
STATI UNITI
La
grande rapina
«Il governo
Bush sta saccheggiando le casse dello stato». Appello del cineasta
attivista contro il piano anti-crisi
Michael
Moore
Cari amici,
permettetemi di andare subito al sodo. Mentre leggete queste righe, è in
corso la più grande rapina della storia di questo paese. Anche se non
sono servite le armi da fuoco, 300 milioni di persone sono state prese in
ostaggio e fatte prigioniere. Potete giurarci: dopo aver rubato 500
miliardi di dollari negli ultimi cinque anni per riempire le tasche dei
loro sostenitori che fanno profitti grazie alla guerra, dopo avere
riempito le tasche dei loro amici petrolieri al ritmo di più di cento
miliardi di dollari solo negli ultimi due anni, Bush e i suoi compari -
che presto dovranno traslocare dalla Casa Bianca - stanno saccheggiando
le casse dello stato arraffando ogni dollaro su cui riescono a mettere le
grinfie. Stanno rubando tutta l'argenteria prima di accomodarsi alla
porta. Qualunque cosa dicano, qualunque discorso usino per terrorizzare
la gente, si stanno dedicando ai loro vecchi trucchi: creare paura e
confusione per continuare ad arricchirsi e ad arricchiare quell'uno% che
è già schifosamente ricco. Leggete soltanto le prime quattro frasi del
servizio di apertura apparso sul New York Times di lunedì 22 settembre e
potrete constatare qual è la vera posta in gioco: «Mentre i policy makers
mettevano a punto i dettagli di un'operazione di salvataggio
dell'industria finanziaria da 700 miliardi di dollari, Wall Street ha
cominciato a cercare il modo di guadagnarci sopra. Le società finanziarie
hanno fatto pressione per ottenere la copertura di ogni tipo di
investimento traballante, e non solo di quelli collegati ai mutui
ipotecari... Nessuno vuole essere tagliato fuori dalla proposta del
Tesoro di comprare i bad asset delle istituzioni finanziarie».
Incredibile. Wall Street e i suoi sostenitori hanno combinato questo
disastro e ora si stanno preparando a fare un sacco di soldi, come dei
banditi. Persino Rudy Giuliani sta facendo pressione perché la sua
società sia incaricata (e pagata) per fornire «consulenza»
nell'operazione di salvataggio. Il problema è che nessuno è veramente in
grado di quantificare questo «crollo». Anche il ministro del tesoro
Paulson ha ammesso di non sapere quale sia esattamente l'ammontare
necessario (la cifra di 700 miliardi di dollari è una sua invenzione!).
Il capo dell'ufficio del bilancio al Congresso ha detto che non è in
grado di calcolarlo né di spiegarlo a nessuno. Eppure, eccoli lì a
strepitare su quanto la fine è vicina! Panico! Recessione! La Grande Depressione!
Il baco del millennio! L'influenza aviaria! Le api assassine! Dobbiamo
approvare la manovra oggi stesso!! Casca il mondo! Casca la terra!
Cascare da cosa? Niente in questa operazione di «salvataggio» abbasserà
il prezzo del carburante che dovete mettere nella vostra macchina per
andare al lavoro. Niente in questa proposta di legge vi proteggerà dal
rischio di perdere la vostra casa. Niente in questa manovra vi darà
l'assicurazione sanitaria. Assicurazione sanitaria? Mike, perché la tiri
in ballo? Che c'entra con il crollo di Wall Street? C'entra e come.
Questo cosiddetto «crollo» è stato scatenato dall'enorme quantità di
persone impossibilitate a pagare il mutuo di casa, e dai conseguenti
pignoramenti. Sapete perché così tanti americani stanno perdendo la
propria abitazione? A sentire i repubblicani, perché troppi idioti della
working class hanno contratto dei mutui che in realtà non si potevano
permettere di pagare. Ecco la verità: la Causa Numero
Uno per cui la gente dichiara bancarotta sono le spese mediche . Ve lo
dico in modo semplice: se avessimo avuto tutti l'assistenza sanitaria
universale, questa «crisi» dei mutui non ci sarebbe mai stata. La
missione di questa manovra di salvataggio è proteggere l'oscena quantità
di ricchezza che si è accumulata negli ultimi otto anni. Serve a
proteggere i grandi azionisti che possiedono e controllano le
corporations americane. Serve a garantire che i loro yacht, le loro
tenute, il loro «stile di vita» non siano intaccati mentre il resto
dell'America soffre e lotta per pagare le bollette. Che per una volta
siano i ricchi a soffrire. Che ci pensino loro a pagare la manovra.
Stiamo spendendo 400 milioni di dollari al giorno per la guerra in Iraq.
Che la fermino immediatamente, facendo risparmiare a tutti noi altri 500
miliardi di dollari! Devo smetterla di scrivere queste cose e voi dovete
smetterla di leggerle. Stamattina nel nostro paese stanno mettendo a
segno un golpe finanziario. Sperano che i membri del Congresso si
sbrighino, prima di fermarsi a pensare, prima che noi riusciamo a
fermarli. Perciò smettete di leggere qui e fate qualcosa... adesso! Ecco
cosa potete fare immediatamente: 1. Chiamate il Senatore Obama o
mandategli una mail. Ditegli che non c'è bisogno che se ne stia seduto là
a sostenere Bush e Cheney e il disastro che hanno combinato. Ditegli che
sappiamo che è abbastanza in gamba da fermare questa cosa per poi
decidere qual è la strada migliore da prendere. Ditegli che i ricchi
devono pagare per qualunque aiuto venga loro offerto. Usate la leva che
abbiamo per pretendere una moratoria dei pignoramenti delle abitazioni,
per insistere nella richiesta dell'assistenza sanitaria, e ditegli che
noi, il popolo, dobbiamo avere voce in capitolo nelle decisioni
economiche che riguardano la nostra vita, e non i baroni di Wall Street.
2. Scendete in piazza. Partecipate a una delle centinaia di dimostrazioni
convocate in fretta e furia e che si stanno svolgendo in tutto il paese
(specialmente quelle vicino Wall Street e Washington). 3. Chiamate il
vostro rappresentante al Congresso e i vostri Senatori. Ditegli quello
che avete detto al Senatore Obama. Quando nella vita abbiamo incasinato
tutto, ci aspettano un bel po' di guai. Ognuno di voi conosce questa lezione
fondamentale e presto o tardi ha pagato le conseguenze delle sue azioni.
In questa grande democrazia non possiamo permettere che ci siano delle
regole per la stragrande maggioranza dei cittadini che lavorano sodo, e
delle regole diverse per le élite che, quando combinano un disastro, si
vedono offrire l'ennesimo regalo su un piatto d'argento. Ora basta!
(Traduzione Marina Impallomeni )
PALERMO
«Diffidato»
il sindacalista dei senza casa
La questura vieta le manifestazioni
a Pietro Milazzo della Cgil
Alfredo Marsala
PALERMO
«Cambiare condotta». L'avviso a
Pietro Milazzo, leader in Sicilia di Lavoro e società, la corrente di
sinistra della Cgil, è stato notificato quattro giorni fa. L'avvertimento
non arriva da ambienti criminali ma dalla Questura di Palermo.
Tecnicamente si tratta di un «avviso orale», i toni però, secondo
Milazzo, «sono gravi». La
Questura invita il sindacalista ad adeguare la condotta
«a norma di vita onesta e laboriosa e ad osservare le leggi con
l'avvertimento che, in caso contrario, sarà proposta al competente
Tribunale per l'applicazione di una misura di prevenzione». La colpa di
Milazzo è scritta nell'avviso: «Ha precedenti penali per reati contro
l'ordine pubblico, lesioni personali, invasione di edificio in concorso,
interruzione di un ufficio o servizio pubblico in concorso e altro». «Si
tratta di due denunce - commenta Milazzo - di trent'anni fa: una del '72
e l'altra del '74». Per Milazzo dietro al provvedimento potrebbe esserci
il suo impegno a fianco delle famiglie senza casa in lotta da anni.
Assieme ad altri attivisti il sindacalista, nel luglio scorso, è stato
denunciato per violazione delle disposizioni sulle riunioni in luogo
pubblico, avendo tentato di leggere un comunicato, tra l'altro dopo avere
avuto il via libera dal vicesindaco, durante il festino di Santa Rosalia.
«Agli ufficiali di ps che mi hanno notificato l'atto - protesta Milazzo -
ho fatto presente di rivendicare in pieno e di essere orgoglioso di
quanto ho fatto in questi anni». Il timore è che il caso sia solo un
segnale di una situazione più complessa. Nei giorni scorsi lo stesso
questore ha inviato una lettera alla Flai-Cgil ordinando che i forestali
che avrebbero dovuto manifestare per il contratto a Palermo non potevano
scendere dai marciapiedi. Da qualche giorno è vietato affiggere manifesti
e striscioni nei palazzi istituzionali durante le manifestazioni. Il
sindaco Diego Cammarata (Fi) ha annunciato un'ordinanza per vietare gli
assembramenti «che limitano in modo grave il libero utilizzo degli spazi
pubblici e che compromettono il decoro urbano». Il provvedimento è stato
predisposto «anche alla luce delle ricorrenti proteste di piazza, che
spesso scadono in bivacco».
IN ITALIA
Disoccupazione
boom: passa dal 5,7% al 6,7%
ROMA
In Italia la crisi non è
prettamente finanziaria (almeno fino a questo momento), ma certamente si
aggrava ogni giorno di più quella dell'economia cosiddetta «reale»: ieri
è arrivato un dato piuttosto traumatico dal fronte disoccupazione, con un
aumento del tasso che ha registrato addirittura un punto in più. Passando
dal 5,7% dell'anno scorso, all'attuale 6,7%: la misurazione è relativa al
secondo trimestre di quest'anno. Traumatico, dicevamo, perché si conferma
una tendenza già inaugurata nel primo trimestre 2008, che vede
interrompere un ciclo abbastanza lungo: dal secondo trimestre 2005,
infatti, il tasso si era ridotto costantemente, con la gradualità di
pochi decimi ogni volta, e pareva viaggiare verso cifre ritenute - almeno
dagli esperti - «fisiologiche» (sotto il 4%). Ma nel 2008 c'è stata una
brusca inversione di tendenza, e opposizione e Cgil attaccano a proposito
le politiche del governo. Anche se, bisognerebbe dire per onestà, il
primo semestre 2008 è tutto ancora da ascrivere al governo Prodi.
Dall'altro lato, comunque, è da osservare che sono in crescita anche gli
occupati, dunque il fenomeno non è di facile lettura. Dunque riferiamo i
dati: nel secondo trimestre 2008, le persone in cerca di occupazione sono
salite a 1.704.000: ben 291 mila in più rispetto al secondo trimestre
2007; il tasso annuale, come detto, è passato dal 5,7 al 6,7%, mentre sul
congiunturale il tasso è passato dal 6,6% del primo trimestre 2008, al
6,8%. Sono cresciuti però anche gli occupati: sono 283 mila in più,
mentre il tasso di occupazione sale al 59,2% (+0,4% congiunturale e
destagionalizzato; +1,2% annuale, non destagionalizzato). In aumento
anche i lavoratori precari, con un trend maggiore rispetto agli stabili
(è da segnalare che l'Istat calcola solo i dipendenti a tempo
determinato: forme «spurie» come i cococò sono incluse nel calderone
indistinto degli «autonomi»): sono 2.443.000, cioè il 14% del totale dei
dipendenti (che sono 17.496.000); nel secondo trimestre 2007 erano invece
il 13,4%. Se li rapportiamo al totale degli occupati (23.581.000), sono
passati dal 9,9% al 10,4%, dunque sono in aumento dello 0,5%; mentre i
dipendenti a tempo indeterminato crescono solo dello 0,1% (passano dal
63,7% al 63,8%). L'analisi della Cgil è esposta dal segretario Fulvio
Fammoni: «Oggi la disoccupazione cresce per due motivi: gli effetti della
crisi, e quindi l'aumento degli ex occupati, in particolare uomini che
hanno perso il lavoro; ma anche perché le persone escono dall'inattività
- soprattutto donne e nel mezzogiorno - e tornano a cercare un impiego
sperando che finalmente non sia precario». «In una fase così grave per il
settore produttivo - conclude Fammoni - servirebbe sviluppo e un
messaggio di fiducia, non certo la deregolazione che sta attuando il
governo».
E'
guerra fra narcos e autorità
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Messico, corpi senza vita ritrovati dalla
polizia con orribili mutilazioni. La guerra fra autorità e narcos è
appena cominciata
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Ogni giorno a Tijuana, città di frontiera, regno
incontrastato della criminalità, vengono ritrovati cadaveri di persone
uccise dalla violenta guerra in atto, quella fra gruppi legati ai
cartelli della droga contrapposti alle forze regolari inviate dal
presidente Calderon per contrastare questo tragico fenomeno.
I fatti. Anche nelle
ultime 24 ore la polizia messicana ha fatto una scoperta macabra: 12
cadaveri, probabilmente di persone legate al narcotraffico, che
presentavano evidenti segni di tortura. Mani e piedi legati dietro la
schiena, un colpo di pistola alla nuca, ecchimosi ovunque sui corpi e
poco lontano un sacchetto di plastica, quelli usati comunemente per fare
la spesa pieno di lingue umane. E poi, ancora, un biglietto con un
avvertimento lasciato dai killer: “Questo è ciò che succede a che fa la
spia a “El Ingeniero” (soprannome di Fernando Arellano Felix uno dei capi
più spietati del narcotraffico messicano) e a tutti coloro che lo
frequentano. Regolamento di conti, dunque? Tutto è possibile. Ad ogni
modo l'area intorno a Tijuana è sempre più spesso al centro della cronaca
nera e sembra difficile arrivare in tempi brevi a una soluzione.
Da Tijuana. “Sta
succedendo di tutto ma non sono autorizzato a parlare di queste cose”
racconta Manuel H., un agente di polizia che opera nella zona di Tijuana.
“Ci sono molti omicidi e tutti hanno un'unica matrice: i cartelli della
droga. Sono organizzazioni potenti che non hanno paura di niente e di
nessuno e sfidano il governo centrale. A mio avviso si dovrebbe agire con
più energia altrimenti questi ci ammazzano tutti. Sono molto violenti e
non si fanno problemi a ammazzare. Non solo. Il fatto di sfigurare i
cadaveri, di mutilarli e di farli ritrovare è una netta presa di
posizione contro il governo. E' un po' come se dicessero: 'Noi ci siamo e
siamo pronti a fare la guerra. Venite che vi aspettiamo'. Ci sono troppi
interessi economici sotto. Credo che non rinunceranno mai ai loro
traffici. Governo e forze di sicurezza devono essere bravi a correggere
questa che è una situazione pericolosa e che se lasciata così potrebbe
diventare ben presto ingestibile”.
Le indagini. “Non
possiamo sottovalutare nessuna ipotesi. Gli omicidi avvenuti negli ultimi
tempi potrebbero essere collegati fra loro. Potrebbero far parte della
vendetta della malavita per un arresto avvenuto giorni fa di uno degli
uomini chiave del cartello di Arellano Felix” dicono i portavoce della
Fiscalia della Baja California, che tenta in molti modi di porre fine
alla sanguinosa striscia di delitti degli ultimi tempi. Secondo gli
esperti i diversi gruppi legati al narcotraffico si combattono per il
controllo della regione a cavallo con gli Stati Uniti e quindi, con un
mercato dalla richiesta molto ampia. La situazione è gravissima e la
guerra della droga ha già causato più di 3.000 morti accertati. E non è
servito a riportare la calma l'invio e l'impiego di oltre 35mila nuovi
agenti di polizia. E nel frattempo nella zona la paura si fa largo e la
maggior parte dei crimini non viene punita. Dai tragici omicidi seriali
delle donne di Ciudad Juarez, alle morti sospette di Oaxaca, alle
violenze compiute dai paramilitari nel Chiapas, il Messico si sta
rivelando come uno dei paesi più oscuri del pianeta dove la legge è
quella del più forte.
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Alessandro
Grandi
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Oltre duemila
guerriglieri talebani uccisi e almeno sessanta soldati morti. E' il
bilancio della grande offensiva militare lanciata lo scorso 7 agosto
dall'esercito di Islamabad nell'area tribale di Bajaur, principale
roccaforte dei jihadisti pachistani e presunto nascondiglio di Bin Laden
e Al-Zawairi. Un bilancio, questo, fornito nel finesettimana dal generale
pachistano Tariq Khan, che ignora completamente le vittime civili di
questa operazione: almeno cinquecento morti secondo il Satp e oltre trecentomila
sfollati di cui ventimila si sono rifugiati oltreconfine, nella provincia
afgana di Kunar.
"Non riusciamo a vincerli". I reporter
stranieri che nei giorni scorsi hanno, per la prima volta dal 7 agosto,
avuto la possibilità di fare una brevissima visita guidata al fronte,
raccontano di villaggi distrutti, carri armati bruciati ed elicotteri
'Cobra' di fabbricazione Usa che volano tra le montagne sparando a tutto
spiano. "Per finire il lavoro e riportare stabilità qui in Bajaur ci
vorrà ancora un mese e mezzo, due al massimo", ha dichiarato alla
stampa il generale Khan, mostrando un ottimismo non condiviso tra gli
ufficiali pachistani. Uno di loro, dietro anonimato, ha confidato
all'inviato dell'Afp che in Bajaur le forze armate pachistane stanno
incontrando "una resistenza mai vista dall'inizio delle operazioni
nelle Aree Tribali (nel 2003, ndr)"; "Bombardiamo ogni giorno
le loro roccaforti con i jet e i Cobra - ha detto il militare - ma non
riusciamo a vincerli".
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Enrico
Piovesana
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Pubblica
difesa
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A Guantanamo, un ufficiale lascia l'incarico di
procuratore, citando ''preoccupazioni morali''
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Più delle sentenze della Corte Suprema a favore dei detenuti,
più delle critiche da parte della stampa e delle organizzazioni per i
diritti umani, che l'intero sistema di Guantanamo abbia qualcosa che non va
lo si intuisce dal rifiuto di alcuni ingranaggi di andare avanti così. Come
è successo qualche giorno fa, quando un membro dell'accusa nei tribunali
militari contro i detenuti ha lasciato l'incarico, citando “preoccupazioni
morali” nel trattamento di uno degli imputati. Non solo: chiedendo che gli
venga concessa l'immunità, ora intende anche testimoniare in favore della
difesa.
Il tenente colonnello Darrel Vanderveld,
un riservista in servizio per un anno come pubblico ministero a Guantanamo,
faceva parte del pool dell'accusa impegnato nel caso dell'afghano Mohammed
Jawad, un 23enne nel campo di prigionia dal 2002, quando era ancora
minorenne. Jawad è accusato di tentato omicidio per aver lanciato una bomba
a mano contro la jeep di due soldati americani e del loro interprete a
Kabul. L'inizio del processo nei suoi confronti, che potrebbe condannarlo
all'ergastolo, è previsto per dicembre. Secondo Vanderveld, i suoi
superiori sono a conoscenza del fatto che Jawad era stato probabilmente
drogato prima di quell'episodio, nonché della confessione di due altri
detenuti di essere gli autori dello stesso attacco. Ma vogliono omettere
queste informazioni dal caso.
Il colonnello Lawrence Morris, responsabile della
pubblica accusa davanti alle commissioni militari di Guantanamo, ha
sminuito il caso spiegando che Vandeveld era semplicemente “deluso dal
fatto che i suoi superiori non fossero d'accordo con le sue opinioni”, e
che non ci sono i presupposti per i suoi “scrupoli etici”. Ma intanto l'ex
accusatore, che nella lettera di dimissioni ha anche protestato contro il
maltrattamento del giovane afghano, ha dato agli avvocati di Jawad la
disponibilità a testimoniare dicendo cosa sa, nel tentativo di arrivare al
patteggiamento e quindi a una pena più mite. Per farlo, però, ha chiesto
l'immunità.
Vandeveld non è il primo ufficiale
giudiziario di Guantanamo che dice signor-no. Non sempre i loro casi sono
stati resi pubblici e quindi non c'è certezza sul numero di “dissidenti”,
ma si calcola che almeno altre tre persone abbiano lasciato i loro
incarichi in protesta contro diverse irregolarità. Il caso più famoso è quello
del colonnello Morris Davis, che nell'ottobre dell'anno scorso si dimise
sostenendo di aver ricevuto pressioni dal dipartimento della Difesa per
occuparsi di casi più “pepati” in vista delle elezioni del 2008. Anche lui
alla fine testimoniò in favore della difesa, e in seguitò ha parlato più
volte pubblicamente contro le commissioni militari istituite a Guantanamo.
Le stesse giudicate incostituzionali dalla Corte Suprema lo scorso giugno,
quando i giudici sancirono il diritto dei detenuti di ricorrere presso i
tribunali civili negli Usa.
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Alessandro
Ursic
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25 settembre
Esercito contro
narcos per la libertà di voto
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Amministrative
blindate a Rio de Janeiro
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scritto
da
Viola
Conti
Rio de Janeiro si
conferma una delle città più violente al mondo. Il Tribunale elettorale
superiore (Tse) del Brasile ha infatti deciso di autorizzare l’Esercito
a presidiarla in vista delle amministrative del 5 ottobre prossimo.
Armi dispiegate a garanzia della libertà di voto. Non bastano dunque
poliziotti, agenti della polizia militare e corpi speciali per evitare
che il narcotraffico detti legge fra le urne delle favelas più
pericolose del paese: occorrerà militarizzare la città. È la prima
volta che il Brasile è costretto a smobilitare l’esercito durante una
campagna elettorale. Finora i militari erano stati impiegati solo
per proteggere le urne in casi estremi, ma mai per proteggere i
candidati.
Per il diritto alla libertà di voto. Il governatore dello Stato di Rio, Sérgio
Cabral, deve ancora essere ufficialmente consultato, ma intanto si è
già detto disposto ad accettare il dispiego di soldati in nome della
sicurezza dei cittadini. “L’importante è garantire il diritto alla
democrazia”, ha precisato. Di tutt’altro avviso, invece, il
vicegovernatore, Luis Fernando Pezão, che si è detto contrario a questa
misura tanto estrema.
Contro la dittatura della violenza. Il presidente del Tribunale, Ayres Britto, ha
giustificato così l’iniziativa: “Il Tse è obbligato ad assicurare la
libertà del processo elettorale. Dobbiamo uscire da questa inerzia, dal
marasma e dal conformismo. Non abbiamo il diritto di arrenderci”.
Parole che si riferiscono al ricatto che i trafficanti di droga sono
soliti fare alla città, tenuta sotto costante minaccia dalle varie
bande. Per avere il controllo sul risultato elettorale, infatti, i capi
narcos hanno minacciato di ricorrere alla violenza pur di far votare i
propri candidati e impedire che vengano, quindi, elette persone lontane
dal loro controllo. Avere in mano la maggioranza dei comuni carioca è
una questione prioritaria per le bande che si spartiscono il potere e
queste elezioni sono una tentazione troppo forte.
A mali estremi... I militari, dunque, sono visti come l’unica
maniera per contrastare questa onnipotenza, visto che molti reparti
della polizia sono ormai corrotti dagli stessi narcos. E per permettere
ai candidati anti-bande di fare campagna elettorale sono indispensabili
scorte armate e incorruttibili. E’ infatti al vaglio dei
responsabili delle elezioni la mappa dei punti più cruciali di Rio, in modo
da dispiegare un numero sufficiente di truppe armate fino ai denti e
con licenza di sparare.
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Dieci
cpt, nuovi di zecca
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Costo: 78 milioni di euro. Giro di vite su
ricongiungimenti familiari e richiedenti asilo
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Un aumento dei 'clandestini' del 60 percento. Quindi, via
libera alla costruzioni di dieci nuovi Cpt, centri di permanenza
temporanea (quelli con sbarre e filo spinato). Che, nel frattempo, si
sono sottoposti a una cosmesi e ora si chiamano Cie, Centri di
identificazione ed espulsione. Poi, giro di vite sui ricongiungimenti
familiari e sui richiedenti asilo. Roberto Maroni ha avuto l'approvazione
dal Consiglio dei ministri. “Sui richiedenti asilo c'è una normativa
più stringente – ha sottolineato il titolare del Viminale- visto che
l'aumento degli sbarchi di immigrati riguarda soprattutto i richiedenti
asilo, con oltre 14.000 domande di cui la metà accolta. C'è la
necessità di provvedere a definire meglio le procedure, per evitare un
abuso delle domande d'asilo come scorciatoia per rimanere in Italia”.
Infatti, testuale del ministro, “il clandestino che arriva viene messo
in un centro di identificazione chiuso e controllato da cui non può
uscire, mentre un richiedente asilo viene messo in una struttura senza
obbligo di permanenza e senza possibilità di essere controllato”.
La ricetta del ministro delle impronte digitali costerà settantotto
milioni di euro in tre anni per la costruzione di nuovi cpt per gli
immigrati e per l'ampliamento di quelli già esistenti.
L'obiettivo e'
aggiungere mille posti, raddoppiando quasi l'attuale ricettivita' che
e' di 1.160.
Gli sbarchi lungo le coste
nazionali, si legge nella relazione illustrativa del Viminale,
"rendono urgente adeguare le strutture di trattenimento degli
stranieri da espellere alle dimensioni e all'entita' del fenomeno in
atto. Per quanto concerne gli sbarchi, infatti, rispetto l'anno
precedente si e' verificato un aumento di oltre il 60 percento del
numero degli stranieri clandestini arrivati sulle coste nazionali. Alla
data dell'11 settembre scorso, gli stranieri sbarcati sono stati
23.604. Nel corrispondente periodo del 2007 e del 2006 erano stati
rispettivamente 14.236 e 15.999". Di qui la necessita' di "un
piano straordinario di ampliamento della ricettivita' dei centri di
identificazione ed espulsione per garantire la migliore funzionalita'
delle procedure di espulsione attraverso la costruzione di nuove
strutture di trattenimento".
L'italiano dalla sintassi contorta del ministero è tutto qui:
dieci nuovi centri di detenzione, e le restrizioni di cui sopra.
L'opposizione è tiepida, a dir poco ( d'altronde le responsabilità in
materia iniziarono proprio dalla cosiddetta 'Turco-Napolitano').
Immediato ilcomunicato dell'Arci: la costruzione di nuovi dieci Cie non
ha alcuna giustificazione. È solo «propaganda», utile solo ad
«orientare l'opinione pubblica verso la criminalizzazione degli
immigrati», creando solo humus per forme di razzismo, dice Filippo
Miraglia, responsabile immigrazione dell'Arci. «Non si capisce - dice -
la motivazione di Maroni. Non è che con altri Cie ci saranno più
espulsioni. Gli sbarchi sono aumentati ma i Cie non sono fatti per chi
sbarca ma per chi deve essere espulso ed in attesa di identificazione.
La maggior parte delle persone presenti nei Cie sono ex detenuti e in
molti ci sono posti liberi». Inoltre, «la percentuale delle persone
espulse tramite i centri, rintracciate irregolarmente non supera il 4
percento».
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Angelo
Miotto
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Sudafrica,
la vittoria di Pirro
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Finita la
guerra tra Mbeki e Zuma, il Paese si interroga sul suo futuro
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scritto da
Matteo Fagotto
Si
è conclusa martedì, con le dimissioni in massa dal governo di tredici tra
ministri e viceministri, la lotta per il potere tra Thabo Mbeki e Jacob
Zuma. Il presidente sudafricano, costretto lo scorso sabato a
dimettersi sotto le pressioni dell'esecutivo dell'African National Congress,
abbandona la partita dopo nove anni di dominio della scena politica.
L'aver sottostimato le minacce provenienti dall'ala sinistra del
partito e il non aver rispettato le regole da lui stesso imposte gli
sono stati fatali.
In realtà, la condanna a
morte sulla carriera politica di Mbeki era stata già emessa lo scorso
dicembre, al congresso dell'Anc
di Polokwane, dove l'allora presidente aveva dovuto cedere la guida del
partito proprio all'arcirivale Zuma. Fino al 2005 braccio destro di
Mbeki, quello stesso giorno di dicembre Zuma coronava il suo sogno di
tornare al potere, dopo i processi per violenza sessuale e corruzione
(entrambi terminati senza esito) che ne avevano minato la carriera
politica. Ironia della sorte, Mbeki è stato costretto a dimettersi
proprio per presunte interferenze sull'operato della giustizia per
favorire una condanna di Zuma. Ma è lecito far dimettere un capo di
stato per dei sospetti non suffragati da prove? "E' la stessa cosa
che Mbeki fece quando, nel 2005, cacciò Zuma dalla vicepresidenza dell'Anc e del Paese per le sue
vicende legali", rende noto a PeaceReporter
Pamela Masiko-Kambala, ricercatrice politica presso l'Institute for Democracy in South Africa.
La
caduta di Mbeki è un evento epocale per la giovane democrazia sudafricana:
l'ex-braccio destro di Nelson Mandela, l'artefice del miracolo
economico del Paese lascia un Sudafrica più ricco, ma anche molto più
disequilibrato socialmente rispetto a dieci anni fa. Se la prosperosa
classe media nera deve le sue fortune a Mbeki, non così la pensa la
maggioranza della popolazione che ancora vive in condizioni di povertà,
e che ha visto in Zuma il suo eroe. "L'aver sottostimato
l'ostilità dell'ala sinistra del Parlamento, in particolare dei
sindacati e del partito comunista alleati dell'Anc, è stato fatale per
Mbeki", spiega a PeaceReporter
Ebrahim Fakir, vicedirettore del Centre for Policy Studies. I
meriti di Mbeki vanno oltre il campo economico. Il presidente ha dotato
il Sudafrica di un sistema di leggi funzionante e di una struttura
istituzionale che prima il Paese non aveva. Ma si è progressivamente
alienato dalla popolazione, arrivando a non rispettare le stesse regole
da lui imposte. "Ha mantenuto al potere un capo di polizia
coinvolto in vicende giudiziarie, ha costretto alle dimissioni un
procuratore generale, il cui potere è indipendente da quello
politico", prosegue Fakir. "Tutti errori che l'opinione
pubblica non gli ha perdonato".
 alt="Jacob
Zuma" title="Jacob Zuma"
v:shapes="_x0000_s1033">Zuma saprà fare di meglio? Il prossimo leader
sudafricano è visto come un animale politico, un populista che ha fatto
carriera sfruttando le debolezze di Mbeki, ma che dovrà ora reggere
alla prova dei fatti. La mancanza di un programma politico che vada
oltre le generiche promesse ai poveri fa temere che Zuma non abbia un
chiaro disegno per guidare il Sudafrica lungo uno dei momenti cruciali
della sua storia. Tra due anni ci saranno i Mondiali di calcio,
un'occasione irripetibile per mostrare al mondo la faccia del nuovo Sudafrica,
come avvenuto per le Olimpiadi di Pechino della scorsa estate. Un
appuntamento che la nazione arcobaleno non può permettersi di mancare.
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Iraq, il buco nero della ricostruzione
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Ex funzionario del governo: sottratti o
stornati 13 miliardi di dollari
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Tredici miliardi di
dollari destinati alla ricostruzione rubati o spariti nel nulla. L'entità
delle frodi all'interno del governo iracheno, che avrebbe stornato o
sottratto l'ingente somma con un complesso sistema di corruzione, è
stata svelata da Salam Adhoob, ex capo investigatore della Commissione
per l'integrità pubblica, durante un'audizione alla Commissione
politica del Partito democratico Usa. "Molti progetti non erano
necessari, molti altri non sono stati realizzati. Miliardi di dollari
versati nelle casse dei ministeri sono spariti", ha detto Adhoop,
dopo aver lasciato il Paese per motivi di sicurezza. Trentadue suoi
colleghi sono stati assassinati.
"Corruzione diffusa". Il funzionario della Commissione per
l'integrità pubblica racconta di aver riportato la notizia delle frodi all'Ispettorato
generale Usa per la ricostruzione in Iraq. La portavoce
dell'Ispettorato, Kristine Belisle ha dichiarato che 'il lavoro di
Adhoob viene seguito attivamente'. Adhoob è uno dei tre funzionari
iracheni ad aver testimoniato ieri di fronte alla Commissione
democratica. Anche Abbas S. Mehdi, ex dirigente dell'Agenzia per gli
investimenti, ha parlato di 'diffusa corruzione', mentre un altro
iracheno, che ha testimoniato in video con voce modificata per motivi
di sicurezza, ha raccontato di legami tra funzionari governativi e
membri di al-Qaeda per rubare petrolio dalla raffineria di Baiji, a
sud-ovest di Kirkuk, e rivenderlo al mercato nero.
Forniture difettose. Adhoob ha lavorato tre anni alla Commissione,
ascoltando le testimonianze di 200 persone, ed è stato costretto a
lasciare il Paese a cause delle ripetute minacce di morte. Il sistema
messo in piedi dai funzionari corrotti - secondo il suo racconto - si
basava principalmente su due società di facciata create dal ministero
della Difesa. Le società avrebbero dovuto comprare aerei, blindati,
armi e altre attrezzature con fondi americani per 1,7 miliardi di
dollari. Le società vennero pagate, ma in alcuni casi consegnarono solo
'una piccola quantità' dei materiali e, in un caso, recapitarono una
partita di giubbotti antiproiettile difettosi che non vennero mai
usati.
 alt="Ostaggi
rapiti da terroristi" title="Ostaggi rapiti da
terroristi" v:shapes="_x0000_s1036">Legami con al-Qaeda. Le società applicarono sovrapprezzi a
elicotteri militari e cercarono di vendere apparecchi con più di 25
anni di servizio. Invece di chiedere la restituzione dei pagamenti,
sempre secondo Adhoob, il ministero della Difesa rinegoziò i contratti
con le due società, accordandosi per la vendita di bagni chimici e cucine
che non vennero mai consegnati. Alcune delle indagini dell'agenzia
conducono alla scoperta di 'progetti fantasma' mai realizzati, o casi
di lavori eseguiti ben al di sotto degli standard di qualità richiesti.
In un altro caso, 24,4 milioni di dollari furono spesi per una centrale
elettrica nella provincia di Niniveh che non fu mai costruita. Infine,
alcuni dei fondi sarebbero stati stornati dal ministero della Difesa ad
al-Qaeda e depositati in conti correnti in Giordania e altrove.
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Luca
Galassi
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Lettera
aperta di un papà preoccupato
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Lettera aperta al sindaco Letizia Moratti di un padre
preoccupato. E un pesante interrogativo su istituzioni e razzismo
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Abdul Guiebre, cittadino
italiano, è stato ucciso domenica mattina a colpi di spranga in Via
Zuretti, poco distante dalla stazione centrale di Milano. Aveva rubato,
con due amici, dei dolciumi in un bar. Quei dolciumi hanno
scatenato un inseguimento dei gestori dell'esercizio. Poi le
bastonate e le sprangate. Abdul, 19 anni, è rimasto a terra. Gli arrestati,
padre e figlio, nel corso del pestaggio gli urlavano "negro di
merda".
Gentile
signor Sindaco,
Sono un papà preoccupato. Mio figlio ha 10 anni da
pochi giorni. Sono preoccupato come tanti padri per quello che potrebbe
succedergli quando tra qualche anno uscirà la sera; l’alcool, la droga,
l’auto. Quando torni? Stai attento, non fare stupidaggini. Ti fidi, è
tuo figlio…Non puoi mica rinchiuderlo perché hai paura. Ma se diventare
grandi non è facile, vederli crescere fa anche un po’ paura.
Ma
oggi sono preoccupato perché il mio ragazzo ha la pelle scura.
Guardo
le foto di Abdul Guiebre sui giornali e gli occhi si spostano su quelle
di mio figlio, qui sulla mia scrivania. Come sarà tra 5 o 6 anni? Ma
soprattutto cosa avranno già sentito le sue orecchie? Comincia
a succedere già oggi. Quest’estate in spiaggia, mentre lui giocava con
altri bambini, un signore scocciato gli ha detto negro di merda. Ha
fatto finta di non sentirlo; ma solo finta, perché poi me ne ha parlato
e mi ha detto che ha pensato che quel signore fosse uno stupido
ignorante.La cosa che mi ha fatto più male è che ho capito che si sta
abituando alla stupidità, all’ignoranza. La prima volta che era
successo che qualcuno lo apostrofasse con riferimenti al suo colore era
stato un bambino: “Sei marrone come la cacca”. Erano stati pianti e
lacrime. Qualche anno prima un tale l’aveva chiamato Bin Laden, ma per
lui appena arrivato dal Brasile era una delle tante cose nuove e
incomprensibili che gli stavano capitando per la prima volta, come la
neve, gli spaghetti e o mia bela
madunina.
Stasera
tornerò a casa e gli racconterò di Abdul, leggeremo insieme il giornale
e cercherò di spiegargli che cosa è successo. Ma non sono tanto sicuro
di riuscirci. Perché dovrei dirgli che oggi ci sono persone che hanno
paura di quelli con la pelle scura come la sua. Ma la colpa, amore mio,
non è del colore della pelle, piuttosto di quello che quelle persone
hanno nella testa e nel cuore. E a quelle persone bisogna spiegare che il
colore della pelle non c’entra. Ma non basta che glielo spieghiamo noi,
il compito è soprattutto di chi ci governa. E a quel punto mi chiederà
perché non lo hanno ancora fatto. Se lo avessero fatto, forse quel
ragazzo sarebbe ancora vivo.
Sindaco
Moratti, le giro questa domanda di mio figlio. Perché non lo avete
fatto?
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Marco
Formigoni
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Cessate
il fuoco
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Il bollettino settimanale delle guerre e dei
conflitti in corso n. 36 - 2008 dal 11/09/2008 al 17/09/2008
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Nell'ultima settimana, in tutti i Paesi in
guerra, sono morte almeno 1041 persone
Iraq
Nell'ultima settimana sono morte almeno 196 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 9.134
Sri Lanka
Nell'ultima settimana sono morte almeno 148 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 6.962
Afghanistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 116 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 4.624
Pakistan Talebani
Nell'ultima settimana sono morte almeno 439 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 3.336
Somalia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 6 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.041
India Nordest
Nell'ultima settimana sono morte almeno 28 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 521
Turchia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 482
India Naxaliti
Nell'ultima settimana sono morte almeno 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 435
Nord Caucaso
Nell'ultima settimana sono morte almeno 21 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 441
Israele - Palestina
Nell'ultima settimana sono morte almeno 14 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 430
India Kashmir
Nell'ultima settimana sono morte almeno 42 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 426
Thailandia del sud
Nell'ultima settimana sono morte almeno 10 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 279
Nigeria
Nell'ultima settimana è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 227
Filippine Npa
Nell'ultima settimana sono morte almeno 6 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 199
Colombia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 175
Burundi
Nell'ultima settimana sono morte almeno 4 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 129
Nepal
Nell'ultima settimana è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 54
Bangladesh
Nell'ultima settimana è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 37
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CLIMA: DA METANO
ARTICO PROSSIMA CATASTROFE ECOLOGICA
(ANSA) - LONDRA - Milioni di
tonnellate di metano - un gas 20 volte piu' dannoso dell'anidride carbonica
per il suo contributo all'effetto serra - si apprestano ad 'esplodere'
nell'atmosfera, rischiando di provocare una catastrofe ecologica. E'
questo l'allarme lanciato oggi sulle pagine dell'Independent. Il
quotidiano britannico e' stato il primo a parlare con gli scienziati che
hanno raccolto le prove che lo scioglimento dei ghiacci e del permafrost
nella regione artica sta permettendo agli enormi depositi di gas metano
sottostanti di liberarsi nell'atmosfera, replicando una dinamica che gia'
in passato aveva causato drammatici cambiamenti del clima.
Secondo quanto scrive oggi il giornale,
un'equipe di scienziati che ha navigato lungo l'intera costa
settentrionale della Russia ha rilevato concentrazioni estremamente alte
(a volte 100 volte superiori ai livelli normali) di metano in diverse
aree di parecchie migliaia di chilometri quadrati della Siberia. Negli
ultimi giorni, inoltre, i ricercatori hanno visto il mare ribollire a
causa del gas che e' riuscito a attraversare lo strato sottomarino di permafrost,
ora in fase di scioglimento. ''In precedenza, avevamo documentato livelli
elevati di metano gia' sciolto nell'acqua. Ieri, per la prima volta,
abbiamo trovato un punto in cui l'emissione di metano era cosi' intensa
che il gas non aveva il tempo di sciogliersi nell'acqua e giungeva in
superficie sotto forma di bolle'', ha scritto qualche giorno fa in
un'email Orjan Gustafsson, uno degli studiosi della spedizione
scientifica a bordo della nave russa 'Jacob Smirnitskyi'. Quanto
registrato dagli studiosi sarebbe l'inizio di un ciclo devastante: la
fuoruscita di metano accelererebbe esponenzialmente il surriscaldamento
globale provocando a sua volta lo scioglimento di altro permafrost e di
conseguenza liberando nell'atmosfera altro metano ancora: con il
risultato di innescare un meccanismo inarrestabile.
I risultati preliminari raccolti dagli studiosi
a bordo della 'Jacob Smirnitskyi' verranno pubblicati dalla American
Geophysical Union dopo essere statu elaborati e studiati da Igor
Semiletov dell'Accademia delle scienze russa. E' dal 1994 che Semiletov
controlla i livelli di metano che fuoriescono dal permafrost: ma mentre
negli anni Novanta non aveva mai rilevato livelli elevati del gas, a
partire dal 2003 ha
trovato diverse ''sorgenti''. Negli ultimi decenni la temperatura delle
zone artiche e' salita di circa 4 gradi centigradi,
facendo diminuire in maniera notevole l'estensione delle aree coperte da
ghiacci anche durante l'estate. Secondo gli scienziati la perdita della
coltre di ghiaccio rappresenta un'ulteriore spinta per un
surriscaldamento globale sempre piu' rapido, dato che l'oceano assorbe
piu' calore di quanto invece viene riflesso dalla superficie ghiacciata.
(ANSA).
Paradigma Mariastella
Il ministro Gelmini è l'emblema
della nuova ideologia di destra, portatrice di una modernizzazione
reazionaria
Mariastella Gelmini
Più di Brunetta, e più di Tremonti, il ministro Mariastella Gelmini impersona
lo spirito autentico del governo Berlusconi. La trentacinquenne Gelmini
campeggia su copertine
e fotografie
agghindata in abiti colorati, in uno stile che ricorda gli anni
Cinquanta, a cui gli occhiali da vicepreside aggiungono un tocco
'vintage'.
Ma ciò che più interessa, e la rende un emblema della nuova ideologia di
destra, è la sua azione e le idee
che la ispirano. Il
ministro Gelmini infatti è la portatrice dell'autentico pensiero che anima il governo,
già identificato come portatore di una modernizzazione reazionaria (o se si preferisce
di una restaurazione modernizzatrice: sempre di ircocervo si tratta).
Per questo la Gelmini
va presa alla lettera. E alla lettera vanno presi i pilastri della sua
opera. Per dire, il recupero
del grembiule e del voto in condotta non sono semplici proclami
demagogici: costituiscono gli indizi di un metodo, secondo il quale problemi complessi si risolvono con
operazioni semplici, fra gli applausi di una società
vecchia e stanca, che rimpiange la propria modesta gioventù.
Chi scrive ha avuto la ventura di frequentare la scuola materna e le
elementari in una provincia bianca degli anni Cinquanta, dove i maestri
comandavano 'mani in prima'
e 'mani in seconda'
('in prima' dovevano essere appoggiate sul banco; 'in seconda' portate
dietro la schiena). All'asilo, le suore punivano i bambini cattivi con castighi graduali che
cominciavano con la pacca della
riga da sessanta centimetri sul palmo della mano,
potevano passare al cerotto
sulla bocca e giungere a legare i troppo vivaci alla sedia con una fune grossa due
centimetri.
Perché non recuperare queste
usanze? Solo perché non lo consente il buonsenso? Ma il
buonsenso non è una categoria politica, l'importante è reagire al "nullismo"
, come
lo chiama Tremonti, del
Sessantotto, ripristinare il principio di autorità, recuperare una società ordinata. E se questo
non basta, sarà bene applicare integralmente tutte le soluzioni o le
fissazioni del ministro Gelmini: a cominciare dall'eccellente idea di tornare al maestro unico (o
per meglio dire alla maestra unica, vista la composizione del corpo
insegnante alle elementari).
La polemica contro il 'modulo', cioè contro la riforma che portò alle
équipe coordinate di insegnanti è un vecchio tema di destra, che si è
sempre nutrito di considerazioni in parte economiche e in parte
filosofiche. Certo, tre
insegnanti al posto di uno costano di più, anche se non
tre volte di più, e possono apparire una soluzione corporativa alla crisi demografica,
secondo lo slogan 'meno bambini, più maestri'.
Le critiche filosofiche invece hanno sempre preso di mira il fatto che il
'modulo' rappresenterebbe un attentato
alla libertà d'insegnamento e un attacco gravissimo alla psicologia degli
alunni, disorientati dalla varietà delle figure di
riferimento.
Nessuno dei fautori del ritorno all'insegnante unico, in politica, ha mai
chiesto che si procedesse a valutazioni
empiriche sui risultati della scuola elementare, e a
confronti con la scuola primaria almeno europea, sui metodi, sulle
peculiarità delle pedagogie nazionali. Magari si scoprirebbe che il
'modulo' è una schifezza, ma finora ha funzionato. Magari l'Europa è più
avanti, è più indietro, è più di lato, ma l'insegnante multiplo non l'abbiamo inventato noi.
Invece no. Ciò che importa è trasmettere l'idea di un proficuo ritorno al passato,
all'ordine, al merito (si fa per dire, naturalmente: sappiamo che la
meritocrazia, come la concorrenza, si applica agli altri). È la restaurazione selettiva,
rivolta preferibilmente verso inemici
di classe, che per il momento potrà piacere a un paese
vecchio mentalmente e provinciale culturalmente, che crede di poter
riassaporare i metodi di una tradizione già da un pezzo in frantumi.
Illusioni. Illusionismi.
Il tentativo di far credere che
i problemi si risolvono a partire dalla coda, guardando a
un tempo che non esiste più, quando si faceva la buona azione quotidiana
e i dodicenni non compravano la cocaina all'angolo di strada. E allora
avanti, c'è modo di fare di più e meglio: abolire la sciagura famigliare del divorzio, tornare all'adulterio punito con il carcere.
E quanto alla scuola, ridateci i meravigliosi professori di 'Amarcord' con
i loro tic, quello là che vuol tenere intatta la cenere della sigaretta,
quella lì che scandisce "la pro-spet-ti-va!". Tutto stupendo,
anche secondo il sessanta per cento degli italiani che nei sondaggi
mostrano di gradire: ma noi, noi anime prave, che cosa abbiamo fatto di
male, per meritarci tutto questo?
Donne
ebree, la doppia persecuzione del fascismo
Negli
archivi del ministero dell'Istruzione ritrovati documenti inediti sulle
discriminazioni messe in atto dopo le leggi razziali
di Benedetta
Fallucchi
L’Italia del 1938.
L’Italia delle leggi razziali. Con una serie di provvedimenti, tra
l’estate e l’autunno, prendono forma le disposizioni del regime nei
confronti dei cittadini ebrei. Tra questi uno dei più importanti è il
Regio decreto legge del 5 settembre, “Provvedimenti per la difesa della
razza nella scuola fascista”. Per una strana ironia della sorte, porta la
stessa data anche il Decreto legge che disciplina la presenza delle donne
all’interno degli uffici pubblici e privati (il n.1514). Il personale
femminile non deve superare il 10 per cento degli occupati. Le impiegate
in eccedenza rispetto alla quota consentita verranno poste in
pensionamento anticipato o licenziate.
Doppia
persecuzione
Il 6 settembre 1938 per un maschio ebreo la vita è diventata quasi
impossibile – specialmente per coloro che lavorano nell’insegnamento. Per
una donna ebrea, del tutto. Vittima di una duplice discriminazione: in
quanto ebrea e in quanto donna. Nonostante il ritardo della storiografia
italiana, la condizione femminile durante il fascismo è stata abbastanza
esplorata. Si è evidenziato a più riprese l’atteggiamento ipocrita e
contraddittorio del regime verso le donne. Da un lato spinte alla
modernizzazione, al coinvolgimento attivo come cittadine e supporter,
dall’altro relegate a un ruolo che riconosce loro centralità quasi
esclusivamente per fini riproduttivi. In questo senso anche la
legislazione di tutela per le donne incinte e per le madri viene ad
assumere il carattere, come è stato notato, di una “protezione
discriminatoria”. Durante il fascismo le aspirazioni occupazionali delle
donne trovano progressivi sbarramenti. Si creano immagini stereotipate
della donna, dalla mondina alla segretaria, legate all’impossibilità materiale
di seguire percorsi differenti rispetto a quelli strettamente consentiti
dalla legge. La strada è segnata da passaggi stabiliti: dalla creazione
di scuole per sole donne fino alla tassonomia delle professioni più
“consone” al genere femminile. Tanto che “è un dato di fatto che il
lavoro stesso costituisce per la donna non una meta bensì una tappa della
sua vita, da risolversi prima possibile con il rientro nell’ambiente
domestico” (Primo convegno nazionale del lavoro femminile commerciale,
1940). Com’è evidente, le più danneggiate saranno coloro che cercheranno
di intraprendere percorsi occupazionali di alto livello: all’interno
delle università o nell’esercizio di professioni che sono appannaggio
quasi esclusivo degli uomini. In questo senso un aiuto per illuminare
meglio le residue zone d’ombra proviene da una ricerca condotta da Sandra
Riccio e dal progetto teatrale da questa germogliato (Intanto le donne,
di Maria Luisa Bigai). Cominciamo dall’inizio. Sandra Riccio collabora
dal 2003 al 2006 a
un progetto di ricerca per l’Università di Berlino sulle donne e le
libere professioni nel Novecento, occupandosi del materiale relativo
all’Italia. Si imbatte in 552 faldoni, stipati in un sotterraneo del
ministero dell’Istruzione. Sono le domande di abilitazione alla libera
docenza nel ventennio 1930-1950. Nessuno ha mai aperto quei fascicoli.
Eppure raccontano molte cose. Il campo si restringe e l’analisi si fa
mirata sulle donne nell’università italiana durante il fascismo. Emergono
così varie storie, di donne italiane ed ebree, le loro vittorie e
sconfitte nella lotta alla discriminazione di genere (e, come si diceva
allora, di “razza”).
La riforma
Gentile
Su 10mila candidati che fanno richiesta per l’abilitazione, soltanto 310
sono donne (poco più del 3 per cento). Inoltre le richieste di
abilitazione hanno quasi sempre a che fare con discipline scientifiche.
In qualità di ministro dell’Istruzione, Giovanni Gentile si era infatti
premurato di escludere le donne dall’insegnamento di materie umanistiche,
lasciando loro le vili scienze, come matematica, fisica e scienze
naturali. Anche con un numero di titoli superiori rispetto a quello dei
colleghi maschi, le probabilità per una donna di veder accettata la
propria candidatura sono nettamente inferiori. Oltre all’iscrizione al
partito, prerequisito che va al di là dell’appartenenza di genere, le
candidate devono anche tenere una condotta morale di specchiata virtù.
Una lettera del prefetto accompagna le domande delle donne, specificando
variabili economiche e familiari, la condizione – se nubile o sposata – e
il comportamento pubblico. C’è chi per questo non potrà essere ammesso. È
il caso di Maria Accascina, che nel 1939 fa richiesta per la libera
docenza di Storia dell’arte medievale e moderna. Ma, secondo il prefetto,
“la sua condotta morale è alquanto discussa in qualche ambiente dove sono
note relazioni intime da lei coltivate nel passato”. Il che significa che
la dottoressa ha un comportamento improprio. Tanti i nomi, tante le
storie e diverse le motivazioni che impedirono o permisero l’accesso alla
libera docenza. Come Teresa Labriola, figlia del filosofo Antonio e
fervida seguace del regime, la prima donna avvocato nel 1919, che pure
non riuscì ad accedere all’insegnamento e il massimo che ottenne fu di essere
ammessa nella terna finale dell’esame. O come Ginestra Amaldi, a cui Orso
Maria Corbino non concederà di continuare a svolgere attività di ricerca
poiché contrario alla presenza di donne all’Istituto di Fisica di Via
Panisperna. Ma, come detto, colpiscono in modo particolare le vicende
delle donne ebree. Perché nei documenti, spesso del dopoguerra, le loro
vicissitudini sono in controluce, hanno il sapore del dopo, degli spazi
bianchi, del vuoto – anche documentale – prodotto dalle leggi razziali.
Ad esempio: Angelina Levi aveva vinto una prima battaglia, come donna,
nel 1929, ottenendo l’abilitazione alla docenza di Farmacologia e
Farmacognosia. Ma dalla lettera indirizzata al ministero veniamo a sapere
che, nel dopoguerra, in seguito alle leggi razziali e all’occupazione nel
1943 della sua abitazione da parte delle Brigate nere, rischia di perdere
l’insegnamento: gli attestati che comprovano la sua abilitazione sono
andati smarriti.
Il suicidio
di Enrica Calabresi
Stessa sorte che toccò a Enrica Calabresi, abilitata alla docenza in
Zoologia nel 1924, il cui nome, a seguito delle leggi razziali, scompare
dalla lista dei liberi docenti dell’Università di Firenze, come si
ricostruisce da una lettera del 1956 dal ministero al rettore. Un
riconoscimento troppo tardivo, però. Enrica, pur avendo perso il lavoro,
aveva voluto rimanere nella sua città, Firenze. E quando nel 1944
l’andarono a prelevare nella sua abitazione, decise che, piuttosto che
cadere nelle mani dei nazisti, si sarebbe data la morte da sé. E lo fece:
nella notte tra il 19 e il 20 gennaio, con una fiala di fosfuro di zinco.
Forse si può chiudere questa carrellata e dire che oggi le cose sono un
po’ diverse, affermare – utilizzando il titolo dell’autobiografia di
Margherita Sarfatti, celebre intellettuale ebrea nonché amante del Duce e
primo demiurgo del mito di Mussolini, poi esule dall’Italia a causa delle
leggi razziali – che è Acqua passata. Ma qualche dubbio rimane.
Raccontano Sandra Riccio e Maria Luisa Bigai che, nella ricerca di fondi
per lo spettacolo teatrale, hanno incontrato alcune (donne, per di più)
che hanno bollato il loro lavoro come “femminista”, quindi di parte.
Perplesse, non hanno potuto far altro che replicare: “Veramente noi lo
pensavamo come un progetto di storia!”.
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