stato istituito un nuovo corpo di sicurezza, che collaborerà
con la polizia per "mantenere l'ordine sociale e la stabilità". I controlli sono
già in atto nei confronti dei monaci buddhisti, praticamente reclusi nei
monasteri della capitale, dai quali non possono uscire senza uno specifico
permesso rilasciato dalle autorità cinesi. A differenza di altre campagne di
polizia, però, questa non sarà limitata alla sola Lhasa, ma le operazioni
avranno luogo contemporaneamente in tutta la regione autonoma, per intimidire la
popolazione e prevenire qualsiasi protesta appunto in occasione
dell'anniversario della repressione del 2008.
Anche se l'obiettivo dichiarato da Pechino è di combattere il crimine e
ristabilire l'ordine sociale, il Tchrd ritiene che il vero scopo delle autorità
consiste nel colpire ancora una volta gli attivisti politici tibetani, con
misure repressive come gli arresti arbitrari, la detenzione illegale, le
torture, l'espulsione dalle istituzioni religiose.
Attraverso i giornali controllati dal regime, il governo risponde con i numeri.
Migliaia di abitazioni e decine di altri luoghi "sensibili" perquisiti, quasi
cinquecento arresti, ma solo quattordici per furti. Nessun dettaglio ufficiale
sugli altri arresti. Cinquanta persone sono state fermate perché prive dei tre
documenti previsti dalle autorità, cioè la carta d'identità, la registrazione
della residenza - il cosiddetto hukou , il permesso di soggiorno temporaneo. Ma
i numeri non dissipano affatto i dubbi e i timori del Tchrd e delle altre
organizzazioni pro-Tibet. Le limitazioni alla libera circolazione, con l'obbligo
dei tre documenti, non sarebbero altro che un espediente per operare una stretta
ulteriore sui tibetani che vivono all'esterno della regione autonoma, perlopiù
dissidenti politici.
Sono previste manifestazioni pro-Tibet in decine di città nel mondo, e la
giornata si è aperta questa mattina a Dharamsala, la località indiana dove vive
in esilio da cinquant'anni il Dalai Lama. Infatti, il 10 marzo ricorre
soprattutto l'anniversario delle rivolte indipendentiste tibetane del 1959 che
portarono poi all'esilio della massima guida spirituale del buddhismo lama.
Parlando ad una folla di esuli e di monaci, il Dalai Lama si è rivolto all'élite
tibetana che lavora per il governo cinese: "Invito gli ufficiali tibetani al
servizio delle amministrazioni delle aree autonome del Tibet a visitare le
comunità tibetane che vivono nel mondo libero, per rendersi conto personalmente
della situazione". Il governo di Pechino, tramite l'agenzia di stampa Xinhua, ha
risposto duramente: il Dalai Lama è un separatista, fomenta la violenza, il suo
discorso è retorico e pieno di risentimento. La sua richiesta di una "autonomia
significativa" per il Tibet, che occupa un quarto del territorio cinese, è
inaccettabile per il governo centrale.
A Pechino piaceranno ancora meno le parole di sostegno e amicizia che il Dalai
Lama ha rivolto agli Uiguri, la minoranza musulmana e turcofona del nord-ovest
della Cina. In questo giorno dedicato al Tibet e alle sue battaglie, il leader
spirituale ha voluto ricordare ed esprimere solidarietà al "popolo del Turkestan
orientale", anch'esso represso dalle autorità cinesi. Il Dalai rischia così di
peggiorare il già difficile rapporto con la Cina, anche perché "Turkestan
orientale" è il nome che gli esuli uiguri indipendentisti danno alla loro
regione, che invece Pechino chiama Xinjiang. Probabile che nella capitale cinese
si voglia interpretare la dichiarazione del leader tibetano come l'ennesima
provocazione separatista.
Nei giorni scorsi, Pechino ha fatto intendere che vorrà intervenire - e
interferire - nella designazione della prossima guida buddhista. Anche sul
futuro del lamaismo si gioca una partita tutta politica, altro che religiosa o
spirituale. "Non c'è alcun bisogno di discutere sulla reincarnazione del Dalai
Lama", decideranno le autorità politiche, ha chiarito Padma Choling, governatore
filo-cinese del Tibet. Uno dei componenti di quell'élite a cui si è rivolto il
Dalai Lama, evidentemente senza essere ascoltato.
Si preparano manifestazioni per l'anniversario
delle rivolte del 1959 e del 2008 e le autorità cinesi lanciano una nuova
"campagna per la sicurezza"
La celebrazione del secondo anniversario delle
proteste esplose in Tibet il 10 marzo 2008, mette evidentemente in apprensione
le autorità cinesi, che infatti inaugurano nuove e più restrittive misure di
sicurezza e potenziano i controlli. Il Centro Tibetano per i Diritti Umani e la
Democrazia (Tchrd) denuncia che da almeno una settimana, da quando cioè è
iniziata la nuova "campagna per la sicurezza", sono stati arrestati circa
cinquecento tibetani nella sola città di Lhasa. In realtà, anche gli organi di
informazione governativi confermano gli arresti. Gli stessi giornali ufficiali,
controllati da Pechino, hanno diffuso nei giorni scorsi la notizia che le
autorità di polizia della capitale Lhasa e di tutto il Tibet hanno lanciato la
nuova campagna di sicurezza "Strike Hard". Colpire duro: poco spazio
all'immaginazione, come già nelle omonime operazioni del gennaio 2009.
Per l'occasione è stato istituito un nuovo corpo di sicurezza, che collaborerà
con la polizia per "mantenere l'ordine sociale e la stabilità". I controlli sono
già in atto nei confronti dei monaci buddhisti, praticamente reclusi nei
monasteri della capitale, dai quali non possono uscire senza uno specifico
permesso rilasciato dalle autorità cinesi. A differenza di altre campagne di
polizia, però, questa non sarà limitata alla sola Lhasa, ma le operazioni
avranno luogo contemporaneamente in tutta la regione autonoma, per intimidire la
popolazione e prevenire qualsiasi protesta appunto in occasione
dell'anniversario della repressione del 2008.
Anche se l'obiettivo dichiarato da Pechino è di combattere il crimine e
ristabilire l'ordine sociale, il Tchrd ritiene che il vero scopo delle autorità
consiste nel colpire ancora una volta gli attivisti politici tibetani, con
misure repressive come gli arresti arbitrari, la detenzione illegale, le
torture, l'espulsione dalle istituzioni religiose.
Attraverso i giornali controllati dal regime, il governo risponde con i numeri.
Migliaia di abitazioni e decine di altri luoghi "sensibili" perquisiti, quasi
cinquecento arresti, ma solo quattordici per furti. Nessun dettaglio ufficiale
sugli altri arresti. Cinquanta persone sono state fermate perché prive dei tre
documenti previsti dalle autorità, cioè la carta d'identità, la registrazione
della residenza - il cosiddetto hukou, il permesso di soggiorno temporaneo. Ma i
numeri non dissipano affatto i dubbi e i timori del Tchrd e delle altre
organizzazioni pro-Tibet. Le limitazioni alla libera circolazione, con l'obbligo
dei tre documenti, non sarebbero altro che un espediente per operare una stretta
ulteriore sui tibetani che vivono all'esterno della regione autonoma, perlopiù
dissidenti politici.
Sono previste manifestazioni pro-Tibet in decine di città nel mondo, e la
giornata si è aperta questa mattina a Dharamsala, la località indiana dove vive
in esilio da cinquant'anni il Dalai Lama. Infatti, il 10 marzo ricorre
soprattutto l'anniversario delle rivolte indipendentiste tibetane del 1959 che
portarono poi all'esilio della massima guida spirituale del buddhismo lama.
Parlando ad una folla di esuli e di monaci, il Dalai Lama si è rivolto all'élite
tibetana che lavora per il governo cinese: "Invito gli ufficiali tibetani al
servizio delle amministrazioni delle aree autonome del Tibet a visitare le
comunità tibetane che vivono nel mondo libero, per rendersi conto personalmente
della situazione". Il governo di Pechino, tramite l'agenzia di stampa Xinhua, ha
risposto duramente: il Dalai Lama è un separatista, fomenta la violenza, il suo
discorso è retorico e pieno di risentimento. La sua richiesta di una "autonomia
significativa" per il Tibet, che occupa un quarto del territorio cinese, è
inaccettabile per il governo centrale.
A Pechino piaceranno ancora meno le parole di sostegno e amicizia che il Dalai
Lama ha rivolto agli Uiguri, la minoranza musulmana e turcofona del nord-ovest
della Cina. In questo giorno dedicato al Tibet e alle sue battaglie, il leader
spirituale ha voluto ricordare ed esprimere solidarietà al "popolo del Turkestan
orientale", anch'esso represso dalle autorità cinesi. Il Dalai rischia così di
peggiorare il già difficile rapporto con la Cina, anche perché "Turkestan
orientale" è il nome che gli esuli uiguri indipendentisti danno alla loro
regione, che invece Pechino chiama Xinjiang. Probabile che nella capitale cinese
si voglia interpretare la dichiarazione del leader tibetano come l'ennesima
provocazione separatista.
Nei giorni scorsi, Pechino ha fatto intendere che vorrà intervenire - e
interferire - nella designazione della prossima guida buddhista. Anche sul
futuro del lamaismo si gioca una partita tutta politica, altro che religiosa o
spirituale. "Non c'è alcun bisogno di discutere sulla reincarnazione del Dalai
Lama", decideranno le autorità politiche, ha chiarito Padma Choling, governatore
filo-cinese del Tibet. Uno dei componenti di quell'élite a cui si è rivolto il
Dalai Lama, evidentemente senza essere ascoltato.
Un rapporto di Human Rights Watch ha rivelato
il coinvolgimento dei caschi blu della Missione Onu in Congo alla violazione dei
diritti dei civili perpetrata dai ribelli hutu e dall'esercito di Kinshasa.
Millequattrocento
civili uccisi "deliberatamente". Il massacro denunziato da Human Rights Watch si
consumato nei primi mesi del 2009 ai danni della popolazione congolese del Kivu,
terra maledetta nell'Est della Repubblica Democratica. La regione è occupata fin
dal 1998 dai ribelli ruandesi del Fronte Democratico per la Liberazione del
Ruanda (FDLR), miliziani di etnia hutu fuggiti dal proprio Paese in seguito alla
guerra civile del 1994 e che oggi sono coinvolti nei fatti insieme all'esercito
congolese e ai caschi blu della missione Monuc delle Nazioni Unite.
La denuncia. Arriva a distanza di un anno dall'accaduto che sconvolse il paese
africano nei giorni in cui l'esercito congolese, appoggiato dalle truppe
internazionali delle Nazioni Unite, diede vita all'ultimo atto dell'operazione
per cacciare dal suolo nazionale i ribelli Hutu. Il piano era stato concordato
nel 2008 dal governo di Kinshasa e da quello di Kigali, quest'ultimo in mano al
presidente Paul Kagame, capo della resistenza tutsi all'epoca del genocidio. La
missione, trasformatasi in guerriglia, divenne presto l'incipit di una serie di
abusi sulla popolazione civile. Il gruppo umanitario internazionale ha reso
pubblico, oltre l'uccisione indiscriminata di donne e bambini, anche numerosi
episodi di violenza sessuale commessi tanto dai ribelli quanto dalle forze
regolari.
La posizione dell'Onu. Le Nazioni Unite sono presenti nella Repubblica
Democratica del Congo in missione di peacekeeping dal 1999 con circa 20mila
uomini - il più importante contingente di pace al mondo. Lo scorso dicembre è
stato votato un rifinanziamento del mandato che lascerà i caschi blu sul posto
almeno fino al prossimo maggio anche se il presidente congolese Joseph Kabila
vorrebbe che i soldati della truppa internazionale non lasciassero il paese
prima delle prossime elezioni presidenziali previste per la metà del 2011.
Intanto dal quartier generale di Monuc è arrivata, seppur con una discreta dose
di moderazione, la dichiarazione di estraneità ai fatti. Alan Doss, capo della
missione Onu, ha sostenuto, sorvolando sulle domande dei giornalisti, che
l'offensiva contro i ribelli nella RDC orientale sta per terminare lasciando
comunque aperta la possibilità per le Nazioni Unite di supportare nuove
offensive in futuro. Evasive anche le affermazioni di Madnoje Mounoubai,
portavoce di Monuc, che ha detto: "le unità dell'esercito congolese che
partecipano gli attacchi sono state preselezionate, un battaglione implicato in
violazioni dei diritti non riceverà il sostegno della forza di pace delle
Nazioni Unite". Nessuna ammissione di colpa, nessuna promessa sull'apertura di
una possibile indagine interna.
Interessi in gioco. Sono quelli di molti multinazionali che dal 1998
dissanguano, letteralmente, la Repubblica democratica attraverso commerci
illegali di pietre e metalli preziosi fra i quali il coltan usato per la
fabbricazione dei telefoni cellulari. I carichi di questi minerali, presenti in
grandi riserve nella RDC, escono dal Paese anche attraverso il Ruanda che usa la
zona del Kivu come una dogana irregolare gestita dai ribelli. Il compito di
Monuc sarebbe, appunto, quello di aiutare lo sgombro delle impenetrabili
roccaforti degli hutu. Sta accadendo, invece, che da ben dodici anni le forze
militari internazionali sulle quali manca un capillare controllo istituzionale,
approfittano del caos per depredare il Kivu di oro e diamanti trasportati fuori
confine - hanno appurato diversi racconti di testimoni oculari - con gli
elicotteri.
Il risultato è una calma piatta sostenuta da silenzi stampa e dichiarazioni di
cortesia che, spesso, non riescono a nascondere un certo imbarazzo della
comunità internazionale di fronte all'agghiacciante rapporto fra vite perse e
ricchezze guadagnate.
Si fa più acuta la crisi in Nigeria, Paese alle prese con un conflitto
strisciante di natura etno-religiosa dove la posta in gioco è in realtà
l'accesso alle risorse.
L'ultimo
bilancio è di cinquecento morti ma le cifre dell'ennesimo atto di una guerra
strisciante etno-religiosa che insanguina la Nigeria centrale sembra destinato a
salire; decine di cadaveri giacciono ancora in un impasto di sangue e fango e
nessuno li ha ancora spostati. Le cifre fornite dagli ospedali, e riferite dal
governatore del Plateau David Jang e dal commissario di Stato per l'Informazione
Gregroy Yenlong, sono quindi parziali. Gli assalti. I fatti. Sono circa le tre della notte tra sabato e
domenica, quando bande di uomini armati di pistole e machete svegliano gli
abitanti dei villaggi di Dogo Nahawa, Ramsat e Kamang e Zot, costringendoli
sotto la minaccia delle armi ad uscire dalle loro case di legno e lamiere. Nella
ressa agli aggressori basta menare fendenti con i loro coltellacci ed è subito
un massacro.
Muoiono centinaia di persone, prevalentemente donne, bambini e anziani, cioè
coloro che non sono riusciti a scappare velocemente e a mettersi in salvo.
Peter Gyang, di Dogo Nahawa, ha raccontato di essersi nascosto in un edificio in
costruzione e di aver visto gli assalitori intonare strani canti prima di
uccidere gli abitanti. David Nang ha detto all'agenzia Nan che le bande sono
calate sul villaggio "di notte e ci hanno attaccati mentre dormivamo; hanno
appiccato fuoco alle case e sparato alcuni colpi di pistola per costringere gli
uomini fisicamente dotati a scappare".
L'episodio è avvenuto a dieci chilometri a sud della città di Jos, la capitale
dello stato nigeriano del Plateau, proprio a ridosso della linea di confine che
separa il nord del Paese a prevalenza musulmana (i dodici stati del nord della
federazione nigeriana, spronati da sponsor sauditi, hanno adottato la legge
islamica, la sharia) dalle regioni dove invece sono predominanti i cristiani
pentacostali.
Lo spettro della pulizia etnica. Intanto, il presidente facente funzione
Goodluck Jonathan (che sostituisce Yar'dua, ricoverato in Arabia Saudita) ha
messo le forze di sicurezza in stato d'allerta.
La religione in Nigeria è strumento per infiammare gli animi ma è solo un
pretesto. La guerra che oppone cristiani e musulmani ha in realtà risvolti
politici, economici e tribali. Ma è un conflitto combattuto da quelli che spesso
sono semplici vicini di casa, persone che hanno vissuto gomito a gomito per
decenni. La stessa Jos, la città capitale del Plateau che adesso è sinonimo di
disordini e massacri indiscriminati, è stata a lungo il simbolo della convivenza
e della contaminazione. Un simbolo che che fa paura a chi ha deciso di
scommettere sulla guerra.
Una guerra senza regole, combattuta da bande e non da eserciti e quindi ancora
più brutale. "Non è altro che pura e semplice pulizia etnica", ha detto Yenlong.
E infatti questa matrice sembra pesare quanto quella religiosa. I quattro
villaggi attaccati sono abitati da gruppi di etnia Berom, mentre gli assalitori
sono stati identificati come Fulani.
Una catena di massacri. La Nigeria è un Paese enorme, grande tre volte
l'Itala e con una popolazione che si aggira sui 150 milioni di persone, divise
in un mosaico di etnie e tribù diverse, per cui se il conflitto
cristiano-musulmano è quello più evidente, non è certamente l'unico.
Né quello di domenica è il primo massacro. Soltanto il 17 gennaio, bande di
cristiani pentacostali hanno assaltato il villaggio di Kuru Karama, uccidento
150 persone. Secondo i funzionari nigeriani, l'eccidio di domenica notte sarebbe
da leggere proprio come una rappresaglia per il massacro di Kuru Karama.
E ancora. Nel novembre 2008, una disputa legata allo svolgimento di elezioni
locali provocò scontri che durarono due giorni, con un bilancio di 700 morti.
Altri tristissimi precedenti si sono registrati nel 2001 e nel 1994.
Periodicamente, insomma, in Nigeria esplode incontrollata violenza di matrice
etnica e relgiosa. La cosa prooccupante è che questi episodi stanno diventando
più frequenti.
In gioco c'è l'accesso alle risorse, deciso in base ad una sorta di elementare "spoil
system" per cui il potere tende a trasmettersi in base a linee etno-religiose e
ad escludere coloro che non appartengono alla stessa comunità. La cattiva
notizia è che questa faglia è arrivata anche ai servizi di sicurezza,
all'intelligence e all'esercito.
I lavoratori del call center di via Mentana a Monza dopo mesi senza stipendio
hanno ottenuto il commissariamento dell'azienda
I
lavoratori del call center di via Mentana a Monza possono tirare un sospiro di
sollievo. Dopo mesi di lotta, manifestazioni, presidi e sofferenza, i giudici
del tribunale di Novara hanno scelto per il commissariamento della società Raf,
appartenente al gruppo Omega. L'atmosfera di festa e i sorrisi dei dipendenti
contrastano con l'ambiente che li circonda. L'edificio che ospita il call center
è fatiscente. L'ingresso è spoglio, nessuna insegna o cartello testimonia
l'esistenza degli uffici. I muri all'interno cadono in pezzi e le pareti sono
sporche. "Anche noi, figli di un dio minore afferma Rosario Fontanella,
sindacalista della Cgil Brianza, durante l'assemblea dei lavoratori - abbiamo il
diritto di festeggiare. Ce l'abbiamo fatta contro ogni previsione, ma ora
dobbiamo andare avanti e restare uniti. Da settembre senza paga, gli impiegati
avevano quasi perso la speranza di vedere tutelati i loro diritti.
La notizia del commissariamento viene, quindi, accolta con grande entusiasmo
e l'atmosfera che si respira durante l'assemblea è serena. I lavoratori si
scambiano sorrisi, abbracci, strette di mano, sguardi eloquenti. Che sono più
forti dello squallore e del grigiore dell'ampio salone dove si svolge la
riunione. Nessun quadro, nessun cartello, nessun colore. Un ambiente apatico.
Quello del call center è un mondo sommerso, che fatica ad ottenere visibilità e
il rispetto dei propri diritti. L'umanità che si incontra è varia. Studenti,
casalinghe, pensionati, stranieri sono coloro che hanno lottato per mantenere il
proprio posto di lavoro. Sebastiano Liori e Marcello Massa, che hanno alle
spalle ben 14 fallimenti e che la Cgil definisce come liquidatori di
professione, sono stati finalmente estromessi e l'azienda passa nelle mani
dell'avvocato milanese Francesco Di Mundo che agirà come custode giudiziario. A
lui spetterà di valutare lo stato di salute del call center di Monza e
determinarne il futuro. Tre le possibilità in gioco: concordato, fallimento o,
come si augurano i sindacati, l'amministrazione straordinaria. Aspettavamo il
commissariamento da mesi spiega Vittorio Serafin, segretario della Slc Cgil
Brianza, che si occupa del settore delle telecomunicazioni -. Ora almeno abbiamo
un interlocutore con cui discutere degli ammortizzatori sociali.
All'ottimismo del sindacato che, per festeggiare la vittoria ha anche
offerto un piccolo rinfresco, fa eco quello degli impiegati, orgogliosi di aver
resistito, che vedono sfumare l'incubo di questi mesi senza busta paga. Siamo
sempre stati un'azienda sana racconta Matilde Faleschini, 37 anni con ben 249
dipendenti tra contratti a tempo indeterminato, determinato e a progetto.
Avevamo commesse importanti, come quelle della Telecom. Poi lo scorso gennaio
abbiamo avuto i primi sentori del cambiamento e ci è stato detto dal vecchio
proprietario che avremmo ricevuto lo stipendio in due tranches separate. Siamo
stati ceduti ad Omega, una ditta inglese, che abbiamo scoperto essere già
indebitata. Ad agosto i ritardi sono diventati cronici e a partire da ottobre
non abbiamo più ricevuto la busta paga. A dicembre ci è arrivata la seconda
tranche dello stipendio di settembre. Il sorriso di Matilde tradisce la
consapevolezza che il peggio sia passato e che ora la situazione possa solo
migliorare. Lavoro qui da cinque anni e ho sempre pensato che questo fosse un
ambiente tranquillo, sano. Questi ultimi mesi sono stati molto difficili e sono
consapevole di essere tra i pochi fortunati che non hanno un mutuo da pagare e
dei risparmi messi da parte.
di Fabrizio Gatti
Una regata trasformata in evento straordinario. Il cognato di Bertolaso a
gestire le operazioni. Il metodo della banda va avanti. Anche dopo gli arresti
Il centro a L'Aquila è ancora sotto le macerie. Più di 40 mila persone sono
senza casa. E Guido Bertolaso cosa fa? Organizza una regata all'isola della
Maddalena, in Sardegna. Su mandato del presidente del Consiglio, Silvio
Berlusconi. E la supervisione del suo supersottosegretario, Gianni Letta. È
sempre il solito giochetto: la procedura d'emergenza, messa in dubbio in questi
giorni anche dalla Corte dei conti. "Disposizioni urgenti per lo svolgimento
della Louis Vuitton World Series", dicono gli ultimi decreti del capo del
governo. Come se uno tra gli sport più costosi al mondo venisse prima dei 300
morti, della ricostruzione, delle frane, dell'Italia che va in frantumi.
E Bertolaso chi ha mandato alla Maddalena a gestire il nuovo evento
straordinario? Un funzionario con provata esperienza di rigore nelle spese? Un
capostruttura selezionato con concorso pubblico? No. Ha mandato suo cognato, il
solito Francesco Piermarini, 52 anni, ingegnere e imprenditore prestato a
Palazzo Chigi, fratello della moglie, l'architetto Gloria Piermarini in
Bertolaso, 59 anni. La catena di san Guido: il controllo sui nostri soldi
diventa una questione di famiglia. La famiglia Bertolaso. La generosità del
sottosegretario più amato dagli italiani non si smentisce nemmeno nel contratto
di concessione per il megacomplesso dell'Arsenale: 254 milioni dello Stato e
della Regione Sardegna bruciati nella trasformazione dell'ex officina militare
della Maddalena. Si sapeva che se l'era aggiudicato l'unica società ammessa alla
gara, la Mita Resort, una srl di cui è capo del consiglio di amministrazione
Emma Marcegaglia, 45 anni, presidente di Confindustria. Ma non si conosceva la
cifra. Ora si sa: 60 mila euro l'anno per 40 anni. È il prezzo rivelato il 25
febbraio scorso ai deputati che lo ascoltano alla Camera dal sottosegretario
all'Istruzione, Giuseppe Pizza. Ed è quanto incasserà la Regione sarda,
proprietaria della struttura: 155 mila metri quadri con dentro un hotel nuovo e
arredato, centri conferenze, spazi da riempire, 600 posti barca che possono
rendere decine di milioni l'anno, in uno dei luoghi più incantevoli al mondo,
tutto questo al fantastico canone d'affitto mensile di 3 centesimi al metro
quadro.
Bertolaso è davvero l'uomo delle catastrofi. Una catastrofe per i bilanci dello
Stato: il sottosegretario, il volto immagine del governo Berlusconi, il capo
della Protezione civile che nell'ultimo G8 trasferito all'Aquila in nome del
dolore e del risparmio, è riuscito a farci spendere 26 mila euro in penne e 10
mila euro in posacenere. Lasciando senza risposta una curiosità. Negli incontri
pubblici, nei luoghi di lavoro, negli ambienti chiusi è vietato fumare. A chi
servivano i posacenere? Da lunedì primo marzo, in un armadio della Procura di
Perugia, è custodita la storia di come la squadra di Guido Bertolaso ha
conquistato potere e controllo sugli appalti. Grazie all'appoggio trasversale di
centrosinistra e centrodestra. Carriere sprint costruite con l'approvazione di
Francesco Rutelli e Gianni Letta. Cresciute indenni dal 2001 a oggi sotto i
governi di Berlusconi, Romano Prodi e ancora Berlusconi. Una storia tutta
italiana raccolta nel dicembre 2007 in una relazione consegnata a numerosi
funzionari di governo. E rimasta tra l'altro, secondo alcuni testimoni, dal
giugno 2009 fino a una ventina di giorni fa negli uffici del capo dipartimento
del ministro all'Innovazione, Renato Brunetta.
È lo stesso documento che accompagna la "busta profetica": la lettera aperta da
"L'espresso" davanti a una telecamera che, con quasi due anni di anticipo sul
G8-2009, prevede chi vincerà il contratto per l'organizzazione dell'evento e
quali funzionari pubblici controlleranno gli appalti.
Tra i nomi, la società Triumph di Maria Criscuolo, 47 anni, che ha
effettivamente organizzato il vertice tra capi di Stato la scorsa estate. E
Angelo Balducci, 62 anni, soggetto attuatore nominato da Bertolaso per le grandi
opere alla Maddalena e per molte altre, arrestato il 10 febbraio scorso con il
suo successore Fabio De Santis, 47, il dirigente della presidenza del Consiglio,
Mauro Della Giovampaola, 44, e il costruttore romano Diego Anemone, 39. La
disinvoltura con cui Bertolaso coltiva amicizie e incarichi è apparsa
addirittura in tv. Bisogna riguardare la registrazione della trasmissione "Porta
a Porta", su RaiUno la sera di martedì 23 febbraio.
Il capo della Protezione civile risponde alle domande di Bruno Vespa. Dichiara
di essere amico di Balducci. E fin qui nulla di irregolare. Però aggiunge: "So
di Anemone perché lo conosco... Una volta, pensi, sono addirittura anche andato
nel suo ufficio. Perché siccome il suo ufficio, almeno quello che conosco io,
non era lontano dal mio dentista, una volta andando dal mio dentista sono
passato da lui perché mi aveva chiesto di vederlo". "Perché", continua Bertolaso,
indagato dalla Procura di Firenze, "voleva farmi vedere un progetto per la
ristrutturazione del fortino napoleonico di Punta Rossa a Caprera, che è uno dei
miei pallini perché è una struttura bellissima che sta andando in malora e che a
me invece piacerebbe tanto ristrutturare". Anemone e Bertolaso si incontrano
probabilmente tra il 2008 e il 2009. Durante la trasmissione il sottosegretario
non rivela la data. Anemone mostra a Bertolaso il progetto per ristrutturare il
fortino napoleonico di Punta Rossa sull'isola di Caprera, nell'arcipelago della
Maddalena, un'area inquinata da resti di eternit e amianto che potrebbe essere
ripulita con procedura ordinaria. Ma sentite qua.
Luis Vuitton cup a Trapani Mercoledì
30 dicembre, tra gli ultimi atti del 2009, Berlusconi firma l'ordinanza 3838 con
le disposizioni urgenti sull'organizzazione delle regate della Louis Vuitton
Trophy. L'articolo 1 nomina Bertolaso commissario delegato, il suo ennesimo
incarico retribuito in aggiunta allo stipendio da dirigente dello Stato. E al
comma due dello stesso articolo si legge: "Il commissario delegato provvede
altresì alla realizzazione delle seguenti iniziative sull'isola di Caprera...
realizzazione degli interventi di riqualificazione ambientale da eseguirsi
sull'area Punta Rossa". Il progetto di Diego Anemone, imprenditore privato,
diventa così provvedimento d'urgenza di Berlusconi, capo del governo. Ma
Berlusconi sa di questa catena di san Guido? Gianni Letta lo informa? Con quale
criterio, nei piani del dipartimento di Bertolaso e delle spese del governo, la
situazione di Punta Rossa a Caprera è ritenuta prioritaria rispetto al
consolidamento antisismico delle scuole, degli ospedali e a tutto quanto c'è
bisogno in Italia?
Passa poco più di un mese e il 5 febbraio Berlusconi firma un'altra ordinanza
per le regate alla Maddalena (22 maggio-16 giugno). Il presidente del Consiglio
autorizza Bertolaso ad assumere "ogni iniziativa finalizzata ad assicurare il
pieno utilizzo del compendio immobiliare del Forte Carlo Felice". È il secondo
albergo, quello ricavato dall'ex ospedale militare, 73 milioni sul totale di 327
milioni spesi per il G8 trasferito. Quell'albergo non lo vuole gestire nessuno.
L'unica gara convocata un anno fa è andata deserta. Il capo della Protezione
civile può adesso sfruttare tutti i poteri straordinari. Fino all'assegnazione
diretta, "rimanendo insoddisfatta l'esigenza di assicurare l'immediata
redditività degli investimenti effettuati". Sotto il controllo della coppia
Bertolaso- Balducci è davvero difficile immaginare che gli investimenti della
pubblica amministrazione possano puntare alla redditività.
È il caso dell'altra struttura per il G8 mancato, l'Arsenale. Il complesso
affittato alla società di Emma Marcegaglia ha bruciato quasi 200 milioni di
fondi per lo sviluppo della Sardegna. L'ex presidente della Regione, Renato Soru,
contava di recuperarli con il canone di concessione. Ma per arrivare almeno alla
pari con 60 mila euro l'anno di affitto, senza calcolare oneri finanziari e
deperimento delle strutture, servirebbero ora 3.333 anni. Sempre che le sale
ideate dall'architetto Stefano Boeri resistano più del nuraghe di Santu Antine.
Trasferito il G8, Bertolaso ha anche rinegoziato il contratto con la Mita Resort:
penalizzata, secondo quanto riconosciuto dalle parti, per la mancata pubblicità.
Emma Marcegaglia deve così versare 31 milioni in tre rate entro 13 mesi, invece
di 41 milioni. Soldi una tantum che vanno alla Protezione civile. La Regione
Sardegna si deve accontentare dei 60 mila euro che moltiplicati per i 40 anni di
concessione fanno 2 milioni 400 mila euro. A questi prezzi, perché le casse
regionali e statali possano pareggiare i 254 milioni spesi nell'Arsenale,
dovrebbero trascorrere più di 7 concessioni quarantennali. Cioè 304 anni.
"Le imprese", scrive su "Panorama" la presidente di Confindustria e di Mita
Resort, "devono essere le prime a produrre e diffondere legalità. È una svolta
alla quale tengo molto. È questa la nostra risposta a 15 anni di perduranti
cronache del malaffare" La catena di san Guido non finisce con gli affari di
Emma Marcegaglia. Si resta sulla Maddalena. E rieccolo il cognato del capo,
ancora qui, Francesco Piermarini, il biondo ingegnere arruolato per il G8 e
adesso infilato nella struttura di missione inviata da Palazzo Chigi per le
regate. Anche lui, secondo la Procura di Firenze, in buoni rapporti con gli
Anemone. Pochi giorni fa, in vista delle prove e delle gare tra aprile e la
prima settimana di giugno, un piccolo gruppo di agenzie immobiliari della
Maddalena raggiunge un accordo con i rappresentanti mondiali della Louis Vuitton
Trophy. Servono 200 appartamenti e viene stabilito un prezzo da media stagione:
600 euro al mese i bilocali, 700 i trilocali. Secondo altri immobiliaristi però
bisogna approfittare: almeno 700 euro a settimana. Il pomeriggio di venerdì 26
febbraio le agenzie immobiliari che propongono prezzi più bassi vengono
convocate negli uffici della struttura di missione. Al tavolo si siedono un
assessore del Comune, alcuni promotori delle regate e della Vuitton Trophy. E
c'è Francesco Piermarini. Nell'incontro viene ricordato ai presenti che
l'organizzazione è affidata alla struttura di missione nominata da Palazzo Chigi.
Ma cosa c'entrano le grandi opere della presidenza del Consiglio con gli affitti
sull'isola? L'accordo con i canoni a buon mercato viene sospeso. Gli
immobiliaristi che vogliono speculare sul grande evento hanno ora tante
possibilità in più. Da Piermarini a Marcello Fiori, 50 anni, responsabile per il
G8 all'Aquila. Gli uomini nuovi immessi a decine nella presidenza del Consiglio
macinano promozioni, scavalcano carriere, creano doppioni e sprechi. Un'intera
struttura viene spinta da parte. Funzionari, ingegneri, ufficiali delle forze
armate con anni di attività. Tra loro il generale di divisione dell'esercito,
Erasmo Lorenzetti. È il massimo esperto statale nell'organizzazione di grandi
eventi: il G7 del 1994 a Napoli, il Giubileo 2000 a Roma, il G8 del 2001 a
Genova e molti altri.
Lunedì primo marzo, dopo l'intervista rilasciata al sito Internet de
"L'espresso", il generale Lorenzetti viene convocato dalla Procura di Perugia
che sta indagando sul filone romano della nuova Tangentopoli e sull'ex
procuratore aggiunto di Roma, Achille Toro, accusato di avere avvertito Angelo
Balducci delle indagini. Tra i documenti, gli investigatori acquiscono una
lettera sigillata identica a quella rivelata da "L'espresso" e una relazione su
cosa sarebbe avvenuto in vista del G8 alla Maddalena. Il generale la scrive nel
dicembre 2007, come consulente del ministero all'Innovazione sotto il governo di
Romano Prodi. E la ripropone durante il governo Berlusconi. Il generale
Lorenzetti già allora sconsiglia la scelta della Maddalena, per gli eccessivi
costi in personale, mezzi e sicurezza. E critica la selezione degli uomini per
gli appalti e l'organizzazione del G8: "La scelta non può cadere su parenti
segnalati, su amici degli amici, su chi un domani renderà il favore fatto... Il
solito carrozzone che dilapida i fondi in strutture che sembrano create apposta
per distribuire emolumenti a pioggia... Si sono visti nel passato dottori non
laureati chiamati come esperti ma di cui come tali avevano ben poco... Ricorrere
sin da ora a gare che coinvolgono più ditte e società: non sempre le solite".
Già nel 2007 il sistema Bertolaso-Balducci corre a piena velocità. E da allora
nessun governo, nessun ministro ha voglia di fermarlo.
Si riapre dopo 3 anni l'inchiesta sulle
responsabilità dell'Eliseo nella vicenda che portò alla consegna di decine di
persone nelle mani dei khmer rossi
Dopo aver ammesso i "gravi errori di calcolo"
compiuti dal governo francese durante il genocidio in Ruanda nel 1994, il
presidente Nicolas Sarkozy potrebbe doversi ripetere per ciò che attiene la
condotta politica dell'Eliseo durante la rivoluzione dei Khmer Rossi in Cambogia
nel 1975. Un'inchiesta, iniziata nel 1999 ma interrotta nel 2007 per un problema
di competenza giuridica, sarà infatti riaperta nei prossimi mesi dal tribunale
di Créteil per determinare in che modo diverse figure del regime rovesciato
dagli uomini di Pol Pot furono catturate nonostante si trovassero sotto la
protezione dell'ambasciata francese a Phnom Penh.
I fatti. Si svolsero all'indomani della presa della capitale cambogiana
da parte dei Khmer Rossi avvenuta il 17 aprile 1975. Dopo aver capitolato di
fronte all'invasione rossa, centinaia di persone si nascosero all'interno della
sede diplomatica per scampare alle deportazioni forzate. Fra i rifugiati c'erano
anche il principe Sirik Matak, due guardie del corpo, la principessa Manivann
con la figlia, il genero e sei bambini piccoli, il ministro della Sanità Loeung
Nal e il presidente dell'Assemblea Nazionale Ung Boun Hor. Tutti loro,
nonostante la protezione sarebbe dovuta essere garantita da Parigi, finirono
nelle mani dei khmer rossi e, successivamente, uccisi. Testimoni raccontano che
le jeep dei miliziani arrivarono a prenderli fino al cancello della sede
diplomatica francese e che due militari in borghese li scortarono per
assicurarsi della buona riuscita dell'operazione.
Il caso Boun Hor. È basato su una fotografia, che ancora oggi non porta
firma, nella quale l'ex presidente del Parlamento viene ritratto insieme a
Georges Villevieille e Pierre Gouillon, due militari di stanza in Cambogia,
mentre sembra essere bloccato da questi ultimi per essere consegnato con la
forza ai colonnelli di Pol Pot. Intervistati prima della chiusura del
dibattimento nel 2007 i due ex membri dell'esercito francese avrebbero reso due
testimonianze differenti. Secondo Villevieille la foto sarebbe stata scattata il
17 aprile, giorno dell'arrivo delle personalità politiche, e Boun Hor fu
circondato perchè al suo ingresso in ambasciata fu colto da una crisi di nervi.
Per Guillon, invece, l'immagine si riferisce alla data della partenza e la forza
si rese necessaria perchè, ha raccontato l'ex militare, "Ung Boun Hor non voleva
andare. Egli doveva aver sospettato ciò che gli sarebbe successo". A confermare
la versione di Villevieille ci sarebbe pure l'uomo chiave dell'intera questione.
La persona che per la stampa francese sarebbe il depositario della verità
sull'accaduto.
Jean Dyrac. Era lui il responsabile dell'ambasciata durante quei
concitati giorni d'aprile. Le cronache raccontano che il diplomatico non fu
assolutamente all'altezza del compito affidatogli: affrontare la crisi e salvare
le vite dei rifugiati. I khmer rossi non erano ancora stati riconosciuti dal
governo francese e si rifiutarono pertanto di considerare l'ambasciata come un
territorio neutro da rispettare. Il messaggio era semplice: se la Francia non
avesse consegnato loro i rifugiati, essi avrebbero fatto irruzione e se li
sarebbero presi con la forza. L'incartamento giudiziario sul caso, al vaglio
degli inquirenti dal 1999, raccoglie una ventina di telegrammi dai quali si
apprende di una vera e propria crisi che, in quelle ore, coinvolse le
istituzioni francesi. Il presidente della Repubblica era Valery Giscard D'Estaing,
capo del governo Jacques Chirac. A entrambi Dyrac spiegò, dopo diverse
corrispondenze, la tragicità della situazione dettata dall'ultimatum lanciato
dai khmer rouge di consegnare la lista completa dei nomi dei rifugiati
all'interno dell'ambasciata: "Senza un ordine immediato ed espresso del
dipartimento disporrò di dare asilo politico. Dovrò entro un periodo che non
deve essere superiore a ventiquattro ore, fornire i nomi di queste personalità.
Rispondete al telegramma in modo chiaro: Sì, se devo consegnare. No, se devo
astenermi". Alle 18 e 10 del 18 aprile partì da Parigi la risposta che Dyrac non
avrebbe voluto ricevere: "Si prega di preparare una lista di nomi di cittadini
cambogiani che sono nei locali dell'ambasciata, per essere pronti a comunicare
elenco al termine imposto". Una freddezza burocratica che, altrettanto
freddamente, avrebbe condannato uomini, donne e decine di bambini a morte certa.
In calce al documento, oltre il cognome del segretario generale del ministero
degli Esteri Geoffroy Chodron de Courcel, anche due sigle PR e PM. O, più
chiaramente, Presidente della Repubblica e Primo Ministro.
Antonio Marafioti
I diritti in pericolo
Intervista al dottor Metin Bakkalci, segretario generale della Human Right
Foundation of Turkey di Lara Iskra e Christian Elia
Il
dottor Metin Bakkalci è il segretario generale della Human Right Foundation of
Turkey (Hrft), organizzazione non-governativa e indipendente che offre cure e
servizi di riabilitazione alle vittime di torture e di altri trattamenti inumani
e degradanti. L'organizzazione è stata fondata nel 1990 ed è attiva in cinque
centri di trattamento e riabilitazione: Adana, Ankara, Diyarbakir, Istanbul e
Izmir. Negli ultimi 19 anni la Hrft ha offerto cura e riabilitazione a 12,326
sopravvissuti a torture. La Fondazione monitorizza costantemente le situazioni
di violazione di diritti umani in Turchia, sviluppa numerose ricerche riguardo
alle questioni concernenti i diritti umani, organizzando allo stesso tempo
molteplici attività e campagne di informazione.
Partiamo dalla sua
biografia. Cosa l'ha spinta ad entrare a far parte della Hrft? Già durante i primi anni di studio presso
la facoltà di Medicina all'università Hacettepe di Ankara decisi, assieme ad
altri colleghi, di intraprendere alcune ricerche medico-scientifiche
sull'impatto delle pratiche di tortura sul corpo umano e sulle conseguenze che
questo tipo di trauma comporta. In quegli anni fui anche membro attivista di un
movimento politico di sinistra e negli anni di oppressione, dopo il colpo di
stato del 1980, venni accusato di complottare contro il governo e condannato a
cinque anni di prigione durante i quali venni torturato. Nel 1992, una volta
uscito dal carcere, mi fu proibito di praticare la professione medica.
Successivamente fui eletto presidente dell'Associazione Medica Turca fino al
1996, anno in cui entrai ufficialmente nella Fondazione con il ruolo di
segretario generale. L'esperienza in carcere rappresenta sicuramente una delle
motivazioni principali che mi hanno spinto ad unirmi alla Fondazione. In Turchia
non esiste un'istituzione pubblica che si occupi di sopravvissuti ad atti di
tortura; l'operato della società civile è dunque l'unica iniziativa valida che
mi permette di contribuire alle cure e alla riabilitazione di queste persone.
Nel 1999 la Fondazione partecipò, inoltre, alla compilazione del Protocollo di
Istanbul, primo manuale di documentazione e ricerca medica sulla tortura, sui
suoi effetti e sui metodi di riconoscimento di tale violenza. Nel 2000 è
divenuto documento internazionale riconosciuto dall'Onu.
Come in una polaroid,
che quadro si potrebbe fare della situazione del rispetto dei diritti umani in
Turchia? Essendo la Hrft un'istituzione che opera
per il rispetto dei diritti umani, valuta gli sviluppi e la situazione attuale
prettamente dal punto di vista dei diritti universali basandosi esclusivamente
su dati concreti. Tra il 1999 ed il 2005, durante la corsa ai negoziati per
l'entrata nell'Unione europea, la situazione dei diritti umani in Turchia ha
conosciuto dei miglioramenti grazie alle riforme legislative finalizzate
all'allineamento agli standard internazionali. Nonostante ciò, quattro anni dopo
l'apertura dei negoziati con l'Europa, la situazione è precipitata nuovamente e
l'intenzione di apportare cambiamenti in questo paese è sfumata. Dal 2005 in poi
diverse leggi, soprattutto riguardanti il diritto penale, sono state emendate,
restringendo sempre di più i confini della democrazia. La Fondazione ha
registrato un notevole incremento di violazioni concernenti i diritti umani
basilari quali il diritto alla vita, la libertà di espressione e di associazione
nonché un netto aumento di pratiche di tortura. Il governo legittima questo tipo
di politica in nome della sicurezza e del benessere nazionale, dimostrando
intolleranza verso ogni tipo di opposizione. Dopo le elezioni comunali del 29
marzo 2009 migliaia di cittadini di origine curda, numerosi politici e perfino
otto sindaci eletti democraticamente sono stati arrestati. Centinaia di bambini
tra i 12 ed i 18 anni sono stati imprigionati per aver scagliato pietre verso la
polizia durante le manifestazioni di protesta. L'oppressione non si limita ai
curdi ma si manifesta nei confronti di tutti coloro che lottano per i propri
diritti individuali, pensiamo agli operai della Tekel in sciopero della fame
ormai da settimane.
Alla cerimonia del
Nobel per la Pace si è definito la guerra come mezzo per la pace. Si potrebbe
affermare che attualmente i diritti umani in tutto il mondo siano in serio
pericolo? Osservando il mondo dalla prospettiva dei
diritti umani si può notare che al momento ci troviamo ad un punto cruciale, ad
un vero e proprio crocevia di scelte. L'Onu, creata sulla solida idea del "mai
più", non sembra adempiere al proprio compito. E così l'umanità pare aver
intrapreso la direzione che porta ad un mondo in cui i forti possono agire come
meglio credono, senza considerare più nessun valore, vietando agli individui di
godere pienamente dei propri diritti. La progressiva distruzione dei valori
comuni e dei diritti umani si manifesta palesemente nel discorso tenuto da
Barack Obama alla cerimonia del Nobel per la Pace, quando legittima le sue
guerre ingiuste in nome della pace. Come spiegherebbe ad un pubblico estero
quanto capitato in questi giorni in Turchia? Nonostante la mancanza di informazioni
oggettive e veritiere riguardo agli attuali eventi, è chiaro che nel sistema
corrente influenzato da dinamiche interne ed esterne, si stia verificando un
evidente processo di auto-restauro. Diversi poteri sociali stanno tentando di
suddividere nuovamente il potere all'interno dello stato e questo porta
all'inevitabile presenza di tensioni interne che sfociano, ad esempio, in
arresti pubblici come quello di cui siamo stati testimoni negli ultimi giorni.
La società ed i cittadini vengono letteralmente esclusi da questi processi
sociali e l'opinione pubblica viene letteralmente monopolizzata.
Come inquadrerebbe il
ruolo dei media? In Turchia il diritto di informazione,
uno dei diritti principali di cui ogni società dovrebbe godere, è seriamente
compromesso e viene intenzionalmente ostacolato. La maggior parte dei media
turchi non sono indipendenti e la loro libertà di espressione è limitata. Essi
sono meri veicoli dei vari poteri politici, economici ed internazionali e spesso
orientano e dividono la società a loro piacimento. I cittadini non sono
consapevoli della situazione del loro paese anche se l'accesso alla verità
dovrebbe essere un diritto garantito ad ogni individuo. Nel 2009 ben tredici
giornali di opposizione sono stati costretti a chiudere e numerosi giornalisti
considerati "scomodi" sono stati condannati al carcere.
Quanto, ancora,
l'esercito ha un peso determinante nella vita politica turca? Questa retata ha
inferto il colpo decisivo al dominio dei militari? L'esercito rappresenta l'istituzione più
oppressiva della storia della Turchia. Il suo ruolo di garante e di tutore dello
stato, manifestatosi in numerosi tentativi di prendere il potere, è stato
istituzionalizzato dopo il colpo di stato del 1980. Il recente arresto di alcuni
militari potrebbe essere interpretato come un inizio della fine dei poteri
dell'arma. Tuttavia, innanzitutto sarebbe un obbligo del governo punire e
processare legalmente i militari del 1980 responsabili per aver imprigionato e
torturato migliaia di oppositori. Sfortunatamente, l'articolo 15 della nostra
Costituzione, creato nel 1982 e tutt'ora in atto, vieta di perseguire i generali
responsabili, rendendoli in tal modo intoccabili. La costituzione prevede che il
personale militare possa essere processato e giudicato solo ed esclusivamente da
corti penali speciali. Queste corti statali e completamente indipendenti
rappresentano uno dei maggiori strumenti di oppressione nel paese. La Turchia è
dunque governata ancora dalla Costituzione del 1982 e non dimostra alcuna
intenzione né di modificare il proprio sistema processuale né di condannare i
responsabili del colpo di stato avvenuto ormai 30 anni fa, allontanandosi sempre
di più da una qualsiasi idea di democrazia.
Cosa crede che accadrà
adesso? Ci sarà un aumento specifico del peso degli islamisti nella vita
pubblica turca? La Turchia moderna è stata fondata in
modo tale da infondere nel cittadino turco il doppio concetto di "turcità" e di
Islam. Nel corso della storia è successo che spesso il peso di una componente
abbia superato l'altra nonostante entrambe tendano a rinforzarsi mutuamente.
Ultimamente la componente islamica ha più peso nella società poiché è riuscita
ad avere un maggior impatto nella vita pubblica. Tuttavia, la società turca non
può essere spiegata ricorrendo alla riduttiva dicotomia secolarità e islamicità
poiché esistono molte altre componenti e contraddizioni al suo interno.
Che tipo di futuro
augurerebbe al suo paese? La Turchia si trova ad un punto critico
in cui deve scegliere se continuare con la sua penosa politica di violenza,
oppressione, divisione degli strati sociali e totale incapacità di trovare
soluzioni lontanamente democratiche ed egualitarie per problemi come la
questione curda, oppure se prediligere la strada della democrazia e del rispetto
dei diritti umani.
La Corte suprema condanna Thaksin. Ma il popolo che vota l'ex premier non
smetterà di lottare per un Paese diverso
I ristoranti popolari di Bangkok hanno tenuta accesa la tv tutto il giorno,
sorbendosi in sottofondo sette ore di soporifera lettura della sentenza; i
tassisti la ascoltavano alla radio; i venditori ambulanti già ti dicono che
il 14 marzo, quando le "camicie rosse" torneranno in piazza nella capitale,
non saranno al solito posto coi loro carretti. Thaksin Shinawatra, hanno
sentenziato i giudici della Corte suprema, si è arricchito approfittando
della sua posizione di primo ministro, favorendo la sua compagnia di
telecomunicazioni. I suoi sostenitori, prevalentemente tra le classi
medio-basse, la vedono però in maniera diversa: l'ex premier thailandese
sarà anche un miliardario assetato di potere ma almeno, al contrario degli
altri politici considerati ancora più corrotti, ha fatto qualcosa per la
gente.
La
Thailandia attendeva con trepidazione il "giorno del giudizio", come è stato
ribattezzato dai media nazionali: la sentenza finale sul destino di 76
miliardi di baht (1,7 miliardi di euro) sequestrati a Thaksin dopo il colpo
di stato che l'ha deposto nel settembre 2006. Da almeno due mesi si
rincorrevano voci e speculazioni di ogni tipo, prevalentemente improntate
alla confisca definitiva del tesoro dell'ex premier. I giudici hanno invece
optato per una via di mezzo: 46 miliardi di baht, la ricchezza accumulata
dopo essere stato eletto, non verranno mai restituiti. Gli altri, anche se
non è stato ancora definitivo come e quando, torneranno al potente magnate,
che dal suo autoesilio a Dubai continua a finanziare l'opposizione.
Alcuni temevano rivolte di piazza, paure rilanciate ad arte dal governo di
Abhisit Vejjajiva e dalle forze armate, che non hanno perso occasione per
ribadire di non tollerare disordini. Ma da giorni si era diffusa la
sensazione che non sarebbe accaduto nulla: il prolungato "al lupo, al lupo"
sembrava più un posizionamento verbale per sondare le acque, da entrambe le
parti. Le "camicie rosse", i sostenitori di Thaksin, hanno indetto e
annullato diverse manifestazioni, dando l'impressione di non sapere come
riprendere l'inerzia nella lotta contro il sistema - e non per Thaksin, come
ti spiegano in molti. Lo "scontro finale" (espressione già usata altre
volte, per poi non concretizzarsi) è stato ora fissato per il 14 marzo,
quando i rossi sperano di portare un milione di persone nella capitale. Le
forze armate, con la scusa dei posti di blocco per fermare i violenti,
cercheranno di rallentare il loro arrivo.
L'interesse per la sentenza era enorme non perché la gente crede che Thaksin
rimarrà senza un centesimo: di sicuro l'ex premier ci ha rimesso, ma può
contare su un patrimonio diversificato all'estero e continua a finanziare
l'opposizione, anche se non è chiaro per quanto potrà andare avanti. Ciò che
fa infuriare i suoi sostenitori, però, sono gli standard doppi dell'attuale
governo, della magistratura, delle forze armate: tutti raggruppati sotto
l'etichetta di "burocrati" che impongono la volontà della cricca che ha
sempre comandato, accanendosi contro il primo politico che - con sagace
calcolo di marketing - ha capito quanto il "popolino" fosse stato
trascurato.
Il doppio standard, agli occhi dei sostenitori di Thaksin ma non solo, è
lampante. Le "camicie gialle" monarchiche-nazionaliste hanno occupato due
aeroporti, bivaccato per tre mesi nella sede del governo: l'esercito non li
ha mai attaccati, nessuno è mai stato portato in tribunale. Quando i rossi
hanno manifestato a Bangkok, lo scorso aprile, le forze armate li hanno
dispersi sparando. I sospetti di corruzione contro membri dell'attuale
governo o militari vengono insabbiati; a Thaksin non viene perdonato niente.
La polizia stradale esige qualche banconota in "regalo" a ogni posto di
blocco, ma le macchine di lusso non vengono mai fermate. E la lista sarebbe
molto più lunga.
Non è detto che ci siano violenze, neanche se tra due settimane scendessero
in piazza un milione di persone - e beninteso: tra di esse ci sono anche
mercenari pronti a tutto, non solo innocui manifestanti armati di battipiedi
di plastica. E questo perché le "camicie rosse", col loro elenco di litanie,
sentono di essere dalla parte giusta. "Sanno che alle prossime elezioni
vinceranno, aspettare uno o due anni cambia poco", confida a PeaceReporter
un farang (straniero occidentale) che sta dando una mano nell'organizzazione
del movimento. A quel punto, i rischi di violenze aumenterebbero eccome.
La futura Pedemontana Lombarda passerà a Seveso, nelle zone colpite
dall'incidente dell'Icmesa. Ma le analisi rivelano che nei terreni la
quantità di veleni è ancora elevata. Con il rischio che serva una colossale
bonifica
«Ci
ho messo la faccia e dunque la Pedemontana sarà completata entro il 2014».
Lo scorso 6 febbraio Roberto Formigoni aveva sfoggiato grande sicurezza.
Durante la fastosa cerimonia di inaugurazione dei cantieri, il presidente
della Regione Lombardia non aveva accennato alle difficoltà che rischia
d'incontrare l'autostrada destinata a collegare la provincia di Varese a
quella di Bergamo, tracciando un grande arco a Nord di Milano. Un'opera per
la quale nell'intasata Brianza ci si batte da mezzo secolo e che ora, con i
suoi appalti da 5 miliardi di euro, scatena gli appetiti dei poteri locali.
LE PAURE DEI SINDACI
Passato meno di un mese dalle promesse di Formigoni, però, le certezze sui
tempi di esecuzione dei lavori si sono incrinate. Mercoledì 3 marzo sei
sindaci brianzoli parteciperanno a un vertice alla Provincia di Monza per
tentare di ottenere una modifica sostanziale al progetto, chiedendo
un'interruzione che dividerebbe in due diversi tronconi la futura
autostrada. Lo snodo dove il progetto rischia di rompersi è un nome
conosciuto in Italia e nel mondo: Seveso. In quel tratto la Pedemontana
dovrebbe sovrapporsi all'attuale Milano-Meda, una superstrada
trafficatissima dove già oggi passano 60 mila auto al giorno. I lavori
saranno però pesanti, perché la carreggiata sarà allargata parecchio, fino a
dieci metri in più. E questo comporta due problemi. Il primo è il rischio di
paralisi di una zona sovraffollata di persone e aziende, visto che per
andare a Milano in auto alternative valide non ne esistono. Per questo
motivo, nell'incontro del 3 marzo, i sindaci di Seveso, Meda, Lentate,
Barlassina, Bovisio Masciago e Cesano Maderno sono pronti a chiedere
provvedimenti radicali. Tra i quali, uno stop dei lavori fino a dopo l'Expo
del 2015 e una semplice riqualificazione della superstrada per un tratto di
una decina di chilometri, senza opere strutturali.
Chi pagherà la Pedemontana
(dati in miloni di euro)
QUANTA DIOSSINA, TRENT'ANNI DOPO
Un problema per certi versi ancora più difficile da affrontare, invece, è
legato a un nemico con il quale dalle parti di Seveso devono convivere da
tempo: la diossina sprigionata dall'esplosione del 1976 nell'impianto
chimico dell'Icmesa. Per poter aprire i cantieri, la società concessionaria
dell'autostrada, la Pedemontana Lombarda Spa, ha dovuto effettuare una serie
di indagini per verificare, a oltre trent'anni dall'incidente, la presenza
del veleno nelle aree dove si scaverà. La verifica serviva per vedere se
sarà necessaria una bonifica di proporzioni ciclopiche, un'operazione che in
Pedemontana sperano di evitare per non correre il rischio di veder dilatati
i tempi dei lavori e per non affrontare costi che al momento non sono
nemmeno stati quantificati. "L'espresso", però, ha potuto leggere i rapporti
con i risultati dell'analisi e la fondatezza di queste speranze non sembra
scontata.
Il primo rapporto, datato luglio 2008, ha riguardato 64 diversi punti di
carotaggio. In 44 di questi punti, in pratica in due su tre, fra i campioni
prelevati a diversa profondità ne è stato trovato almeno uno dove la
concentrazione di diossina è superiore ai limiti previsti dalle norme per
utilizzare l'area a verde pubblico o privato (pari a 0,00001 milligrammi di
diossina ogni chilo di terra). In otto di questi carotaggi, poi, la quantità
è ancora più elevata, superiore al livello fissato a scopo commerciale o
industriale (pari a 0,0001 milligrammi ogni chilo di terra). Un secondo
rapporto, datato agosto 2008, ha ulteriormente aggravato questo secondo
dato, quantificando in dieci i campioni dove la concentrazione di diossina
supera il secondo limite, quello più allarmante.
LA PIU' PULITA? L'AREA ICMESA
I due rapporti sono ricchi di informazioni interessanti. La prima è che più
ci si avvicina ai terreni dove c'era la fabbrica esplosa, più i campioni
prelevati dai primi strati di terreno sono puliti. L'area all'epoca
maggiormente contaminata, in effetti, fu l'unica ad essere bonificata e oggi
vi si trova un parco naturale, chiamato il "Bosco delle Querce", aperto al
pubblico e cresciuto su uno strato superficiale di terreno portato da fuori
(vedi mappa ...). Allontanandosi verso Sud, i campioni assumono una tonalità
uniforme: la diossina è quasi ovunque superiore - negli strati superficiali
del terreno - ai limiti previsti per il verde pubblico. In alcuni casi lo
sforamento è limitato ma più spesso supera di 3 o 4 volte (e talvolta anche
di 7 o 8) la soglia di legge. Attenzione però: i dieci casi più critici sono
distribuiti sull'intera tratta, da Meda a Cesano Maderno. Segnale che
problemi ce ne sono ancora un po' ovunque.
SPOSTARE LA PIRAMIDE DI CHEOPE
La Pedemonata Spa ha sempre sostenuto che i dati raccolti non sono
preoccupanti. Un anno fa, intervendo a una seduta del consiglio comunale di
Meda, il direttore generale Umberto Regalia, senza fornire dettagli sulle
analisi, ha cercato di rassicurare tutti. «I prelievi dicono che si può
lavorare questa terra, che il carico inquinante da diossina che permane
dall'incidente del 1976 non è superiore a quello che si trova in tantissime
altre aree della Lombardia», ha sostenuto. Aggiungendo poi un paragone con i
lavori che, già così, toccherà fare: «È come spostare due volte la piramide
di Cheope». A "L'espresso", oggi, Regalia ribadisce la stessa posizione: «Le
indagini sulla presenza della diossina abbiamo dovuto farle per legge, visto
la natura pubblica dell'opera. Se però venisse fuori che dobbiamo davvero
effettuare la bonica, mi piacerebbe sapere perché in questi anni si è potuto
costruire così tanto senza fare nulla». Un dato di fatto, visto che solo a
Seveso la popolazione è passata dai 16 mila abitanti prima dell'incidente ai
22 mila attuali.
LA CITTA' DELLE DONNE
A Seveso e nei dintorni la parola diossina, però, evoca ancora brutti
ricordi. Vilma Galimberti, neurologa all'ospedale di Desio e presidente del
consiglio comunale di Meda, ricorda che per tanto tempo, quando prenotavi le
vacanze in albergo, correvi il rischio di sentirti dire che non c'era più
posto. Al di là delle reazioni da trogloditi degli italiani, tuttavia, le
vere ripercussioni sono state altre: «Il problema sono stati gli effetti
secondari che, ancora oggi, sono noti solo in parte», dice Galimberti. Molti
studi sono stati fatti, a cominciare da quelli firmati da Piero Mocarelli,
un epidemiologo fra i più tenaci nel tenere sotto controllo le conseguenze
dell'incidente. Fra i risultati più interessanti, gli effetti sulla
fertilità e l'aumento della probabilità di concepire figlie femmine da parte
dei padri esposti al veleno. La conseguenza più preoccupante, però, è
l'aumento dei tumori fra le popolazioni colpite. Una ricerca effettuata, fra
gli altri, dai ricercatori del Policlino di Milano, ha evidenziato che per
le donne che abitano nella zone più vicine all'incidente è più alto il
rischio di cancro al seno; se si allarga lo sguardo alle aree colpite in
modo anche marignale, cresce comunque il rischio di tumori linfatici e del
sangue.
Per questi motivi tutta la regione vive con sensazioni ambivalenti il
progetto Pedemontana. La necessità di migliorare il traffico micidiale fa a
pugni con il timore di ritrovarsi nuovamente con gli uomini in tuta
protettiva e maschera anti-gas in giro per i cantieri. E con la paura che la
polvere dei cantieri si porti in giro i veleni presenti: «Non siamo contrari
all'autostrada in se' ma è chiaro che devono essere prese tutte le
precauzioni necessarie e il progetto va modificato per limitare al massimo
le ripercussioni sugli abitanti», dice Galimberti, che con la lista civica
"Con Buraschi per Meda" ha promosso un ricorso alla Corte europea per i
diritti dell'uomo, che ha già superato il giudizio sull'accettabilità da
parte della Corte.
LA BACCHETTATA DELCIPE
La Pedemontana Spa, in effetti, nel novembre scorso ha dovuto subire dal
Comitato Interministeriale per la programmazione economica (Cipe) quella che
assomiglia a una vera e propria bacchettata. Dando il via libera al progetto
definitivo, ha prescritto il Cipe, «dovranno essere realizzate ulteriori
indagini dettagliate sui terreni interessati da contaminazione da diossina».
A dispetto delle speranze della società, la possibilità che sia necessaria
la bonifica non è campata in aria: prima dovranno essere fatti nuovi
campionamenti (al momento previsti a partire da aprile), poi bisognerà
stabilire i rischi effettivi e il modo per affrontarli; infine, se sarà
necessario bonificare, occorrerà asportare uno strato superficiale di
terreno che dovrà essere inviato a impianti specializzati nel trattamento.
Un processo che potrebbe prendere tempo, forse anche un paio d'anni, prima
che possano partire i lavori sull'opera vera e propria (al momento previsti
già per la primavera 2011). Un'incertezza che può pesare non poco nella
ricerca dei prestiti bancari necessari per realizzare l'opera.
GIU' LE MANI DAL BOSCO
Bonifica o meno, restano altre zone d'ombra. Una di queste riguarda i lavori
nel "Bosco delle Querce". Zona non edificabile per legge, la strada a un
intervento è stata aperta da una speciale deroga concessa alla chetichella
dalla Regione Lombardia nel 2008, proprio per l'autostrada. Per gli abitanti
della zona è stata una ferita: «Noi diciamo sempre che l'esplosione dell'Icmesa
ci ha portato una brutta cosa, la diossina, ma anche una bella, il Bosco»,
dice Viviana Pontiggia, un architetto di 28 anni che assieme ad altri
concittadini ha dato vita al comitato Cives, uno dei più attivi nel proporre
modifiche e soluzioni. Il Cipe ora sembra aver dato un'indicazione di
massima, escludendo lavori nel Bosco. Tuttavia, lavori per rettificare la
curva dell'attuale autostrada fra Meda e Seveso, permettendo alle auto di
viaggiare almeno fino a 110 chilometri orari, sono tuttora previsti. «Per me
però l'indicazione del Cipe è molto limitante: il Bosco non deve essere
toccato», dice a "L'espresso" il sindaco di Seveso, Massimo Donati.
LE NUOVE RICHIESTE
Nella riunione di mercoledì alla provincia di Monza i sindaci si presentano
quindi con una serie di opzioni. Lo stop dei lavori fino al 2015 e la
creazione della terza corsia sull'attuale corsia di emergenza, senza toccare
la base della superstrada, sono le prime. Ma ce ne sono tante altre, fra le
quali anteporre alla costruzione dell'autostrada una serie di interventi che
dovrebbero attutirne l'impatto: barriere anti-rumore, nuovi svincoli, nuovi
contributi per interrare la ferrovia che taglia in due Seveso e Meda,
flagellando la vita quotidiana degli abitanti con ben undici passaggi a
livello. Costo complessivo stimato di tutto questo: 200 milioni di euro.
Denari che sarebbero da reperire senza più contare sui pedaggi che
Pedemontana esigerà dalle 60 mila auto che, ogni giorno, passano oggi sulla
Milano-Meda. Gratuitamente.