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Controinformazione
Febbraio 2008
28
febbraio
In lieve ripresa il tasso di occupazione. I risultati
dell'indagine di AlmaLaurea
L'Italia immobile dei
laureati
i figli degli operai guadagnano meno
La società è ferma: a 5 anni dalla laurea i
ragazzi provenienti
da classi agiate guadagnano duecento euro al mese in più
di FEDERICO PACE
Figli di dirigenti che diventano dirigenti e figli
d'impiegati che diventano impiegati. Paghe che si fanno sempre più
esili, occupazioni persistentemente precarie e disparità di genere e
geografiche che permangono nella loro gravità. Una società priva di
dinamismo sociale ed economico. Sono tutt'altro che liete le scoperte
che quest'anno gli oltre trecentomila neolaureati, la cui truppa di anno
in anno andrà facendosi più esigua per ragioni demografiche, hanno fatto
al momento di approdare nel frastagliato mondo del lavoro.
Quest'anno un neolaureato si è ritrovato nella propria busta paga 1.040
euro. Una cifra che, in termini di potere di acquisto, vale il 92,9 per
cento di quello che guadagnava un neolaureato del 2001. E seppure
aumenta lievemente il tasso di occupazione, il 48 per cento si ritrova
ancora a fare i conti con un tipo di lavoro dalla natura precaria.
I dati sono quelli del X Rapporto sulla condizione occupazionale dei
laureati italiani presentato oggi a Catania da AlmaLaurea, il consorzio
che riunisce cinquantuno università italiane e che ha raccolto la
testimonianza di 92 mila laureati.
Partiamo però dal lieve miglioramento occupazionale. Quest'anno ha
trovato lavoro, a un anno dalla laurea, il 53 per cento dei giovani,
ovvero poco più di mezzo punto percentuale in più rispetto all'anno
scorso. Anche la disoccupazione ha segnato una parziale battuta
d'arresto pari allo 0,5 per cento. Rimangono però evidenti le disparità
tra uomini e donne. Lavora il 57 per cento dei primi contro il 50 per
cento delle seconde. Così come al Mezzogiorno il tasso di occupazione è
ancora inferiore a oltre venti punti percentuali di quello dei loro
coetanei residenti al Nord.
Quanto alla precarietà le cose non sembrano migliorare
significativamente. Dal 2000 a oggi il lavoro stabile ha subito una
contrazione in termini percentuali che lo ha visto passare dal 46 per
cento al 39 per cento, mentre il lavoro atipico ha registrato, nello
stesso intervallo di tempo, un aumento di dieci punti percentuali.
Nell'ultimo anno la proporzione di persone con un lavoro stabile, ad un
anno dalla laurea, è aumentato lievemente ma di fatto i due insiemi
sembrano avere invertito, almeno per i primi anni lavorativi, il peso
all'interno di un'occupazione che è divenuta più marcatamente precaria.
Solo dopo cinque anni dalla laurea, la gran parte (il 70 per cento) dei
laureati riesce ad ottenere un impiego stabile.
Ma veniamo alla paga. Seppure i laureati hanno avuto a disposizione
lungo tutto l'arco della vita uno stipendio significativamente superiore
a quello dei loro coetanei diplomati, la laurea ora non sembra essere
più così premiante. Quest'anno la paga media è stata di poco superiore a
mille euro e inferiore, in termini di potere d'acquisto, a quella del
2001. Ad essere penalizzate sono sempre le donne che quest'anno portano
a casa solo 925 euro rispetto ai 1.186 dei loro coetanei uomini. Dopo
cinque anni la paga sale in media a 1.342 euro con costanti disparità
territoriali: al Nord si toccano i 1.382 euro, al Centro i 1.288 mentre
al Sud si rimane fermi a 1.195 euro.
Che i giovani di oggi fossero destinati a un futuro meno roseo dei loro
genitori lo si era cominciato a capire da tempo. Ma arrivano sempre più
conferme di quello che sta accadendo. Qualche mese fa, uno studio di
alcuni ricercatori della Banca d'Italia aveva mostrato come negli anni
Novanta la retribuzione dei giovani avesse subito una riduzione
significativa rispetto a quella dei loro colleghi più maturi, e come
alla misera paga d'ingresso, si era andata sovrapponendo una carriera
molto meno dinamica e quindi incapace di assicurare una crescita
retributiva che compensasse una partenza così fiacca.
A questo si aggiunga la scarsa mobilità sociale. Secondo i dati di
AlmaLaurea, a cinque anni dal conseguimento del titolo un giovane
laureato figlio di operai guadagna 1.238 euro al mese, mentre un ragazzo
con lo stesso titolo di laurea ma che proviene da una classe più agiata
riesce a portare a casa 1.437 euro: ovvero 200 euro in più ogni trenta
giorni. E queste differenze si notano in tutte le facoltà. Per chi esce
da economia e statistica diventano anche più acute: 1.276 euro ai figli
di operai e 1.519 euro ai figli di chi sta più in alto nella gerarchia
sociale. Tra gli ingegneri la differenza è di poco inferiore ai 200 euro
(1.574 euro contro i 1.759 euro), tra i giuristi e i laureati del gruppo
politico sociale siamo sempre sopra ai cento euro al mese.
Insomma di padre in figlio. Se ne può trovare conferma anche se si va ad
analizzare il titolo di studio di laurea del genitore e quello della
prole. Si scopre che buona parte dei padri architetti (il 44 per cento)
ha un figlio laureato in architettura, quattro giuristi su dieci hanno
un figlio laureato in giurisprudenza e lo stesso accade agli ingegneri,
ai farmacisti e ai medici. Con evidenti ricadute sui percorsi
occupazionali. Tanto che il 16 per cento dei figli di dirigenti arriva,
dopo solo cinque anni dal titolo di laurea, a ricoprire la carica d
funzionario o dirigente mentre a più del quaranta per cento dei figli di
impiegati succede di ripercorrere il sentiero professionale del padre.
Tutto il fragore degli anni degli studi universitari, tutti quei giorni
in cui si avvicendano entusiasmi e fatiche, una volta arrivato il tempo
dell'occupazione pare dissolversi per venire sostituito dalla
constatazione che la società italiana si è avvitata su se stessa
relegando la mobilità sociale allo status di chimera. Se si vuole
davvero rilanciare l'economia italiana, si dovrà fare qualcosa.
Al Governo futuro, Andrea Cammelli, direttore di
AlmaLaurea manda la raccomandazione di aiutare le piccole e medie
aziende a "compiere innovazioni di processo e di prodotto e a dotarsi di
capitale umano qualificato favorendo la formazione di studi associati"
perché la ripresa, ha concluso Cammelli, "passa attraverso la
valorizzazione delle risorse migliori che abbiamo: i tanti talenti che
escono dalle università, forse più numerosi e migliori di quanto non
siamo in grado di formare nelle nostre aule".
27
febbraio
Allarme rosso: più del 40 per cento delle acque del pianeta
è in una situazione che è considerata grave o molto grave
La prima mappa degli
oceani malati
per colpa dell'uomo distruttore
Il lavoro ha utilizzato un enorme numero di
dati provenienti
dai satelliti, dalle navi e da altre ricerche marine e sottomarine
di LUIGI BIGNAMI
QUASI ogni angolo degli oceani della Terra è stato
alterato dall'impronta distruttiva dell'uomo. Il quadro della situazione
è stato tratteggiato per la prima volta in una mappa degli oceani che
mostra di quanto la mano dell'uomo è intervenuta. Per fare danni. Gli
scienziati hanno realizzato una scala che prevede 17 differenti
situazioni di attività dell'uomo laddove i valori dall'1 al 17 indicano
condizioni del mare via via sempre più gravi. Da questo lavoro si scopre
come più del 40 per cento dei mari e degli oceani del pianeta è in una
situazione che è considerata grave o molto grave. Per un 5 per cento
questo malessere è quasi irreversibile. Il lavoro, che è stato
realizzato dal National Science Foundation americano, ha utilizzato un
enorme numero di dati provenienti dai satelliti, dalle navi per la
ricerca oceanica e da altre ricerche marine e sottomarine.
Le acque dove le condizioni sono peggiori rispetto ad altri luoghi si
trovano in prossimità del Mare del Nord, noto per le importanti
estrazioni di petrolio, nei mari del Sud ed Est della Cina, fortemente
inquinati dalla crescente attività industriale del Paese, nei mari che
circondano i Caraibi, lungo le coste orientali del Nord America, il
Mediterraneo in seguito alla enorme crescita di popolazione che le sue
coste hanno visto in questi ultimi decenni, il Mar rosso, lo Stretto di
Bering, parte del Pacifico occidentale e del Golfo Persico.
"La ricerca riporta un quadro davvero inaspettato. E' peggiore di quella
che la maggior parte della gente si aspetterebbe. Adesso il lavoro che
abbiamo realizzato deve essere utilizzato per iniziare una reale
protezione dei nostri oceani e per cercare di recuperare le aree marine
che ora si trovano in situazioni quasi disperate", ha spiegato Ben
Halpen dell'Unversità della California a Santa Barbara che ha guidato il
team di 19 ricercatori appartenenti a 16 diversi centri di ricerca.
Gli ecosistemi che stanno soffrendo maggiormente sono senza dubbio le
barriere coralline, delle quali circa la metà si trova in uno stato
gravemente danneggiato, ma anche le foreste di mangrovie vicino ai delta
dei fiumi sono fortemente compromesse, così come l'ecosistema di molte
catene sottomarine, chiamate seamount, e di molte piattaforme marine che
si trovano al largo di aree densamente popolate del pianeta. Non va
dimenticata, poi, la profonda alterazione del Polo Nord, dove mai come
in questi ultimi anni si è visto un così marcato ritiro dei ghiacci.
Fino ad oggi le ricerche si limitavano a considerare uno o due fattori
dell'impatto umano sul mare, quali, ad esempio, l'inquinamento da
idrocarburi o la pesca intensiva. Il lavoro della National Science
Foundation invece, considera ciò che può impattare sull'ecosistema
marino, comprendendo anche l'aumento della temperatura dell'acqua, le
variazioni di salinità e l'arrivo in mare dei pesticidi o dei concimi.
Il lavoro ha raggiunto un dettaglio senza precedenti, in quanto la carta
permette di valutare la situazione delle singole aree con una
risoluzione di soli 4 chilometri.
Delinquenti senza frontiere
Uno studio in California rivela: gli
immigrati commettono meno reati di chi è nato negli States
Ruberanno il lavoro agli americani e magari anche le loro donne, ma un
altro luogo comune gli immigrati negli Stati Uniti possono dire di
averlo sfatato: non commettono più crimini dei cittadini statunitensi,
anzi. Una ricerca di un istituto di San Francisco ha mostrato come, in
California, gli immigrati delinquono meno di chi è nato nel Golden
State, e lo dimostra anche la percentuale di stranieri nelle prigioni
californiane. Qualsiasi dibattito venga sviluppato sulla questione negli
Usa, insomma, l'equazione “più immigrati, più reati” sembra
ingiustificata.
I
dati. Il rapporto, elaborato dal Public Policy Institute of
California senza distinzione tra immigrati clandestini o regolari,
ha scoperto che la popolazione carceraria dello stato è composta solo al
17 percento da persone nate al di fuori degli Stati Uniti, che però
rappresentano il 35 percento della popolazione californiana. Analizzando
i numeri, inoltre, la ricerca mostra che gli adulti nati negli Stati
Uniti sono incarcerati a un tasso due volte e mezzo più alto degli
adulti nati all'estero. Nella fascia tra i 18 e i 40 anni di età, i nati
in America finiscono dietro le sbarre 10 volte più spesso degli
stranieri, in particolare 8 volte più dei messicani.
Le conclusioni. “La nostra ricerca indica che limitare
l'immigrazione, richiedendo più alti livelli di istruzione per ottenere
un visto, o aumentando la spesa per imporre punizioni più dure contro
immigrati che commettono reati, ha un impatto limitato sulla sicurezza
pubblica”, ha scritto Kristin Butcher, una delle autrici della ricerca.
Il rapporto ammette però che i risultati potrebbero essere influenzati
dall'attuale politica Usa sull'immigrazione, che prevede pene maggiorate
per i reati commessi da cittadini stranieri. Dato che gli immigrati in
California tendono ad essere giovani e con un basso livello di
istruzione – due caratteristiche di solito associate ad alti tassi di
criminalità – le scoperte del rapporto “colpiscono” secondo gli stessi
autori.
Il
dibattito sull'immigrazione. Negli Stati Uniti, al momento, la
questione dell'immigrazione è però ferma. Due anni fa il presidente Bush
aveva sostenuto una riforma del settore, intensificando i controlli al
confine ed estendendo di oltre mille chilometri un vero e proprio muro
tra Stati Uniti e Messico, ma al contempo offrendo un percorso verso la
cittadinanza ai circa 12 milioni di immigrati clandestini che si calcola
vivano negli Usa. Il piano è però naufragato al Congresso, e non si
prevede che la questione venga riaperta prima delle elezioni
presidenziali di novembre.
26
febbraio
Si lavora senza nessun tipo di protezione in capannoni senza riscaldamento
a contatto diretto con veleni di ogni tipo per turni di 12-15 ore al giorno
Gli schiavi delle 'Smart' cinesi
Viaggio nelle fabbriche lager
di
VINCENZO BORGOMEO
Un operaio della Shandong Xin Ming Glass Fibre
Manufacture Co. Ltd
Il viaggio fra gli schiavi cinesi che costruiscono le copie della Smart
supera l'immaginazione: si lavora a temperature vicino agli zero gradi, in
capannoni senza riscaldamento, senza guanti, senza mascherina, senza nessun
tipo di protezione a contatto diretto con veleni di ogni tipo. I turni sono
di 12-15 ore al giorno e non si fanno distinzioni fra giovani, vecchi o
donne. Tutti, in ogni caso, dormono ammassati su letti a castello in
fabbrica. Le foto che siamo in grado di anticipare parlano da sole. E fanno
parte di un lungo reportage che il collega di AutoBild, Claudius Maintz, ha
appena compiuto e che mercoledì sarà in edicola anche in Italia su AutoOggi.
Di fabbriche clandestine che copiano senza pudore la Smart in Cina ce ne
sono una ventina. Tutte piccole e tutte piene di schiavi-operai che senza
nessuna preparazione (il mestiere lo hanno imparato sul campo) lavorano per
un pugno di monete con rischi di ogni genere. La paga? Secondo Zhang Yinshun,
direttore vendite della "Shandong Xin Ming Glass Fibre Manufacture Co. Ltd"
l'equivalente di 180 euro al mese.
Ma si tratta, evidentemente, di una balla: in Cina chi monta un iPod riceve
uno stipendio di 40 euro e anche se il "manager" si appresta a dire che "la
paga è molto alta perché questo è un lavoro pericoloso che altrimenti non
farebbe nessuno", è impossibile credergli, anche perché lui stesso ha poi
dichiarato che la "I tedeschi della Mercedes sono stati qui: vogliono
collaborare affinché produciamo vetture per loro". Qui in Cina si mente su
tutto: sulle prestazioni delle auto, sulla durata della carica delle
batterie, sul prezzo finale, dichiarato in 3700 euro... Impossibile
conoscere la verità.
In fatto di stipendi il discorso è relativo: noi europei non siamo da meno
visto che anche nell'Europa dell'Est i "nostri" operai ricevono stipendi da
fame. Ossia 380 euro al mese per i polacchi che costruiscono una Fiat 500,
270 per gli slovacchi che assembrano Toyota Aygò, Peugeot 107, Citroen C1 o
la nuova Renault Twingo e appena 166 euro per gli ungheresi che fanno
nascere la Opel Agila e la Suzuki Splash. Ma questo è un altro discorso: qui
ci sono controlli di sicurezza, straordinari e condizioni di lavoro moderne.
In Cina no.
E il discorso va oltre: al comparire delle prime auto cinesi ci siamo subito
preoccupati delle prove di crash (che i costruttori hanno aggirato
immatricolando i propri Suv come veicoli commerciali) ma a giudicare da
queste foto ci sono evidenti problemi di affidabilità: nelle immagini si
vedono impianti elettrici avvitati sulla carrozzerie di vetroresina con lo
stesso criterio con cui si mettono i fili di luci sugli alberi di Natale,
connessioni fatte con nastro adesivo e saldature approssimative: una
macchina del genere probabilmente è sicurissima: fra guasti e noie tecniche
è condannata a rimanere quasi sempre ferma...
Certo, è bene non generalizzare: una cosa sono i piccoli costruttori che
copiano le Smart, altra la China Brilliance, la Great Wall e altri "big"
dell'auto cinese. Ma a questo punto vorremmo vedere le foto dei loro
stabilimenti visto che fino a oggi nessun giornalista è mai stato ammesso ai
reparti produzione...
Torniamo però alle fabbriche della vergogna che copiano le Smart? Alcune in
luoghi sconosciuti, altre invece hanno almeno un luogo preciso: quella di
cui parlavamo, la "Shandong Xin Ming Glass Fibre Manufacture Co. Ltd" è a
Dezhou (città della regione di Shandong a circa 600 km da Pechino). Poi c'è
la "Flybo" che opera a Jinan, il capoluogo della provincia, città da 6
milioni di abitanti, la "Shandong Huoyun Electric Cars" di Linzi, a circa
quattro ore di automobile da Dezhou e la "Zibo Future Electric Vehicle Co."
Di Zibo, una città con 4,1 milioni di abitanti. La maggior parte dei
laboratori che fabbricano falsi in tutti i casi sono concentrati nella
provincia di Shandong e la cosa più incredibile è che il gruppo Mercedes non
sia ancora riuscito a bloccare questi falsi. Che, ironia della sorte,
finiscono tutti negli Usa, i Canada e in Europa, si stima al ritmo di 100
esemplari al giorno. Motivo? In Cina, per legge, le auto elettriche possono
avere solo tre ruote: queste ne hanno quattro, quindi...

È uno scandalo nello scandalo, che nessuno riesce a spiegare.
Un'enigma partenopeo, la cui soluzione è sepolta da montagne di
spazzatura e malaffare. Nel 2000 in Campania sono stati spesi
ottanta milioni di euro per acquistare mezzi destinati alla raccolta
differenziata: strumenti fondamentali per sconfiggere il mal di
rifiuti che già allora aggrediva la regione. Questa armata di camion
compattatori e veicoli speciali però è letteralmente sparita nel
nulla: non si riesce a capire dove siano finiti i mezzi. Forse sono
stati sabotati e distrutti. Forse sono stati consegnati alle aziende
private a cui è stata appaltata la gestione della nettezza urbana in
provincia grazie al famigerato sistema dei "consorzi di bonifica".
Forse sono stati sottratti e vengono utilizzati con profitto dalle
ditte campane che tengono lindi molti comuni del resto d'Italia. Ma
di sicuro non compiono la missione strategica a cui erano assegnati.
Dei mezzi fantasma si discute dal 2004: risale ad allora la prima
denuncia del Commissario Catenacci sul mistero napoletano. Dopo soli
quattro anni la flotta degli ottanta milioni era già svanita.
Catenacci spiegò alla Commissione parlamentare sul ciclo dei
rifiuti: «Ho la sensazione che molti di quei veicoli non siano mai
stati usati, che abbiano preso una strada sbagliata«. Nemmeno il
prefetto Bertolaso ha risolto il giallo: eppure non è semplice
dissolvere tanti veicoli tutti insieme. Adesso c'è una triplice
inchiesta in corso. Indagano procura, ispettori della Protezione
civile e 007 del Tesoro: basteranno per ricostruire la rotta dei
camion? Finora ci è sembrato di rivedere quella scena
dell'adattamento cinematografico de "La pelle" di Curzio Malaparte:
un carro armato americano che nel 1943 viene portato in un cortile
di Napoli e fatto sparire in un lampo smontandolo fino all'ultimo
bullone. Che anche i compattatori della differenziata abbiano subìto
la stessa sorte?
21
febbraio
Nuovo
look nel braccio della morte
Guatemala, prima la firma per la moratoria
contro la pena di morte, poi un clamoroso retromarcia.
Scritto da Maurizio Campisi
Tolleranza zero verso la delinquenza: Álvaro Colom lo
aveva annunciato durante la campagna elettorale, ma pochi allora avevano
pensato che il nuovo presidente guatemalteco potesse spingere la sua
promessa fino a ripristinare la pena di morte.
I
fatti. L’annuncio è arrivato dopo il via libera ottenuto dal
Congresso, che ha delegato a larghissima maggioranza (140 voti su 158) i
poteri di decisione inerenti la grazia proprio al Presidente della
repubblica. Colom ha subito dichiarato di voler rendere effettiva la
pena di morte, ristabilita sotto la presidenza di Arzú e poi di fatto
inutilizzata dal 2000. Gli stessi 42 prigionieri del braccio della morte
del carcere di Pavón hanno lavorato nei giorni scorsi per ristrutturare
il loro funesto padiglione, mentre Colom ha fatto sapere che chiedere la
grazia sarà tempo perso, poichè non ne concederà alcuna. Le esecuzioni
saranno effettuate per mezzo di un’iniezione letale. Le ultime
esecuzioni in Guatemala risalgono al 2000, quando vennero giustiziati
Luis Amilcar Cetín e Tomás Cerrate, autori del rapimento e uccisione di
Isabel Bonifaci de Botrán, ereditiera della dinastia della distilleria
Botrán.
Prima
la firma, poi...La notizia ha stupito tutti, dal momento che il
Guatemala due mesi fa aveva posto la propria firma sulla moratoria
voluta dall’Onu sulla pena di morte. Colom, inoltre, aveva promesso un
governo socialdemocratico sul tipo di quelli europei, con una
particolare attenzione ai temi sociali. Per inquadrare il Guatemala
sulla via dello sviluppo, Colom ha però centrato i primi cento giorni
della sua presidenza nello sfidare la criminalità, che ha fatto del
paese centroamericano una delle regioni più pericolose del mondo, con
quasi 50 omicidi ogni centomila abitanti.
Le parole di Colom sono state subito prese come una dichiarazione di
guerra da parte delle bande di pandilleros, che hanno scatenato
un’offensiva senza quartiere, sfociata in una serie di omicidi
indiscriminati. A essere presi di mira sono stati gli autobus ed i loro
passeggeri: in una settimana sono stati uccisi sette autisti di bus
(undici in tutto il mese di febbraio) per rapine di poco conto. Per
contrastare l’offensiva della criminalità il governo ha messo in atto il
Plan Cuadrante, un’operazione di polizia che ha schierato nelle strade
2800 poliziotti e tremila soldati, dislocati non solo nei punti
nevralgici della capitale, ma anche sui bus e nelle periferie, per
permettere il regolare funzionamento del trasporto urbano e la sicurezza
dei cittadini. Lo stesso piano verrà disposto nei prossimi giorni anche
nella città turistica di Antigua.
La
discussione è aperta. Le misure adottate da Colom fanno
discutere, ma hanno trovato il favore della maggioranza della
popolazione, da tempo ostaggio di una violenza cieca. Le pandillas,
infatti, attaccano tutto e tutti, estorcendo denaro alle famiglie che
vivono nei sobborghi in cambio di protezione. Si tratta di un sistema
mafioso che ha alterato la maniera di vita nella società guatemalteca e
che impedisce lo sviluppo di piani di intervento da parte dello Stato,
da tempo relegato a semplice osservatore di una situazione che va
degenerando di giorno in giorno.
I mareros uccidono chi non si piega a questa logica, assassinano gli
autisti di bus che si rifiutano di consegnare l’incasso giornaliero,
costringono i bambini a entrare nel circolo della banda per farne i
futuri soldati che lotteranno contro tutto quello che significa
legalità.
Colom sulla pena di morte è stato chiaro: ”Chi è nel braccio della morte
non è un angelo. Ha commesso delitti atroci. Non ci sarà nessun indulto:
io penso agli orfani, alle vedove che questi individui hanno lasciato”.
Rimane da verificare se il presidente metterà in atto la promessa,
attirandosi la condanna degli organismi internazionali proprio nell’anno
in cui si era voluto porre uno stop alle esecuzioni. I sondaggi, però,
parlano chiaro: l’80 percento degli intervistati è d’accordo con Colom.
È su queste basi che, per il momento, il braccio della morte si rifà il
look: i pavimenti sono stati messi a lucido e le mura pitturate a nuovo.
Stando così le cose, sarà solo questione di tempo perchè venga indicato
il primo ospite.
Il
banchiere, la diga e i curdi
Antonio Tricarico
Nella fredda mattina di ieri, nella capitale turca Ankara, un
nutrito gruppo di cittadini della città di Hasankeyf si è presentato
di fronte alle ambasciate di Germania, Svizzera e Austria:
protestavano contro la costruzione della diga di Ilisu sulle acque
del fiume Tigri, nel sud-est della Turchia - ovvero in Kurdistan, a
circa 80 chilometri dal confine iracheno. Per far posto alla diga,
opera centrale di un mega-programma infrastrutturale chiamato Gap,
promosso dal governo turco nella regione curda sin dagli anni '60,
decine di migliaia di contadini curdi stanno perdendo le loro terre,
ricevendo scarsi risarcimenti, in un contesto di tensione alle
stelle a causa della vicina guerra in Iraq e delle incursioni turche
oltre confine. La diga sarà costruita da un consorzio guidato dalla
VATech-Siemen e i cittadini di Hasankeyf, sito archeologico di
importanza mondiale e simbolo culturale di tutti i curdi che
andrebbe sommerso a causa dell'opera, minacciano i tre governi
europei che hanno assicurato il finanziamento per il progetto
tramite le proprie agenzie di credito all'esportazione: se non
potranno più sopravvivere in Turchia, chiederanno in massa asilo
politico in Europa. Parliamo potenzialmente di 55.000 curdi. È solo
l'ennesimo gesto eclatante di una protesta ormai annosa, e che si
riaccende in vista del prossimo capodanno curdo, il Newroz, nella
terza decade di marzo.
Ma non è solo un affare tra governi quello della diga di Ilisu. A
finanziare il consorzio vi sono alcune banche private, tra cui
l'italiana Unicredit, guidata da Alessandro Profumo, banchiere di
spicco nella finanza europea dopo la serie di mirabili acquisizioni
di banche del vecchio continente. Nello shopping mitteleuropeo
Profumo si è imbattuto in Bank of Austria. Con 260 milioni di euro
di prestito tramite la controllata austriaca, Profumo si rende
responsabile del sostegno ad un'opera molto discussa anche in
Italia. Sette anni fa, infatti, dopo le insistenze dei gruppi curdi
e di numerose organizzazioni europee, il governo Blair e quello
italiano riconobbero gli enormi rischi associati al progetto,
rinunciando al finanziamento della diga. Attualmente rimangono le
stesse preoccupazioni. E poi la diga ridurrà significativamente il
flusso delle acque del Tigri, a discapito delle popolazioni che
vivono a valle in Siria e soprattutto in Iraq. Il governo di Baghdad
ha già protestato nei confronti di Ankara, rimanendo però
inascoltato. In Europa è sorta una campagna per la salvezza dello
storico sito di Hasankeyf che trova ampio sostegno anche nella
comunità di archeologi. Ad aprile, nonostante l'opposizione del
governo centrale, sarà aperto un ufficio turistico nella cittadina
che ha richiesto di diventare World Heritage Site dell'Unesco. Ma
quello che allarma oggi gran parte dei curdi sono i reinsediamenti
forzati di migliaia di famiglie, costrette a negoziare un prezzo per
la propria terra in un contesto militarizzato e secondo una legge
turca decisamente inadeguata. Insomma, Ilisu non è soltanto
l'ennesima mega-diga dagli impatti devastanti, ma il primo passo per
una resa dei conti finale contro i curdi nella regione. Per questo
in migliaia si recheranno a Hasankeyf nei giorni del Newroz.
Fino a oggi Unicredit si è difesa dicendo che le agenzie di credito
europee hanno commissionato un monitoraggio indipendente, che
dovrebbe essere reso pubblico a breve, sull'attuazione delle ben 150
condizioni che queste hanno imposto all'ultimo momento per mitigare
gli impatti. Troppo comodo per il banchiere di piazza Cordusio,
aspettare l'ennesimo rapporto degli esperti. Qui non si tratta di
un'opposizione «Nimby» né qualche impatto in più da mitigare; ad
Hasankeyf è in ballo la dignità di un intero popolo da sempre
represso nella regione. Un banchiere che si professa di
centro-sinistra andrebbe di persona a vedere che cosa succede ad
Hasankeyf, a parlare con i contadini curdi sotto lo sguardo violento
dei servizi di sicurezza turchi. Altrimenti rimarrebbe un banchiere
come gli altri.
L'arsenico uccide i fiumi del Messico
Antonio Graziano
Miguel �?ngel López Rocha è morto lo scorso 13 febbraio dopo 19
giorni di agonia per aver ingerito incidentalmente una notevole
quantità di arsenico. Aveva 8 anni e il 26 gennaio era caduto nelle
acque del rio Santiago, fiume messicano dell'immenso bacino
Lerma-Chapala-Santiago-Pacifico. La vita di Miguel Angel è passata
in un attimo dal gioco alla tragedia. Dopo poche ore è stato portato
all'ospedale di Guadalajara, dove è rimasto in coma fino alla fine
della sua breve vita.
Il Rio Santiago è uno dei fiumi più contaminati del Messico. Nel
2004 uno studio dell'Università di Guadalajara confermava la
presenza di metalli pesanti (piombo, cromo, cobalto, mercurio,
arsenico) nei suoi sedimenti. Il fiume riceve 815 litri al secondo
di acque reflue prive di trattamento da Guadalajara, la seconda
città più grande del paese, e gli scarichi di 250 industrie della
zona, alcune delle quali appartengono a imprese multinazionali come
Ibm, Roche e Nestlè.
Pochi giorni prima della morte Miguel Angel presentava tracce di
arsenico dell'organismo 400 volte superiori ai valori normali.
Secondo la dottoressa Luz Maria Cueto, del Collegio di Tossicologia
dello stato di Jalisco, che ha analizzato i residui di arsenico
nelle orine del bambino, le principali fonti di questo metallo sono
l'industria conciaria, le fabbriche di vetro e le industrie di
lavorazione dei metalli che rilasciano gli scarichi della
lavorazione direttamente nel rio Santiago, senza trattamento.
E' dunque una tragedia annunciata quella di Miguel Angel, che vivena
nella colonia di Azucena, frazione di El Salto, cittadina fluviale i
cui abitanti, insieme al quelli di Juanacatlán, da oltre 5 anni
denunziano alle autorità lo stato di inquinamento del fiume e i
danni per la salute. La contaminazione del rio Santiago mette a
rischio una popolazione di 150.000 persone che vivono ai margini di
quello che era conosciuto come il «Niagara Messicano», un salto di
20 metri tra i due villaggi: ma la cascata ha ormai perso la sua
spettacolare bellezza per diventare una fonte di gas tossici
derivanti dalla decomposizione delle acque. Malattie respiratori e
dell'epidermide, dolori di testa, affaticamento e insonnia sono i
mali più frequenti per chi vive nei pressi del fiume.
Nonostante l'accaduto Emilio González Márquez, governatore dello
Jalisco ha confermato la costruzione della diga di Arcediano a valle
del rio Santiago, una mega opera che darà acqua «potabile» ai 3
milioni di persone della città di Guadalajara. E dire che un
rapporto dell'Organizzazione Panamericana della Salute nel marzo del
2007 aveva denunciato la presenza di rischi per la popolazione
infantile della zona proprio a causa delle concentrazione di
arsenico e cadmio nelle acque. Intanto il sistema di trattamento
delle acque reflue, che doveva essere pronto da anni, non ha ancora
visto la luce, nonostante le promesse delle autorità.
Sempre nel 2007 il tribunale latinoamericano per l'acqua (un
organismo internazionale autonomo che rappresenta i movimenti
sociali) aveva dichiarato colpevoli il ministero della sanità, il
ministero dell'ambiente e l'autorità di bacino
Lerma-Santiago-Pacifico (da cui si approvvigiona anche parte di
Città del Messico) in quanto responsabili degli elevati livelli di
tossicità delle acque.
Il Messico dunque affronta una nuova guerra, quella per il diritto
all'acqua, che si somma a quelle degli indigeni contro la
repressione, e quelle di lavoratori e campesinos alle prese con gli
effetti avversi del Nafta (il trattato di libero scambio
nordamericano) dal Chiapas allo stato di Guerrero. Nel 2006 Città
del Messico aveva ospitato il 3° Foro Mondiale dell'Acqua, una mega
fiera a cui hanno partecipato governi, agenzie delle Nazioni Unite e
imprese, con la benedizione di aziende multinazionali che con
l'acqua stanno già facendo grandi affari anche in America Latina,
come la francese Suez e la nordamericana Bechtel.
20
febbraio

Gli agricoltori: il freddo di
questi giorni non giustifica rincari a breve
«Prezzi, attenti agli aumenti»
Le associazioni degli agricoltori mettono le mani avanti: nonostante
il freddo di questi giorni, eventuali aumenti di prezzi di frutta e
ortaggi che si potrebbero verificare nell'immediato sarebbero
ingiustificati e quindi riconducibili solo a speculazioni che
avverrebbero nel mercato all'ingrosso.
La Confederazione italiana agricoltori ha spiegato ieri che il
freddo non ha alcuna influenza né sulla frutta, che è già stata
raccolta, né sulla verdura di stagione, dato che le temperature
attuali sono perfettamente compatibili con le coltivazioni invernali
(broccoli, spinaci e indivie). Eventuali aumenti a causa del freddo
potrebbero invece verificarsi in forma lieve, a causa dell'aumento
dei costi per il riscaldamento, nei prezzi degli ortaggi coltivati
in serra. A risentire di più delle temperature rigide sarebbero
invece le coltivazioni primaverili ed estive, anche se gli effetti
sui prezzi potranno essere valutati solamente nei prossimi mesi.
Nel caso in cui si verificassero «ritocchi lampo» dei prezzi nei
mercati, sarebbe quindi a causa di speculazioni dei grossisti, che
«sconterebbero», in modo del tutto ingiustificato, eventuali aumenti
di prezzo nelle produzioni future con un aumento nell'immediato. La
prospettiva preoccupante, secondo la Cia, sarebbe il ripetersi di
quanto già avvenuto in passato, ovvero l'aumento, in seguito ad
analoghe condizioni climatiche, tra il 20 e il 40% dei prezzi di
frutta e verdura.
Anche la Coldiretti si preoccupa di tutelare l'immagine
dell'agricoltore, specie in un mercato in cui i prezzi di frutta e
verdura «aumentano del 300% dal campo alla tavola». Occorrerebbe
quindi «vigilare affinché l'ondata di maltempo con l'arrivo del gelo
non diventi la miccia per far esplodere il fenomeno della
speculazione».
I prezzi tuttavia non starebbero aumentando, almeno secondo quanto
dichiarato dal top manager della società di gestione del Centro
agroalimentare di Roma. Fino ad oggi infatti, gli effetti del gelo
non avrebbero prodotto rincari nei listini dei prodotti, che
comunque rimarrebbero «bassi e assai inferiori alle medie degli anni
scorsi».
Palestre, piscine e fitness:
il precariato degli invisibili
Ben 600 mila istruttori, ma solo il 10% è coperto dal
contratto. Il resto ha salari bassi e tutele a zero. L'indagine del
Nidil
Antonio Sciotto
E' uno dei settori più selvaggi e con il maggior sfruttamento: basti
pensare che neanche il 10% degli addetti è inquadrato con il
contratto nazionale, e il resto naviga nel mare magnum della
precarietà e del lavoro nero. Sono gli operatori dello sport, gli
istruttori delle palestre, delle piscine e dei sempre più numerosi
centri di fitness/wellness che fioriscono nella penisola. Si calcola
che sono circa 600 mila gli addetti in Italia, ma il contratto
nazionale ne copre a stento 50 mila. La Cgil - in particolare il
Nidil - ha diffuso oltre 500 questionari tra gli operatori, a
partire dalla fiera del Wellness di Rimini, dello scorso maggio, e
poi cercando contatti nei centri sportivi: ma già far emergere le
storie sommerse è complicato, e la consapevolezza dei propri diritti
tra questi «nuovi operai» è minima. Fa impressione che ben il 62%
degli intervistati ha dichiarato di non sapere che il sindacato può
lavorare per la loro tutela.
Non solo le retribuzioni risultano basse, ma per un combinato di
varie leggi, i tanti precari dello sport spesso non sono coperti
neppure sul fronte dei contributi, all'Inps e all'Inail, e dunque
non si stanno formando una pensione né si tutelano contro gli
infortuni (a parte quei pochi che stipulano un'assicurazione
privata).
Quanto ai contratti, solo il 16% degli intervistati ha un tempo
indeterminato, il 47% è precario (a termine, in collaborazione, in
partita Iva, in apprendistato), e addirittura il 37% non ha
contratto, dunque è in nero. Sette precari su 10 dichiarano di non
aver scelto la propria condizione, e ben il 75% è precario o in nero
addirittura da dieci anni. Grave il dato sugli over 40: ben il 64% è
ancora precario. E dire che hanno un'alta professionalità: l'84% ha
una qualifica riconosciuta, dalla laurea Isef ai titoli Coni.
Il lavoro nello sport non è un «lavoretto» o un hobby: sette
operatori su dieci (67%) lo svolgono per trarne la prima fonte di
reddito, e solo per il 24% è un'attività secondaria (appena l'8% lo
fa per passione e non per lavoro). Il 73% lavora con lo stesso
committente da più di un anno. Per la maggior parte dei casi (oltre
l'80%) il reddito è inferiore ai 15 mila euro annui: in particolare,
oltre il 30%b percepisce meno di 5 mila euro annui, e un buon 20% si
trova tra 5 mila e 7500. Vuol dire insomma che un «salario» mensile,
almeno quello dichiarato, va dai 400 ai 600 euro.
Il lavoro nero è incentivato dalle stesse leggi (la 342/2000 e la
289/2002, che allarga il principio ai cococò addetti a compiti
amministrativo-gestionali). Queste norme assimilano i compensi degli
addetti dello sport ai «redditi diversi da quelli da lavoro
dipendente», agevolando fiscalmente chi sta sotto i 7500 euro annui:
il lavoratore non paga l'Irpef, e i datori di lavoro sono esentati
dal pagamento di contributi a Inpse e Inail. Si invogliano dunque le
imprese a non contrattualizzare gli addetti come dipendenti, facendo
figurare che stanno sotto i 7500 euro (non a caso il 55% dichiara
redditi inferiori) e pagando eventuali altre ore in nero. Ma il
risultato è che il lavoratore non si iscrive mai a Inps e Inail.
E non è che gli infortuni siano bassi: un lavoratore su tre (31%) si
è infortunato sul lavoro, e oltre la metà (il 54%) ha dovuto recarsi
al lavoro nonostante una malattia o infortunio. Ben il 29% non ha
neanche un'assicurazione privata.
Ultima a intervenire è stata la legge 30 (276/2003), che, come per i
giornalisti, ha confermato l'uso dei cococò nel settore, ed escluso
i contratti a progetto. Dunque non c'è neanche il pensiero di
giustificare un progetto. «Al legislatore - spiega Roberto D'Andrea,
segretario nazionale Nidil Cgil - chiediamo di eliminare il regime
di favore sotto i 7500 euro, in modo da indirizzare i lavoratori
verso il contratto». Quanto alle controparti, la Slc Cgil ha chiesto
a Confcommercio un tavolo per il rinnovo già a dicembre, ma non ha
mai ricevuto risposte.
Lavoro Killer
di Fabrizio Gatti
Ritmi infernali. Subappalti selvaggi. Incidenti nascosti. Norme
di sicurezza ignorata. Così al Nord-est le imprese mettono a rischio
la vita degli operai. Dalle multinazionali all'industria di Stato
La Fincantieri di Marghera
Quando le fabbriche si sfidano, bisogna obbedire e vincere.
Gli operai muoiono anche così. Vittime
collaterali di gare decise da manager con l'ansia di
prestazione. Prendete il comunicato interno dell'Alcoa di
Marghera, lo stabilimento veneziano della multinazionale
americana dell'alluminio. È il messaggio finale, dopo 30 giorni
con i nervi a fior di pelle. Titolo: "Diario di bordo - ultimo
atto". Scrive un alto dirigente: "Vittoria! Abbiamo ottenuto il
nostro primo obiettivo, da un mese sognavo di poter intitolare
così il pezzo dell'ultimo giorno di competizione. Si tratta di
una vittoria nostra prima di tutto perché abbiamo fatto un mese
da incorniciare, e questo fa bene a noi e al nostro business: 0
infortuni, 7.919 tonnellate, 264 tonnellate al giorno... Record
assoluto di tutti i tempi".
È una gara tra laminatoi, lanciati come camion sull'autostrada.
Lo stabilimento veneto si piazza terzo fra tutti gli impianti
Alcoa nel mondo. Solo che gli autisti di camion che corrono
troppo vengono fermati dalla polizia. Non i manager di una
multinazionale. Così va l'Italia della produzione senza
limiti. Così va Marghera, fucina simbolo del Nord-est,
tre morti e un operaio sfigurato dall'acido solforico in sette
giorni, contributo locale al bollettino nazionale di 123
vittime del lavoro, 123 mila 494 feriti
e 3.087 invalidi da inizio 2008. Quello che
pesa non sono solo i numeri dell'ecatombe, ma il modello di
eccellenza, così lo chiamano, che tutti devono seguire. Tutti:
dagli scaricatori del porto ai carpentieri di Fincantieri,
l'ultimo colosso di Stato dove lunedì 11 febbraio un
elettricista è rimasto folgorato e quasi tutte le imprese di
appalto fanno assunzioni fuorilegge.
Il comunicato interno dell'alto dirigente di Alcoa è euforico:
"Vi assicuro che il clima che si respirava in questi giorni e
soprattutto la macchina che girava come un orologio erano
straordinari... Essere terzi in Alcoa non è poco. Nel calcio
sarebbe come arrivare terzi nella Premier league inglese, nella
Liga spagnola, nel campionato di serie A italiano o ancora nella
Bundesliga tedesca, ovvero
essere in grado di competere per sicurezza,
produttività, qualità e affidabilità con i migliori al mondo...
C'è da esserne orgogliosi". È lunedì 2 luglio, l'estate scorsa,
quando il dirigente scrive tutto questo. Giovedì 5 luglio i
manager ne parlano ancora. Lo stabilimento continua a filare
come una macchina da corsa. Centra obiettivi come una corazzata
nel pieno della battaglia.
Quel giovedì i passi di Mauro Calzavara, 46 anni, di San Donà di
Piave, operaio del reparto collaudo, e la folle galoppata di
Alcoa si incrociano. Dieci anni fa, raccontano i suoi colleghi
chiedendo l'anonimato, le bobine di alluminio passavano per
sicurezza all'esterno. Oggi, per guadagnare qualche
minuto, i rotoli a 200 gradi vengono fatti raffreddare nei
capannoni, in spazi ristretti: "Con tempi da Formula
uno". In dieci anni la produzione non è cambiata: 80 mila
tonnellate di alluminio all'anno. Ma è quasi raddoppiata la
produttività degli operai: perché da 980 dipendenti l'Alcoa di
Marghera è scesa a 530. Il bando per partecipare alla gara tra
laminatoi forniva anche la formula per misurare la loro
affidabilità: 'tempo di orologio' meno 'tutti i tempi di
inattività' diviso 'tempo di orologio' meno 'tempo di inattività
programmato' meno 'tempo di inattività per mancanza di ordini'.
Quel giovedì, appena tre giorni dopo la fine della gara,
Mauro Calzavara, operaio e sindacalista della Uil,
cade travolto da una bobina di alluminio rovente e viene
schiacciato dal carrello che la sta trasportando. Nello
stabilimento di Marghera è il secondo dipendente ucciso in un
anno e mezzo. Quasi allo stesso modo. Ma per l'inchiesta non c'è
nessuna relazione tra la morte del sindacalista e la corsa tra
laminatoi organizzata dai dirigenti. Della gara di produzione
sparata sul filo delle 11 tonnellate di alluminio all'ora
semplicemente non si parla.
Gli imprenditori del Nord-est sanno trovare una ragione
a tutto. Anche ai loro operai ammazzati. Questo è
Giorgio Guerrini, presidente di Confartigianato, pochi giorni
dopo i funerali delle prime due vittime dell'anno a Marghera: " Gli
eccessi in discoteca sono un fenomeno reale che incide sui
livelli di attenzione dei lavoratori". Guerrini ripete
quello che hanno detto i presidenti di Confartigianato di
Treviso e Padova, Mario Pozza e Walter Dalla Costa. Insieme,
rappresentano le imprese di tre tra le province più aggressive
del Nord-est. "La stanchezza dopo le notti a ballare può fare
brutti scherzi", sostiene Pozza. Le segreterie venete di Cgil,
Cisl e Uil protestano: "Parole vergognose". Paolo Ferrara e
Denis Zanon non sono ragazzi da discoteca quando muoiono
asfissiati nella stiva della World Trader il 18 gennaio
a Porto Marghera: hanno 47 e 39 anni e quella notte, prima
dell'incidente, non sono andati a ballare, ma direttamente al
lavoro. Dimitrios Lenis, il marinaio greco schiacciato da un Tir
su un traghetto il 25 gennaio, ha 33 anni e l'ultima notte l'ha
passata a bordo.
Nemmeno Vincenzo Castellano, 31 anni, di
Napoli, era andato a divertirsi la notte tra il 9 e il 10 maggio
2002. La sera prima lui e i colleghi Ditran Cano e Biagio Basile
entrano nel grande stabilimento di Fincantieri a Marghera e non
escono fino al giorno dopo. Non c'è nessuno oltre a loro. Perché
la notte Fincantieri ufficialmente non lavora. Per fare in
fretta, i tre operai vengono mandati a saldare fuori orario i
profili in ferro nel corridoio di una nave in costruzione. I tre
non sono mai stati lì prima. Lavorano per la Montaggi e
carpenterie industriali sas, una piccola ditta di Ottaviano, in
provincia di Napoli. È un subappalto commissionato dalla
Meccanonavale srl, una delle società che con regolarità
si aggiudicano i contratti di Fincantieri. Nessuno ha mai
capito come funzioni. Perché nel maggio 2002
Meccanonavale è presente in Fincantieri con appena quattro
operai e due responsabili.
La domanda è da qualche milione di euro, il valore degli appalti
affidati a Meccanonavale nel giro di qualche anno: come può una
società con solo quattro operai e due responsabili in cantiere
garantire la costruzione di sezioni di nave? Infatti non può ed
è per questo che i tre dipendenti della ditta di Ottaviano sono
lì. L'unico avviso che ricevono riguarda la pulizia dalle scorie
di saldatura. Nessuno invece indica i pericoli del
posto. Così quando Vincenzo Castellano perde
l'equilibrio sulla scala, è normale per lui appoggiarsi al telo
che ricopre la parete. Il telo cede e si apre sulla condotta di
ventilazione che nascondeva.
Questi incidenti a Marghera di solito finiscono con un funerale
e l'archiviazione come fatalità. Ma Castellano
si salva. Per modo di dire. "Dopo dieci minuti abbiamo
cominciato a sentire delle lamentele", racconta Dritan Cano al
processo, "però non sapevamo il punto esatto dove era finito. Io
ho fatto quasi 50 volte su e giù, 20 piani della nave". Vincenzo
Castellano ora abita con la madre e i fratelli che, per lui, si
sono trasferiti da Napoli a Imola. "Per essere sottratto da
quella buca", dice a 'L'espresso' la mamma, Carmela Volpe,
"Vincenzo ha dovuto aspettare dalle 5,45 alle 8,45. Non
sapevano dove fosse perché nessuno aveva lo schema
della nave". Vincenzo Castellano è sul pavimento della sala
macchine. Le ossa frantumate in fondo a un volo di 30
metri. Anche lui vittima di una gara. Dovevano correre:
per completare un lavoro lasciato a metà da Meccanonavale.
Fincantieri aveva chiesto una pausa per pulire le condotte della
nave e voleva recuperare il tempo perso.
Oggi Vincenzo Castellano è paralizzato dal torace in giù.
Quasi ogni notte cade nei suoi incubi e chiede alla madre di
aiutarlo a morire. Eppure per Fincantieri resta uno sconosciuto.
Il direttore di Marghera, Carlo De Marco, e i suoi dirigenti non
si presentano nemmeno al processo in cui sono imputati per
lesioni gravi. Tengono duro. I loro legali ritardano il più
possibile il risarcimento. A fine novembre l'industria rischia
addirittura la figuraccia davanti al premier Romano Prodi e agli
armatori della Carnival il giorno della consegna della Queen
Victoria che ha come madrina Camilla Parker Bowles. L'avvocato
di Castellano chiede il pignoramento della gigantesca nave da
crociera. Fincantieri deposita a garanzia un assegno da
2 milioni e mezzo di euro, che poi sono soldi dello
Stato. E proprio questo è il punto. Perché Fincantieri
appartiene allo Stato. E la sua filiera di produzione è
un modello non solo nel Nord-est, ma in tutta Italia.
Assemblea dei portuali di Marghera
Come funziona lo spiega il giudice del Tribunale di Venezia,
Carla Ilaria Bitozzi, nelle motivazioni della sentenza
depositate l'11 ottobre scorso sul caso Castellano: "Al riguardo
è ampiamente provato che nel cantiere navale di Marghera la
maggioranza delle lavorazioni sono svolte da operai di imprese
terze mediante appalti reali o mere prestazioni di manodopera...
i dipendenti delle imprese terze costituiscono quasi il
75-80 per cento della forza lavoro presente in Fincantieri".
Secondo il giudice, la ditta che aveva assunto i tre operai
costituiva una sorta di caporalato industriale: il titolare
"fungeva solo da intermediario, per il quale percepiva un
compenso a percentuale sul monte ore di impiego dei suoi
operai".
Alla fine il direttore di Marghera, Carlo De Marco, gli altri
responsabili di Fincantieri, di Meccanonavale e della srl di
Ottaviano vengono condannati in primo grado a due mesi di
reclusione, assorbiti dall'indulto. E al risarcimento dei danni,
2 milioni di euro più o meno. Per Vincenzo Castellano i soldi
che gli serviranno a curarsi arrivano soltanto il 9 gennaio di
quest'anno. Quasi sei anni dopo l'incidente. Nel frattempo De
Marco è stato promosso a dirigere il cantiere più grande, a
Monfalcone. E ancora nel 2007 Meccanonavale è tra le società
sempre scelte da Fincantieri.
La sentenza veneziana è il riconoscimento della
complicità dell'industria di Stato come committente
nella filiera di subappalti. Ed è quanto da anni denuncia a
prefetto e Asl lo staff di Giorgio Molin, segretario generale
della Fiom Cgil di Venezia. Inutile dire che dal 2002 a oggi, a
parte un protocollo formale sulla legalità, non ci sono state
ispezioni in Fincantieri in grado di smascherare la rete di
subappalti. Nemmeno dopo la scoperta a Trieste
dell'infiltrazione negli affari di piccole società in odore di
'ndrangheta. E l'arresto di due dipendenti a Monfalcone per
contratti gonfiati.
Bisogna venire a Marghera e guardare per giorni da vicino i
blocchi delle navi appesi alle gru, per capire quanto sia
pericolosa la disorganizzazione in un grande cantiere come
questo. Solo una minoranza tra gli operai indossa i caschi di
protezione. A volte vedi saldatori bengalesi abbracciati alle
ringhiere della Eurodam, la nave della Holland America Cruise
Line in consegna quest'anno. Attorcigliano come funamboli le
gambe alle sbarre di ferro, perché le mani sono impegnate: in
una stringono il piccolo vetro di protezione, nell'altra il
cannello della saldatrice. Niente occhiali,
niente maschere, niente imbragatura
per loro. I dipendenti di Fincantieri a Marghera sono 1.200. Gli
addetti alla produzione poco più di 400, praticamente gli unici
operai con garanzie sindacali, ferie e malattia. Nel 2006, 170
di loro (il 42,5 per cento) ha subito infortuni con prognosi
superiore a tre giorni. Fino ad agosto 2007, sono 92 i feriti
(il 23 per cento).
Quattrocento persone non possono costruire una nave. Per questo
nel 2007 hanno lavorato in Fincantieri 2.215 operai
esterni. Sono distribuiti su 478 ditte di
subappalto con uno, dieci, raramente più di 20
dipendenti. Piccole srl che nascono e svaniscono nel giro di due
anni, con sedi in Campania, Calabria e Sicilia dove i controlli
dell'Inps non esistono. Società paravento a loro volta
ingaggiate dalle 64 imprese chiamate da Fincantieri. Sono queste
a dividersi il grosso dei guadagni sull'allestimento di condotte
di ventilazione e arredi. È il vero affare: le grandi navi da
crociera, di cui Fincantieri ha conquistato il 43 per cento
della produzione mondiale, costano 500 milioni di euro. Soldi
che si incassano nel giro di un anno e mezzo: dalla prima
lamiera posata alla consegna. L'importante è abbassare il
costo del lavoro. Non tanto per competere con la Cina.
Soprattutto per far guadagnare il massimo alle imprese appena
sotto Fincantieri.
È per questo che la grande maggioranza degli operai esterni,
italiani o stranieri, è ingaggiata a paga globale. Sono
contratti fuorilegge che permettono l'evasione di fisco e
contributi Inps. Dieci, 12 ore di cantiere al giorno.
Senza ferie, tredicesima,
malattia, liquidazione: uno
sconto quantificato dalla Cgil in almeno tre mesi all'anno. Gli
imprenditori più spregiudicati tengono per sé perfino gli
assegni familiari e mettono in busta paga 40 ore al mese.
Il resto, tra le 160 e le 220, lo pagano in nero. A volte con un
assegno. Fa parte del ricatto. Ogni lavoratore firma un foglio
in bianco. Se mai decidesse un giorno di denunciare lo
sfruttamento o iscriversi al sindacato, si troverebbe con la
lettera di dimissioni già firmata. Ma se è stato pagato con
l'assegno, il foglio in bianco potrebbe diventare il contratto
di un prestito da restituire. Dipende da come viene compilato.
Impossibile conoscere il numero dei feriti, se dipendono da
ditte esterne. Solo i casi più gravi vengono scoperti.
Come quello di Diego Pietrobon, 36 anni, dieci in Fincantieri,
sposato, una bimba e una casa pignorata dopo l'infortunio: è
invalido dal 2003, quando è stato investito dal crollo di una
sezione di nave, e solo l'11 marzo ci sarà la prima udienza per
la sua causa. Intanto la ditta Omega che l'aveva ingaggiato a
paga globale è scomparsa.
L'ultimo ferito grave è Massimo Volpe, 32 anni, elettricista di
una ditta di subappalto. Verso le due del pomeriggio di lunedì
11 febbraio viene colpito da una scarica a 690 volt.
"Una cosa è certa", dice il comunicato delle segreterie
veneziane di Cgil, Cisl e Uil, "l'impianto della nave su cui
lavorava era sotto tensione mentre non doveva esserlo". È
il risultato del frazionamento degli appalti.
Nessun operaio sa cosa stiano facendo i colleghi accanto.
Sempre lunedì un blocco da 380 tonnellate cade per lo strappo
dei golfari, i ganci di sollevamento: erano stati saldati male
alla struttura. L'elenco degli incidenti con o senza feriti, ma
potenzialmente mortali, è un brivido quasi settimanale.
'L'espresso' ha potuto leggere i rapporti interni.
Gigantesche ruote di gru da 300 chili che cadono dal cielo.
Manutenzioni e imbragature fatte da personale non
specializzato. Carrelli che si ribaltano.
Bilancieri dei carri ponte nelle officine
usati per sollevare pesi eccessivi per le loro
dimensioni. A volte le prove vengono occultate. Come sarebbe
successo il 16 aprile 2007 dopo il ferimento di un operaio
croato, Milenko Libic, 40 anni, della ditta Sonda, un
subappalto: gli era stato ordinato di sollevare una lamiera con
due pinze inadatte. "Se te lo ordinano i capi, lo devi fare",
racconta un operaio a paga globale, "altrimenti ti dicono: da
domani stai a casa".
Più che capi, qualcuno di loro ricorda Kilgore, il colonnello
del film 'Apocalypse Now' che faceva rischiare la vita ai suoi
soldati per un'uscita in surf dopo la battaglia. Il paragone non
è esagerato. Secondo Eurispes, sono morti più operai,
muratori e agricoltori in Italia (5.252 dal 2003 al
2006) che militari della coalizione nella guerra in Iraq
(3.520). In fondo la salute di un lavoratore a paga globale, in
base alle tabelle applicate dai tribunali del Nord-est, costa
poco: 44 euro al giorno per un'invalidità totale. Molto
meno di un buon paio di scarponi da cantiere
Il ricatto si chiama paga globale
Parla un lavoratore con salario in nero. E senza garanzie
Lavorare senza ferie. Senza tredicesima. Senza malattia. Senza
liquidazione. Senza scarponi antinfortunio, senza indumenti appropriati,
senza pause. Il contratto di Antonio C., 33 anni, saldatore napoletano,
e di migliaia di operai italiani e stranieri che negli ultimi anni hanno
costruito le navi di Fincantieri si chiama 'paga globale'. Ufficialmente
è un contratto che non esiste: è fuorilegge. Un accordo 'a voce': un
terzo, il minimo possibile, in busta paga, due terzi in nero. Antonio C.
prende 9 euro l'ora netti. I suoi colleghi bengalesi e romeni scendono a
6 o 7.
Perché si accetta la paga globale?
"Perché se sei napoletano non hai alternative. Devi competere al ribasso
con gli stranieri. E anche perché solo così puoi guadagnare duemila euro
al mese. Se no, come vivi? Con la paga sindacale avrei più garanzie. Ma
non prenderei più di mille duecento euro".
Quanto ha in busta paga?
"Ottocento, novecento euro al mese. Fanno figurare 40 ore di lavoro, al
massimo 150. Contributi, ferie, permessi sono tutti fittizi. Il resto,
fino a duecento ore, è in nero".
Da quanti anni lavora in Fincantieri?
"Una decina. Ma sono dipendente di una ditta terza che ha preso in
appalto il lavoro di allestimento delle navi".
Da dieci anni lavora per la stessa ditta?
"No, queste ditte non durano più di uno o due anni. Cambiano nome.
Cambiano soci. E se un operaio si fa male, vengono sciolte. Spariscono.
Per sfuggire al fisco, ai controlli, ai risarcimenti".
I dirigenti di Fincantieri conoscono la situazione?
"Se una ditta non ci paga il dovuto, per prima cosa andiamo a segnalarlo
all'ufficio personale di Fincantieri. E loro intervengono perché in
cantiere non ci sia casino. Sicuramente i dirigenti sanno".
L'ultima volta che è andato in ferie?
'Tre estati fa, a Napoli, dai miei. Se vai in ferie sei a paga zero".
Vita da talibé
Sono almeno 100 mila i bambini
mendicanti che vivono per le strade di Dakar
scritto da Federico Frigerio
In
arabo, tâlib significa “colui che cerca e che chiede”: il tâlib è
l'allievo di un marabutto, studente dei precetti dell’Islam. Per far
diventare i propri figli degli adulti responsabili e dei ferventi
fedeli, una pratica molto diffusa in un paese islamico come il
Senegal è quella di far frequentare loro le numerose scuole
coraniche (daraas), gratuite purché i discepoli siano disposti a
svolgere piccoli lavori nella scuola. Molte famiglie indigenti
“regalano” ai marabutti i figli a cui non riescono a badare: nelle
daraas della capitale Dakar, un terzo dei bambini ha meno di 10
anni. Ogni mattina, i giovani discepoli si alzano alle 5 e, dopo le
preghiere mattutine, prendono i loro barattoli di latta, vagando per
le strade di Dakar in cerca di elemosine.
E' questa la vita dei talibés, dipendenti in tutto e per tutto dal
marabutto e dalle sue richieste. Ogni momento diventa buono per
chiedere qualche spicciolo ai passanti. La quota per non essere
cacciati dalla scuola e per non essere molestati è di 350 franchi
cfa (50 centesimi di euro) al giorno: una somma notevole, se si
considera che il 70 percento della popolazione del Senegal vive con
meno di due dollari al giorno. I principi dell’Islam contemplano la
raccolta dell’elemosina come attività utile per apprendere la virtù
dell’umiltà, ma “se all’inizio i giovani mendicavano per apprendere
valori fondamentali per la religione musulmana, oggi lo fanno per
conto di un marabutto, dando vita a quello che può essere definito –
secondo un rapporto del 2004 dell’Afp - il mercato delle elemosine”.
Sette giorni su sette, delle volte perfino di notte, malnutriti, a
piedi scalzi, vestiti di stracci, l’unico bene che posseggono è il
loro barattolo di latta. Molti talibés nemmeno imparano a leggere il
Corano. Mouhamed Chérif Diop, coordinatore di una Ong locale, tira
amaramente le conclusioni: “Molte persone guadagnano attraverso
l’elemosina dei bambini più soldi che se facessero un lavoro
normale”.
“Lo stato non vuole impegnarsi nel risolvere il problema delle
elemosine, perché è una faccenda che riguarda la religione” dichiara
Amadou Camara, portavoce del ministro della Solidarietà. La figura
del marabutto gode di un’autorità inviolabile nella società
senegalese: molte famiglie consultano le scuole coraniche per
risolvere affari familiari, questioni monetarie e perfino per
consigli elettorali. Marie Julie Gagnon, giornalista canadese,
sintetizza così il primato dei marabutti: “In Senegal hanno più
autorità dei rappresentanti politici”. Il tessuto sociale delle
comunità rurali senegalesi riconosce da secoli l’importanza del
ruolo del marabutto: le famiglie più povere mandavano i propri figli
a lavorare nei campi del marabutto locale in cambio di un’educazione
religiosa.
L'urbanizzazione, sempre più consistente a partire dagli anni '80,
ha portato molti marabutti a trasferirsi nelle grandi città facendo
diventare abituale la pratica dei talibés. Formalmente, il Senegal
ha adottato delle leggi per limitare l’apertura di nuove scuole
coraniche, ma in realtà non serve alcuna documentazione per crearne
una. Camara ritiene molto delicato provare a disinnescare questa
pratica: “In ogni grande città c’è un leader religioso che ha dei
discepoli nelle sfere dell’amministrazione sociale”. Il governo
senegalese ha stanziato fondi per sostenere 100 moschee, così da
indurre i marabutti a non mandare i giovani per le strade. Ai
numerosi critici di questo ambiguo provvedimento Camara risponde
pragmaticamente: “Se non fornissimo nessun tipo di aiuto, per i
talibés sarebbe molto peggio”.
Cina, i
lazzaretti dell’Aids
Nella provincia rurale dello Henan
l’Hiv è una piaga endemica. E nascosta
Scritto da Marzia De Giuli
All’inizio di gennaio, alcuni malati
di Aids hanno occupato abusivamente due case. Poi, entrati in un
vicino supermercato, hanno rubato oggetti di uso quotidiano,
generando il panico generale fino a ostacolare l’intervento delle
forze dell’ordine.
L’episodio, riportato dal sito Henannews, è avvenuto nel villaggio
di Zhengzhou, provincia Henan, la più popolata della Cina - quasi
100milioni di abitanti - e considerata tradizionalmente la culla
della civiltà cinese. I suoi villaggi sono conosciuti con il triste
appellativo di “lazzaretti dell’Aids”.
Tremila nuovi casi ogni mese. Negli anni ’80 e ’90 decine di
migliaia di contadini della provincia hanno contratto il virus dell’Hiv
a causa delle precarie condizioni igieniche dei centri in cui erano
costretti a vendere il proprio sangue come unico mezzo di
sopravvivenza da uomini d’affari senza scrupoli.
Dal 1998 il governo è corso ai ripari inasprendo le misure punitive.
Fin quando, lo scorso 30 novembre, in occasione della giornata
mondiale dell’Aids, il premier Wen Jibao ha visitato il villaggio di
Wenlou facendosi fotografare circondato da piccoli pazienti orfani.
Nonostante oggi le autorità sanitarie offrano test dell’Hiv per
tutti e cure gratuite per i malati più poveri, la situazione rimane
tragica. La corruzione, la malasanità e la scarsa preparazione del
personale medico locale hanno favorito la diffusione dell’Aids a
ritmi sbalorditivi. Le ultime statistiche ufficiali indicano oltre
tremila nuovi casi al mese. In alcune località della contea Shangcai
– dove si concentrano ventidue dei trentotto villaggi più colpiti
dello Henan – il tasso dei contagi è così alto che quasi in ogni
famiglia c’è un malato. Impossibile contare il numero dei
sieropositivi: i villaggi sono praticamente blindati e alla maggior
parte dei giornalisti è impedito l’accesso.
Chi denuncia l’emergenza viene zittito. Chi ha avuto il coraggio di
denunciare abusi e ingiustizie è stato duramente ostacolato. Come
l’attivista Hu Jia, più volte costretto agli arresti domiciliari per
avere denunciato i delicati retroscena di questa piaga che ha
riflessi drammatici nella società soprattutto per l’ignoranza della
popolazione sulla malattia, per anni taciuta e negata dal governo.
Secondo l’ultima denuncia del dissidente, riportata dal quotidiano
online Boxun, pochi giorni fa circa venti malati di Aids provenienti
dai villaggi Xinzheng e Shangqiu sarebbero arrivati a Pechino con un
viaggio di fortuna per chiedere al governo di rimediare agli errori
commessi nel passato e aumentare gli stanziamenti per le famiglie
dei malati. Almeno sette di loro sarebbero stati fermati dalle forze
dell’ordine mentre manifestavano di fronte al dipartimento
sanitario. In seguito all’episodio, le autorità della provincia
Henan avrebbero predisposto un maggiore impiego di risorse per
incrementare i controlli sui tour operator con l’obiettivo di
evitare altre pericolose ‘usicite’. Sono invece inarrestabili i
sempre più frequenti appelli sui blog e siti non ufficiali, come
quello apparso su Village of Aids, firmato da un “anonimo contadino
della provincia Henan”: “Migliaia di miei concittadini vanno verso
la morte ma non importa a nessuno. E io non posso fare niente per
salvarli”.
19
febbraio
Cina, miniere come porcili |
Muoiono 24 minatori, 5 all'ospedale in una cava clandestina
al nord, camuffata da porcile. Al giorno muoiono in media 13
minatori |
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Ennesimo incidente in miniera in Cina; morti 24 lavoratori.
Altri cinque all'ospedale, gravi. Domenica scorsa nella
provincia settentrionale di Hebei, vicino la città di Wuhan, un
ordigno è brillato all'ingresso di una cava di carbone,
dissimilata daporcile abbandonato. L'agenzia governativa,
Xinhua, riferisce che gli ispettori del lavoro locali non
hanno saputo della tragedia fino al lunedì, quando hanno
avvisato il ministero.
Tunnel
e truogoli Trenta lavoratori erano stati intrappolati
dall'esplosione, ma mezza dozzina si sono salvati; cinque in
condizioni gravi ma stabili all'ospedale di Wuhan, capoluogo di
quella che viene chiamata ' Rust Belt', la Fascia della
ruggine, dai sinologi: un vasto territorio a nord di Pechino,
verso il confine coreano, dove si concentrano le miniere di
carbone e le industrie pesanti degli anni '70 in via di
smantellamento. Terre di alta disoccupazione, fabbriche che
chiudono e povertà diffusa, al contrario del caotico sviluppo
che avvolge la fascia costiera più a meridione, da Shangai a
Canton. Il ministero del lavoro ha aperto un'inchiesta; il
proprietario della miniera, abusiva, si è dato alla macchia.
Pare che la miniera fosse veramente nascosta dietro una cava in
cui era stato installato un porcile, per non dare nell'occhio.
Gli ingressi dei tunnel sembra fossero nascosti dietro enormi
truogoli Un nuovo incidente in una industria che finora, secondo
il ministero del Lavoro, uccide in media 13 lavoratori ogni
giorno; circa 4.700 morti l'anno. Ma l'organizzazione
internazionale del Lavoro – agenzia Onu – in ottobre aveva
emanato un comunicato per dire che si teme come “i morti possano
essere almeno il triplo”.
Quattro
o 15mila Domenica il ministero dell'Industria aveva
annunciato la creazione di una agenzia con un budget annuale di
280 milioni di euro, per ridurre la mortalità nelle miniere. Le
accuse colpiscono per la mancata sicurezza i proprietari che non
installano dispositivi anti incendio, uscite in sicurezza e
ventilazione, contro le fuoruscite di grisou. Mentre i
funzionari presentavano questa agenzia, 18 minatori morivano
schiacciati da un tunnel a Chong Qing, vicino la Diga delle tre
gole, per una esplosione. Intanto la domanda di carbone sale,
sia per i prezzi del petrolio, sia per le temperature
insolitamente rigide, anche al sud, dove il consumo di carbone
serve al riscaldamento domestico. Nel nord il carbone
costituisce primaria fonte di energia elettrica. A dicembre
Pechino ha lanciato un piano per l'approvvigionamento
energetico: per i prossimi tre anni si creerà una centrale a
carbone. Ogni settimana. Intanto, la nuova agenzia rivalutava il
totale di morti annuali: 6mila. Secondo siti indipendenti
sarebbero almeno 15mila. Secondo l'agenzia per la sicurezza,
l'ammodernamento delle miniere non è ritardabile, perché la
domanda è cresciuta enormemente in queste settimana, soprattutto
dalle aree bloccate dalla neve alta. Il rischio, dopo che l'80
percento delle miniere cinesi è rimasto chiuso a gennaio e
febbraio, è che alla riapertura ci siano decine di inondazioni
dei tunnel.
Al
lavoro! Intanto il ministero dell'Energia ha chiesto
che quasi tutte le miniere tornino a lavorare a pieno regime,
per rifornire le centrali. “Abbiamo riportato l'energia nelle
case di 23 milioni di cinesi, il 90 percento delle case colpite
da blackout durante la crisi energetica”, recita il comunicato.
Ma già si contano 600 casi di miniere inondate (non si sa di
eventuali morti) e di 1.800 miniere chiuse per esondazioni di
gas tra il Sud e il centro, dallo Yunnan a Jiangxi, Hunan e
Guizhou. Per ora i danni provocati dal maltempo fin dalle
vacanze del Capodanno lunare ammontano a 15 miliardi di dollari
|
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Mutuo
soccorsoUn
trucco per aggirare la crisi dei subprime
Tradeline
solutions. Esplode la bolla suprime, le banche cercano di
tamponare e i cittadini non arrivano alla fine del mese. Il rischio è quello
di trovare i mobili sul marciapiede e la casa confiscata, pratica che,
nell’ultimo mese, è all’ordine del giorno anche a Miami Beach. Ma,
dall’altra costa, Ted Stearns offre una soluzione “approfittando di una
falla del sistema”. La sua società, Tradeline Solutions, propone un
metodo per gonfiare il proprio punteggio di credito (sotto 700 punti gli
istituti di credito chiedono tassi astronomici) e ottenere nuovi
finanziamenti dalle banche. Nel sito, al telefono e in numerose conferenze
stampa, Stearns e collaboratori spiegano come procedere per aprire un
Seasoned Primay Account. L’americano A, che ha bisogno di liquidità e
non ha garanzie da offrire, versa 1.199 dollari alla Tradeline, che
da quel momento diventa una sorta di broker. Cerca, cioè, nel suo database,
un americano B con alle spalle almeno due anni di storia creditizia
ineccepibile. In 60 giorni, promette Tradeline, l’americano A sarà,
agli occhi delle banche, solvente e affidabile come B perché diventerà
cointestatario del suo conto corrente. B, per convincersi, riceverà circa il
10 percento di quanto versato da A a Stears, circa 100 dollari, mentre alla
compagnia ne rimangono circa 1000, la maggior parte delle volte in contanti.
Per 120 giorni il cittadino A diventerà un correntista modello, avrà accesso
a prestiti a tasso di mercato e coltiverà la speranza di dare vita ad un
circolo virtuoso. B porterà a cena la moglie con i 100 dollari di Stearns e
sarà dirottato su un alto conto corrente. Scaduti i 120 giorni B giorni
chiuderà il conto originario e continuerà a versare lo stipendio nel
secondo, con la coscienza di aver aiutato un connazionale in difficoltà.
Legalità labile. La linea di credito che si viene a creare
tra A e B è torbida e diventa impossibile distinguere un correntista
solvente da uno che, invece, ne ha solo comprato l’apparenza. Secondo un
rappresentante della Federal Trade Commission (Ftc), l’agenzia Usa
che si occupa della protezione dei consumatori, “il meccanismo sembra
entrare nell’ambito della legalità, ma questo non significa che il sistema
sia legale”. Più netto, invece, il giudizio di Fair Isaac, la
società che ha inventato il sistema di “credito a punti” ( FICO score)
adottato negli Stati Uniti: dalla fine del 2007 ha deciso che verranno
declassati tutti i conti correnti in cui chi richiede il prestito è un
“utilizzatore autorizzato”. Questo penalizzerà i padri che vogliono
cointestare il conto al figlio ma, almeno, prova a mettere un argine alla
bolla di Stearns che aumenta esponenzialmente il rischio delle banche: di
solito, il correntista insolvente tende a rimanere tale.
Chi
c’è passato. “Sono orgoglioso di poter offrire una soluzione
rapida ed efficiente – ha detto Stearns – una persona viene da noi il
lunedì con 550 punti di credito e, già il venerdì, può entrare in banca
e ottenere un prestito”. Rodney, americano della Florida, ha però
un'altra versione. Parte da 675 punti (una situazione non grave) e, per
2.198 dollari, ottiene da Tradeline di diventare “utilizzatore
autorizzato” di altri quattro conti correnti. Dopo 35 giorni, però, non
ha accesso a nessun altro conto. Protesta, gli dicono di aspettare 60
giorni, “può succedere”. Dopo 64 giorni ancora nulla, Stearns è
irreperibile e la sua assistente gli fa notare che “nel contratto si
parla di 120 giorni” di potenziale attesa. In effetti, passate altre due
settimane, diventa “utilizzatore autorizzato” di due conti correnti che,
però, si rivelano chiusi. Il punteggio di Rodney, allora, da 675 passa a
647, gli viene il dubbio che Tradeline abbia venduto i suoi
dati per massimizzare i profitti e denuncia all’Fbi la “frode legale” di
Stearns. Subito dopo, la Ftc ha aperto un fascicolo a suo carico.
Veronica Fernandes
Cessate il fuoco
Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n. 06 -
2008 dal 07/02/2008 al 13/02/2008
Questa settimana, in tutti i Paesi in guerra, sono morte
almeno 922 persone
Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno 321 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1414
Iraq
Questa settimana sono morte almeno 311 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 1901
Sudan (Darfur)
Questa settimana sono morte almeno 77 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 143
Ciad
Questa settimana sono morte almeno 33 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 193
Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 28 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 297
Algeria
Questa settimana sono morte almeno 24 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 59
India Nordest
Questa settimana sono morte almeno 23 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 112
Pakistan talebani
Questa settimana sono morte almeno 21 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 737
Israele e Palestina
Questa settimana sono morte almeno 15 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 88
Somalia
Questa settimana sono morte almeno 13 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 129
Filippine Abusayyaf
Questa settimana sono morte almeno 13 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 46
India-Kashmir
Questa settimana sono morte almeno 10 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 75
R.D.Congo
Questa settimana sono morte almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 77
Nord Caucaso
Questa settimana sono morte almeno 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 70
Thailandia del Sud
Questa settimana sono morte almeno 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 60
Pakistan Balucistan
Questa settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 15
Filippine Npa
Questa settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 20
Nepal
Questa settimana sono morte almeno 3 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 9
India Naxaliti
Questa settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 61
Nigeria
Questa settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 9
Bangladesh comunisti
Questa settimana è morta almeno 1 persona
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 4
dati del ministero per il prossimo anno: travaso di 42mila alunni
tra le due parti del Paese. In 10 anni il meridione ha perso 278mila
studenti
Scuola, il Mezzogiorno si
spopola
e al Nord classi sempre più piene
di
SALVO INTRAVAIA
Sempre meno alunni al Sud mentre al Nord, grazie agli
immigrati, le classi si riempiono. E' il trend delineato dalle previsioni
ministeriali legate agli organici per il prossimo anno scolastico. Per
effetto dell'invecchiamento della popolazione, le scuole delle regioni
meridionali si stanno svuotando rapidamente. Al contrario, nelle regioni
settentrionali e dell'Italia centrale la cosiddetta popolazione scolastica è
in continuo aumento.
Un fenomeno che - inoltre - sta creando un progressivo spostamento delle
cattedre e delle opportunità d'insegnamento verso le regioni del Centro-nord,
dove i precari scarseggiano e le scuole cominciano ad avere difficoltà a
trovare gli insegnanti. Il tutto proprio quando la maggior parte degli
supplenti meridionali ha deciso di ritornare a casa. Ecco il quadro
dell'Italia che viaggia a due velocità anche in campo scolastico.
Il prossimo anno. Secondo le previsioni formulate dai tecnici di
viale Trastevere, nel 2008/2009 le scuole del Paese ospiteranno 10 mila
alunni in più rispetto all'anno in corso. Ma la crescita della popolazione
scolastica non sarà affatto distribuita in modo uniforme. Gli istituti delle
regioni settentrionali dovranno organizzarsi per trovare posto circa 42 mila
bambini e ragazzi in più, al Centro saranno 11 mila i posti da raggranellare
mentre al Sud le classi si svuoteranno perdendo oltre 42 mila alunni. In
dieci anni, dal 1998/1999 al 2008/2009, il meridione d'Italia ha perso 278
mila alunni. Nello stesso periodo, al Nord la popolazione scolastica è
cresciuta di 338 mila unità. Due le principali cause di questa migrazione
verso le regioni settentrionali: gli alunni immigrati e il trend
demografico.
Gli immigrati. In un decennio, le aule scolastiche italiane sono
rapidamente diventate multietniche. Nelle scuole statali, quest'anno,
studiano quasi 500 mila stranieri. Nel 1998/1999 erano appena 85 mila. Il
grosso degli alunni con cittadinanza non italiana è, tuttavia, concentrato
nelle sei regioni del Nord, che a settembre ne accoglierà circa due terzi
del totale. In Piemonte, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Emilia
Romagna e Liguria il prossimo anno saranno circa 368 mila. Nelle otto
regioni meridionali se ne conteranno appena 56 mila.
I giovani. Grazie agli immigrati e alla ripresa delle nascite, al
Nord la popolazione è più giovane di dieci anni fa. Al Sud è, invece, sempre
più anziana. Secondo le ultime rilevazioni demografiche condotte dall'Istat,
nel settentrione i cittadini di età compresa fra 3 e 18 anni, in due lustri,
si sono incrementati del 9 per cento. Trend opposto da Roma in giù: meno 500
mila giovani, pari a un decremento del 12 per cento.
Le cattedre e i tagli. La migrazione degli alunni e il taglio alle
cattedre, imposto dalle ultime manovre economiche, ha spostato migliaia di
posti. In appena tre anni, il Centro-sud ha dovuto sacrificare sull'altare
del risanamento dei conti pubblici ben 24 mila cattedre. Solo al Nord il
consistente incremento di alunni ha consentito una leggera espansione degli
organici: più 3.500 posti. Il tutto, proprio mentre l'ultimo aggiornamento
delle graduatorie dei precari ha visto ritornare al Sud migliaia di precari
meridionali che in passato hanno tentato la fortuna al Nord. Così, oggi,
nelle regioni settentrionali le possibilità di essere assunti si
moltiplicano mentre al Sud tutto si complica.
14
febbraio
Udeur, dalla
Giustizia agli arresti in tre regioni
E tre. Esponenti chiave dell'Udeur finiscono sotto inchiesta per
gravi reati anche in una terza regione. Dopo Lazio e Campania,
adesso tocca alla Calabria. Pasquale Tripodi, assessore regionale al
Turismo, è stato arrestato dai carabinieri per associazione mafiosa.
Esattamente
un anno fa, la copertina de L'espresso era dedicata alla "Cupola
delle tangenti" della Regione Lazio. Descriveva anche le indagini
sul primo leader del partito di Clemente Mastella finito nei guai:
Marco Verzaschi. Verzaschi, ex assessore alla sanità del Lazio con
la giunta Storace e sottosegretario alla Difesa del governo Prodi,
all'epoca era accusato da Lady Asl, protagonista del più incredibile
scandalo negli appalti sanitari del Lazio, per una mazzetta da 200
mila euro. A dicembre un secondo imprenditore ha chiamato in causa
Verzaschi, descrivendo la consegna di altri 200 mila euro: in questo
caso il denaro sarebbe stato addirittura estorto.
Verzaschi si è dimesso a dicembre, alla vigilia dell'arresto,
respingendo le accuse. Il Tribunale della Libertà ha poi revocato la
custodia domiciliare, riconoscendo però la validità del quadro
accusatorio. Dopo il Lazio è stata la volta dell'Udeur campano, con
l'arresto di due assessori e di Sandra Lonardo Mastella, presidente
del consiglio regionale e moglie del ministro. Ma prima ancora c'era
stata l'inchiesta per camorra contro Vittorio Insigne, consigliere
regionale Udeur, processato e assolto in primo grado per i rapporti
con i boss dei casalesi.
La presunzione di innocenza vale fino a sentenza definitiva. Ma
l'elenco delle indagini contro esponenti Udeur mette in una luce
singolare la scelta che venne fatta nella formazione del governo
Prodi. Mastella alla Giustizia, Verzaschi sottosegretario alla
Difesa con delega ai carabinieri ossia al corpo che ha condotto
tutte le indagini sul partito del Campanile.
Mimmo, Mary, Totò e Graziella hanno girato un video che è andato su YouTube. Protesta a Montecitorio
Disabili? Niente casa in affitto
Dieci agenzie dicono no
"Perché siamo in carrozzina alcuni venditori non
ci hanno fatto neanche entrare"
di RORY CAPPELLI ANNA MARIA
LIGUORI
Dieci agenzie immobiliari, una dopo l'altra, hanno
detto no. In alcune non sono neanche riusciti ad entrare, tenuti sulla porta
quasi fossero una vergogna. Perché sono costretti in carrozzina. Perché
parlano e si muovono con difficoltà. Perché non sono "normali". Per Mimmo,
Mary, Totò e Graziella, quattro ragazzi che stanno per laurearsi alla
Sapienza e che perciò dovranno lasciare la Casa dello Studente di via Cesare
De Lollis, da mesi cercano casa.
Già il 5 dicembre Mimmo e i suoi colleghi - dopo vari no di privati e
agenzie - avevano organizzato una protesta davanti a Montecitorio. Volevano
sensibilizzare deputati, presidente del Consiglio, sindaco. Far sapere che
nonostante le giornate del disabile e le "pubblicità sociali" strappalacrime
il pregiudizio impera. Che ancora le barriere mentali, come dice Totò, si
ergono e svettano sulla vita della gente. Non sono stati ascoltati. Non è
cambiato nulla. Così, aiutati da Francesco Palese della streaming tv
Retesole, hanno filmato i rifiuti che uno di loro, Mimmo, riceveva dalla
stessa agenzia che solo cinque minuti prima offriva al ragazzo "normale"
"appartamenti con camino", "bilocale con terrazza", "guardi, questo ha tre
stanze da letto, ci potete stare anche in cinque".
Ne è uscito fuori un documentario di quindici minuti che si può vedere su
YouTube (al link: www. youtube. com/watch? v=Kw5xTOGLA8M)
"Quando Mimmo, Mary, Totò e Graziella mi raccontavano dei rifiuti delle
agenzie, mi domandavo: ma sarà vero?" racconta Francesco Palese. "Pensavo
che fosse un'esagerazione. Poi li ho accompagnati. Ancora non riesco a
credere a quello che è venuto fuori". "È incredibile" dice Mimmo, al secolo
Domenico Vetere, 29 anni, studente di Scienze Politiche, che ha il sogno di
lavorare in un'ambasciata. "È successo con le agenzie, ma anche con i
privati. Appena mi vedevano cambiavano faccia, neanche fossi un mostro. Sono
solo un ragazzo che cerca un appartamento. Tutto qua".
13
febbraio

Indagine sui prodotti che ogni giorno compriamo al supermercato
per scoprire le piccole e grandi bugie dell'industria alimentare
Nella giungla delle
etichette.
Un carrello pieno di trappole
di JENNER MELETTI

ROMA - Consiglio per gli acquisti: una lente di
ingrandimento. Solo con questo strumento, fra le corsie di un supermercato,
è possibile sapere cosa si compra per la propria tavola. Ecco, ad esempio, i
"Cappelletti al prosciutto crudo" dei Freschi Buitoni, mezzo chilo, euro
1,99. Sulla confezione, l'immagine di una bella fetta di prosciutto. Sembra
di sentirne il profumo. Con una vista da aquila - o con una buona lente - si
scopre che per fare i cappelletti, oltre a farina, uova, sale non è stata
usata solo la coscia stagionata del maiale. Si legge infatti che "il
prodotto contiene carne di suino cotta, pangrattato, mortadella (carne di
suino, grasso di suino, cuori di suino, trippini di suino), prosciutto crudo
stagionato: 9,5% del ripieno".
Tutto in regola, ovviamente. Certo, se sulla busta fosse scritto in grande
"cappelletti al grasso e cuore di suino" davanti allo scaffale non ci
sarebbe la fila. Ma chi ha tempo di leggere? Qui, al supermercato Sma di via
Laterani 39/41, è ormai ora di cena. Il pensiero è rivolto al frigo di casa,
per ricordare cosa manca. Gli occhi servono solo per guardare i prezzi, per
non spendere più di quanto c'è nel portafogli. "Mi lascia passare? Ho solo
tre pezzi. I figli aspettano".
Oltre alla lente, meglio portarsi un esperto. Stefano Masini, docente di
diritto alimentare a Scienze della nutrizione dell'università di Tor
Vergata, è anche responsabile consumi della Coldiretti. Proprio nei giorni
scorsi la Commissione europea ha stabilito che le etichette debbono
cambiare, per fare sì che "i consumatori dispongano, in modo leggibile e
comprensibile, delle informazioni essenziali per fare scelte consapevoli".
Il professor Masini non è entusiasta.
"Già il regolamento europeo numero 178 del 2002 recitava che "etichettatura,
pubblicità, presentazione, compresi forma, aspetto, confezionamento e
informazioni non debbono trarre in inganno il consumatore".
Ma la confusione è ancora grande. E anche questa nuova normativa ha un
difetto pesante. I consumatori chiedevano di conoscere l'origine dei
prodotti agricoli contenuti negli alimenti, con l'obbligo dell'etichetta di
provenienza, e la Commissione ha risposto che questa etichetta è un elemento
volontario".
"Qui in Italia le decisioni vengono prese solo dopo le emergenze. Dopo mucca
pazza, oggi è possibile sapere dove è nato il bovino, dove è cresciuto, dove
è stato macellato. Dopo l'aviaria, c'è anche la tracciabilità del pollo, ma
solo transitoriamente: l'Unione ha infatti avviato una procedura di
infrazione, perché dire che il pollo è italiano sarebbe una sorta di
barriera non tariffaria. Nessuna tracciabilità, invece, per il coniglio, il
maiale, l'agnello. Sull'olio extravergine di oliva si è discusso dieci anni.
Noi ne produciamo 500.000 tonnellate all'anno e ne importiamo 400.000. E'
facile mescolare. Dal 16 gennaio 2007 sulle etichette dovrebbe essere
specificata la zona di origine delle olive, il paese di raccolta e quello
del frantoio".
Il carrello è pronto, si può cominciare la spesa. Una bottiglia di olio
extravergine di oliva Olitalia, euro 5,10. "Uno vede scritto Olitalia,
traduce immediatamente olio d'Italia e pensa di comprare olio italiano. Ma
non si sa. Non c'è scritto da nessuna parte dove le olive siano state
coltivate e portate al frantoio. Ecco, questo è un caso che può essere
segnalato all'Autorità garante della concorrenza e del mercato, per
ingannevolezza del messaggio". Un tubetto di Star sugo Lampo, euro 0,70.
"Dopo tante battaglie con la Cina, sulle scatole di pelati è specificata
l'origine dei pomodori. Ma per le salse non vale". Chi voglia sapere di più,
sulle origini del pomodoro finito nel tubetto Lampo, prodotto a Busseto di
Parma, dovrebbe telefonare al numero verde 800274094. Un pacchetto di mais
Mon Ami, euro 0,99.
"E anche questo, da dove arriva? Mais, soia, cotone e tabacco sono spesso
Ogm, prodotti in Argentina, Stati Uniti, Canada e Brasile. Sarebbe meglio
precisare l'origine, così si è più tranquilli. L'etichettatura sugli Ogm è
molto complessa. Da una parte c'è l'obbligo di scrivere Ogm quando la
percentuale supera lo 0,9%. Sono solo tracce, provocate da una non netta
separazione fra produzioni Ogm e non Ogm. La disciplina che si sta
discutendo è precisa: non ci deve essere contatto fra una produzione e
l'altra, addirittura anche i mezzi agricoli debbono essere separati. Ma ci
sono incongruenze: una vacca può essere alimentata con Ogm e chi beve il
latte non ha il diritto di essere informato".
Benedetta sia la lente di ingrandimento. Compri il wurstel Fiorucci Suillo
classico, euro 1,90, con la scritta grande che annuncia "100% puro suino" e
scopri che dentro c'è "carne di suino, 80%". Passi davanti a un espositore
che offre "Burn Energy drink, Now estra Potent", una lattina scura, euro
1,45. "Lo può comprare anche un bambino, perché pensa di avere più scatto
nella partita di pallone. Ma in piccolo c'è scritto: "Questo prodotto non è
adatto ai minori di 16 anni, a gestanti, a persone sensibili alla
caffeina"". Ingredienti: caffeina e taurina. Le etichette della carne sono
precise. "Nato: Italia. Macellato: Italia.
Sezionato: Italia", è scritto sulla confezione di cotolette di pollo Aia.
Scopri che il tacchino Rovagnati, trasformato in fette di arrosto, grammi
120, euro 2,99, ha fatto un lungo viaggio: "Provenienza: Brasile", annuncia
l'etichetta. "L'importante - dice Stefano Masini - che l'informazione sia
chiara, poi ciascuno fa le proprie scelte. Certo, per fare bene la spesa al
supermercato, non basterebbe un corso universitario. Prendiamo, ad esempio,
il cioccolato. In Italia c'era una legge che diceva: si chiama Cioccolato
solo quello fatto con cacao e burro. Quello con la margarina si chiamava
Surrogato. Ma gli altri Paesi europei produttori di margarina hanno fatto
ricorso alla Corte di giustizia della Comunità, che ci ha condannato. Ora si
è fatto un compromesso. Quello con il burro lo chiamiamo Cioccolato puro,
quello con la margarina, l'ex Surrogato, Cioccolato e basta".
Due sporte di spesa, euro 50,31 e un breve viaggio all'università di Tor
Vergata, nello studio del professor Giuseppe Rotilio, docente di biochimica
della nutrizione, preside del corso di laurea in Scienza della nutrizione
umana. La scrivania viene invasa da confezioni, pacchi, barattoli. "Basta
una prima occhiata - dice il professore - per capire che lei spende male i
suoi soldi. Troppe calorie, troppi zuccheri. Il problema principale sono
appunto gli zuccheri semplici, che assieme ai carboidrati servono per
l'energia ma oggi sono assunti in modo esagerato. Si mangia come se tutti
fossimo maratoneti o operai da fatica e invece stiamo seduti a una
scrivania". Primo esame: un bel pacco di merendine, le Trecce Auchan.
L'etichetta racconta che 100 grammi portano 470 calorie, con 53,9 grammi di
carboidrati e 25,5 di grassi.
"Non c'è scritta la percentuale di zuccheri semplici. Anzi no: si dice che
in superficie sono il 7%. Ma dentro la pasta? Ci sono arancia candita,
sciroppo di glucosio e fruttosio, emulsionante, burro, lievito di birra.
Ecco, una merendina di queste è già un pranzo. E' un cibo troppo ricco, per
la nostra generazione. Quando si compra, la prima cosa da guardare sono gli
zuccheri semplici, che entrano rapidamente nel sangue ed alzano l'indice
glicemico. Provocano l'accumulo di grasso e il tessuto adiposo è resistente
all'insulina: alla fine si va verso il diabete".
Il professore non è nostalgico del passato. "O lei riesce a nutrirsi con
l'insalata coltivata in un orto non concimato o deve fare i conti con
l'industria alimentare. Non demonizzo: in fine dei conti, da quando esiste,
noi uomini viviamo di più e meglio. Ma bisogna stare attenti agli eccessi".
Nel tacchino arrosto Rovagnati c'è il destrosio, glucosio di sintesi.
Zucchero anche nelle lasagne al pesto e mozzarella. Nella cotoletta Aia,
"saporita e croccante", ci sono sia saccarosio che destrosio. "Dovrebbero
precisare la percentuale. Ma io mi chiedo? Perché aggiungere questo
zucchero? Il bambino che si abitua a questi sapori, quando la mamma prepara
la semplice bistecca, si lamenta perché è sciapa. Lo zucchero è un additivo
pericoloso perché aumenta le calorie e cambia il gusto naturale. Se mangio
una coscia di maiale mi aspetto grassi e proteine, non zuccheri. In
compenso, il grasso viene demonizzato. E' vero, ha molte calorie ma queste
vengono liberate gradualmente e, se non sono combinate con lo zucchero, non
si accumulano. Il grasso - lo spiego agli studenti - di per sé non
ingrassa".
Tanti i prodotti che si presentano come paladini della salute. Il Danacol
della Danone (confezione da quattro, euro 3,98) è "il tuo alleato contro il
colesterolo". "Solo 1,1% di grassi - dice il professor Rotilio - mi sembra
buono. E' per adulti che hanno problemi di colesterolo e non vogliono
prendere medicine". Scritta in piccolo, un'avvertenza. "Nel caso si stia
seguendo una cura contro il colesterolo, consumare il prodotto solo sotto
controllo medico". Il professor Stefano Masini, il Virgilio del
supermercato, ha invece molti dubbi. "Un negozio alimentare non è una
farmacia. Qui prendi, paghi e porti a casa, senza nessuno che ti dia
consiglio. Una cosa si potrebbe fare subito. Per prodotti come questo, o
quel Burn Energy drink con caffeina e taurina, si scrivano cartelli grandi
con le giuste avvertenze. "Vietato ai minori di 16 anni", ad esempio.
"Solo sotto controllo medico". Ma i produttori hanno un solo obiettivo:
vendere".
La crudeltà dell'ideologia
di
FRANCESCO MERLO
Cosa avrebbero fatto i sette agenti di polizia se in quell'ospedale di
Napoli fossero arrivati durante l'operazione e non subito dopo? Avrebbero
rimesso il feto dentro la donna? "Fermi tutti, in nome della legge:
controabortisca o sparo!".
Davvero la polizia che a Napoli irrompe in sala operatoria e sequestra un
feto malformato è roba da teatro del grottesco e della crudeltà, da dramma
di Artaud. Sembra un episodio inventato per dimostrare la stupidità dei
fanatici della vita ad oltranza, per far vedere a quale ferocia si può
arrivare in nome di un principio nobile e astratto ridotto ad ossessione e
sventolato come un'ideologia, persino elettorale.
È difficile anche ragionare dinanzi a questa violenza che è stata commessa a
Napoli. Una violenza contro la legge, innanzitutto, perché l'aborto era
terapeutico e quindi legittimo, nel pieno rispetto della 194. Anche se va
detto forte e chiaro che l'oscenità dell'irruzione non sarebbe cambiata di
molto se quell'aborto fosse stato ai limiti della legge o persino
fuorilegge, come si era arrogato il diritto di credere il giudice
napoletano, informato - nientemeno! - da una telefonata anonima.
Ed ecco la domanda che giriamo ai lettori: perché un giudice, che ha
studiato il Diritto laico e che sa che la giustizia mai dovrebbe muoversi in
base ad una qualsiasi convinzione religiosa; perché un giudice che si è
formato in un'Italia civile e tollerante non capisce che ci sono ambiti
delicatissimi nei quali comunque non si interviene con i blitz, con le
sirene, con le manette e con le pistole? Amareggia e addolora che questo
signor giudice di Napoli si sia comportato come il burocrate di quella
ferocia ideologica che si sta diffondendo in Italia su temi sensibili - e
l'aborto è fra questi - che invece richiedono silenzio, rispetto,
solidarietà. È come se un diavolo collettivo, un diavolo arrogante che
presume di incarnare la morale pubblica, avesse spinto giudice e poliziotti
a trattare un'intera struttura ospedaliera - dagli amministratori ai medici,
dagli anestesisti agli infermieri - come un covo sordido di mammane
abortiste.Solo il fanatismo, che come sempre nasce da un'intenzione apparentemente
buona, può fare credere che i medici di Napoli non siano persone per bene ma
stregoni sadici, allegri assassini di nascituri. Il signor giudice, mandando
la polizia in sala operatoria, ha trasformato un luogo di lenimento della
sofferenza in un quadro di Bosch. E alla fine invece di mostrare il presunto
orrore della professione medica, ha mostrato tutta l'asfissia di un'altra
professione, della sua professione.
Quante telefonate anonime riceve un giudice a Napoli? Davvero ad ogni
telefonata ordina un blitz in tempo reale? E come ha misurato l'urgenza
dell'intervento? E quali rei stava cercando? La mamma? Il papà? I medici e
gli anestesisti? Cosa voleva mettere sotto sequestro preventivo: l'utero di
quella donna? Adesso, a quella signora che, appena uscita dalla sala
operatoria, è stata sottoposta ad un incredibile interrogatorio,
bisognerebbe che lo Stato chiedesse scusa. L'hanno trattata come un'omicida,
come una snaturata che si vuole sbarazzare di un feto alla ventunesima
settimana. Hanno inventato per lei il reato di feticidio, hanno applicato
contro di lei il loro stupido estremismo che inutilmente vorrebbe deformare
e deturpare il buon cattolicesimo italiano in schemi da sermoneggiatori
fondamentalisti, con tutto questo parlare di Dio e dividersi su Dio.
La polizia non ha sorpreso una gang di infanticidi ma una donna provata da
un terribile dramma personale, costretta ad abortire per non mettere al
mondo, nel migliore dei casi, un infelice menomato. Per questa signora come
per tutti gli italiani, di destra e di sinistra, l'aborto è, qualche volta,
una disgrazia necessaria. Perché il diritto all'aborto, in questo caso
terapeutico, risponde sempre e comunque a una legislazione d'eccezione.
Speriamo dunque che serva questo orribile episodio di Napoli a mostrare
tutta la miseria di un'idea che attribuisce alla sinistra di questo infelice
paese la voglia matta di abortire e alla destra invece la difesa della vita.
Non è così. Non ci sono in Italia da un lato gli abortisti che ballano
attorno ai feti e dall'altro gli antiabortisti che si organizzano in squadre
di polizia. In questo paese per tutti, e anche per la legge, l'aborto è
sempre una tragedia.
Ecco perché, prima che il clima diventi infernale, ci permettiamo una volta
tanto nella vita di esser d'accordo con Silvio Berlusconi che ha
sconsigliato a Giuliano Ferrara di presentare una lista elettorale "per la
vita". C'è forse in Italia qualcuno "per la morte"?
Berlusconi ha aggiunto ieri che secondo lui il dibattito sull'aborto
andrebbe tenuto lontano dalla campagna elettorale. Ha ragione. E non perché
il dibattito non meriti l'attenzione e il rispetto che anche Ferrara merita.
È stato Ferrara a dichiarare al "Corriere" che mai egli vorrebbe incriminare
una donna che ha abortito, e che non è a cambiare la legge 194 che aspira
con la sua battaglia. Chi allora, secondo lui, ha armato di ferocia
l'interventismo del giudice e dei poliziotti di Napoli? Si sa che i
cattolici sostengono che la vita va protetta sin dal concepimento, col
risultato estremo di giudicare ogni aborto come una violazione del quinto
comandamento. I protestanti invece considerano la nascita come la soglia
decisiva senza tuttavia negare che la morte del feto sia un danno per i
genitori. Per gli ebrei lo statuto del feto è una questione controversa
perché un feto nel ventre della madre è un progetto di vita in corso
d'opera. Per i musulmani il feto diventa un persona umana a quattro mesi dal
concepimento anche se si tratta di "una persona umana allo stato
vegetativo".
Come si vede - e ci scusiamo per il necessario
schematismo - le religioni si dividono. E anche la scienza si divide. Ma
nessuno stato laico, nessun legislatore laico può risolvere per legge questa
disputa e nessuna sentenza di qualche Cassazione può fissare il momento in
cui il nascituro diventa un individuo da proteggere giuridicamente. Senza
arroganza dunque lo stato laico ha stabilito quel giorno e quell'ora
nell'atto di nascita. Prima, il feto e la donna che lo porta in grembo
vengono tutelate da un legge che, per quanto carente, è una buona legge, che
ha fatto progressivamente diminuire il numero degli aborti, ha insegnato
alle italiane che il diritto all'aborto è una drammatica conquista,
un'angosciosa soluzione d'eccezione, e che la destra e la sinistra per una
volta non c'entrano nulla.
Un oscuro scrutare
Matteo Bartocci
In un paese in cui i partiti
lottizzano allegramente consigli di amministrazione, primari
ospedalieri e attricette di telenovelas il vecchio «manuale
Cencelli» non si ferma nemmeno alle porte della cabina
elettorale. Dopo i ginecologi di partito ecco gli scrutatori
di partito. Spigolando le «porcatine» dispensate qua e là
nella legge elettorale, spicca l'articolo 9, una norma
formulata nel 2005 dal deputato azzurro Gregorio Fontana e
approvata praticamente senza dibattito parlamentare che
affida direttamente ai consigli comunali la nomina degli
scrutatori per le elezioni politiche. Il nuovo testo
cancella i sorteggi del computer usati dal 1989 e affida la
scelta dei controllori-scrutatori ai controllati-partiti.
Chi meglio degli «amici degli amici» può difendere la
legittimità del voto? Come una vecchia recita in famiglia,
la legge auspica che all'indicazione nominativa degli
scrutatori si proceda in spirito bipartisan (cioè un tot a
me, un tot a te) ma in caso di disaccordo è perfino prevista
una procedura con cui i tre membri della commissione
elettorale comunale «votano» a maggioranza gli scrutatori
più adatti alle «operazioni di voto». Nulla è lasciato al
caso. Nel 2006 molti comuni hanno mandato a vari partiti
l'albo ufficiale degli scrutatori. Tra decine di migliaia di
nomi ogni forza politica ha segnalato i suoi «controllori»
migliori e alla fine la commissione ha fatto la squadra (in
genere due terzi alla maggioranza e un terzo
all'opposizione). Berlusconi è pronto da tempo: «Presto
arruoleremo 120mila difensori del voto. Le ultime elezioni
hanno dimostrato che è assolutamente necessario presidiare
le sezioni elettorali», ha dichiarato fin da ottobre. Forse
però le urne sono state presidiate pure troppo. Due anni fa
le schede bianche per la prima volta nella storia della
Repubblica sono quasi scomparse: da più di un milione e
mezzo a circa 430mila (un record assoluto). Con sondaggi ed
exit poll clamorosamente smentiti dai fatti e accuse di
brogli mai sopite. Nel segreto dell'urna il partito ci vede
sempre benissimo.
Sri Lanka, il massacro invisibile
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La guerra infuria: 200 morti in quattro giorni. Ma nessuno
ne parla |
Nell’indifferenza generale dei media e della diplomazia
internazionale, la guerra in Sri Lanka tra indipendentisti tamil
e forze governative diventa sempre più furiosa.
Battaglia
a Mannar. Ieri la città insulare di Mannar, in mano
all’esercito ma vicina ai territori controllati dai ribelli, è
stata teatro di un lungo duello di artiglieria. La battaglia è
iniziata al mattino, quando i guerriglieri delle Tigri per la
Liberazione della Patria Tamil (Ltte) hanno lanciato una pioggia
di granate contro una base dell’esercito nel centro della città,
uccidendo almeno sei soldati e danneggiando una chiesa adiacente
alla guarnigione militare. Tutte le postazioni d’artiglieria
governative della zona hanno iniziato un fuoco di sbarramento
che ha fatto tremare la città per ore, mentre le truppe hanno
sferrato un contrattacco che, secondo l’Ltte, sarebbe stato
respinto uccidendo altri trentasei soldati e perdendo quattro
guerriglieri. Un bilancio non confermato dai comandi militari.
Negli ultimi giorni, l’intensità dei combattimenti è stata tale
che è diventato quasi impossibile tenere la conta dei morti. Ma
merita provarci, solo per dare un’idea della virulenza di questo
conflitto dimenticato che ha causato circa 1.200 morti
dall’inizio dell’anno, almeno 72mila morti dal suo inizio nel
1983.
Un
weekend di sangue. Lunedì 11 febbraio: 69 morti. Sette
guerriglieri sono morti negli scontri avvenuti nel distretto di
Jaffna, nei pressi dell’autostrada A-9. Due poliziotti sono
morti nell’esplosione di una mina a Irattaperiyakulam, nel
distretto di Vavuniya. Un ragazzino di 14 anni è morto durante
uno scontro a fuoco tra esercito e ribelli nel distretto di
Ampara. Diciassette ribelli e undici soldati sono morti in una
violenta battaglia nel distretto di Welioya. Ventisette
guerriglieri e quattro soldati sono rimasti uccisi nel corso
degli scontri verificatisi nel distretto di Mananr.
Domenica 10 febbraio: 35 morti. Diciassette ribelli dell’Ltte
sono stati uccisi negli scontri avvenuti nel distretto di Mannar,
dove l’esercito ha sfondato le linee tamil nella zona di
Mullikulam. Altri quattordici guerriglieri e un soldato sono
morti nell’attacco delle forze governative contro due bunker
dell’Ltte nel distretto di Vavuniya. Nella stessa zona, i
militari hanno aperto il fuoco contro un trattore uccidendo tre
persone: ribelli secondo il governo.
Sabato 9 febbraio, 46 morti. In una battaglia nel distretto di
Mannar sono morti undici guerriglieri e due soldati; nella zona
di Vavuniya sono rimasti uccisi diciannove ribelli e tre
soldati. Sette miliziani dell'Ltte e un soldato sono invece
morti nel distretto di Jaffna e altri tre guerriglieri in quello
di Polonnaruwa.
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Prigionieri del lavoro |
Migliaia di lavoratori stranieri, trattati come schiavi, in
sciopero in Bahrain |
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Almeno mille lavoratori, da due giorni, sono stati chiusi
all'interno del cantiere nel quale lavorano per aver osato
scioperare. Senza acqua, senza cibo. Sono gli operai che, per
una paga da fame, lavorano alla costruzione dell'isola
artificiale , mega progetto della monarchia del Golfo Persico
del valore di 6 miliardi di dollari.
Come
schiavi. Il consorzio che gestisce l'opera,
compartecipato dallo stesso governo del Bahrain e da grandi
aziende europee e nord americane del settore edilizio, ha
risposto alle richieste di aumenti salariali e migliorie nella
vita degli operai serrando il cantiere. Con gli stessi operai
dentro. Volevano acqua calda, servizi igienici ed elettricità
negli alloggi, mentre adesso rischiano di morire di fame.
Come è accaduto negli Emirati Arabi Uniti, però, anche in
Bahrain il seme della rivolta si diffonde rapido tra i
lavoratori del settore edile, in massima parte emigrati dal sud
est asiatico.
Così, in base alle stesse rivendicazioni, sono entrati in
sciopero anche 250 impiegati della società di costruzioni
Moshin Haji Ali Group, altro colosso dell'edilizia che
impiega per lo più manodopera indiana.
Il boom dell'edilizia, che è arrivato anche in Bahrain come
nelle altre ricche petromonarchie del Golfo Persico, sta
ridisegnando il volto del paese.
L'altra
faccia della medaglia. I miliardi di dollari di
liquidità garantiti alle casse statali dal prezzo del greggio,
sono stati investiti in massima parte in joint venture
con le aziende specializzate occidentali per costruire gioielli
dell'architettura che ricalcano il successo mondiale ottenuto
dalle recenti costruzioni negli Emirati Arabi Uniti.
Solo che, come avviene a Dubai e ad Abu Dhabi, gran parte del
margine di guadagno di queste operazioni faraoniche è garantito
dalle paghe da fame degli operai immigrati.
Nei giorni scorsi il governo indiano, sollecitato dalle migliaia
di connazionali che si recavano all'ambasciata in Bahrain a
raccontare storie di moderna schiavitù, ha chiesto che la paga
minima per i suoi cittadini in Bahrain sia di 262 dollari al
mese.
I lavoratori stranieri nel paese sono circa 50mila e
rappresentano il 55 percento della forza lavoro.
Il Bahrain, in ritardo rispetto agli altri paesi del Golfo
Persico, ha abbassato le quote di cittadini da assumere per
un'impresa straniera, ma rispetto allo sfruttamento brutale non
ha nulla da imparare dagli Emirati Arabi Uniti.
Ch.E.
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7 febbraio
I buchi di Bush
Gli Usa presentano il bilancio per il 2008, con le spese militari più alte
di sempre
In attesa di vedere chi si insedierà alla Casa Bianca dal prossimo
gennaio, l'ultimo anno fiscale gestito dall'amministrazione Bush sarà
anche quello con le più alte spese militari di sempre: 515 miliardi di
dollari, l'8 per cento in più rispetto al 2008, solo per far funzionare
la grande macchina che fa capo al Pentagono. Per le guerre in Iraq e in
Afghanistan ci sono spese ulteriori, per il momento fissate in 70
miliardi di dollari solo per la prima parte dell'anno fiscale 2009, che
inizia il prossimo ottobre: è scontato che cresceranno. Tenendo conto
dell'inflazione, la richiesta dell'amministrazione al Congresso è la più
alta dai tempi della Seconda guerra mondiale.
Deficit
alle stelle. Combinato con altre spese pubbliche, il bilancio
proposto dall'amministrazione Bush ammonta a 3.100 miliardi e farà
crescere il deficit fino a 410 miliardi per quest'anno e 407 miliardi
nel 2009, di poco sotto il record di 413 miliardi di quattro anni fa.
Otto anni fa, la situazione era completamente diversa: l'allora
amministrazione Clinton si chiedeva come impiegare il surplus di
bilancio garantito dal boom economico degli anni Novanta, si parlava di
ridurre le spese militari. Oggi, il presidente Bush continua a prevedere
un avanzo di bilancio di 48 miliardi di dollari nel 2012, una promessa
fatta due anni fa. Ma secondo gli analisti, mantenerla sarà difficile:
l'economia degli Stati Uniti, se non sta entrando in recessione, sta
sicuramente rallentando e il bilancio di quest'anno è appesantito anche
dal pacchetto di 150 miliardi di dollari promesso dal presidente per
stimolare la ripresa dell'economia. Molto dipenderà anche dalla conferma
o meno dei tagli fiscali voluti all'inizio del primo mandato di Bush,
che scadono nel 2010: questa sarà la patata bollente che si ritroverà
tra le mani il suo successore.
Il
confronto con altri periodi. Tornando alle spese militari,
all'aumento contribuisce la creazione del Comando africano, il nuovo
centro militare statunitense per un continente finora trascurato, ma che
nell'ambito della guerra al terrorismo viene ora visto con occhi diversi
dal Pentagono. Altri 21 miliardi saranno destinati all'aumento delle
retribuzioni per membri dell'Esercito e ai Marines. In complesso, in
otto anni di amministrazione Bush le spese militari sono aumentate del
30 percento, seguendo di pari passo la crescita dell'economia nazionale.
Se è vero che gli Stati Uniti spendono circa il 50 percento del budget
mondiale per le operazioni militari, il dipartimento della Difesa
minimizza facendo notare che la quota del Prodotto interno lordo
statunitense destinata alle spese militari è del 3,4 percento (circa il
4 percento se si contano anche le richieste extra per i conflitti in
corso); in Europa la media si aggira intorno al 2 percento, l'Italia
spende l'1,3 percento. E pur con i fronti di Iraq e Afghanistan ancora
attivi, il confronto con altri periodi storici in cui gli Stati Uniti
erano in guerra mostra che all'epoca del conflitto in Corea le spese
militari costituivano il 14 percento del Pil, mentre in Vietnam erano
del 9 percento.
Spagna - 06.2.2008 |
Ceuta, minori
rimpatriati come immondizia |
L'enclave spagnola in Marocco è la
porta per il traffico di esseri umani e droga |
scritto da
Giovanni Vegezzi
Ieri, il 5 febbraio 2008,
è iniziato il processo all'ex prefetto della città Luis Vicente
Moro, implicato nel rimpatrio illegale di minori.
Un
furgone anonimo, come quelli che il comune usa per il trasporto
dell'immondizia, si ferma in mezzo ad una via. Alcuni
poliziotti scendono, e iniziano a identificare i ragazzini che
si trovano per la strada in quel momento. Sono immigrati e molti
di loro non hanno documenti. I poliziotti aprono le porte e li
caricano a bordo: la destinazione probabilmente la immaginano,
tornano dall'altro lato della frontiera, in Marocco. E' la fine
degli anni '90 e siamo a Ceuta, con Melilla una delle due
enclavi che Madrid possiede ancora in terra marocchina. Ceuta
non è esattamente un pezzo di Spagna trapiantato sull'altra
sponda del Mediterraneo, è qualcosa di diverso, è qualcosa di
più. La città autonoma è soprattutto la porta di ingresso per i
flussi migratori e per la droga proveniente dal Nord Africa. La
criminalità è così importante nell'economia locale, che secondo
quanto si racconta in città, quando in passato sono avvenuti
arresti importanti di narcotrafficanti, i gioiellieri si sono
lamentati per la perdita di clienti.
Gli abusi e i rimpatri illegali di minorenni sono uno dei metodi
con cui in quegli anni viene gestito l'ordine pubblico in città,
sotto il controllo del prefetto Luis Vicente Moro e delle forze
speciali di polizia alle sue dipendenze, i "cachorros de Moro",
i cuccioli del prefetto.
E'
il 1998 e Moro è inviato dal Governo per porre un freno alla
criminalità. A Ceuta in quegli anni il narcotraffico
dilaga e la città è governata da politici collusi con la
malavita. Se lo scenario è da serie poliziesca, le maniere di
Moro non sono da meno. La sua mano dura si scontra fin da subito
con le proteste delle associazioni per i diritti umani.
L'Associazione Andalusa per i Diritti Umani (Apdha) denuncia
subito i maltrattamenti nei confronti dei minori marocchini.
Rafael Lara, presidente dell'associazione, ci racconta di come
vengono alla luce gli abusi. Alcuni poliziotti, che non si
adeguano ai nuovi metodi imposti da Moro, iniziano a denunciare
i rimpatri illegali e i maltrattamenti ai danni di minori
marocchini. Ma il sistema di potere messo in piedi dal prefetto
è molto forte e chi sporge denuncia riceve intimidazioni e viene
sospeso dal servizio. Ostacoli di ogni tipo vengono posti anche
alle associazioni per i diritti umani, quando cercano di portare
avanti denunce contro gli atteggiamenti della polizia. Un
giudice, Francisco Tesòn, raccoglie queste accuse e inizia ad
indagare sugli abusi. Il prefetto però non sembra gradire. Fa
confezionare delle prove false, da cui emerge che Tesòn ha
contatti con narcotrafficanti, le fa diffondere dalla polizia e
riesce a far pubblicare la notizia sul quotidiano spagnolo più
diffuso, El Paìs. Sono passati quasi dieci anni e l'attacco
contro il giudice ora si è dimostrato un boomerang. Un tribunale
ha dato ragione a Tesòn, che aveva querelato il prefetto: nello
scorso ottobre Luis Vicente Moro è stato condannato a due anni
per calunnie, insieme ad altri funzionari di polizia suoi
complici. Questo potrebbe essere solo il primo passo. Il 5
febbraio è iniziato a Ceuta il processo che si pronuncerà sui
maltrattamenti e le espulsioni illegali di minorenni. Grazie
alle denunce delle associazioni per i diritti umani e al lavoro
della magistratura iniziano ad apparire i tasselli del sistema
di potere messo in piedi da Luis Vicente Moro, gli abusi
commessi dalla sua gestione dell'ordine pubblico e l'uso
arbitrario delle forze di polizia. Ora dalla giustizia si
attende una parola definitiva sul prefetto che, inviato a
combattere la criminalità, rimpatriava minori a bordo di furgoni
dell'immondizia.
|
Emergenza redditi
Giorgio Lunghini
Che i salari siano bassi è stato reso evidente dalla ripresa
dell'inflazione annunciata ieri dall'Istat. Ma è un fatto da tutti
risaputo, in primo luogo dai diretti interessati, i lavoratori. È
importante che lo abbia detto anche il governatore di Bankitalia,
con certificazione del suo servizio studi, e che lo abbiano ammesso
alcuni imprenditori con le loro «mance contrattuali». I salari sono
però soltanto una parte del reddito nazionale. Le altre due parti
sono le rendite e i profitti. Se la quota dei salari è piccola,
grandi sono le quote dei profitti e delle rendite. Ciò capisce anche
un bambino, e ciò insegna la buona teoria economica. La questione
salariale è dunque un problema di dimensioni del reddito da
distribuire e di distribuzione di questo reddito tra rendite,
profitti e salari. Ed è il vero problema «politico» del paese.
Una volta che i percettori di rendite le hanno incassate, il salario
(che è una variabile dipendente) dipenderà da quanto è rimasto del
reddito nazionale e da quanto prende la forma di profitti. Tra
rendite, profitti e salari ci sono molti intrecci, che statistici e
sociologi hanno studiato; tuttavia è meglio non lasciarsi distrarre
dalla sostanza della questione, economica e perciò politica.
La questione salariale può essere medicata in tre modi. Uno, oggi
difficile da praticare, è che i lavoratori salariati conquistino una
maggiore forza contrattuale nella distribuzione del reddito
nazionale. Il secondo è che il reddito nazionale cresca tanto da
consentire un aumento di tutte e tre le quote, senza inasprire il
conflitto sociale: una prospettiva oggi improbabile. Il terzo modo è
l'unico del quale disporrebbe un governo che prenda sul serio la
questione: una redistribuzione del reddito, per via fiscale, dai
percettori di redditi elevati ai percettori di redditi bassi - senza
tagli della spesa pubblica.
Ci sono due ragioni che consigliano questa strada. La prima è ovvia:
l'attuale diseguaglianza nella distribuzione del reddito e della
ricchezza è arbitraria e iniqua. La seconda è un po' più complicata
ma non meno importante. La spesa in consumi dei più ricchi, in
percentuale del loro reddito, è minore di quella dei più poveri.
Dunque uno spostamento di potere d'acquisto dai più ricchi ai più
poveri farebbe aumentare la domanda per consumi e per questa via lo
stesso reddito nazionale. Così come dovrebbero sapere quanti invece
amano separare la funzione e il costo dei cittadini in quanto
lavoratori, dalla loro funzione e dal loro potere d'acquisto in
quanto consumatori.
La clausola «senza tagli della spesa pubblica» è cruciale. I servizi
pubblici sono una parte importante del reddito reale dei cittadini
più poveri. Se il loro maggior reddito monetario venisse finanziato
mediante una minore spesa pubblica, anziché mediante una
redistribuzione del reddito nazionale, la manovra sarebbe pura
propaganda elettorale. Un concetto da ricordare mentre parte la
corsa verso le urne.

Un ospedale che regala soldi. L'incredibile diventa realtà nella
sanità romana, feudo di scandali antichi. Ma la notizia che il San
Giovanni avrebbe riconosciuto ai fornitori 5 milioni e 700 mila euro
più del dovuto, pare destinata a segnare una nuova frontiera
dell'Italia sprecona. Dal 2002 al 2006, l'azienda pubblica avrebbe
continuato a pagare molto più di quanto previsto dagli appalti,
arricchendo le due ditte che fornivano pasti e servizio lavanderia.
Adesso il direttore generale sta cercando di fermare i fondi
stanziati per il 2005-6 e studiando un modo per recuperare i tre
milioni di troppo versati negli anni precedenti. La colpa? È del
computer, di un sistema informatico così generoso da regalare pacchi
di euro: un virus nel software avrebbe cominciato a buttare via i
soldi. Dopo il millenium bug, ecco il "magna-magna bug" che
elargisce denaro a go-go: un'infezione ospedaliera che contagia il
database e toglie al pubblico per arricchiere il privato. Che dire?
La versione ufficiale è difficile da digerire. Anche perché a
scoprire la moltiplicazione dei piatti e dei lenzuoli non sono stati
gli organismi di controllo della Asl o quelli della Regione, ma la
commissione d'inchiesta del Senato. Nessuno si era accorto dei 5
milioni e 700 mila euro, forse perché sono una cifra infima rispetto
al deficit mostruoso della sanità laziale, nato con le giunte di
destra guidate da Francesco Storace e sopravvissuto ai piani di
rientro evocati dal centrosinistra di Piero Marrazzo: 1.880 milioni
nel 2006, un miliardo nel 2007 mentre per il 2008 si spera di
contenerlo in mezzo miliardo di euro. Cosa volete che siano 5,7
milioni di euro rispetto a questa voragine?
5 febbraio
La guerra non va
in crisi
La crisi di governo non compromette il rifinanziamento della
missione in Afghanistan. Anzi
Venerdì 25 gennaio,
all’indomani della caduta del governo Prodi, il Consiglio
dei Ministri approvava il decreto legge di rifinanziamento
in blocco di tutte le missioni militari italiane all’estero,
compresa la missione
di guerra in Afghanistan (350 milioni di euro fino a
fine anno).
Essendo ormai venuto meno ogni
vincolo di coalizione, i quattro ministri di sinistra,
Alessandro Bianchi (Pdci), Paolo Ferrero (Prc), Fabio Mussi
(Sd) e Alfonso Pecoraro Scanio (Verdi) non hanno partecipato
alla votazione.
Voto
in Parlamento entro fine marzo.
Il decreto, automaticamente entrato in vigore con la
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, deve però
essere convertito in legge dal Parlamento entro la fine di
marzo, pena il suo decadimento retroattivo.
La Sinistra Arcobaleno
(Rifondazione, Comunisti Italiani, Verdi e Sinistra
Democratica) annuncia battaglia, chiedendo il cosiddetto ‘spacchettamento’,
ovvero la possibilità di stralciare la missione afgana dal
decreto, così da poterla discutere e votare separatamente
dalle altre missioni (Libano, Kosovo, Iraq, Sudan e
Somalia). Un voto che, da parte della sinistra, si
preannuncia negativo per lo stesso motivo di cui sopra (la
fine del vincolo di coalizione), ma che sarà del tutto
simbolico, visto che non comprometterà l’approvazione del
decreto, destinato a ricevere i voti favorevoli di tutti gli
altri partiti, dal Partito Democratico alla Fiamma
Tricolore.
La
sinistra annuncia voto contrario.
“Ritengo che i gruppi parlamentari di
Rifondazione comunista e dell’intera Sinistra Arcobaleno non
voteranno a favore del rifinanziamento delle missioni
militari all’estero”, ha dichiarato nei giorni scorsi il
ministro Paolo Ferrero. “Chiederemo di discutere missione
per missione”.
“Il Pdci voterà contro il
rinnovo della missione militare in Afghanistan”, ha detto
Jacopo Venier, il responsabile Esteri del partito di
Diliberto. E ha aggiunto: “La caduta del governo Prodi ci
impone oggi di manifestare anche con il voto in Parlamento
la nostra contrarietà di fondo al coinvolgimento dell'Italia
nel conflitto in Afghanistan: non c’è più alcuna garanzia
che in futuro le nostre truppe conservino i limiti
territoriali e di ingaggio che il governo Prodi ha
garantito”.
Anche la Sinistra Democratica
di Fabio Mussi e Cesare Salvi annuncia il suo voto contrario
per bocca di Silvana Pisa: “Noi partecipiamo attivamente ai
combattimenti, contrariamente a quanto stabilito perché,
anche all’interno della missione Nato, non dovremmo essere
operativi negli attacchi. Per questo siamo indisponibili a
votare un disegno di legge che rifinanzi tutte le missioni”.
Nessuna risposta
all’interrogazione parlamentare. Il 16 gennaio, i
senatori di Rifondazione Lidia Menapace, Francesco Martone e
José Luiz Del Roio avevano presenta to
al ministro della Difesa Arturo Parisi un’interrogazione
parlamentare a risposta scritta dal titolo
“Afghanistan, Peacereporter, italiani in missione di
guerra?”. La richiesta ufficiale di spiegazioni
sull’impiego bellico delle nostre forze speciali in
Afghanistan, firmata da altri ventinove senatori della
Repubblica, non ha ancora ricevuto risposta.
Nel periodo tra il 1995 e il 2004
riduzione del 25,4 per cento. Nel resto d'Europa
flessione di quasi il 30%. 200 mila infortuni non denunciati
Morti bianche, primato
scandalo
siamo il Paese con più incidenti
Il Rapporto dell'Anmil: oltre mille vittime l'anno
"Effetto perverso legato al modello di produzione".
ROMA -
Resta all'Italia il non invidiabile primato delle vittime sul lavoro in
Europa. Nel nostro paese il numero delle "morti bianche", seppure in
calo rispetto agli anni scorsi, è infatti diminuito meno che nel resto
d'Europa. Negli ultimi dieci anni, nel periodo compreso tra il 1995 e il
2004, da noi il calo registrato è stato pari al 25,49 per cento mentre
nella media europea la flessione è stata pari al 29,41 per cento.
La riduzione è stata ancora più accentuata in Germania, dove il numero
di vittime si è quasi dimezzato (-48,3 per cento), e in Spagna dove si è
registrato un decremento del 33,64 per cento. Sono questi alcuni dei
risultati resi noti nel secondo rapporto sulla ''Tutela e condizione
delle vittime del lavoro tra leggi inapliccate e diritti negati''
presentato dall'Anmil, Associazione nazionale mutilati e invalidi del
lavoro, al Capo dello Stato Giorgio Napolitano.
Nelle cifre ufficiali, seppure meno allarmanti di quelle relative alle
vittime, non sono compresi gli incidenti che non vengono denunciati da
chi è impiegato nell'ambito del lavoro nero dove, secondo l'Inail, si
verificherebbero almeno 200 mila casi.
Nel complesso gli incidenti sul lavoro sono circa un milione l'anno e i
morti più di mille. In Germania nel 1995 le vittime erano state 1500,
duecento più di quelle italiane. Oggi sono scese a 804 unità, un numero
ben inferiore al nostro. Questi numeri, dicono dall'Amnil, mostrano come
non si tratti di un fenomeno occasionale e relegato a situazioni
straordinarie ma piuttosto "un effetto perverso che sembra profondamente
innervato nel modo di produzione".
L'indennizzo ridotto
Al danno sembrerebbe aggiungersi anche la beffa. La riforma realizzata
con il decreto legislativo 38/2000 che ha introdotto, in via
sperimentale, la copertura del danno biologico, di fatto, dicono dall'Anmil,
ha comportato un "netto ridimensionamento del livello delle prestazioni
in rendita se non addirittura la trasformazione dell'indennizzo da
rendita, a capitale liquidato una tantum".
Se un lavoratore infortunato che perde un piede ha una moglie e un
figlio a carico e una retribuzione media, si ritrova oggi a percepire
dall'Inail il 13,39% di rendita in meno (ovvero 963 euro l'anno) ripetto
a quanto previsto del regime precedente al Decreto 38/2000. La perdita
in termini di risarcimento in sede civile sarebbe poi pari a circa 45
mila euro.
Passi troppo timidi
La rinnovata consapevolezza della gravità del fenomeno, cresciuta anche
in ragione dei numerosi interventi del Presidente della Repubblica sul
tema, sembra non essere riuscita a produrre ancora una significativa
inversione di tendenza. Gli autori del rapporto sottolineano come a
cinque mesi dall'entrata in vigore della legge 123/07, che ha stabilito
nuove norme in materia di sicurezza sul lavoro, i coordinamenti
provinciali delle attività ispettive stanno appena muovendo i primi
passi mentre il personale impegnato nella prevenzione infortuni, al
ritmo attuale, impiegherebbe 23 anni a controllare tutte le aziende. L'Anmil
inoltre sottolinea anche come si intervenga quasi sempre a cose fatte e
molto raramente a livello di prevenzione.
Le cose da fare
Tra i rimedi necessari indicati dall'Anmil ci sono un maggiore
investimento sulle attività di prevenzione e controllo, l'introduzione
di sanzioni adeguate alla gravità ed alle conseguenze dei comportamenti,
l'organizzazione di un apparato amministrativo e giudiziario che
assicuri l'applicazione certa e rapida delle sanzioni e la promozinoe di
iniziative informative, formative e culturali che
sviluppino nel medio-lungo periodo una maggiore attenzione alla
prevenzione.
Cessate il fuoco
Il bollettino settimanale delle
guerre e dei conflitti in corso n. 04 - 2008 dal 24/01/2008 al
30/01/2008
Questa settimana, in tutti i Paesi in guerra, sono morte almeno 876
persone
Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno 259 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 870
Iraq
Questa settimana sono morte almeno 229 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 1212
Pakistan talebani
Questa settimana sono morte almeno 196 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 698
Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 30 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 222
Somalia
Questa settimana sono morte almeno 23 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 88
Sudan (Darfur)
Questa settimana sono morte almeno 21 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 60
Nord Caucaso
Questa settimana sono morte almeno 18 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 58
Thailandia del Sud
Questa settimana sono morte almeno 16 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 50
Algeria
Questa settimana sono morte almeno 14 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 30
Israele e Palestina
Questa settimana sono morte almeno 10 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 66
R.D.Congo
Questa settimana sono morte almeno 10 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 57
Colombia
Questa settimana sono morte almeno 10 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 34
Filippine Npa
Questa settimana sono morte almeno 10 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 15
India Nordest
Questa settimana sono morte almeno 7 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 80
India Kashmir
Questa settimana sono morte almeno 6 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 53
India Naxaliti
Questa settimana sono morte almeno 5 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 54
Filippine Abusayyaf
Questa settimana sono morte almeno 5 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 23
Nepal
Questa settimana sono morte almeno 4 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno sei
Pakistan Balucistan
Questa settimana sono morte almeno 2 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 9
Bangladesh comunisti
Questa settimana è morta almeno una persona
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno tre
Battaglione Rommel
Le immagini di un mezzo corazzato dell'esercito
italiano colpito da una mina nel deserto dell'Afghanistan svelano un particolare
inquieta
nte: i nostri soldati vanno in missione con
la palma dell’Afrika Korps hitleriano dipinta sulle jeep
In Afghanistan sognando El
Alamein. Perché sembra proprio che i commandos delle forze
speciali italiane vadano in missione con la palma dell'Afrika Korps
dipinta sulle jeep. Sì, il simbolo inconfondibile dei
reparti di Rommel che portarono la bandiera hitleriana alle porte
del Cairo. E poi si ritirarono mollando proprio i parà italiani a
coprirgli le spalle. Ora alcune foto di un attentato talebano contro
le forze Nato hanno fatto nascere il giallo. Le immagini
riguardano una jeep corazzata italiana e un blindato spagnolo
colpiti da mine nel deserto afghano verso il confine iraniano. Sono
foto sfuggite alla censura del nostro Stato maggiore,
finendo sui siti web di Madrid e da lì nel forum di "Pagine di
Difesa", la più attenta rivista telematica del settore. La buona
notizia è che il veicolo blindato dell'Esercito, una delle nuove
jeep speciali Iveco Vtlm, ha funzionato, salvando la vita
dell'equipaggio. Il mezzo, progettato proprio per sopravvivere agli
agguanti con ordigni nascosti nel terreno, sta venendo adottato da
molte nazioni.
La cattiva notizia è quella palma dipinta sulla fiancata,
che riproduce esattamente il simbolo dell'Afrika Korps: è stata
omessa solo la svastica. Un'iniziativa di pessimo gusto:
estanea alla tradizione militare italiana, ma soprattutto lontana da
quei principi democratici che dovrebbero ispirare le missioni
all'estero. Gli scatti non permettono di identificare a quale
reparto appartenga il veicolo coinvolto nell'attentato: nella zona
operano squadre di parà del Col Moschin e di incursori di marina del
Comsubin. Nell'autunno 2006 i soldati tedeschi in servizio in
Afghanistan vennero fotografati con un simbolo praticamente identico
dipinto sulle loro jeep. Le immagini pubblicate sul settimale Stern
spinse il ministero della Difesa ad aprire un'inchiesta e sospendere
dal servizio sei militari.
La nemesi storica del
Cavaliere
di
GIOVANNI VALENTINI
SARA' una coincidenza o magari una nemesi storica, per dire una vendetta
ordita da un destino beffardo. Ma la decisione della Corte di Giustizia
europea arriva nel momento in cui Silvio Berlusconi si accinge a raccogliere
i frutti dell'opposizione e a ritornare verosimilmente al governo.
Per un tycoon televisivo che in questi ultimi quindici anni s'è reincarnato
prodigiosamente in un leader politico, può essere un colpo o un colpo di
fortuna. Un colpo, perché il verdetto europeo rappresenta un intralcio sulla
strada per palazzo Chigi; un colpo di fortuna, perché dalle stanze del
potere quell'intralcio si può rimuovere o comunque aggirare più agevolmente.
Proprio com'è accaduto ieri retroattivamente per il caso Sme, dove
Berlusconi è stato assolto per il semplice motivo che il suo precedente
governo aveva provveduto ad abolire il reato di falso in bilancio.
Con buona pace di tutti i pontieri, dunque, la "questione televisiva" torna
prepotentemente all'ordine del giorno, come una maledizione biblica, un
incubo, un'ipoteca sulla vita politica nazionale. E questa volta, non c'è un
complotto delle "toghe rosse" da denunciare, una macchinazione o una
persecuzione giudiziaria, ai danni del Cavaliere e della sua azienda. C'è
una sentenza emessa dalla Corte del Lussemburgo che convalida le riserve già
espresse dal nostro Consiglio di Stato e impone all'Italia di correggere
l'assetto della tv.
Sono passati ormai dieci anni da quando "Europa 7", l'emittente-fantasma che
fa capo all'imprenditore Francesco Di Stefano, ottenne formalmente una
concessione nazionale senza mai ricevere tuttavia le frequenze per
trasmettere. Un'ingiustizia o un sopruso da imputare anche ai governi di
centrosinistra che nel frattempo si sono alternati a quelli di centrodestra.
Ora quelle frequenze,
indebitamente occupate da Retequattro in virtù di autorizzazioni compiacenti
rilasciate "in via transitoria", dovranno essere assegnate al legittimo
titolare: altrimenti, l'Italia rischia di essere condannata a pagare una
maxi-multa che può arrivare fino a 400 mila euro al giorno.
Non è certamente un viatico né tantomeno un buon auspicio per il futuro
Berlusconi III. Entrato in politica per difendere le sue reti televisive,
adesso il Cavaliere deve riprendere a tutti i costi il governo per cercare
di conservarne l'integrità. Forse riuscirà anche a sottoscrivere le "larghe
intese" per fare le riforme bipartisan, ma difficilmente accetterà quella
televisiva che ormai reclama anche la Corte di Giustizia europea.
Paghe da fame, nessuna tutela, povertà estrema e condizioni
sanitarie inaccettabili
La denuncia dell'organizzazione sui lavoratori stranieri: "Nessun
progresso dal 2004"
Immigrati
stagionali al Sud
Il rapporto MSF:
"Vita di inferno"
di ALESSIA MANFREDI

Condizioni di
lavoro estreme, senza alcuna tutela. Giornate infinite che iniziano
quando è ancora notte e finiscono in luoghi squallidi, in condizioni
igieniche più che precarie. Assistenza medica inesistente, paghe da
fame. Una vita da paria, socialmente nulla. E se si prova a
protestare, botte. Punizioni esemplari, per educare anche gli altri.
Un inferno, insomma: è così, senza troppi giri di parole, che
Medici
Senza Frontiere definisce la condizione degli immigrati
stagionali che lavorano nel sud Italia nell'agricoltura.
Un'inchiesta
di Fabrizio Gatti per l'Espresso aveva già portato alla luce
questo inferno, svelandolo in tutti i suoi dettagli. Oggi il
rapporto presentato dalla missione italiana dell'organizzazione
umanitaria internazionale di soccorso medico dà un quadro
altrettando oscuro, disperante, in cui rispetto
all'indagine-denuncia analoga di quattro anni fa, non è cambiato
quasi nulla.
Da luglio a novembre, un'équipe itinerante di MSF ha condotto
un'analisi sulle condizioni di salute, di vita e di lavoro degli
stranieri impiegati come stagionali per la raccolta della frutta e
della verdura nelle regioni meridionali. Seicento questionari
compilati per realtà diverse, ma sempre uguali: dalla piana del Sele
al Foggiano, dalla Valle del Belice alla piana di Gioia Tauro.
La fotografia che emerge è di totale sfruttamento: il 90 per cento
del campione intervistato non ha un contratto di lavoro e quindi
nessuna tutela giuridica per retribuzione, infortuni o previdenza.
Lavora in media quattro giorni a settimana per otto-dieci ore al
giorno. La metà guadagna tra i 26 e i 40 euro al giorno, ma un terzo
25 euro o anche meno. Il che significa, ad esempio nel foggiano, che
la paga per raccogliere un cassone di pomodori da 350 chili è di
quattro-sei euro, cui va tolta poi la "tara" di tre-cinque euro
giornalieri destinati ai caporali.
Si accetta per non
morire di fame, perché alternative non ne esistono. E se una spinta
viene dalla speranza di mandare soldi alla famiglia rimasta nel
proprio paese d'origine - soprattutto Africa subsahariana, Maghreb,
Sud-Est Asiatico, Bulgaria e Romania - il sogno si infrange per il
38 per cento degli intervistati, che non riesce a mettere da parte
neppure un euro. "Una situazione drammatica e vergognosa per uno
stato di diritto e membro dell'Unione Europea, su cui il silenzio è
assordante" commenta Antonio Virgilio, responsabile dei progetti
italiani di Medici Senza Frontiere.
Questo esercito silenzioso di schiavi - il 97 per cento sono uomini
e hanno tra i 20 e i 40 anni, rarissime le donne - si muove
nell'ombra. Il 72 per cento non ha permesso di soggiorno, vive ai
margini e in maggioranza si sposta seguendo le stagioni della
raccolta. Finita la giornata, la sera si rifugia in squallidi
tuguri, soprattutto strutture abbandonate, il 5 per cento
addirittura per strada. Il 62 per cento delle sistemazioni non ha
servizi igienici, nel 64 per cento manca l'acqua. La quasi totalità
non ha riscaldamento. Non solo. Sono sempre più frequenti gli
episodi di intolleranza e violenza, denunciati dal 16 per cento
degli intervistati.
Gli stagionali fantasma arrivano in Italia in buone condizioni
fisiche ma in molti poi si ammalano: per il 72 per cento dei
lavoratori visitati da MSF è stato formulato un sospetto diagnostico
che poi nel 73 per cento dei casi è risultato in una malattia
cronica: patologie osteomuscolari, associate a movimenti ripetitivi
e al sollevamento di pesi (22 per cento), o malattie dermatologiche
(15 per cento) frequenti in condizioni di scarsa igiene,
sovraffollamento e nel lavoro in campagna, in cui si viene a
contatto con agenti irritanti e infettivi, che provocano allergie.
Poi ci sono le malattie respiratorie (13 per cento) e
gastroenteriche (12 per cento), comuni in condizioni di
sovraffollamento e di scarsa igiene. E poi carie, patologie del cavo
orale, malattie infettive.
Se è vero che la legge garantisce l'accesso alle cure per tutti gli
stranieri, regolari e irregolari, la maggioranza non lo sa: il 71
per cento non ha la tessera sanitaria e a distanza di due anni
dall'arrivo in Italia, il 59 per cento non ha neppure quella
provvisoria, la STP; e il 47 per cento degli immigrati regolari non
è iscritto al servizio sanitario nazionale.
Un panorama desolante, che molti ignorano e troppi fanno finta di
non vedere, denuncia MSF: dai sindaci alle forze dello stato, dalle
associazioni di categoria ai ministeri, agli ispettorati del lavoro,
che contribuiscono così a considerare la mostruosità come necessaria
per sostenere le economie locali. "Nonostante il cambiamento del
panorama politico e le reiterate promesse da parte delle istituzioni
nazionali e regionali, MSF non ha potuto riscontrare cambiamenti
sostanziali nelle inaccettabili condizioni degli stranieri
stagionali" si legge nelle conclusioni del rapporto.
"Non solo non è cambiato nulla" ammette Virgilio. "Le cose sono
addirittura peggiorate, come nel caso di Alcamo, in Sicilia, dove,
dopo anni di indifferenza sono stati finalmente allestiti centri di
accoglienza per gli immigrati, ma solo per quelli regolari, seguendo
così una logica di ulteriore discriminazione nella discriminazione,
sulla base dello status giuridico". Per MSF quello che serve sono
criteri minimi di accoglienza per gli stagionali, per far fronte
almeno alle emergenze primarie. Nel frattempo l'inferno continua.
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