Archivio Maggio 2007
29 maggio

Il canale Rctv era popolarissimo e
trasmetteva in Venezuela dal 1953. Il presidente Chavez lo
considerava troppo critico nei suoi confronti
Caracas, spenta
la tv dell'opposizione. Incidenti fra manifestanti e polizia
Idranti e sfollagente su chi
protestava contro la chiusura
CARACAS - Fine delle trasmissioni per
l'emittente televisiva privata Radio Caracas Television (Rctv) che,
tra accese proteste di piazza e incidenti, a mezzanotte (le 6 del
mattino italiane) è scomparsa dagli schermi venezuelani dopo 53
anni, sostituita dalla nuova Tv di servizio pubblico voluta dal
presidente Hugo Chavez, Televisione venezuelana sociale (TVes).
Ieri sera davanti alla sede della Commissione nazionale delle
telecomunicazioni (Conatel) a Caracas manifestanti scesi in piazza
per protestare contro la fine delle trasmissioni della Rctv si sono
scontrati con le forze della polizia metropolitana. Secondo la Tv "all
news" (di opposizione) Globovision, i dimostranti sono stati
attaccati "all'improvviso" dagli agenti che hanno usato idranti e
sfollagente. E l'agenzia Reuters riferisce anche di gas e proiettili
di gomma, sparati contro le decine di migliaia di manifestanti.
Diversa la versione fornita dalla Radio nazionale venezuelana (Rnv)
secondo la quale "manifestanti violenti hanno preso di mira il
cordone umano creato dalla polizia metropolitana obbligando la
stessa a far entrare in funzione i mezzi antisommossa. Dopo alcuni
minuti di forte tensione, è ritornata una calma tesa, mentre i media
parlano di undici agenti di polizia feriti, alcuni dei quali in modo
grave.
Molto diversa l'atmosfera fra i sostenitori del governo, che dal
Teatro Teresa Carreno di Caracas hanno festeggiato tutta la notte
per la nascita della nuova tv, TVes, presentata dalla sua
presidentessa Lil Rodriguez come una "emittente pubblica,
pluralista, educativa e partecipativa" con la dichiarata ambizione
di "cambiare la vita di tutti i venezuelani". La nuova televisione
ha inaugurato le trasmissioni con l'inno nazionale, Gloria al Bravo
Pueblo, interpretato dall'Orchestra sinfonica nazionale della
gioventù venezuelana diretta da Gustavo Dudamel.
Sollevando moltissime critiche a livello internazionale e numerose
proteste nazionali, Chavez aveva fatto sapere cinque mesi fa di non
voler rinnovare la concessione al canale televisivo Rctv e di
volerlo sostituire con un'emittente statale per promuovere i valori
della sua rivoluzione socialista: già nelle scorse settimane
moltissime persone erano scese in piazza - giornalisti, studenti ma
anche tanta gente comune - contro la chiusura della televisione,
invocando la libertà di stampa, che, secondo la Rctv "è stata
calpestata". Giudizio non condiviso dal governo, che appoggiandosi
alle leggi venezuelane e a sentenze del Tribunale supremo di
giustizia (Tsj), ha rivendicato la decisione come suo diritto per
orientare la politica informativa e culturale nazionale.
Rctv, un'emittente popolarissima - la sola a coprire tutto il
territorio venezuelano insieme a Vtv - andava in onda dal 1953, ed
era considerata troppo critica dal presidente, che la accusava anche
di aver simpatizzato con il colpo di stato che cinque anni fa
l'aveva spodestato per due giorni.
"Presto torneremo": così hanno salutato il pubblico i giornalisti e
il personale della Rctv, ieri, durante l'ultimo giorno di
programmazione. E Marcelo Granier, presidente della società 1BC che
controlla la Tv Rctv, ha mandato un messaggio ai venezuelani in cui
assicura che, nonostante la scomparsa del segnale dall'etere,
"continueremo a lottare con fermezza e convinzione per la libertà e
la democrazia".
"Con la chiusura di Rctv - ha detto ancora - i venezuelani vedono
confermati i propri timori: il governo vince ma non convince, la sua
sarà una vittoria di Pirro, perché perde più di quello che guadagna.
Perde il riconoscimento internazionale e perde il rispetto del
popolo".
L'alibi
dell'emergenza
di MICHELE SERRA
DALLA meditata abiura del sindaco
Chiamparino sull'antiproibizionismo al cosiddetto "giro di vite"
cofferatiano sulla difficile convivenza urbana a Bologna, nella
sinistra italiana è ben percepibile un nascente clima
anti-permissivo. Che trova ulteriore conferma nella dichiarazione di
intenti del ministro della Salute, Livia Turco, favorevole all'invio
dei carabinieri dei Nas nelle scuole per "attività ispettiva"
anti-droga. Il quadro politico e psicologico nel quale matura questo
genere di prese di posizione non è da prendere alla leggera.
L'impressione di una de-regulation civile è diffusa. L'idea che
l'antiautoritarismo quasi congenito in una classe dirigente
formatasi negli anni Sessanta (noi, insomma) abbia indebolito oltre
il lecito, nelle famiglie e nelle scuole, anche ogni necessario
principio di autorità, è tutt'altro che immotivata.
Se il problema è che in una società senza regole si vive male e si
cresce anche peggio, il problema c'è. Di pari passo, però, maturano
anche l'impressione, e il timore, che il ritardo e le omissioni
accumulati su questo terreno possano essere cattivi consiglieri. Che
l'ansia e il senso di colpa degli adulti possano generare un
interventismo potenzialmente maldestro.
I carabinieri nelle scuole, per quanto sorvegliata e cauta sia la
loro presenza, costituiscono pur sempre un'intrusione molto
drastica: il segnale che l'autorità scolastica non è più in grado di
riacciuffare per suo conto il bandolo della situazione. Cosa che
sarebbe tanto più grave in un'istituzione, la scuola, che ha nella
sua autonomia (anche regolamentare) il fondamento della sua
autorità: già assediata com'è, povera scuola, da genitori ansiosi e
da istanze politiche non sempre limpide.
L'esercizio dell'autorità, male o bene esercitato che sia, compete
ai presidi, agli insegnanti, al personale non docente, quei bidelli
che un tempo, perfino nella temperie della contestazione, spesso
aiutarono ad evitare il peggio. La disciplina, e perfino la tutela
della salute dei ragazzi, diventano un problema di ordine pubblico
(un problema extra-scolastico, dunque) solamente in casi estremi.
Nell'ordinaria amministrazione - quella che conta, quella che regola
e indirizza le tendenze sociali - di solito la cultura
dell'emergenza peggiora la situazione. Lo stesso ministro Turco, nel
dichiarare che "c'è un lavoro educativo da fare, è la cosa più
faticosa ma è fondamentale", mostra di sapere perfettamente che non
solo la scuola, ma neanche le stracitate famiglie, neanche la
società nel suo complesso, sono in grado di mettere le mani nel
disordine etico e comportamentale di molti ragazzi (non tutti) se
non partendo dalle proprie competenze e dalla propria impallidita
autorità. Dai propri comportamenti e dal proprio aplomb sociale: non
sempre, si sa, quello degli adulti è esemplare agli occhi dei più
giovani.
Ci sono sirene che suonano perché devono suonare, perché
un'emergenza è in atto. Ma sarebbe un bel guaio se il suono di una
sirena, o un lampeggiante dei carabinieri davanti a scuola,
servissero da alibi alle inadempienze di chi ha già il potere
quotidiano di sorvegliare, di intervenire, di educare, di aiutare.
E' la cosa più difficile, come dice il ministro Turco, ma è anche
l'unica che conta davvero, che incide, che cambia le cose. Per
questo servirebbe limitare le sirene alle sole vere emergenze, e
smetterla (raccomandazione che vale per la politica ma anche per i
media, forse soprattutto per i media) di trattare ogni fenomeno
sociale come una perenne "emergenza".
Le emergenze, tra l'altro, hanno il difetto, ormai conclamato, di
durare qualche settimana e poi svanire, lasciando il palcoscenico
alle emergenze di nuovo conio. E lasciando i problemi irrisolti. Se
tutto è un'emergenza, allora vuol dire che niente lo è: meglio,
dunque, caricare la soma della responsabilità quotidiana su chi
quotidianamente deve esercitarla: nella scuola, i presidi, gli
insegnanti, i bidelli.
Un carabiniere in ogni scuola e in ogni casa, oltre a essere un
lusso che neanche lo Stato più ricco del mondo potrebbe concedersi,
servirebbe forse a garantire più sicurezza. Ma scaricherebbe la
coscienza degli adulti dal compito di occuparsi dei ragazzi: di
essere noi i primi carabinieri, le prime autorità sanitarie e
etiche, senza divisa e senza potere di arresto, ma favoriti da una
prossimità, e da un amore, che troppo spesso dimentichiamo di avere,
dimentichiamo di usare.
Il Vajont
tradito
La solitudine dei parenti delle
vittime a 40 anni di distanza. E uno Stato che non ha mai chiesto
scusa
Scritto da Lucia Vastano
Una
storia italiana. C’è un Vajont che non riguarda la spaventosa
notte di 40 anni fa. E nemmeno l’avidità umana, l’imperizia, la
criminale leggerezza con la quale vennero ignorati gli
inequivocabili avvertimenti lanciati per anni dalla natura
violentata dagli uomini. E’ il Vajont del “dopo”. Dopo che dal Monte
Toc si staccò la gigantesca frana che scavalcò la diga. Dopo che
l’onda rubò la vita a 1910 esseri umani. Dopo che tutto quello che
poteva essere fatto per evitare la strage non fu fatto. E’ la storia
di come lo Stato si comportò con i superstiti. E’ la storia di come
si riuscì a fare un business anche della disgrazia, di come in nome
del Vajont venne pianificato lo sviluppo industriale di tutto il
Triveneto, di come si fecero leggi per elargire miliardi ad aziende
e privati che non avevano perso nulla nella disgrazia. Di come
invece si trovarono cavilli legali per liquidare con quattro soldi
chi aveva perso tutto, casa, affetti e persino ricordi. E’ la storia
di come gli stessi meccanismi che avevano portato alla tragedia si
riproposero nel dopo, umiliando i deboli e le vittime, favorendo
chi, non avendo morti da piangere, poteva farsi avanti per reclamare
la sua fetta di torta. Il dopo Vajont è una storia italiana
esemplare, non a caso ignorata dai media. “E’ stato ancora peggio
della tragedia” si sfogano da anni molti superstiti.
L'onda lunga. E’ questo il Vajont che ho voluto raccontare nel mio
libro “Vajont- L’onda lunga. 1963-2003 quarant’anni di violenze e
scandali”. Un libro che parla di una verità scomoda che è anche la
metafora di quello che avviene, sempre, dopo che le tragedie hanno
finito di occupare le prime pagine dei giornali: le vittime vengono
lasciate sole a combattere per una giustizia che riguarderebbe noi
tutti. E così gli “scaltri” si possono fare avanti e approfittarsi e
cibarsi delle loro disgrazie per i propri profitti. Ma cos’è una
democrazia senza vicinanza, sorveglianza, giustizia? Diceva
Toqueville che quando un dittatore è corrotto è sufficiente
sostituirlo, ma quando è una democrazia ad avere un leader corrotto
è tutta da cambiare.
Preservare la memoria. Da un paio di anni come “Cittadini per
la memoria” un gruppetto di superstiti e sopravvissuti ed io stiamo
raccogliendo le firme per ottenere qualcosa di molto semplice e
doveroso: che lo Stato italiano, l’Enel, la Montedison (i tre
responsabili riconosciuti della tragedia del Vajont) presentino le
loro scuse formali ai familiari delle vittime e a tutti i cittadini
italiani per quello che avvenne quella notte . Il 31 di maggio
partirà la staffetta che il gruppo podistico del Dopo Lavoro
Ferroviario di Udine ha organizzato per noi per portare le decine di
migliaia di firme raccolte (tra cui anche quelle di Paolini,
Martinelli, Don Ciotti, numerosi parlamentari e associazioni) dalla
diga fino al Quirinale dopo aver percorso circa 800 chilometri.
Siamo ancora in attesa di sapere se il presidente Giorgio Napolitano
accetterà di incontrarci per accogliere nelle sue mani le nostre
richieste. Sarebbe un peccato se il capo dello Stato non capisse che
il 9 ottobre 1963 è una pagina esemplare della storia italiana e che
è fondamentale preservare la memoria di quello che avvenne anche con
un piccolo doveroso atto di umiltà: chiedere scusa.
Anni di vergogna. Nessuno tra chi ha perso la casa, i
parenti, gli amici, e anche tutti i riferimenti che normalmente
fanno delle persone una comunità (la scuola, il bar, la posta,la
chiesa) si è mai sentito dire quella parola. Gli anni dopo la
tragedia sono invece stati per quasi tutti i superstiti anni di
vergogna, umiliazione, soprusi, come se essere stati vittime una
volta non bastasse e loro toccasse scontare la colpa di essere
sopravvissuti. “Chissà quanti soldi avete preso per i vostri morti”,
si sono sentiti ripetere più volte, anche quelli che per andare
avanti hanno sempre dovuto lavorare sodo, magari emigrare in
Germania o in Canada. Quella gente che “non è stata aiutata nemmeno
con una parola di conforto” e che si è pagata tutto, fino all’ultima
lira, anche le pillole per dormire senza rivedere come in un incubo
i corpi dei genitori appena recuperati straziati dal fango.
L'indifferenza dei politici. Ogni volta che torno lassù mi
capita di capire qualcosa di nuovo sulla politica e sui politici.
Per un sindaco, un assessore, un onorevole o un senatore c’è sempre
qualcosa di più importante da seguire o da fare che stare vicino
alle vittime. Di qualsiasi tragedia si tratti, anche quelle di là da
venire, che si potrebbero evitare lasciando da parte soltanto un po’
dell’indifferenza verso gli umili. Delle vittime ci si ricorda però
sempre quando si devono cercare soldi e si avvia un’associazione o
una fondazione per “preservare la memoria”. Ma quale memoria? Perché
quella di alcuni e non di altri? Perché la memoria, quasi sempre,
deve dividere e non unire le storie più disparate che si possono
raccogliere? Perché la memoria deve sempre stare al servizio di
qualcosa o di qualcuno?
In nome del progresso. Forse è proprio vero che la politica
non si può capirla abitando a Roma o a Milano, ma solo in piccoli
centri dove il sindaco deve cambiare lato della strada quando
incontra quel cittadino a cui aveva promesso di riparare una buca
del marciapiedi, o quegli altri a cui aveva assicurato che avrebbe
fatto grandi cose con i soldi raccolti con le tasse o con un
finanziamento ottenuto dallo Stato e invece poi non è successo
niente, anche se i soldi sono già finiti. Le tragedie si ripropongo
quotidianamente all’ombra della diga. Nelle valli ai piedi del fiume
Vajont, non più minacciate dall’acqua, imbrigliata da innumerevoli
dighe, vi è la più alta incidenza di tumori e leucemie d’Italia. C’è
gente che, come quando venne eretta la diga, muore di progresso e di
benessere per i fumi delle fabbriche o per i rifiuti tossici
smaltiti illegalmente. Al “progresso” e al “benessere”, come a un
caval donato, non si deve mai “guardare in bocca”, neanche quando a
morire sono i più giovani che, con un’incidenza fuori dalla norma
che nessun esperto riesce o vuole spiegare, si buttano giù dai ponti
o inghiottono sonniferi. In nome del progresso, non si devono fare
domande. Il Vajont non ha insegnato nulla. Ed è forse proprio questo
che brucia di più a chi vuole conservare la vera memoria di quella
notte.
Non lasciateli soli. Mi ritornano ancora alla mente le parole
che mi disse Cencio Teza, sette familiari persi la notte del 1963,
la prima volta che lo incontrai, poco dopo che tornai da Kabul
“liberata” dai terroristi talebani: “Non occorre mica che vai in
Afghanistan per capire come gira il mondo. Basta che vieni qui a
Longarone”.
Il 4 giugno i “Cittadini per la
memoria del Vajont” arriveranno a Roma. Non lasciateci soli.
Il sogno del
lustrascarpe
Un viaggio per La Paz, attraverso
gli occhi di un lustrascarpe
dal nostro inviato Alessandro Grandi
“Ehi amico ti lucido le scarpe che
sono impolverate?” Con estrema gentilezza, e ostinazione, Luis, 17
anni, chiede a tutti i passanti della via principale del centro di
La Paz, me compreso, di farsi pulire le scarpe. E in questo modo
contribuire al suo sostentamento.
Di lustrascarpe ce ne sono tanti per le vie della città boliviana,
sia in centro sia nei quartieri periferici e tutti, o quasi, hanno
il volto coperto da un passamontagna di lana, in stile zapatista.
Luis indossa una tuta da operaio blu, come quelle che si vedono
addosso ai nostri meccanici, e un paio di scarpe da ginnastica nuove
di zecca.
Fanno
paura a prima vista. Ma sono innocui, anche se un po’ petulanti.
Mentre, con la sua piccola cassetta di legno piena di arnesi da
lavoro si appresta a pulire le mie scarpe sporche, Luis racconta il
perché del suo viso coperto. “Mi copro il volto perché non voglio
che la gente mi riconosca. Ho molti amici e amiche qui in città e mi
vergogno. Sono povero e questo lavoro, anche se umile, mi aiuta a
sopravvivere e a portare soldi a casa. Lo faccio soprattutto perché
mi devo pagare gli studi”.
Luis, i cui occhi neri come la pece fanno risplendere questo volto
senza volto, è arrabbiato con la società, con il mondo: “Ci vorrebbe
un cambio radicale, netto, nella società boliviana" dice. "Il
presidente Evo Morales sta lavorando per aiutare la popolazione che
da decenni subisce soprusi, ma i risultati si devono ancora vedere.
Ci vorrà molto tempo e per questo io mi devo adattare.
Effettivamente, però, per quanto riguarda i finanziamenti alle
scuole e alle università, il lavoro del presidente s’inizia a vedere
e sono notevolmente aumentati”.
Straccetto usurato in mano, Luis estrae dalla cassettina di legno il
lucido da scarpe per ogni tipo di calzature e inizia il suo lavoro
con un’abilità magistrale. Prima fa appoggiare il piede destro alla
cassettina, poi quello sinistro. Abbracciato dal vento gelido che
spazza La Paz, seduto sugli scalini della chiesa di San Francesco,
Luis è un fiume in piena e nei suoi discorsi sembra più grande dei
17 anni che dice di avere. “Faccio questo mestiere da quando ho nove
anni. Mi vergogno di pulire le scarpe dei paceni (gli abitanti di La
Paz, ndr.). Che cosa credi, che mi faccia piacere? Questo per me è
uno dei modi più veloci e semplici per guadagnare denaro. Devo anche
portare soldi a casa. Io vivo a El Alto (sobborgo superaffollato da
immigrati poco distante da La Paz) e tutti i giorni vengo in città
alle sei della mattina. Lavoro in pratica tutto il giorno e nel
tardo pomeriggio vado a scuola, dove frequento un corso serale. Il
mio sogno è diventare un grande atleta. Corro molto bene e molto
veloce. Spero un giorno di riuscire nel mio intento. Nel frattempo
devo fare questo lavoro perché a El Alto non saprei cosa fare”. Le
parole di Luis soffiano ininterrotte come il vento gelido. Da sotto
il passamontagna si vede che sta masticando foglie di coca. Lo fanno
praticamente tutti in Bolivia. Serve a far dimenticare la fame e la
fatica: “Ho sette fratelli e due sorelline piccole. Mio padre è
morto quando avevo 10 anni. E’ stato lui a insegnarmi questo lavoro.
Mia madre vende frutta nei mercati di El Alto e fa una fatica
mostruosa a mandare avanti la famiglia da sola. E’ anche per questo
che faccio questo lavoro. Ma come ti dicevo vorrei che tutto questo
un giorno finisse e che le cose possano cambiare”.
Dopo aver pagato 5 bolivianos (poco meno di un euro) per la perfetta
pulizia delle mie calzature, si avvicina a noi un altro ragazzo.
Subito si nota che è più grande di Luis e il suo atteggiamento non è
affatto amichevole e nemmeno rassicurante. Ha gli occhi rossi,
probabilmente ha bevuto superalcolici o ha fumato qualche sostanza
stupefacente. Immancabile si intravede dal passamontagna il boccone
di foglie di coca che gli rigonfia la bocca. Questo ragazzo, fra i
25 e i 30 anni, sembra che abbia ascoltato (non si capisce da dove)
la nostra discussione, e interviene deciso, minaccioso. “Ehi yankee,
se vuoi sapere come si svolge la nostra vita, cosa facciamo dalla
mattina alla sera, devi pagare. Non ti bastano certo i 5 bolivianos
che hai pagato. Quelli sono validi solo per il lavoro che ha fatto
il mio compañero. Noi non siamo gli schiavi di voi yankee e tanto
meno figure folkloristiche della città”. L’aria si surriscalda. Il
ragazzo inizia a alzare la voce richiamando l’attenzione della
polizia turistica che pattuglia le strade affinché i visitatori
stranieri di questa splendida città vivano tranquillamente. Ma
finisce tutto subito grazie a Luis che interviene in mio soccorso.
Alza la voce anche lui e spiega che io non sono statunitense e non
ho fatto nulla di strano. Sembra che inizino a litigare. In questi
momenti di tensione non parlano in spagnolo. Forse si stanno
spiegando in una delle lingue originali boliviane, quechua o aymara.
Immagino che Luis stia dicendo che non ho causato disturbo e danno.
“Ok gringo – insiste il ragazzo che non ne vuole sapere di dirmi
come si chiama - sei stato fortunato che lui è un mio amico”. Luis
mi saluta e mi ringrazia. I suoi gesti con le mani e lo sguardo
penetrante sembrano scusarsi per l’accaduto. Velocemente ripone
tutti i lucidi e gli straccetti nella ‘borsa da lavoro’ e se ne va
alla ricerca di un altro cliente.
Non so con certezza se tutto quello che mi ha raccontato corrisponde
alla realtà dei fatti o se me lo ha raccontato per impietosirmi e
guadagnare qualche boliviano in più. Di certo le sue mani sporche di
lucido da scarpe nero, che difficilmente si potranno lavare con una
doccia, mi fanno capire le difficoltà che incontrano quotidianamente
questi ragazzi. E non solo loro.
25 maggio
La denuncia di Flavio Bertoglio,
presidente dell'Associazione Mucopolisaccaridosi
"Il Bollettino regionale uscito a
marzo impone di spendere il2% in meno rispetto al 2006 del File F"
La Lombardia
taglia i farmaci salvavita. A rischio le categorie di malati
"speciali"
Se le Asl superano la soglia, non
vengono rimborsate dalla Regione
L'interrogazione dei Verdi: "Quella
del Pirellone è una decisione incredibile e inaccettabile"
di CLAUDIA FUSANI
ROMA - Si chiama File F. E' una voce
della spesa sanitaria, molto particolare e delicata. Lo conoscono in
pochi ma quei pochi significa che hanno qualcuno in famiglia che o
prende determinati farmaci o rischia di morire.
Succede che taglia di qui, taglia di là, nella spesa sanitaria
qualcuno - la Regione Lombardia - è andato a mettere mano -
inconsapevolmente o meno - proprio nel File F. E in nome del
"contenimento della spesa farmaceutica ospedaliera" ha deciso un
taglio del due per cento rispetto al 2006 del budget fissato per il
File F. Un due per cento, si dirà, è poca cosa. O quasi.
Secondo il dottor Flavio Bertoglio, presidente dell'Associazione
italiana Mucopolisaccaridosi, questo piccolo taglio "comporta il
rischio che nei prossimi mesi nuovi bambini a cui viene
diagnosticata questa malattia genetica non potranno entrare in cura
e sono destinati a morire". Il dottor Bertoglio parla "solo" della
mucopolisaccaridosi. Mentre il File F riguarda tutti i salvavita che
curano, per fare un esempio, dall'epatite all'Aids, dai tumori alle
malattie cardiache, dall'epilessia al diabete. Insomma, quel taglio
del due per cento, potrebbe, secondo Bertoglio "avere conseguenze
drammatiche specie se il provvedimento deciso dalla Lombardia
diventa, come spesso succede, un testo pilota adottato in fotocopia
anche da altre Regioni magari più piccole".
Probabilmente tutto è avvenuto per disattenzione. Senz'altro non c'è
stata consapevolezza delle reali conseguenze. "Quando ho chiesto
spiegazioni in Regione non mi hanno saputo rispondere, sono stati
vaghi" racconta Bertoglio. La situazione non cambia con il ministero
della Sanità a cui anche Repubblica.it ha sottoposto la questione
senza avere, per ora, risposta.
Questi i fatti. La legge Finanziaria del 2007, approvata il 27
dicembre 2006 al comma 796 prevede il Piano di contenimento della
spesa farmaceutica. Ogni regione, poi, nell'esercizio autonomo del
proprio piano finanziario, ha deciso come realizzare i tagli della
spesa sanitaria. Il Bollettino ufficiale della Regione Lombardia
viene pubblicato il 12 marzo 2007. Alle pp. 761 e 762, nell'allegato
numero 1, si trova il capitoletto "Farmaci a somministrazione
diretta opsedaliera (File F)". L'italiano è, come spesso in questi
documenti, assai contorto. Sembra fatto apposta per non essere
compreso e far girare la testa.
"Si conferma quando disposto in allegato 6 alla dgr n.8/3776 del 13
dicembre 2006 relativamente alla spesa per i farmaci a
somministrazione diretta ospedaliera (File F): nei limiti della
complessiva compatibilità di sistema si conferma che la spesa per
tali farmaci possa crescere a livello regionale fino ad un massimo
del 3 per cento rispetto alla spesa sostenuta nel 2006". Fin qui
sembrerebbe dunque che sia garantito un aumento della spesa per
questo tipo di farmaci pari al 3 per cento.
Ma bisogna continuare a leggere. E a "tradurre". "Ai fini del
mantenimento dell'equilibrio di sistema si definiscono, al fine del
rimborso ai soggetti erogatori, le seguenti soglie di regressione
tariffaria (leggi mancato rimborso ndr). Fino ad un valore di
produzione di File F (leggi consumo dei farmaci salvavita ndr) pari
al 98% rispetto al valore del 2006, non si applica la regressione;
se il valore di produzione è compreso tra il 98 e il 103% rispetto
al valore del 2006, si applica la regressione massima del 30%; se il
valore di produzione è compreso tra il 104 e il 110%, si applica la
regressione massima del 45 %".
Ora, a parte - come si diceva - l'italiano e la costruzione logica
che sembra fatta apposta per non essere capita - il senso di tutto
ciò è molto semplice. Se la Asl consuma il 98%, cioè il 2% in meno
rispetto al 2006, dei farmaci del File F, avrà tutto il rimborso.
Altrimenti, i soldi rimborsati diminuiscono in proporzione alla
spesa.
"Anche noi dell'Associazione non ci volevamo credere e abbiamo
impiegato un po' di tempo per capire e renderci conto. Ci siamo
consultati con varie Asl e il senso della delibera regionale è
proprio questo: non solo bisogna spendere il due per cento in meno
ma, siccome la spesa del 2006 è già totalmente destinata ai malati
in cura, se nel 2007 qualcun altro entra in cura deve pagare i
medicinali salvavita di tasca sua. Alla Asl, come abbiamo visto, non
vengono rimborsati".
Finora non si è verificato ancora alcun caso. E' presto, il
Bollettino è stato pubblicato neppure tre mesi fa. Verso la metà
dell'anno ci potrebbero essere le prime situazioni di crisi.
Il dottor Bertoglio fa il "suo" esempio, suo figlio, 8 anni, la
mucopolidosaccaridosi diagnosticata quando ne aveva due e mezzo. "Da
allora la sua vita è andata all'indietro, era un bambino normale
oggi è sordomuto. Le medicine che prende hanno avuto l'effetto
fondamentale di congelare i progressi della malattia e di avere una
vita quasi normale. Ma se smette la cura, in poco tempo diventa un
vegetale". La cura costa 600 mila euro all'anno. "Finora li ha
pagati la Regione. E mio figlio, in cura da anni, non dovrebbe
essere penalizzato dalla nuova regola. Ma se un bambino deve entrare
in cura oggi? Chi copre la sua terapia?". Purtroppo la
mucopolidosaccaridosi è una malattia di recente scoperta e in
crescita. "Sono trecento le famiglie iscritte all'Associazione, ma
in Italia ce ne sono almeno altrettante".
La mucopolidosaccaridosi è l'assenza nell'organismo di un enzima
fondamentale, quello che comunemente viene chiamato "enzima
spazzino" preposto a fare pulizia dei residui tossici nel nostro
corpo. Quando non c'è l'organismo s'intossica e muore piano piano.
I consiglieri verdi della Regione Lombardia Carlo Monguzzi e
Marcello Saponaro hanno presentato subito un'interrogazione. "Questa
decisione è inaccettabile. E' vero che la Finanziaria chiede di
tagliare le spese sanitarie ma altri sono i modi. Non certo quello
di razionare le medicine a chi ne ha più bisogno".
«Italia
apprendista stregone in Kosovo»
«L'ostinazione a decretare la
perdita di sovranità della Serbia, nonostante la risoluzione 1244,
non trova riscontro in altra parte del mondo. Così si impone una
soluzione di forza, violenta come la guerra "umanitaria"». Parla il
generale Fabio Mini, ex comandante della Nato in Kosovo: «Si vuole
imporre una secessione. Non mi scandalizzo per la realpolitik.
Quello che mi dà fastidio è soltanto l'ipocrisia»
Tommaso Di Francesco
Si va a tappe forzate all'Onu, dopo
che la «mediazione» dell'incaricato Martti Ahtisaari è stata sospesa
dal Consiglio di sicurezza. Gira una bozza di risoluzione che
prevede unilateralmente l'indipendenza, seppur «internazionalmente
controllata per un certo periodo». E' scontro. Washington è pronta
al riconoscimento anche se il Consiglio di sicurezza fosse bloccato
da un veto russo. Di questo parliamo con il generale Fabio Mini, ex
comandante delle forze Nato in Kosovo. «Penso che quello di
Ahtisaari - ci dice - è un tentativo fallito. La responsabilità più
grave sta nell'averlo messo nelle condizioni di gestire un negoziato
a senso unico. Così raccoglie i frutti di una manovra non tesa a
risolvere il problema di tutte le etnie kosovare, ma della ricerca
di una rottura con la Serbia anche con il ricatto».
Non le sembra che l'Onu abbia svolto troppe e contrapposte parti
in commedia?
Qui le Nazioni Unite hanno dimostrato le dimensioni della crisi di
credibilità di cui soffrivano da tempo. Ricordo gli accordi di pace
di Kumanovo del 1999, e il fatto che la Risoluzione 1244 è stata
aprovata dopo quegli accordi raggiunti esclusivamente fra le parti
militari. Gli accordi hanno sancito due cose: 1) i serbi mantenevano
la sovranità su tutto il territorio nazionale e 2) le forze
internazionali sarebbero entrate sul territorio serbo, ma solo in
Kosovo, dopo il ritiro unilaterale delle forze militari,
paramilitari e di sicurezza serbe. Era un ritiro ovviamente poco
spontaneo, ma sostanza e forma di un accordo internazionale erano
state rispettate. Da quel momento l'Onu è stato sottoposto a
pressioni di ogni genere per smentire questa conferma di sovranità
della Serbia.
Ma esistono ora gli standard democratici, di salvaguardia delle
minoranze, dei diritti umani e religiosi in Kosovo?
Non solo non esistono standard democratici per le minoranze, ma
neppure standard umani. Sulla minoranza serba e su quelle che gli
albanesi considerano conniventi con i serbi soltanto perché parlano
serbo o dialetti vagamente slavi pesano pregiudizi e
criminalizzazioni ingiuste e false. Potrebbe sembrare paradossale,
ma la discriminazione e la mannaia della pulizia etnica si sono
scatenate proprio contro quei serbi e non serbi che ritenendo di non
aver fatto nulla di male sono rimasti a casa propria. E sono stati
questi ad essere massacrati per primi, a questi sono state sottratte
le legittime proprietà con la forza e l'omicidio. Chi si è macchiato
dei delitti contro gli albanesi, e sono stati molti a tutti i
livelli, non ha avuto la possibilità di goderne finché è rimasto in
Kosovo e chi è riuscito a scappare sta ancora nelle liste dei
ricercati. Chi vuole tornare o insiste a non volersene andare dal
Kosovo è gente che non ha nulla di cui pentirsi salvo il fatto di
appartenere ad una certa etnia. Ora però il problema si è aggravato,
tra coloro che parlano d'indipendenza ci sono quelli che ritengono
che tale status internazionale dia loro il diritto alla pulizia
etnica, interrotta dalle forze di sicurezza della Nato. E tra i
serbi che parlano di riappropriazione del Kosovo c'è chi non vuole
esercitare una responsabilità di governo equa e democratica, ma
vuole vendetta. In più s'inserisce una connessione di corruzione e
crimine che aumenta e il rischio che la situazione sfugga di nuovo
al controllo.
Perché la comunità internazionale insiste per l'indipendenza
senza vedere il precedente che rischia di rappresentare, nei Balcani
con l'irrisolta pace di Dayton in Bosnia Erzegovina e in Macedonia,
ma anche nel Caucaso e nella stessa Europa?
Si rendono conto dei rischi, ma forse il Kosovo vuole proprio essere
il laboratorio di una nuova scrittura delle regole dell'ordine
internazionale. Forse si vuole limitare il potere degli stati, si
vuole stabilire un principio che la sovranità degli stati non è
assoluta e che può essere limitata, ampliata o revocata con un
semplice intervento di forza, sia essa militare o politico. Si
vogliono forse ripristinare i sistemi delle «colonie», dei
«territori», dei «protettorati» o quello delle «amministrazioni
fiduciarie». E' da diversi anni che si cerca un nuovo ordine
mondiale e che si tenta di riscrivere le regole a suon di pretesti e
bombardamenti. La Bosnia ha fatto da laboratorio per la spartizione
fra etnie di un territorio nel momento in cui una repubblica si
separava dalla federazione. A Timor si è completato il processo di
decolonizzazione dando l'indipendenza ad un territorio già colonia
portoghese invasa da uno stato terzo. In Kosovo forse si cerca di
fare il passo determinante: imporre la secessione. Non sono una
verginella da scandalizzarmi per il pragmatismo politico o per l'uso
della forza. Quello che mi dà fastidio è soltanto l'ipocrisia.
L'ostinazione nel prendere le parti di una etnia fino ad arrivare a
decretare la perdita di sovranità dello stato in cui essa è
legalmente inserita non trova riscontro in nessuna altra parte del
mondo.
Il ministro degli esteri Massimo D'Alema, favorevole
all'indipendenza, aveva finora insistito sul compromesso. Ora poi in
Serbia c'è un nuovo governo e una unità forte, tra il premier
Kostunica e il presidente Tadic, sul rifiuto dell'ultranazionalismo
ma anche sul rifiuto dell'indipendenza del Kosovo. Perché D'Alema in
un momento così delicato, ha provocatoriamente dichiarato
all'«Espresso»: «I serbi hanno perso il Kosovo quando hanno cercato
di risolvere il problema sopprimendo l'autonomia, invadendolo e
facendo pulizia etnica», attribuendo così ai serbi tout-court
l'iniziativa che fu invece di Milosevic?
Condivido il giudizio secondo il quale Milosevic e la sua dirigenza
hanno «perso» ogni autorità morale sul Kosovo con la cancellazione
dell'autonomia e la repressione. Così come noi italiani avremmo
perduto qualsiasi autorità morale se avessimo commesso crimini
contro le nostre stesse popolazioni o contro quelle poste sotto la
nostra tutela anche in regime di occupazione. Ma la giustizia
applicabile agli uomini non è la stessa applicabile agli stati. Un
uomo si può condannare a morte, un governo si può rovesciare, uno
stato si può sanzionare ma non si può più annientare o frazionare.
Anche perché non sono gli stati a commettere i crimini, nonostante
il termine tanto di moda dello «stato canaglia», ma gli uomini. La
sottrazione di sovranità era un diritto di forza che spettava alla
guerra di conquista e di aggressione, ma questa guerra è stata
dichiarata illegale dalla Carta delle Nazioni Unite. La secessione
potrebbe essere raggiunta come termine del processo di
autodeterminazione di un popolo, ma è dubbio che questo caso possa
essere applicato al Kosovo. I Kosovari non hanno completato la
guerra di liberazione. Rugova aveva provato a dichiarare
l'indipendenza quando ancora non si sparava, ma non lo ha preso sul
serio nessuno. Forse proprio perché non sparava. In piena guerra
cosiddetta umanitaria, lui, che comunque era il rappresentante
ufficiale degli albanesi kosovari, cercava un accordo con Milosevic
e si sarebbe accontentato di un ritorno all'autonomia. E'stato preso
per un traditore o per un incapace d'intendere e volere. Forse lo
scopo di Rugova non era idealistico come quello del Mahatma Ghandi;
forse voleva semplicemente evitare una guerra che lui come ideologo
della non violenza e come leader sapeva di perdere. Sarebbe stato
superato da altri leader, quelli con i fucili e le uniformi da forze
speciali occidentali. Quelli che si erano messi in contatto con Al
Qaeda, con i Mujaheddin reduci dall'Afghanistan e dalla Bosnia e
quelli che trafficavano in armi e droga. Quelli che in Albania si
addestravano con contractor americani pagati a mille dollari al
giorno. Lui stesso si convinse a mettere in piedi un esercito di
liberazione il cui leader, Zemaj, è stato ammazzato dopo la guerra
come gli altri trenta capi del partito di Rugova trucidati in meno
di due anni non dai serbi ma dagli stessi avversari politici
kosovari. La cosiddetta guerra «umanitaria» in cui è intervenuta la
Nato ha interrotto qualsiasi tentativo di soluzione relativamente
indolore. E'stato uno dei primi esempi d'ingerenza umanitaria ma non
è mai stato ufficialmente un supporto internazionale ad una guerra
di liberazione. Tanto è vero che la risoluzione 1244 al termine
della guerra stessa ribadisce ancora la sovranità della Serbia. Il
Kosovo, perciò, fino ad oggi non è ancora formalmente e
sostanzialmente perduto. Ma è indubbio che le pressioni americane
sono per l'indipendenza e che l'Italia con i recenti guai nei
rapporti con gli americani e con una serie di negoziatori affaticati
tende ad usare quel poco di credibilità che gode in Serbia cercando
di convincerla a cedere.
Non le sembra che nel 1999 qualcuno, al momento di scatenare la
guerra Nato motivata allora come «umanitaria» - 78 giorni di raid
aerei su tutta l'ex Jugoslavia con tanti «effetti collaterali»
sanguinosi -, non abbia detto la verità al paese e agli stessi
militari impegnati, alla fine, in una guerra funzionale ad una
secessione etnica?
La guerra «umanitaria» in Kosovo è stata il risultato di una serie
di logiche razionali spinte da manipolazioni emotive. E' il
risultato quasi perfetto di una campagna di guerra psicologica
condotta nei confronti dei nostri stessi decisori. Non mi meraviglia
affatto che molti di essi potessero essere in buona fede. Fin
dall'inizio era chiaro che Milosevic non costituiva una minaccia
alla sicurezza internazionale, ma usava gli stessi metodi del
predecessore Tito per cercare di tenere insieme un puzzle che si
stava sfasciando. Era anche chiaro che i presunti massacri e le
pulizie etniche di Milosevic dovevano essere provate e verificate.
Era chiaro che Stati Uniti e Gran Bretagna avevano già deciso per la
spaccatura del Kosovo già ai tempi di quella della Bosnia. Si
trattava di una diffusa volontà di punire la Serbia per i fatti
bosniaci e per la sua aspirazione a costituire nei Balcani un potere
nazionalista serbo che avrebbe cementato una sorta di alleanza slava
che di fatto avrebbe ostacolato la tanto sognata espansione
occidentale e della Nato a est. Queste certezze erano però poco
spendibili a sostegno di un piano d'intervento armato contro la
stessa Serbia. Era necessaria una forte spinta emotiva come era
successa con il cosiddetto lager di Triplojie in Bosnia. La mossa
dell'ambasciatore Walker che denunciò il presunto massacro di Racak
fece precipitare le cose proprio nel momento in cui sarebbe servita
la calma. Racak fece fallire i colloqui di Rambouillet. Le proposte
americane e la stessa presenza dei rappresentanti dell'Uck al tavolo
del negoziato erano per i Serbi delle vere e proprie provocazioni.
Nessuno si chiese come mai dopo dieci anni di sopportazione,
all'improvviso gli albanesi si spostavano in massa oltre il confine
albanese e macedone senza allontanarsi di un solo chilometro in più.
Gli stessi serbi erano convinti di vincere la battaglia
dell'epurazione albanese. Da noi la catastrofe umanitaria aveva più
potere persuasivo di qualsiasi discorso alla Camera, ma si parlava
anche di cose meno auliche «fermiamoli lì prima che arrivino qui».
La situazione era talmente nebulosa che i tribunali tedeschi
dichiararono di non avere elementi per considerare profughi i
kosovari che chiedevano asilo. E mettevano in dubbio i presunti
massacri. Oggi si sta imponendo una soluzione di forza altrettanto
violenta della guerra passata. E mi chiedo se non fosse stato meglio
imporla subito dopo la guerra, come parte di una debellatio o di un
trattato di pace fra parti belligeranti. Allora, anche se illegale
come la soluzione di oggi, sarebbe stata capita. Ma anche qui ha
agito l'ipocrisia e questa guerra di 78 giorni e otto anni è stata
chiamata in tutti i modi possibili fuorchè quello che avrebbe
consentito una soluzione drastica. Mi rammarica vedere che gli
scrupoli del generale Jackson nel trattare i Serbi come avversari
legittimi erano inutili, che la determinazione di Kfor nel
salvaguardare i diritti di tutti era strumentalizzata e che gli
oltre trecentomila soldati che si sono avvicendati pensando di
partecipare ad un processo di stabilizzazione e di pace (compresi
gli oltre centocinquanta che ci hanno rimesso la pelle) sono serviti
solo a prendere tempo e spendere soldi per una soluzione di forza
già scontata e che non risolve niente. Mi dispiace che la nostra
ostinazione militare nel difendere i diritti di tutti oggi si
traduca in quella della difesa dei diritti di una parte a scapito
dell'altra. Mi dispiace vedere che di fronte agli esperimenti di
laboratorio politico chi ci rimette è sempre una parte dei
cittadini, quella più debole, quella meno tutelata anche dalla
giurisdizione internazionale. Ieri erano gli albanesi, oggi sono i
serbi. Con questi criteri domani potrebbe succedere anche a noi.
Cessate il fuoco
Questa settimana, in tutti i paesi ancora in guerra, sono morte
almeno 1.028 persone
Iraq
Questa settimana sono morte almeno 673 persone (641 iracheni e
32 militari della Coalizione).
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 13.292.
Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 223 persone (15 civili, 191
talebani o presunti tali, 12 militari afgani e 5 soldati della
Nato).
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 2.152 (419 civili, 1.365
talebani o presunti tali, 304 militari afgani, 64 soldati della
Nato).
Israele e Palestina
Questa settimana sono morti 16 palestinesi nei raid
dell'aviazione israeliana sulla Striscia di Gaza.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 144.
Colombia
Questa settimana sono morte almeno 28 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 187.
Cecenia (Russia)
Questa settimana sono morte almeno 19 persone.Dall’inizio
dell’anno i morti sono almeno 347.
Filippine-Mindanao
Questa settimana sono morte almeno 3 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 151.
Filippine-Npa
Questa settimana sono morte almeno 6 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 86.
Thailandia del Sud
Questa settimana sono morte almeno 10 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 185.
Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno 38 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 1.195.
India Nordest
Questa settimana sono morte almeno 6 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 416.
India Naxaliti
Questa settimana sono morte almeno 6 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 222.
India Kashmir
Questa settimana sono morte almeno 12 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 272.
Pakistan aree tribali
Questa settimana sono morte almeno 6 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 806.
Pakistan Balucistan
Questa settimana sono morte almeno 3 persone
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 68.
Bangladesh Comunisti
Questa settimana sono morte almeno 2 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 55.
Somalia
Questa settimana sono morte almeno 3 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 1.508.
Rep. Dem. Congo
Questa settimana è morta 1 persona.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 469.
Kenya
Questa settimana sono morte almeno 20 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 197.
Turchia
Questa settimana sono morte almeno 7 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 42.
22 maggio
Gli incendi della
spazzatura sprigionano composti tossici. Almeno 70 gli interventi dei
pompieri
Respinte le dimissioni di Guido Bertolaso che resta commissario
straordinario per l'emergenza
Napoli, in strada 2.700
tonnellate di rifiuti
Infezioni e diossina: "Situazione tragica"
Cumuli di spazzatura in provincia di Napoli
NAPOLI - Per
strade ce ne sono 2.700 tonnellate e altre 2.000 sono accumulate in
discariche provvisorie o ancora stipate sugli automezzi. I rifiuti
soffocano Napoli. La gente, esasperata, cerca di risolvere il problema
con il fuoco: questa mattina almeno 70 sono stati gli interventi dei
vigili del fuoco nella provincia della città. Ma i sacchetti in fiamme,
anzichè essere una soluzione, sono un problema peggiore: sprigionano
diossina che è altamente tossica. A niente sono serviti gli appelli dei
sindaci e del prefetto per evitare i roghi. Come ha detto il sindaco
Rosa Russo Jervolino in consiglio comunale, "la situazione è tragica".
Allarme infezioni. Le condizioni igieniche in città rischiano di
peggiorare con il caldo estivo. Una task force formata da volontari
della protezione civile e dipendenti dell'assessorato all'Igiene
spargono sull'immondizia prodotti disinfettanti per limitare i cattivi
odori e "per cercare di contenere il proliferare di insetti e ratti"
come ha spiegato l'assessore all'Ambiente Andrea Piatto.
La periferia sommersa. E' soprattutto la periferia di Napoli ad
annaspare: la situazione è grave a Pianura, dove i cittadini lamentano
il fermo della raccolta da almeno tre giorni, e anche a San Giovanni, a
Barra, Ponticelli, Secondigliano e Fuorigrotta. A Sant'Anastasia, nel
Vesuviano, protestano i genitori dei bambini di una scuola materna per
il "proliferare di grossi ratti" nei pressi dell'istituto in via Sodani,
a causa della presenza dei sacchetti di immondizia abbandonati in
strada. E sabato prossimo chiude la discarica di Villaricca.
La protesta dei sindaci. Il sindaco
di Frattamaggiore si dice pronto a chiudere scuole, banche e uffici se
non si troverà una soluzione e il presidente dell'associazione
albergatori partenopei, Pasquale Gentile, lancia l'allarme in vista
della stagione turistica annunciando le prime disdette nelle
prenotazioni causa rifiuti.
Bertolaso resta commissario per l'emergenza. A guidare
l'emergenza resterà Guido Bertolaso. Oggi Prodi ha respinto le
dimissioni del capo della Protezione civile, riconfermandolo commissario
straordinario per i rifiuti. E' la seconda volta, in poco più di due
mesi. La prima volta capitò lo scorso 6 marzo, quando Bertolaso diede le
dimissioni dopo i contrasti con il ministro dell'Ambiente Alfonso
Pecoraro Scanio sulla discarica di Serre, che si risolse con un
intervento del premier Prodi. E anche questa volta è stato il presidente
del Consiglio a scendere in campo per tentare di trovare una soluzione
ribadendo "l'assoluta volontà del governo di fronteggiare la crisi
inmodo definitivo". Bertolaso avrebbe ottenuto la garanzia che il
decreto approvato dal Consiglio dei ministri l'11 maggio - quello che
indica 4 siti per altrettante discariche, una in ogni provincia - non si
tocca. "Riconfermare Bertolaso è la scelta giusta" ha detto Antonio
Bassolino, presidente della Regione Campania.
Inchiesta della
procura di Vicenza ha scoperto un ampio sistema illegale
L'accusa è quella di associazione a delinquere finalizzata alla
turbativa d'asta
Truffa degli appalti
nel nord Italia
19 arresti e 150 perquisizioni
VENEZIA - Sono
diciannove le ordinanze di custodia cautelare che il nucleo regionale di
Polizia tributaria della Guardia di Finanza di Venezia ha eseguito
nell'ambito di un'indagine che ha scoperto un diffuso sistema di
spartizione illegale di appalti pubblici che interessa una trentina di
imprese operanti nel centro e nel nord Italia.
Gli indagati sono accusati di associazione a delinquere finalizzata alla
turbativa d'asta e truffa ai danni dello Stato. L'indagine è coordinata
dal procuratore capo di Vicenza Nelson Salvarani e coinvolge
cinquencento militari delle Fiamme gialle.
A tirare le fila delle truffe, secondo le indagini dei finanzieri
condotte per alcuni mesi, sono due società, una di Treviso e una di
Vicenza, che coordinavano l'attività di una trentina di piccole e medie
imprese. Le ditte si accordavano per assicurarsi l'assegnazione di
appalti pubblici sotto la soglia comunitaria, ovvero per valori
inferiori ai 5 milioni di euro. In questo modo l'appalto veniva
assegnato seguendo la normativa nazionale che prevede che il vincitore
dell'appalto sia la ditta che offre il prezzo più basso.
Il sistema è ramificato in tutto il centro e il nord Italia e coinvolge
appalti in cinque regioni: Veneto, Friuli Venezia Giulia, Lombardia,
Piemonte ed Emilia Romagna. Nell'ambito dell'operazione di questa
mattina le Fiamme gialle stanno notificando 111 avvisi di garanzia e
stanno effettuando 150 perquisizioni in una ventina di province.
Le città interessate dall'operazione sono Asti, Belluno, Bergamo,
Brescia, Cremona, Gorizia, Mantova, Padova, Parma, Pordenone, Reggio
Emilia, Rovigo, Treviso, Venezia, Verbania, Verona e Vicenza.
Ulteriori dettagli dell'operazione saranno comunicati nella conferenza
stampa di questa mattina alle 11 che si terrà a Mestre nella sede del
nucleo regionale di Polizia tributaria.
21 maggio
Russia, bavaglio
all'informazione
Ennesimo attacco alla libertà di
stampa: sfrattato dalla sede storica il sindacato dei giornalisti
Ordine
di sfratto. La notifica, datata 18 aprile, è arrivata
all'Unione russa dei giornalisti (Ruj) solo il 15 maggio scorso
dall'agenzia delle proprietà statali 'Rosimushchestvo': "Avete un mese
di tempo - recitava - per liberare gli uffici dove ha sede il vostro
quartier generale". Ricevuta l'intimazione a distanza di appena tre
giorni dalla scadenza, il più grande sindacato russo, che tutela oltre
centomila giornalisti, ha opposto un fermo rifiuto: "Non ci muoviamo".
La battaglia legale tra lo Stato e il sindacato è iniziata alla vigilia
della annuale conferenza della Federazione internazionale della stampa,
che si terrà il 28 maggio nella sede della Ruj sottoposta a sfratto.
Circa un migliaio di giornalisti si riuniranno per discutere della
sicurezza dei giornalisti e della 'crisi dell'impunità' per coloro
che perseguitano - e a volte uccidono - gli operatori dell'informazione
in Russia. L'ennesimo attacco contro la libertà di stampa è stato
definito dalla Ruj come un sabotaggio della conferenza, e ha ricevuto le
condanne delle principali organizzazioni che difendono il lavoro e
l'attività dei giornalisti. Il comunicato emesso dalla Ruj accusa l'ente
governativo - che possiede pacchetti azionari in tutti i settori-chiave
dell'economia russa, dal gas ai diamanti - di "gettare in mezzo a una
strada un'organizzazione che ha 90 anni di storia, che ha contribuito
alla costruzione della democrazia e che ha difeso senza compromessi gli
interessi della categoria, i diritti costituzionali e le libertà civili
della popolazione".
L'ombra
lunga del Cremlino. Il fatto che nessuna ragione sia stata
addotta a sostegno del provvedimento, il ridicolo periodo di tempo
concesso per lo sgombero dei locali e le voci semi-ufficiali che
vogliono all'origine dello sfratto la decisione di alloggiare nei locali
una nuova televisione (Russia Today), destinata a diffondere all'estero
un'immagine positiva della Russia, sono tutti fattori che suffragano l'opinone
corrente sul clima che giornalisti indipendenti e rappresentanti del
dissenso respirano nel Paese. Dal crollo del comunismo, i media russi
sono stati il campo di battaglia privilegiato tra Stato e soggetti
indipendenti. E' un dato di fatto che, negli ultimi 5 anni, compagnie
con stretti legami con il Cremlino abbiano acquistato media e network
(spesso con un curriculum di incontestabile obiettività), oltreché case
editrici e società tipografiche. L'ultima 'acquisizione' è quella del
magnate del metallo, il filogovernativo Alisher Usmanov, che si è
comprato il Kommersant, quotidiano economico notorio per i suoi giudizi
equilibrati e spesso elogiato per la sua posizione critica nei confronti
del governo.
Repressione
di Stato. E' dei primi di maggio il più recente rapporto sulla
libertà di stampa nel mondo. Redatto dall'organizzazione statunitense 'Freedom
House', colloca la Russia agli ultimi posti della classifica sulla
libertà di stampa (164esima su 195 Stati). Durante il mandato di Putin,
tredici giornalisti sono stati assassinati. In nessun caso mandanti o
esecutori degli omicidi sono stati assicurati alla giustizia. Il mese
scorso il presidente russo ha firmato un decreto che istituisce un nuovo
organo per la supervisione dei mass media e di internet, mentre lo
scorso anno una legge ad hoc ha reso la 'critica giornalistica'
passibile di inserimento nelle 'attività estremistiche' che la nuova
legge sanziona con misure assai drastiche. In ottemperanza al
provvedimento sono già state chiuse diverse organizzazioni non
governative, accusate di 'minacciare l'indipendenza politica della
Federazione russa'. E' il caso della Società per l'amicizia russo-cecena,
ente attivo nella tutela dei diritti umani e nelle pubblicazioni di
rapporti sulla situazione cecena, il cui direttore è stato accusato di
"fomentare l'odio etnico attraverso i media". Repressione, inettitudine
investigativa e indifferenza giudiziaria rimangono le caratteristiche
preminenti dell'atteggiamento di Putin nei confronti dei giornalisti.
Caratteristiche sublimate nell'omicidio di Anna Politkovskaya, la
principale accusatrice della politica russa in Cecenia. Per sette anni,
la giornalista ha raccontato abusi, sparizioni, corruzione, torture,
omicidi. Per sette anni è sopravvissuta a minacce, incarcerazioni, esili
forzati, avvelenamenti. Per morire nel luogo paradossalmente più sicuro
per lei: l'atrio di casa, a Mosca, colpita a morte da un sicario mentre
tornava dal fruttivendolo.
Ancora le colonne d'Ercole
Ceuta,
l'enclave spagnola in Marocco, era la porta d'ingresso in Europa per i
migranti. La Spagna ora l'ha blindata
Guardando Ceuta su una carta geografica,
vengono in mente gli affreschi della Cappella Sistina, dove la mano di
Michelangelo Buonarroti ha dipinto, tra mille meraviglie, lo slancio tra
Dio e Adamo, che protendono le braccia l'uno verso l'altro per toccarsi
le mani.
La Spagna e l'Europa si slanciano così,
come sotto il peso dell'Occidente, verso la penisola che si tende dalle
coste dell'Africa.
Ceuta,
la Spagna in Africa. E' qui che il mito ha collocato le
cosiddette Colonne d'Ercole, un tempo limite fisico e filosofico
dell'uomo. Eppure ancora oggi, che il mito è stato sfatato, quello
stretto continua a rappresentare un confine inviolabile per migliaia di
africani che tentano di raggiungere l'Europa nella speranza di una vita
migliore. Così lontani, eppure così vicini. Nel punto più stretto, le
coste dei continenti segnano una distanza di appena 15 miglia marine, e
le misure diventano infinitesimali quando si arriva a Ceuta, dove solo
una rete divide Europa e Africa. Ceuta è, assieme a Melilla, un pezzo di
Spagna incastonata in Africa, un'enclave rimasta della Corona spagnola
nonostante la decolonizzazione.
Tutto a Ceuta parla di Spagna, con un
senso d'appartenenza ostentato e un regime fiscale agevolato, dove è
impossibile rendersi conto che tutt'attorno è Africa. Un tempo forse le
figure velate, che camminano in fretta, avrebbero indicato un elemento
di specificità, ma ormai rappresentano un tratto comune a tutta l'Europa
e non si nota più alcuna differenza. Il re del Marocco Mohammed VI
sembrava intenzionato a riaprire l'annosa polemica sulla sovranità della
città, ma anche quella è finita nel calderone delle trattative serrate
che, negli ultimi 3 anni, corrono sull'asse diplomatico Madrid – Rabat,
e che ruotano tutte attorno a un grande perno: l'immigrazione
clandestina.
La
porta chiusa. “Per farle capire come sono cambiate le cose le
faccio un esempio: dall'inizio del 2007 solo due marocchini sono
riusciti a passare dall'altra parte. Negli anni scorsi la media era di
20-25 persone al giorno”. A parlare è Mohammed Bouissef Rekab, madre
spagnola e padre marocchino, scrittore e docente universitario di
letteratura spagnola a Ceuta e a Tetuan. Figlio delle due culture:
marocchino di nascita e formazione, ha scelto di raccontare le sue
storie usando la lingua spagnola. Un ponte, un legame tra la cultura
europea e quella marocchina, che percepisce i problemi dei migranti, ma
che riesce a fare suo anche il punto di vista degli spagnoli. Nei suoi
racconti e nei suoi romanzi ricorrono spesso i luoghi e i volti della
migrazione, i sogni e le paure di coloro che lasciano la loro vita per
gettarsi verso un futuro migliore. Come si può raccontare la migrazione?
“Non inventando nulla, parlando solo di quello che c'è, che esiste e che
nessuno può negare. Quasi tutta la letteratura sull'argomento,
soprattutto in Europa, si limita alla narrazione del 'viaggio', spesso
solo in senso fisico”, racconta Rekab seduto a un tavolino di uno dei
mille bar che puntellano la turistica Ceuta, “io cerco di raccontare lo
stato d'animo, le sensazioni che finiscono nel grande affare che
rappresenta l'immigrazione. Nessuno parte se non è costretto, e nessun
riuscirebbe a passare se non gli fosse consentito”.
Il
grande affare. Lo sguardo di Rekab si fa duro, dietro gli
occhiali con i quali guarda distrattamente il via vai del paseo
de Revellin, la grande via pedonale del centro di Ceuta. “Come può un
disperato arrivare in Spagna se non ha trovato lungo il cammino una rete
di complicità, di persone che per il proprio tornaconto personale si
girano dall'altra parte?”, chiede lo scrittore marocchino,
“ufficialmente tutti parlano di un grande problema, sia in Marocco che
in Spagna, una piaga da guarire. In realtà ci guadagnano tutti. I
poliziotti marocchini e i traghettatori, i poliziotti spagnoli e gli
imprenditori. I sin papeles fanno comodo, perché
permettono di avere manodopera a basso costo. Vede, a Ceuta la comunità
spagnola e quella marocchina convivono in pace, il 30 percento della
popolazione è composta da spagnoli di origine marocchina. Ma qui
prospera la mafia e le connessioni con il racket dell'immigrazione
clandestina sono fortissime. Conosco storie di persone che hanno pagato
migliaia di euro per arrivare a Barcellona o altrove, ma come avrebbero
potuto senza complicità?”.
Adesso non è più così però, l'aria sta
cambiando. “La società spagnola, come tutte quelle occidentali, è
caratterizzata da compartimenti stagni: ogni classe non si cura di
quello che accade fino a quando non si sente minacciata”, spiega Rekab,
“l'immigrazione clandestina è andata bene a tutti fino a quando ha
rappresentato solo un elemento di sfruttamento economico, quindi
conveniente. Poi però, nelle città spagnole, il problema
dell'integrazione e della convivenza si è fatto spinoso e allora
l'atteggiamento della Spagna e dell'Unione europea è cambiato. A quel
punto bisognava fare qualcosa. E allora, almeno per Ceuta, il problema è
stato risolto...quando si è deciso davvero di farlo”.
L'enclave
blindata. I migranti non hanno smesso di partire ovviamente, ma
le rotte sono cambiate. I barconi si lanciano nell'oceano Atlantico
salpando dalla Mauritania o dal Sahara occupato dal Marocco, ma non più
da Ceuta, puntando verso le isole Canarie. Ma com'è stato risolto il 'problema'?
Cosa ha fatto cambiare atteggiamento al governo marocchino, al punto da
mettere in atto una vera e propria guerra ai migranti? L'episodio più
grave di questo nuovo corso, fatto di brutalità e abusi da parte della
polizia marocchina, si è verificato alla fine del 2005, quando venne
aperto il fuoco su un gruppo di migranti che tentava di saltare la rete
che divide Ceuta dall'Africa. Decine di migranti rimasero uccisi, non si
sa ancora se dal fuoco marocchino o spagnolo. Da quel momento, Ceuta è
diventata sempre più blindata. Le reti metalliche costruite attorno alla
frontiera sono raddoppiate, arricchite di filo spinato. E la zona è
stata militarizzata, con una presenza discreta ma massiccia di polizia e
militari, che si scorgono camminare armati fino ai denti anche nelle
viuzze di Ceuta, tra turisti in ciabatte e commercianti indaffarati.
Questo, però, è solo l'aspetto più evidente rispetto a un livello più
profondo, per vedere il quale è necessario passare la frontiera.
Così
lontani, così vicini. Per farlo basta recarsi in plaza
de Africa, che porta nel suo nome l'unica concessione che la città fa
alla sua collocazione geografica, e prendere un taxi che, in 10 minuti
di corsa lungo il mare del Mediterraneo, giunge alla frontiera con il
Marocco. Passati i controlli si attraversa una terra di nessuno, dove
sembrano sospese migliaia di vite, affastellate le une sulle altre in un
sempiterno mercato, dove vengono scambiate merci di tutti i tipi.
Centinaia di donne marocchine, abbigliate con i vestiti della
tradizione, portano sulle spalle balle di mercanzia colorata, mentre gli
uomini sono intenti nel carico e scarico dei camioncini o in una fumata
di kif. Sul ciglio delle collinette che circondano la frontiera
corrono donne, uomini e bambini che si muovono frenetici nello spazio
tra le due frontiere, come se in quello spazio compresso i ritmi si
facessero frenetici per necessità. Appena giunti alla frontiera
marocchina si presenta una spianata di taxi per Tetuan, Tangeri o
Chefchaoun, in attesa di passeggeri. Una corsa verso Tetuan costa poco
più di 10 euro, ben spesi per cogliere il senso della politica spagnola
verso il Marocco.
In
attesa del futuro. “Tetouan vi piacerà, è una meraviglia!”,
urla contento al volante Ahmed, cercando di sovrastare il volume della
musica che proviene dall'autoradio della sua Mercedes anni Ottanta. “La
gente del nord del Marocco è uguale agli europei: aperta e socievole.
Mica come quelli del sud, chiusi e provinciali”, racconta il tassista.
E' proprio vero che esiste sempre qualcuno più a sud di te. “Noi non
emigriamo, chi ce lo fa fare? Io ho la mia casetta, il mio lavoro. Qui
tutto cresce in fretta, c'è piena occupazione da noi. Quelli che
emigrano sono quelli del sud, che non hanno lavoro”. Poche centinaia di
metri dal confine tutto cambia, la Spagna cede progressivamente il passo
al Marocco, a cominciare dal generoso uso della bandiera nazionale. Un
chilometro e scattano due ore di fuso orario, puntello burocratico per
una differenza da rimarcare a tutti i costi. Tutto il litorale che corre
tra Ceuta e Tetouan è un enorme cantiere: migliaia di operai, stravolti
dal sole a picco, costruiscono alberghi, villaggi turistici, ristoranti
e piantano alberi. “Ecco, qui sorgerà un grande albergo, qui un
meraviglioso hotel”, racconta Ahmed, con un brillio negli occhi che
neanche gli occhiali da sole riescono a celare. Il tutto mentre guida
con una mano sul volante e una sul poggiatesta del passeggero. Indica
fiero cantieri che sembrano appartenergli, per l'orgoglio con il quale
li racconta. “Tutta roba di prima scelta sa”, fa notare, “tutta roba
europea. I fondi sono spagnoli. Grandi catene alberghiere e imprese
edili, grande business, qualità occidentale. Sarà bellissimo!”.
L'entusiasmo di Ahmed è contagioso, coinvolge con la sua fiducia nel
futuro che scorre veloce fuori dalla macchina. E' impercettibile la
distanza che separa il suo entusiasmo per lo sviluppo della sua terra da
quello per il fatto che tutto sembrerà ancora più europeo. Ed è in
questi cantieri, in questi investimenti, che sta la risposta alle
domande su Ceuta e su quelle Colonne d'Ercole di nuovo erette. Soldi in
cambio di controllo, semplicemente un business al posto di un altro.
Quelli stessi imprenditori che per anni hanno guadagnato sulla pelle dei
migranti lo fanno ancora, solo in un modo differente. Con la benedizione
del governo spagnolo e marocchino, che hanno entrambi da guadagnare. E
il tour forsennato compiuto dal ministro degli Esteri spagnolo Moratinos
in Africa negli ultimi anni, imitato peraltro dai ministri di Italia e
altri paesi europei, acquista un senso nelle palme piantate dagli operai
per fare ombra ai turisti fantasma che arriveranno a frotte, come
assicura Ahmed mettendo su una cassetta di Adriano Celentano, convinto
di far felici i suoi passeggeri europei.
Ho comprato un rene in
Nepal
di Alessandro Gilioli da Kathmandu
Mille euro al donatore. Mille
all'intermediario. Cinquemila per il trapianto illegale in India. Un
giornalista de L'espresso è entrato nel mercato clandestino degli organi.
Tra documenti falsi e chirurghi corrotti. Ecco il suo racconto
Tutto si può dire di Krishna Kanki, malavitoso
nepalese in carriera, tranne che non sappia vendere la sua merce: "I miei
donatori sono ragazzi sani, robusti e di campagna", dice: "Io prendo solo
gente a posto, niente fumo, niente droghe, niente alcol. E poi faccio sempre
tutti gli esami: Hiv, epatite, tubercolosi. Alla fine scegliamo il migliore
e ve lo portate via. è facile, l'abbiamo già fatto decine di volte con gente
che veniva dall'Europa, dall'America e da Singapore...".
Allora non è una leggenda metropolitana. La macelleria internazionale degli
organi umani è una realtà concreta, prospera e diffusa. E adesso ha anche
volti, nomi e indirizzi precisi, almeno in una delle sue tante incarnazioni:
quella del traffico di reni che avviene tra il Nepal e l'India, i paesi più
attivi dell'Asia - insieme al Pakistan - in questo oscuro mercato globale.
'L'espresso' ne ha percorso tutto il cammino, dai vicoli di Kathmandu fino
alle cliniche di lusso di Calcutta, acquistando il rene di un ragazzo
nepalese e prenotandone il trapianto con il consenso di un chirurgo indiano.
Al bazar dei documenti falsi
E' appunto a Kathmandu, l'ex capitale degli hippies oggi stremata da dieci
anni di guerra civile e sovrappopolata da un'inurbazione selvaggia, che nel
novembre del 2006 sento le prime voci sul boom locale dell'offerta di
organi. Si dice che i contadini sfollati, la gente dei villaggi indebitata e
le vedove senza speranza siano diventati il serbatoio di questo commercio
gestito da una dozzina di 'middle men', gli intermediari tra pazienti
benestanti (quasi sempre stranieri) e aspiranti venditori di organi. Nella
confusione del dopoguerra in città è venuto meno il potere dello Stato, si è
impennata la criminalità, è dilagata la corruzione. E all'anarchia nepalese
fanno riscontro appena al di là del confine le moderne cliniche private
indiane, dove molti medici (retribuiti 'a cottimo' per ogni intervento)
accettano i certificati fasulli prodotti in Nepal, pur consapevoli della
loro fraudolenza.
Così, a fine aprile, torno a Kathmandu con una
falsa diagnosi di 'malattia renale policistica bilaterale', in cerca di un
trapianto per evitare di entrare in dialisi. Ho con me un paio di analisi
del sangue contraffatte - con la creatinina impazzita e altri valori
alterati - più la diagnosi su carta intestata di un medico che certifica le
mie condizioni.
Con una matita da trucco mi appesantisco le occhiaie e vado al National
Kidney Center, la più nota struttura privata locale per la cura dei reni.
Qui, senza bisogno di mostrare alcunché, scopro subito che basta rivolgersi
a un qualsiasi paramedico - ma va bene anche un guardiano o un barelliere -
per mettere in giro la voce che si ha urgentemente bisogno di un rene nuovo,
lasciando il proprio numero di cellulare e una mancia. Nessuno si stupisce,
nessuno chiede alcunché, molti promettono aiuto.
Nemmeno tre giorni dopo arrivano le prime telefonate, con i nomi, i numeri e
gli indirizzi di due intermediari. Così inizia il mio viaggio nella malavita
di Kathmandu, riconvertita dallo spaccio di droga al più remunerativo
business degli organi.
Il primo 'middle man' che mi fissa un appuntamento si chiama Krishna Kanki e
ha la sua base accanto a un negozio di pashmine sulla Tridevi Marg, uno
stradone pieno di mendicanti a due passi dal quartiere turistico di Thamel.
Per maggiore sicurezza, vado a trovarlo accompagnato da Sudarshan, un amico
nepalese il cui fratello un anno fa si è comprato un rene e che quindi ha un
po' di esperienza nel giro.
Krishna che ci aspetta davanti al negozio. Ha una trentina d'anni, i
baffetti curati e una polo viola. Ci fa cenno di seguirlo e - senza voltarsi
- ci porta in una piazzetta appartata, la Bhagwan Bahal. Sotto un ombrellone
aperto davanti a un baretto malconcio ci sono quattro sedie di legno bianco
che costituiscono evidentemente il suo informale ufficio. Krishna parla solo
con Sudarshan, in nepalese, a voce bassa e senza mai guardarmi. Non sembrano
interessargli granché le mie condizioni di salute - a parte il gruppo
sanguigno - e dopo le rassicurazioni sulla robustezza dei suoi ragazzi ci
spiega la procedura successiva, a sentir lui semplicissima e rodata: "Lo
sapete, per la legge indiana bisogna che tra il donatore e il paziente ci
sia una relazione di consanguineità. Con i malati di qui facciamo un paio di
falsi certificati e diciamo che sono fratelli. Per gli occidentali invece il
sistema migliore è quello di inventarci un figlio". Un figlio? "Sì, certo.
Diciamo che tu sei venuto in Nepal una ventina di anni fa e hai avuto una
storia con una ragazza locale. Bene, il bambino non te lo sei portato a casa
ma l'hai sempre aiutato da lontano, mandandogli soldi e vestiti. Ora lui è
diventato grande, vuole sdebitarsi e ti dà il suo rene. è facile, funziona
sempre. Basta costruire un documento di paternità con il timbro del
ministero, che noi ovviamente sappiamo come procurarci". E la mamma chi
sarebbe? "Non è un problema. Troviamo una donna più o meno della tua età che
certifica la vostra vecchia relazione e garantisce la paternità del
ragazzo...".
Luminari e prezzolati
L'estrema facilità con cui il
broker descrive i vari passaggi ha un che di irreale, come se fossi lì a
comprare un souvenir. Tuttavia, di fronte alla sua irritante sicurezza,
cerco di mostrare le paure e l'incredulità proprie del paziente occidentale
timoroso che qualcosa vada storto: "Ma sono documenti credibili? E se poi in
India il medico li rifiuta?". Krishna sorride appena, senza mai rivolgere lo
sguardo a me: "Vedete, non importa a nessuno se sono credibili o no. Certo,
noi produciamo dei falsi perfetti, ma è solo per sicurezza. In realtà in
India i chirurghi sanno benissimo che è tutto fasullo e fanno solo finta di
crederci". E ancora, sempre con una punta d'ironia: "A volte sono loro
stessi a telefonarci per dirci che cosa dobbiamo scrivere su quei fogli, in
modo da non avere problemi con i loro consigli di amministrazione o magari
con qualche collega invidioso. Ricordatevi bene una cosa: se il dottore in
India vi fa qualche domanda di troppo, è solo per avere un sovrapprezzo in
nero sulla parcella della clinica, che pure gli dà il 50 per cento di ogni
operazione. Voi passategli una buona mancia e vedrete che tutto finisce lì".
Dopo un po', Krishna sembra perfino scocciato dalle nostre ansiose domande,
quasi che queste possano mettere in dubbio la sua professionalità e le sue
connessioni con i medici di là del confine. E a fronte dei miei timori sulle
capacità dei chirurghi indiani, il mediatore fa già, tranquillamente, il
primo nome: "Io lavoro con i migliori trapiantologi del Paese. A Chennai
mando la gente al St.Thomas Hospital, dal dottor Ravichandran, il capo del
dipartimento di nefrologia. Bravissimo, un luminare mondiale. Mi ha già
fatto diversi occidentali come te, e sono tornati tutti a casa felici e
contenti".
Il tremore pauroso di Daniel Rai
Dopo una mezz'oretta di rassicurazioni e chiacchiere,
inevitabilmente il discorso cade sui costi. E qui Krishna snocciola senza
imbarazzi le sue parcelle: "Servono subito 160 mila rupie (circa 200 euro)
per fare gli esami del sangue ad almeno due possibili donatori. Poi, se va
tutto bene, il rene costa 1.800 euro: un terzo subito, un terzo appena hai
fatto l'operazione, l'ultima parte dopo le dimissioni dall'ospedale". Altre
spese? "Al donatore non devi dare niente, ci penso io. Semmai compragli
qualche vestito per renderlo decente quando lo presenti al dottore. Il
ricovero in India e tutte le medicine sono naturalmente a tuo carico. Poi
calcola tre biglietti aerei per Chennai: per te, per il donatore e per il
mio watchman". E chi sarebbe questo watchman? "Ci vuole sempre un mio uomo
che controlli tutto. Mettiamo che al donatore salti in testa di scappare
all'ultimo minuto: bene, il mio watchman è lì per impedirglielo. Questi
ragazzi a volte sono strani, si prendono paura all'improvviso, è sempre
meglio tenerli d'occhio...". Poi si ferma, guarda l'orologio d'oro e
finalmente alza lo sguardo: "A proposito, ne volete conoscere un paio?".
Così Krishna sfodera la sua arma a sorpresa: un numero digitato in fretta al
cellulare, poche frasi secche in nepalese e tre minuti dopo da dietro
l'angolo si materializzano, a passi lenti e in silenzio totale, due ragazzi
già reclutati. "Naturalmente prima dobbiamo verificare il gruppo sanguigno",
dice il mediatore, "ma loro sarebbero già pronti".
Uno è poco più di un bambino. Ha tratti tibetani, una magrezza
impressionante sotto la T shirt lurida. La gamba sinistra gli trema, non
solleva lo sguardo dal tavolo. Sembra terrorizzato dalla situazione che pure
ha scelto di vivere. L'altro è molto più tranquillo, ha un inizio di barba
sul mento e si siede accanto al suo carnefice. Bevono una Sprite, sempre
senza aprire bocca. Io li guardo in faccia, loro fissano l'asfalto sotto le
loro infradito di plastica.
È lo stesso Krishna, pochi minuti dopo, a farli un po' parlare: forse ha
paura che risultino antipatici al ricco cliente venuto dall'Europa. Inizia
il ragazzo più piccolo, quello spaventato. Si chiama Daniel Rai e dichiara
vent'anni: una palese bugia, probabilmente è minorenne. Proviene da un
piccolo villaggio del Terai, l'afosa pianura lungo i confini meridionali del
Nepal. Sua madre - dice - è morta quando lui aveva otto anni. Papà ha
trovato un'altra donna e ha cominciato a bere, facendo debiti per l'alcol,
per poi andarsene dal villaggio con la nuova compagna. Lasciando lui - primo
figlio maschio - a difendersi dai creditori. Allora Rai è venuto nella
capitale, ha trovato qualche lavoretto. Ma i soldi raccattati qua e là non
bastano, deve tornare in fretta al villaggio per pagare gli usurai: gli
interessi sono del 30 per cento l'anno. Altrimenti quelli gli prendono la
casa e sbattono in strada tutti i suoi fratelli.
L'altro ragazzo, il più grande, si chiama Sonam, dice di avere 25 anni e
viene dal villaggio di Kavre, sempre nel Terai. A Kathmandu fa l'aiuto
meccanico, porta a casa una quarantina di euro al mese ma ora la moglie si è
ammalata di cuore e "in Nepal le medicine si pagano care, senza i miei soldi
muore".
Quando hanno finito, Krishna fa un mezzo sorriso ironico rivolgendosi a noi
in modo complice: "Raccontano tutti storie strappalacrime, poi non lo saprai
mai che cosa ci fanno davvero con i soldi. Io sono onesto, gli dò sempre
metà di quello che prendo, ma quando vedono tutte quelle rupie in una botta
sola non capiscono più niente. Qualcuno se le beve, qualcuno si compra la
moto: una bella Hero Honda con cui tornare al villaggio a fare il gradasso.
Poi sì, ci sono anche quelli bravi, che magari si comprano un campo per
coltivare il riso, ma sono sì e no due su dieci. Comunque, fatti loro".
Già, fatti loro. L'importante, per me, è che siano davvero disposti a
vendersi un organo. Come faccio a sapere che sono d'accordo con quello che
stiamo per fare? Alle mie perplessità Krishna si volta verso i ragazzi e
dice qualcosa in nepalese. Daniel risponde con un semplice cenno di sì con
la testa, tenendo sempre gli occhi bassi; Sonam - forse più bravo a recitare
- si dice addirittura "felice" di poter salvare la mia vita.
In tutto, il primo incontro con Krishna e i suoi ragazzi da macello dura
quasi un'ora, in un'atmosfera vagamente irreale: Daniel Rai, Sudarshan e io
molto tesi, Krishna e l'altro donatore tranquilli. Poi lui spedisce via i
due ragazzi e ci fornisce gli ultimi dettagli: "Se ci state, datemi subito i
soldi per gli esami, così li facciamo domattina. Poi preparo i documenti, in
un paio di giorni sono pronti. Se è tutto okay, tra una settimana siete a
Chennai e fra un mese tu torni a casa col rene nuovo". Le 160 mila rupie
passano di mano in mano, Krishna le infila rapido nelle tasche dei jeans
senza nemmeno contarle. Mi dà appuntamento per il giorno dopo alla Pathology
Laboratory Clinic, nella zona di Kalanki, in modo che io possa verificare
che i ragazzi fanno davvero i test del sangue. Poi si alza di scatto e si
dilegua verso la folla di Thamel.
Non lo rivedrò più, perché la mia compravendita avverrà attraverso altri
canali. Probabilmente, in questo momento, Daniel Rai avrà già venduto il suo
rene a un altro paziente straniero. Sonam, chissà: l'impressione - condivisa
dal mio amico Sudarshan - è che fosse solo un complice del mediatore,
portato lì per far numero e darci l'apparenza di una scelta, mentre la
vittima predestinata pareva comunque l'altro ragazzo.
I bambini sepolti in giardino
L'appuntamento con il secondo mediatore avviene il giorno dopo, nel
pomeriggio. Hari Tamang, una cinquantina d'anni, corporatura tozza e
occhiali azzurri di marca, ha un negozio di copertura - fotocopie e fax - in
un vicolo sulla strada commerciale del Bagh Bazar. Dentro, una sola
fotocopiatrice, un vecchio computer, una grande foto del defunto re Birendra
e un tavolo di finto legno.
Hari sa perché sono lì, mi fa sedere e parla per primo, soprattutto di sé:
"Qui mi conoscono tutti, sono il migliore in città. Ho avuto pazienti
canadesi e tedeschi, i miei documenti sono sempre perfetti. Adesso qui in
Nepal c'è il boom e si improvvisano tutti mediatori, ma non devi fidarti. Io
faccio questo mestiere da dieci anni, mi sono venduto un rene anch'io e mia
moglie pure". Poi indica un adolescente con un orecchino turchese cha sta
ascoltando musica al desktop lì accanto: "E quello è Prakash, mio figlio:
appena ha l'età, mandiamo in India anche lui".
Il suo punto di forza, racconta orgoglioso Hari, sono i rapporti con i
chirurghi indiani, coltivati in due lustri di corruzione. Hari fa il nome di
Ravichandran, a Chennai: lo stesso medico indicato da Krishna. Sempre a
Chennai, il mediatore dice di lavorare anche con un'altra clinica privata,
il Medical Madras hospital, dove il suo riferimento - dice - è "un medico
famoso, Georgi Abraham". Ma nel mio caso, dice, la cosa migliore è puntare
sull'Apollo Gleneagles Hospital di Calcutta dove - sostiene lui - conosce
tutto il reparto di nefrologia: "Lì hanno appena fatto il trapianto a tre
occidentali, giusto la settimana scorsa", spiega, "e poi in questo periodo
il West Bengala è il posto migliore". Fino a pochi mesi fa, racconta, la sua
base preferita era invece Madurai, nel Tamil Nadu: all'Apollo Hospital
locale lavorava senza problemi con tale dottor Palani Rajan, anche lui
nefrologo esperto in trapianti. Ma "ora su Madurai la polizia ha gli occhi
puntati, meglio starci lontano". Perché? Hari fa una smorfia e spiega che
nel Tamil Nadu - la regione indiana più colpita dallo tsunami del 2004 -
negli ultimi due anni la vendita degli organi è esplosa oltre ogni misura
perché la gente aveva bisogno dei soldi per ricostruirsi le case. Il mercato
dei pezzi di ricambio umani ha raggiunto dimensioni tali da costringere a
muoversi perfino la pigra polizia locale. Così sono partite un po' di
inchieste e ora i dottori devono stare quatti. Del resto anche a Delhi - si
lamenta Hari - non si lavora più bene come una volta: nel dicembre scorso a
Noida, un centro industriale non lontano dalla capitale, hanno trovato gli
scheletri di 15 bambini nel giardino di una casa privata e il giudice
sospetta che siano stati ammazzati per estrarne i pezzi. I cadaveri erano
conciati troppo male e sepolti da troppo tempo per capire se gli organi ne
erano stati asportati o no. Ma intanto a Delhi i medici stanno in campana e
il mercato dei reni è quasi bloccato.
Per fortuna a Calcutta, invece, continua tutto come prima.
Dopo il racconto sulle cliniche, Hari passa finalmente alla parte economica:
il rene da lui costa circa 2 mila euro, metà prima e metà dopo il trapianto.
Provo un po' a contrattare ma lui non si smuove ("Sorry, fixed prices", e
"per un occidentale è la tariffa minima"). Interviene anche Prakash, il
figlio adolescente già destinato a un prossimo espianto, che molla per un
attimo il pc e si rivolge a me con impavida arroganza: "Guarda che mio papà
è il migliore sulla piazza, lui fa una telefonata in India e il trapianto è
già fatto...".
Alla fine Hari accetta solo una diversa distribuzione delle rate, un terzo
alla volta come Krishna. E anche lui mi dà appuntamento è per il giorno dopo
per conoscere i donatori e fargli fare i test del sangue.
Una mazzetta per uscire di galera
Se l'incontro con Krishna era stato pieno di silenzi e tensioni, la
trattativa con Hari si è svolta invece in modo molto diretto, magari un po'
rude ma senza alcuna emotività: come esige una qualsiasi transazione
commerciale da concludere in fretta, per il bene di tutti.
La sera, a cena con un paio di amici nepalesi, chiedo notizie sui due
mediatori incontrati in giornata e scopro che in città sono ben conosciuti.
Krishna Kalki - il primo che ho incontrato - è un emergente del settore:
cresciuto alla scuola di Hari, ora si è messo in proprio e sta cercando il
suo spazio in un mercato in rapida crescita. Non ha mai voluto vendersi
direttamente un suo rene, ma l'ha fatto fare al suo vice, Ashok, che usa
anche come watchman da spedire in India.
Hari Tamang invece è un veterano, considerato davvero il numero uno a
Kathmandu, con una media di dieci clienti al mese. Mille euro netti di
profitto l'uno, e il calcolo di quanto si porta a casa è presto fatto. Ogni
mattina i suoi uomini fanno il giro della città - ma a volte vanno anche
fuori Kathmandu, nei sobborghi della vallata - a cercare nuovi ragazzi da
squartare. Hari ha avuto anche i suoi problemi con la giustizia: tre anni fa
ha litigato con un donatore - pare per una percentuale non pagata - e quello
l'ha denunciato. Lui è finito in galera ma ne è uscito sette mesi dopo,
pagando una cauzione e aggiungendo una stecca al magistrato. Quindi ha
ripreso l'attività, che ora gira a pieni motori.
L'acquisto di Deepak
Il giorno dopo, al negozio,
Hari dà prova di efficienza facendo arrivare in pochi minuti i tre donatori
che in meno di 24 ore ha trovato per me, sulla base del mio gruppo
sanguigno. Entrano nel vicolo un po' ciondolanti, uno accanto all'altro, e -
richiesti dal mediatore - si presentano al loro acquirente europeo come
alunni disciplinati.
Uno si chiama Dinesh, ha 24 anni e viene da Hetauda, cittadona del sud
nepalese. Dice di essersi sposato a 13 anni, ora ha tre figli e con il suo
stipendio di 35 euro al mese - fa l'operaio in una fabbrica di tappeti - non
riesce a mantenerli.
Il secondo, Bikran, 22 anni, con un cappellino da baseball e una T-shirt di
Kurt Cobain, sorseggia una Fanta e parla pochissimo: dice solo di venire dal
Terai e di avere bisogno di soldi.
Il terzo, più giovane di tutti, si chiama Deepak Lama: ha un volto timido e
pulito, l'aspetto apparentemente curato, anche se la maglietta che indossa è
poco più di uno straccio. E nato in un villaggio del Terai, sempre nell'area
di Hetauda, e spiega che la sua è una famiglia di 'sukumbashi': parola
nepalese che si potrebbe tradurre come 'rifugiati', ma qui indica
semplicemente quelli che non hanno nemmeno una casa di frasche e quindi
dormono per strada.
Anche Deepak lavora alla fabbrica di tappeti - la stessa di Dinesh - e
questo consente al mediatore di cantare le lodi della sua merce: "Sono tutt'e
tre di etnia Lama, come la mia. Gente robusta, fisici sani, per questo li
prendono nelle carpet factories. Credetemi, sono i donatori migliori, ve lo
dico io che ho esperienza".
Poi Hari, di buon umore, esce dal negozio e ferma un taxi, per andare tutti
insieme al Siddharta Hospital a fare gli esami. Io devo restare fuori, in un
baretto di strada. Lui entra insieme ai i ragazzi e mezz'ora dopo si
riappalesa con le ricevute in mano, per farsi restituire subito i soldi.
Indica i buchi sulle braccia dei donatori, a dimostrare che i prelievi li
hanno fatti davvero. Poi mi dà appuntamento nel pomeriggio - quando avrà i
risultati - sempre nel negozietto di fotocopie.
Puntuale, poche ore dopo, nel vicolo sulla Bagh Bazar arriva il verdetto. Il
primo, Dinesh, ha un paio di valori sballati ("Si vede che mangia male",
sentenzia Hari): in un paio di mesi sarà pronto per un altro cliente, ma per
adesso è fuori gioco. Di Biktan - quello che parlava poco - neanche a
parlarne: "Ha i calcoli, tanto vale rimandarlo al villaggio che qui ci fa
solo perdere tempo". Meno male che c'è Deepak, il ragazzino. Lui ha tutto in
regola: sangue, reni, fegato, Hiv, Tbc, epatite e così via. Quindi, dice
Hari, me lo posso portare via anche subito, dopo aver versato ovviamente il
30 per cento del totale pattuito, cioè quasi 700 euro.
Lì per lì resto un po' sorpreso: non pensavo che le cose si sarebbero
concluse così in fretta. Portarmelo via? E dove? Per fare che? Hari sorride,
quasi bonario: "Da questo momento lui è tuo figlio no? Beh, allora dovete
conoscervi, familiarizzare. Portalo al mercato e rivestilo, offrigli una
cena al ristorante, fallo dormire nel tuo hotel. Intanto io preparo i
documenti e fra due o tre giorni andiamo tutti a Calcutta. Guarda, invece di
mandarti il mio watchman per questa volta vi accompagno io in persona, così
vi faccio vedere com'è tutto semplice e veloce. Però tu in cambio quando
torni in Europa spargi la voce su di me, okay? Dici in giro che a Kathmandu
c'è il buon Hari pronto a salvare la vita a chi ha bisogno di un
trapianto...".
Poi il buon Hari allunga la mano e il rotolo di rupie che gli passo finisce
subito nel cassetto del tavolo in finto legno.
Davanti al telaio 15 ore al giorno
Così, poco dopo, mi ritrovo con Deepak all'Hong Kong Bazar di
Kathmandu, un mercato popolare a due passi dal palazzo reale, cercando di
immaginare che cosa devo comprare al ragazzo per affrontare il viaggio a
Calcutta. Lui non apre bocca e guarda le merci con gli occhi sgranati.
Sudarshan lo prende, anche letteralmente, per mano. Davanti a ogni
bancarella quello sorride incredulo. Io penso a uno zainetto per il viaggio
e lui entusiasta sceglie un falso Diesel a 250 rupie, circa tre euro. Poi mi
rendo conto che in effetti non ha niente - ma proprio niente - da metterci
dentro, allora gli compriamo pantaloni, camicie, calze, mutande, spazzolino,
tagliaunghie, sapone... Alla bancarella delle false Nike (quattro euro il
paio), Deepak agguanta le scarpe ancora allacciate e cerca di infilarsele
così. Gli spieghiamo che prima deve slacciare le stringhe e lui sorride
imbarazzato: in vita sua non ha mai indossato altro che infradito di
plastica. Chiudiamo lo shopping con un orologino digitale - quello con le
lancette non sa leggerlo - e una cintura simil Gucci a tre euro, su cui il
calzolaio deve fare tre buchi in più perché Deepak sarà anche di robusta
etnia Lama, ma è pure magro da far spavento.
Nel taxi che ci porta in albergo, appena fuori città, il ragazzo si guarda
intorno spaesato senza chiedere niente. Alla guest house fa una doccia ed
esce dalla stanza orgoglioso dei nuovi vestiti, prima di accettare da bere -
una Sprite, naturalmente - e di sedersi nel giardino del Planet Bhaktapur
per iniziare quel rapporto di conoscenza tra paziente e donatore tanto
auspicato da Hari.
Deepak ha lasciato il suo villaggio in autobus, a 14 anni, perché tanto lì -
appunto - viveva per strada. Nella capitale ha iniziato a lavorare subito
alla fabbrica di tappeti ed è quello che fa ancora adesso che di anni ne ha
19 - o almeno così dice lui, chissà se è davvero maggiorenne. Attacca al
telaio alle cinque del mattino, alle 10 fa una pausa di un'ora per mangiare,
poi riprende e va avanti fino alle otto di sera, con un'altra mezz'ora di
pausa nel pomeriggio. Questo sei giorni a settimana, dalla domenica al
venerdì. Il sabato gran vita: si lavora solo dalle cinque alle dieci, poi la
giornata è libera per bighellonare in giro con gli amici. Guadagna poco più
di 3 mila rupie nepalesi al mese (35 euro) ma in tasca gliene resta poco più
di metà, perchè 1.300 sono detratte dal padrone della fabbrica in cambio del
vitto (riso e lenticchie) e dell'alloggio (una camera senza bagno divisa con
altri tre). Con le rupie che gli avanzano, Deepak compra qualcosa in più da
mangiare o da bere e parla con i suoi una volta al mese: da un apparecchio
pubblico chiama un conoscente al villaggio, quello va a chiamargli la mamma
e dopo dieci minuti Deepak ritelefona. Ovviamente ha una nostalgia
struggente ("Non torno a casa da tre anni") ma pensa che non lascerà più
Kathmandu: "Con i soldi del rene apro un negozietto qui, di quelli che
vendono sigarette sfuse, saponi, shampoo, cose così. Mi basta un metro
quadro, non chiedo di più, pur di non stare tutto il giorno davanti al
telaio. Se poi mi avanza qualcosa lo mando alla mamma e ai miei fratellini,
che almeno si costruiscano una baracca di legno e non dormano più o davanti
al tempio".
Nei due giorni successivi - mentre Deepak resta in albergo a guardare la tv
- Hari prepara come promesso i documenti in cui il donatore si dichiara mio
figlio e un'ignota signora locale assicura di essere sua madre confermando
la mia paternità. Il primo foglio che arriva - pur con tutti i timbri
ministeriali - è francamente imbarazzante per gli errori di grammatica e
sintassi inglese. Ne parlo con Sudarshan e lui ci ride su: "Beh, meglio se
ci sono un po' di strafalcioni: i documenti del governo nepalese sono tutti
così. E poi si sa che gli indiani ci considerano degli analfabeti, se vedono
un documento di qui scritto in un buon inglese pensano che sia falso...".
Alla fine, tuttavia, conveniamo che forse gli svarioni sono un po' troppi
(il mio anno di nascita, '62, si è trasformato nell'età, 62 anni; la parola
'son', figlio, è stata confusa con 'husband', marito... ) e quindi chiediamo
a Hari una nuova edizione, appena più corretta, che arriva il giorno dopo
con gli stessi timbri e la stessa carta intestata. Forse un po' piccato per
essere stato bocciato al suo primo tentativo, il broker ci aggiunge due
differenti versioni del documento sulla falsa madre, con altrettante foto di
donne che avrei frequentato alla fine degli anni Ottanta. In entrambe le
varianti, le signore confermano che il ragazzo è nostro figlio e si dicono
d'accordo con la sua decisione di donarmi un rene. Alla fine scegliamo il
certificato firmato da tale Seti Maya, forse la più credibile in termini di
somiglianza con il mio donatore.
Chi sono? Un benefattore dell'umanità
A Calcutta, con Hari e Deepak, viene anche il mio amico Sudarshan:
formalmente per aiutarmi durante il ricovero, di fatto per gestire una
situazione che a quel punto è un po' più delicata. Per giustificare la mia
condizione di malato - sia con Hari sia con i medici - so che devo dare
segni di frequente stanchezza: in fondo dovrei essere già in dialisi, e se
non l'ho ancora iniziata è solo perché voglio tornare dall'Asia con il mio
rene nuovo. Cammino sempre con lentezza e mi siedo appena posso, ma la
recita è più difficile passando tutto il tempo con un intermediario abituato
a frequentare pazienti veri. La sera, dovendo far cena tutti insieme, mi
attengo alla dieta di un malato di reni: solo acqua, poche verdure e riso
bianco. Probabilmente è tutto superfluo, perché Hari non sembra avere il
minimo sospetto e anzi si lascia andare a racconti orgogliosi sul suo
lavoro: "Non capisco perché questa cosa sia vietata, è una vergogna", dice.
Poi indica Deepak: "Se lui ha bisogno di soldi e tu di un rene nuovo, perché
non potete combinare? Mah!". Poi, arrivato al dolce, tira fuori di tasca la
foto di un monaco buddista di nemmeno vent'anni: "Guarda, è il mio prossimo
paziente. Per lo Stato potrebbe morire, io lo porto qui in India e lui campa
un altro mezzo secolo. Dimmi tu perché deve essere vietato!". E ancora: "La
verità è che io non lavoro per soldi, lavoro per fare felice la gente.
Guarda com'è contento Deepak, e pensa come sarai felice tu quanto sarai
tornato in Italia e invece di quel riso bianco potrai mangiarti una bella
pizza!". Infine ritorna pragmatico: "Però quando torni a casa ricordati di
parlare di me ai tuoi amici. Chissà quanti ne hai conosciuti di malati di
reni, in ospedale...".
Il giorno dopo, venerdì, arriva finalmente il momento dell'incontro con il
chirurgo. Hari esce dall'hotel il mattino presto e prende il taxi per andare
all'ospedale - l'Apollo Gleneagles - e incontrare il medico prima di me, in
modo che poi tutto fili liscio. Mi spiega che il suo referente abituale, il
dottor Mishra, quel giorno non può vederci: è a un congresso o qualcosa di
simile. Però c'è il suo vice, tale dottor M. H. Raibagi: "Non ti
preoccupare, conosco bene anche lui ed è un ottimo chirurgo". Dopo un paio
d'ore arriva la telefonata: tutto a posto, possiamo andare.
Apollo Hospital, stanza numero 25
Attraversando l'insopportabile caldo umido di Calcutta, arriviamo
all'Apollo Gleneagles, un grande complesso moderno in cemento, a pochi metri
dalle 'bustees' della periferia in cellophane e bambù. Hari resta fuori con
Deepak ("Se il dottore vuole vedere subito il donatore, chiamatemi al
cellulare o venite a qui a prenderlo, ma per adesso è meglio che noi stiamo
qui"). Io dunque entro solo con Sudarshan.
è a pian terreno, reparto di nefrologia, stanza numero 25, che il dottor
Raibagi riceve i clienti. è un uomo di mezza età, in camice bianco e
cravatta, con un inglese fluente e un sorriso mellifluo. Gli spiego
brevemente la mia situazione, fingendo di non sapere che ha già parlato con
Hari. Gli racconto della mia malattia e della dialisi che non voglio
affrontare perché "in Italia ho una vita brillante, un lavoro nel marketing
che mi impegna tutto il giorno, sono sempre tra taxi, aerei e riunioni, non
posso stare per ore attaccato a una macchina sennò mi rovino la carriera".
Lui conviene con me ("Eh sì, la dialisi è molto noiosa..."), non chiede
niente di più e pensa solo a vendere bene il suo prodotto: "La nostra media
di successo, nel trapianto dei reni, sfiora il 99 per cento. Abbiamo i
migliori farmaci antirigetto, stanze private con aria condizionata e un
secondo letto per l'accompagnatore". Quanto ai tempi, non sono un problema:
"Naturalmente dobbiamo ripetere gli esami, a lei e al donatore, ma in tre o
quattro giorni si conclude tutto. Poi lei si fa solo una settimana di
dialisi, qui da noi, ed è pronto per il trapianto. Quindici-venti giorni di
convalescenza e può tornare a casa con il suo rene nuovo". I costi? Il
dottor Raibagi non ha falsi pudori: "Tra operazione, test clinici e ricovero
siamo attorno ai 5 mila euro, tutto compreso. Deve aggiungere soltanto i
soldi per le medicine, che gli ospedali indiani non passano...".
Dopodiché, finalmente, il chirurgo chiede di vedere i documenti: le mie
analisi del sangue - quelle truccate al computer prima di partire
dall'Italia - e i certificati falsi del donatore. Prende in mano i fogli
preparati da Hari e li guarda per pochi secondi. Solleva gli occhi
rassicurante: "Tutto okay, possiamo ricoverarla anche lunedì". Poi sospira:
"Certo, se questo ragazzo fosse veramente suo figlio, le possibilità di
successo sarebbero del 100 per cento...". A questo punto sono io a
provocarlo: "E se invece non lo fosse, mio figlio?". Raibagi mi guarda:
"Beh, in questo caso dovrò prescriverle una terapia antirigetto un po' più
potente, ma vedrà che andrà bene lo stesso". Per lui, l'ipotesi che Deepak
non sia mio consanguineo costituisce solo un ostacolo tecnico, non certo un
impedimento etico o legale.
Sbalordito dall'assurda facilità con cui il tutto sta avvenendo, provo a
immaginare qualche possibile ostacolo: "Ma che cosa succede se il rene di
Deepak non risulta compatibile? C'è qualcuno che può aiutarmi a trovarne un
altro qui?". Il dottore sorride ancora: "Affronteremo la questione solo al
momento, ma vedrà che non ce ne sarà bisogno. Comunque ci arrangeremo ('Anyhow
we'll manage it')".
Alla fine del colloquio, il dottor Raibagi si offre anche di visitarmi
subito, sul lettino. Lo ringrazio ma declino accampando stanchezza, caldo,
una gran voglia di tornare subito in albergo. La cosa non gli sembra strana:
"Allora venga lunedì, quando vuole. Basta che bussi alla mia porta, senza
fare la coda. Iniziamo subito le analisi e poi la ricoveriamo. Vedrà, andrà
tutto benissimo...".
Sudarshan e io usciamo dall'ospedale un po' frastornati. Hari non c'è, ma ha
lasciato detto di aspettarlo: è andato "un attimo a salutare un altro
dottore", cioè probabilmente a corromperlo. Deepak beve una spremuta di
canna da zucchero sotto il sole. Se fossi davvero un malato, nel giro di
dieci giorni il suo rene sarebbe nel mio corpo. Invece è arrivato il momento
di chiudere tutto.
Lascio a Sudarshan un po' di soldi per Deepak, poi salgo su un taxi e
sparisco nel torrido caos di Calcutta.
Spese altissime per assicurare la
responsabilità civile degli ospedali, vincono sempre gli stessi
Polizze milionarie nella
Sanità
in Sicilia lo sponsor di partito
Da Micciché a
Lombardo, da Mannino al fratello di Cuffaro, molte società di brokeraggio
hanno rapporti con la politica
Grandi società multinazionali regolarmente perdono contro le piccole. E
spesso a nulla valgono i loro ricorsi al Tar
di ANTONELLO CAPORALE
PALERMO - Se un pappagallo urta il becco contro una barella al pronto
soccorso o un cane inciampa tra i corridoi della chirurgia generale dov'è
ricoverato il suo padrone, un asino collassa avanti l'ambulatorio
oculistico, un cavallo viene investito nel parcheggio del policlinico, il
costo delle cure è garantito e, soprattutto, assicurato. Traumi, invalidità
permanente o anche morte del povero animale.
A Messina il massimale per cani e gatti e ogni altra specie dell'universo è
fissato a 5 milioni e 164mila euro, l'Università di Bari, meno previdente,
si è coperta da polizza fino a tre milioni, l'ospedale di Enna per due
milioni e 500 mila, idem il Civico di Palermo. "Nemmeno se porti in sala
operatoria la renna di Babbo Natale e te la mangi con tutti i sonagli è
giustificata una simile cifra", dice Pier Carmelo Russo, oggi dirigente
della Regione Sicilia, ma ieri avvocato che provò innanzi al Tar come
l'Azienda sanitaria trapanese Sant'Antonio Abate avesse assicurato
l'ospedale con tutto quel che conteneva (medici, infermieri, beni
strumentali e anche animali) per una superpolizza dall'esorbitante costo di
un milione 176mila euro. Provò che era carissima, e soprattutto inutilmente
dispendiosa. Massimali altissimi, premi alle stelle. Il Tar (sentenza
3034/05) annullò il contratto.
L'ospedale, limando e ripulendo, rifece la gara per trovare una congrua
assicurazione e spese 676mila euro, quasi la metà, per di più sestuplicando
nella polizza il valore dei risarcimenti a cui si obbligava la compagnia
assicuratrice rispetto alla precedente.
Nel bilancio dello Stato somme importanti sono destinate a coprire la
cosiddetta responsabilità civile delle migliaia di dipendenti, e poi la
sicurezza di edifici e palazzi, scuole e consultori, acquedotti e strade. Ma
il vero salasso per le casse pubbliche è la cifra che le aziende ospedaliere
devono mettere da parte nei bilanci per assicurare i dipendenti, cioè i
medici, per responsabilità connesse al proprio lavoro. Un intervento
chirurgico che non va bene, l'artroscopia fatta male, il bypass difettoso.
Gli incidenti purtroppo sono molti, le richieste di risarcimento altrettanto
numerose, gli indennizzi certi ed elevati.
Una fortuna! Per alcuni più incidenti uguale più premi. Più premi uguale più
soldi. Ecco, le polizze costano care. Anche perché si assicura tutto oltre
limite estremo della ragione. Il chirurgo è naturalmente coperto da polizza
ma anche il ferrista di sala operatoria. Ed è giusto. Oltre al ferrista la
caposala, l'infermiere, professionale e generico. Ed è giusto. Ma gli stessi
massimali valgono per il portantino e giù giù fino al cuoco, allo sguattero
da cucina e, appunto, al pappagallo. Cinque milioni di euro di premio
massimo se dovesse all'animaluccio occorrere qualcosa. Polizze
fantascientifiche che solo un matto potrebbe stipulare. Ma qui paga lo
Stato.
Alcuni nosocomi sottoscrivono impegni con le assicurazioni in cui il limite
che esclude la compagnia dall'obbligo di pagare è posto a livelli
incredibili: a Palermo l'ospedale, benché assicurato, si ritiene
direttamente coinvolto (quindi paga di tasca sua) danni fino a
cinquecentomila euro. Prima che l'assicurazione si ritenga coinvolta bisogna
giungere alla soglia lunare del mezzo milione di euro. Fosse finita qui! In
tutte le polizze c'è la clausola del limite temporale del risarcimento
postumo. Altra fregatura. Mettiamo una semplice operazione al ginocchio
fatta oggi. Il malato va a casa, dopo qualche settimana i dolori
post-operatori non cessano, decide di indagare e dopo qualche mese si fa
rioperare accorgendosi che la prima operazione è stata condotta male. Chiede
i danni all'ortopedico per colpa professionale. L'ortopedico è coperto
dall'assicurazione stipulata dal suo ospedale.
Ma l'assicurazione che ha intascato il premio rifiuta il pagamento perché la
richiesta è stata inoltrata fuori tempo massimo. Alcune compagnie fissano a
tre mesi, altre a sei mesi, altre a un anno il limite temporale della loro
copertura postcontratto. E dunque? E dunque, e ancora una volta, l'ospedale
pagherà con i suoi soldi ciò che ha già pagato. La polizza è morta, è vuota.
Pagata. E pagata quanto?
Bella domanda. La sanità italiana è così malmessa che le maggiori compagnie
non vogliono correre rischi e si tengono alla larga dal rispondere alle
richieste. Trovare una assicurazione è un'impresa, purtroppo.
Rispondono i Lloyds di Londra, o piccole compagnie estere, leggere ma
audaci. In Sicilia la parte del leone la fa l'australiana Qbe, un solo
ufficio italiano e tutto il resto in Oceania e a Londra.
Per raggiungere la Qbe gli ospedali, come tutti gli enti pubblici e anche i
grandi gruppi privati italiani, si fanno aiutare da un broker. E chi è il
broker? Un professionista che, valutata la mappa del rischio dell'azienda
cui presta la sua consulenza, va sul mercato delle assicurazioni e prende
quel che gli serve: le migliori polizze teoricamente al minor costo. Il
broker dunque gestisce (dovrebbe gestire) la qualità del rischio e il suo
mantenimento al livello più basso. Se è bravo e onesto e il suo cliente, per
esempio un municipio, è oggetto di ripetute richieste risarcitorie per
incidenti stradali che percentualmente sono concentrati a un incrocio,
chiederà tempestivamente che il bivio venga messo in sicurezza (ad esempio
con una rotatoria). La riduzione del rischio provocherà la riduzione del
premio che l'assicurazione riterrà di pretendere. Questo se il broker è
serio.
Il broker però guadagna in percentuale sul premio pagato dal cliente: più è
alto il costo dell'assicurazione più la provvigione (che varia dal 3 all'8
per cento) risulta elevata. E il broker per lavorare deve superare una gara
pubblica indetta dalla Asl. E dunque? Avete pensato bene: una conoscenza è
meglio di niente, due è meglio di una. La politica da poco ha scoperto
questo nuovo mercato. E se lo coccola. In Sicilia (come in tutto il Paese)
le società di brokeraggio si fanno una guerra spietata per raccogliere
incarichi, vincere gare, intercettare commesse sempre più sontuose.
Grandi società multinazionali di brokeraggio (Aon e Marsh) e medie (Sgr,
Viras), piccole (consulbrokers), piccolissime (Assisicilia). A Palermo, a
Catania, a Trapani, a Mazara le grandi perdono sistematicamente, le piccole
e piccolissime vincono quasi sistematicamente. Migliore offerta, miglior
progetto operativo, miglior punteggio. A Catania (Ausl 3) il progetto
Marsh-Aon viene giudicato migliore ma gli viene assegnato lo stesso
punteggio di Consulbrokers. Ricorso al Tar, annullamento della gara. L'Asl
invece di modificare i punteggi, modifica i giudizi: chi aveva vinto invece
di perdere rivince grazie a un giudizio che da buono raggiunge l'ottimo.
Intendiamoci, nulla di male e solo una coincidenza se per esempio la Sgr,
società di brokeraggio, custodisce una limpida amicizia con Silvio Cuffaro,
fratello di Totò, il governatore. E nulla di male se i titolari di
Consulbrokers si ritengono, o sono ritenuti, amici di Raffaele Lombardo,
padrone di Catania. Se la Viras è molto stimata dall'ex assessore alla
Sanità Sanzarello, la Sicurmed da Lillo Mannino, la Reale Mutua da Micciché.
Sono aziende. Ognuna ha diritto di sostenere il partito del cuore e, nei
limiti consentiti dalla legge, anche di finanziarlo. Lo fanno i migliori
imprenditori che in Parlamento depositano le cifre dei loro bonifici.
L'assicurazione, poi, è un obbligo di legge. E, come si dice?, una buona
polizza allunga la vita.
Oltre 1100 abitanti di Rosolini (Siracusa) si
dichiaravano indigenti
Denunciate anche due persone con redditi da mezzo milione di euro
Finti poveri per truffare
la sanità
Intero paese nel mirino della Gdf
Già a dicembre
dello scorso anno erano state scoperte altre 310 false dichiarazioni
ROSOLINI (SIRACUSA)
- Liberi professionisti, artigiani, dipendenti statali, comunali,
commercianti e pensionati: a Rosolini, un centro a sud di Siracusa, di oltre
ventimila abitanti, oltre 1100 persone godevano di prestazioni sanitarie
gratuite pur non avendone diritto. I "falsi poveri" sono stati denunciati in
stato di libertà dalla Guardia di finanza di Siracusa con l'accusa di aver
truffato il servizio sanitario nazionale. Tra i denunciati anche due persone
con redditi accertati, affermano gli inquirenti, da mezzo milione di euro
ciascuno ma che dichiaravano di essere indigenti. Nella cittadina già a
dicembre dello scorso anno, la Guardia di finanza aveva denunciato, nella
prima fase della stessa indagine, altri 310 falsi indigenti.
Secondo la ricostruzione degli investigatori, le persone denunciate
sarebbero riuscite ad ottenere, grazie a false autocertificazioni,
l'esenzione del pagamento del ticket per prestazioni sanitarie e per
l'acquisto di medicinali, senza averne diritto. L'ipotesi di reato che viene
loro contestata è di truffa e di falsità ideologica commessa dal privato in
atto pubblico.
Le indagini hanno preso il via da alcune anomalie riscontrate dalla verifica
dei redditi dichiarati da alcune delle persone coinvolte nella
maxi-inchiesta. Il limite per godere dell'esenzione del ticket sanitario è
di 12 mila euro l'anno ma i denunciati dichiaravano di guadagnare una cifra
inferiore. Rischiano una condanna da 3 mesi a tre anni di carcere.
18 maggio
Allarme
sicurezza stradale
Francia modello da seguire
di VINCENZO
BORGOMEO
Voti alla sicurezza stradale: li dà l'European Transport Safety
Council, sostenuto da tutti i governi del Vecchio Continente. E
l'Italia è dietro la lavagna con il con il cappello da asino: siamo
sopra la media della mortalità europea (di circa il 13 per cento,
circa 900 morti in più sulla media e 2700 in più rispetto ai
migliori della classe). Ma non è tutto: da noi le due ruote valgono
solo il 3,6 per cento della mobilità ma incidono per il 26% sulla
mortalità generale da incidenti stradali. Il che significa che i
morti " da due ruote" sono in continuo aumento e che l'Italia ha il
maggior numero di vittime di Europa.
Insomma un quadro disastroso, reso ancora più preoccupante per il
fatto che abbiamo le città più pericolose fra tutte quelle del
vecchio continente.
In città fra l'altri aumentano incidenti, morti e feriti, mentre su
tutte le altre strade diminuiscono (qui avvengono il 45% dei morti e
il 79% dei feriti totali). In più c'è un incredibile divario fra la
situazione delle varie città (chi riduce la mortalità del 30% e chi
la aumenta del 40%). E nessuno sa perché questo accada.
L'ETSC è indubbiamente severo, ma sono numeri, statistiche,
impossibile da contestare. Il tutto è contenuto nel famoso Safety
Performance index, che prende in considerazione due parametri
principali: l'utilizzo delle cinture di sicurezza e la riduzione del
numero di vittime. La Francia è al primo posto, noi complessivamente
siamo al 14esimo posto di una classifica fatta da 27 paesi
realizzata su statistiche 2002-2005. Ma c'è poco da gioire perché
come abbiamo visto prima abbiamo record davvero poco invidiabili.
Ma come si arriva al record francese? "Innanzitutto da un forte
impegno del governo - spiegano all'ETSC - perché Chirac ha posto la
sicurezza stradale fra gli obiettivi primari del suo mandato, e
questo è stato adottato soprattutto per quanto riguarda il rispetto
dei limiti di velocità. In Francia oggi hanno 2000 telecamere fisse
che fanno qualcosa come 30 mila verbali al giorno...
Molto importante, sempre secondo l'ETCS, poi il controllo degli
incidenti che riguarda la guida in stato di ebbrezza. I dati vanno
dal 1996 al 2005 e qui i Paesi che hanno fatto registrare la
diminuzione più grande del numero di morti per guida in stato di
ebbrezza sono Repubblica Ceca (meno 12,5%), e poi seguono Germania,
Olanda e Polonia. Il trend di riduzione è importantissimo perché
alla fine incide enormemente sul trend complessivo. Ma ci sono poi
anche paesi come Spagna, Ungheria, Slovenia, Finlandia e Gran
Bretagna che hanno invece avuto un aumento di vittima. E L'Italia?
Mon si sa: da noi non è stato possibile registrare nulla. Il
problema è enorme, e non a caso scorrendo le statistiche europee i
nostri dati sono sempre i più carenti, i meno aggiornati e i più
vecchi. Sulle tabelle accanto alla voce Italia c'è sempre un
asterisco, così diventa davvero molto difficile poi fare qualsiasi
tipo di stima e di investimento sul futuro.
In tutti i casi è in arrivo un disegno di legge per alcune azioni
molto urgenti, c'è il progetto del nuovo Codice della Strada, e il
Ministero è al lavoro per cercare di ridurre in tutti i modi
incidenti e numeri di morti. Ma la strada appare onestamente
completamente in salita.
Molto possono comunque fare le stesse case automobilistiche perché
alla fine, poi, in una situazione di carenza legislativa, di strade
dissestate e segnaletica improbabile, una macchina piena di
tecnologia aiuta a salvarsi la pelle. Massimo Nordio, ad Toyota
Motor Italia che a livello europeo sostiene il progetto ETSC è stato
chiaro: "Watanabe, il nostro presidente, ha un sogno, quello di
potere arrivare ad avere una macchina che più la usi e più migliora
l'ambiente, e con faccia zero vittime. Quindi salvaguardia
dell'ambiente, ma anche salvaguardia totale delle persone.
Va detto - continua poi Nordio - che poi il nostro impegno può
arrivare fino a un certo punto, perché poi la sicurezza stradale
riguarda tutti, dalle autorità ai costruttori passando per ogni
singolo automobilista. Per questo è fondamentale lavorare insieme.
Aziende, strutture e istituzioni e consumatori". E torniamo al tema
del dibattito di oggi.
E proprio alla Consulta Nazionale della Sicurezza Stradale istituita
nel 2001 proprio per dare in coordinamento generale ai 21 governi
regionali e agli oltre 8000 comuni e, soprattutto, per incentivare
con importanti finanziamenti progetti vari. Fino a oggi ci sono
stati realizzati 4 programmi nazionali, 42 regionali e 1.122
interventi specifici. "Ma ogni volta che abbiamo dato un euro -
spiegano alla Consulta Nazionale della Sicurezza Stradale - lo
abbiamo fatto a fronte di un impegno: avere una scheda che ci spiega
i risultati della spesa".
A proposito di trasparenza, però non tutto funziona: "Nel nostro
stato diritto abbiamo la possibilità di tutelare la vita di ognuno
di noi" spiega Cassaniti Mastrojani dell'Associazione Vittime della
Strada "e secondo noi dobbiamo tener conto anche delle
responsabilità sociali, oltre che strade, veicolo e conducente.
Ossia quelle folli libertà che si prendono le istituzioni di fare un
lavoro sbagliato senza che venga mai sanzionato da nessuno. La
società - continua ancora Cassaniti Mastrojani - deve rispondere
alla salvaguardia dei cittadini, che devono essere ascoltati dalle
istituzioni. Le mancate risposte che i cittadini hanno sono la
cartina di tornasole del nostro livello di democrazia".
Cessate il fuoco
Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n.20 -
2007 dal 10 al 16/5
Questa settimana, in tutti i
paesi ancora in guerra, sono morte almeno 1.203 persone
Iraq
Questa settimana sono morte almeno
665 persone (645 iracheni, dei quali almeno 500 civili, e
20 militari della Coalizione).
Dall’inizio dell’anno i morti sono
almeno 12.619.
Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno
211 persone (186 talebani o presunti tali, 24
militari afgani e un soldato della Nato).
Dall’inizio dell’anno i morti sono
almeno 1.929 (404 civili, 1.174 talebani o
presunti tali, 292 militari afgani, 59 soldati della Nato).
Israele e Palestina
Questa settimana sono morti 33
palestinesi negli scontri tra Hamas e Fatah, e altri 5
nei raid dell'aviazione israeliana sulla Striscia di Gaza.
Dall’inizio dell’anno i morti sono
almeno 128.
Colombia
Questa settimana sono morte almeno 19 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 159.
Cecenia (Russia)
Questa settimana sono morte almeno
2 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono
almeno 318.
Filippine-Mindanao
Dall’inizio dell’anno i morti
sono almeno 148.
Filippine-Npa
Questa settimana sono morte
almeno 5 persone.
Almeno 80
morti dall’inizio dell’anno.
Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno
27 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono
almeno 1.117.
India Nordest
Questa settimana sono morte almeno
26 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono
almeno 410.
India Naxaliti
Questa settimana sono morte almeno
14 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono
almeno 216.
India Kashmir
Questa settimana sono morte almeno 17
persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono
almeno 260.
Pakistan
Questa settimana sono morte almeno 96
persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono
almeno 800.
Somalia
Questa settimana sono morte almeno
34 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono
almeno 1.505.
Rep. Dem. Congo
Questa settimana sono morte almeno
4 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono
almeno 468.
Sudan
Questa settimana sono morte almeno
50 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono
almeno 321.
17 maggio
Centro sinistra in Sicilia
UNA VITTORIA RETROATTIVA
di Agostino Spataro
Come il solito, più che il
voto il vero rompicapo è il dopovoto. Almeno per la gente che cerca di capire
cosa sia effettivamente successo a Palermo e in Sicilia a seguito delle
votazioni del 13-14 maggio.
Stiamo assistendo alla solita
pantomima: tutti vincitori e nessun vinto. Soprattutto, nel centro sinistra,
invece d’interrogarsi sui motivi di questa ennesima sconfitta, ci si arrampica
sugli specchi per dimostrare che si è vinto, se non proprio nel recente
confronto, almeno rispetto a quelli precedenti. Vittorie dal sapore retroattivo,
meramente consolatorie, che non modificano di un millimetro l’amara verità
uscita dalle urne.
Se qualcuno ammette la
sconfitta ne addossa la colpa ad altri, all’avversario che ha imbrogliato le
carte o, addirittura, all’elettorato che non ha capito il “messaggio” (quale?).
C’è, addirittura, chi ha
chiamato in causa le recenti dichiarazioni di Padoa Schioppa su pensioni e
concertazione, forse, senza accorgersi che, così facendo, si accredita la tesi
degli esponenti del centro destra che vorrebbero far discendere dalle scelte e
dagli indirizzi del governo Prodi tutti i guai della Sicilia e perciò affidano
al voto isolano (in gran parte scontato a loro favore) una funzione
destabilizzante del governo, senza, nemmeno, attendere lo svolgimento della più
impegnativa tornata del 27 maggio che vedrà alle urne circa 10 milioni di
elettori nel resto del Paese. Ai quali bisogna aggiungere quelli di una ventina
di medi centri siciliani che ri-andranno a votare per i ballottaggi. Fra questi,
molto atteso è l’esito dell’interessante tentativo, largamente premiato al primo
turno, del giovane Zambuto, ex segretario provinciale dell’Udc di Cuffaro, che
nella città di Agrigento si è messo alla testa di una “rivolta” contro il
predominio di certi poteri forti, politici e d’altra natura.
Ma torniamo ai risultati del
14 maggio ancora sommersi dentro il tourbillon di un’acqua resa torbida da
analisi frettolose, parziali e, talora, molto propagandistiche.
Quando l’acqua si schiarirà
gli esponenti della Cdl s’accorgeranno dell’erosione subita dal loro blocco
elettorale a Palermo e altrove e quelli del centro sinistra, forse, la
smetteranno di eludere le vere cause della sconfitta e di propinarci improbabili
concause sulle quali s’illudono di costruire un nuovo alibi per tirare a campare
per un altro lustro.
Anche Leoluca Orlando, che a
Palermo ha fatto una battaglia generosa e conseguito un risultato davvero
ragguardevole, si potrà convincere che, certo, vi saranno stati brogli,
pressioni illecite e perfino compravendite di voti, ma l’incidenza di tali
fenomeni non può esser stata tale da determinare un risultato così netto a
favore della CdL.
Poiché se questa è la logica,
bisognerebbe domandarsi: cosa sarà mai successo d’illecito a Trapani e nella
rossa Ragusa dove la CdL ha conseguito una vittoria ancor più pesante?
L’inadeguatezza del
centrosinistra siciliano: una grande questione nazionale
La verità, i fondo, è quella
uscita dalle urne e da questa bisogna partire per fare, finalmente, il punto
sulla realtà e sulle prospettive del centro sinistra nell’Isola, poiché se il
voto siciliano non chiama in causa Prodi chiama sicuramente in causa partiti e
dirigenti del centro-sinistra, i quali dovrebbero decidersi ad affrontare questa
debolezza, ormai, strutturale come questione prioritaria e decisiva per la
prospettiva politica ed elettorale nazionale.
Si facciano, dunque, i
necessari ricorsi presso le sedi competenti, ma in sede politica si apra una
riflessione severa e puntuale, una grande discussione democratica per
individuare idee e proposte mobilitanti per un’alternativa che si può conseguire
solo mediante atti di rottura col sistema di potere dominante in Sicilia, e a
Palermo in particolare, che solo nuovi gruppi dirigenti, animati da sincero
spirito di cambiamento, possono realizzare.
Se ci fate caso, è dai tempi
di Mattarella, di De Pasquale, La Torre che non si riflette su una prospettiva
di questo tipo. Un quarto di secolo, durante il quale sono cambiate tante cose e
poteri ibridi si sono insediati nei gangli vitali della Regione e degli enti
locali.
Durante questo tempo, il
centro sinistra, la sinistra comunque aggettivata, hanno vissuto di rendita e
dilapidato il patrimonio elettorale ereditato che, oggi, dovrebbe attestarsi
almeno intorno al 40%, mentre in molti comuni non supera il 10%.
Insomma, mentre nel mondo, in
Europa e in Italia tutto cambiava, qui tutto languiva nel pantano di un
trasversalismo mirato a tenere la Sicilia fuori del cambiamento.
In queste condizioni, la
sinistra ha preferito avvitarsi su se stessa, ripiegare sull’autoreferenzialità
dei suoi gruppi dirigenti, dismettendo pratiche e concezioni che, nel passato,
avevano prodotto un ruolo dirompente sul fronte sociale e politico e anche
interessanti esiti elettorali.
Il trionfo del comunista
Crocetta insegna che l’esser di sinistra paga, quando ben si governa
Questa situazione ha
generato una ben strana (per non dire comoda) teoria secondo la quale l’esser di
sinistra restringe l’area del consenso, perciò meglio affidarsi in certe
competizioni a nomi prestigiosi della cosiddetta “società civile”. Da qui è
invalsa una pratica discutibile, un’incomprensibile dicotomia di comportamenti
nella scelta delle candidature: affidarsi a candidati indipendenti o provenienti
da altre militanze per la conquista della presidenza della Regione, di molte
province e dei municipi delle grandi città siciliane, mentre così non è stato in
occasione di elezioni regionali e nazionali nelle cui liste si sono sempre ben
piazzati soltanto dirigenti di partito, anche con svariate legislature.
Tale comportamento ha fatto
sì che, per i sindaci delle grandi città o per la presidenza della Regione, mai
un esponente blasonato della sinistra si è misurato con i candidati della CdL.
Per averne conferma, basta
guardare le candidature nelle più recenti consultazioni: a Palermo Orlando, a
Catania Bianco, a Messina Genovese, a Trapani Boscaino, ad Agrigento Zambuto;
così alla Regione: prima Orlando e poi la Borsellino.
Eppure questa stessa sinistra
ha espresso ed esprime posizione di prestigio, parlamentare e di governo, ai
livelli regionale e nazionale.
E non regge l’argomento che
l’essere di sinistra restringa l’area del consenso. A Gela, si dimostra il
contrario: il comunista Rosario Crocetta, è stato riconfermato sindaco col 65%
dei voti.
Parliamoci chiaro: quello di
Gela non è solo un risultato in controtendenza rispetto alla vittoria
generalizzata della CdL, ma lo è anche rispetto a un certo modo di fare politica
e di governare del centrosinistra in Sicilia.
Anche a Gela imperversano
mafia, pizzo, disoccupazione, precari e quant’altro eppure il risultato è venuto
senza bisogno di sporcarsi le mani, anzi all’insegna della buona amministrazione
e della legalità.
16 maggio
Segreto di Stato:
a Genova ci fu un disegno repressivo, prima condanna per la Polizia
al G8 del 2001
La censura da parte dei media è stata
rigida ed assoluta: della sentenza di Genova non si doveva parlare.
Infatti incredibilmente non ne ha scritto neanche il Manifesto e
dovrebbe spiegare perché.
Alzi la mano chi ha saputo che la settimana scorsa a Genova c'è
stata la prima condanna per i pestaggi della Polizia durante
il G8 del 2001. Eppure la sentenza di Genova è un passaggio capitale
per la ricostruzione della verità e la giustizia di quello che
successe nel capoluogo ligure oramai 6 anni fa. E ci spiega anche
molto del disegno politico sotteso alla repressione.
Lo Stato è stato condannato a risarcire Marina Spaccini, 50 anni,
pediatra triestina, volontaria per quattro anni in Africa, per il
pestaggio che subì da parte della Polizia in via Assarotti, nel
pomeriggio del 20 luglio 2001. Marina, come decine di migliaia di
militanti cattolici della Rete
Lilliput, era seduta, con le mani alzate dipinte di bianco, gridando
"non violenza", quando fu massacrata dalla Polizia. Questa si è
difesa sostenendo (sic!) che non era possibile distinguere tra le
mani dipinte di bianco di Marina e i Black Block. Per il giudice
Angela Latella invece la selvaggia repressione genovese -e la
cortina di menzogne sollevata per coprirle- è stata una delle pagine
più nere di tutta la storia della Polizia di Stato e per la prima
volta ciò viene scritto in
una sentenza. Non solo, è ben più grave quello che è scritto nella
sentenza genovese. Quelle dei poliziotti non furono né iniziative
isolate né eccessi, ma facevano parte di un disegno criminale.
Si inizia a confermare in via processuale quello che chi scrive
sostiene e scrive da sei anni. A Genova vi fu un disegno criminale
selettivo da parte di apparati dello stato. Tale disegno era teso a
terrorizzare non tanto la sinistra radicale ma il pacifismo
cattolico, in particolare la Rete Lilliput, che per la prima volta
in maniera così convinta e numerosa scendeva in piazza saldandosi in
un unico enorme fronte antineoliberale con la sinistra.
Le ragazze e i ragazzi delle parrocchie furono quelli che pagarono
il prezzo più alto, soprattutto sabato. I loro spezzoni di corteo
furono sistematicamente bersagliati dai lacrimogeni e centinaia di
loro furono pestati selvaggiamente. Ma,
soprattutto decine di migliaia di loro, e le loro famiglie, furono
spaventati a morte in una logica pienamente terroristica. Quanti
dopo Genova sono rimasti a casa?
Di fronte all'immagine sorda data dai grandi della terra, Bush,
Blair, Berlusconi, quel movimento pacifico, colorato, credibile,
fatto di persone serie e non dei pescecani rinchiusi nella città
proibita, che si era riunito intorno alle
proposte concrete per un nuovo mondo possibile del Genoa Social
Forum, doveva essere schiacciato. Non lo sapevamo, ma mancavano 50
giorni all' 11 settembre.
L'articolo di
Massimo Calandri è apparso SOLO sulle pagine genovesi di Repubblica
lo scorso 29
aprile.
Prima condanna per le violenze delle forze dell'ordine contro
i manifestanti: "Non furono iniziative isolate"
G8, condannato il Ministero - Missionaria picchiata, risarciti
invalidità e danni morali
"Ho solo ottenuto quello che attendevo da 6 anni: giustizia"
MASSIMO CALANDRI
LA PRIMA condanna nei confronti del Ministero dell'Interno per le
illecite e gratuite violenze dei suoi poliziotti è arrivata nei
giorni scorsi, e cioè circa sei anni dopo la vergogna del G8
genovese.
Ma le parole con cui il giudice istruttore Angela Latella ha
motivato la sua decisione rinfrescano la memoria.
Ricordando a tutti che quelle cariche sanguinarie,quelle teste rotte
a manganellate, quei lacrimogeni sparati contro le persone inermi,
non erano frutto dell'iniziativa isolata o dell'autonomo eccesso di
qualche agente. Facevano invece parte di un più ampio disegno -così
come le menzogne raccontate più tardi per coprire le nefandezze - ,
che rappresenta una delle pagine più buie nella storia della Polizia
di Stato.
Il tribunale del capoluogo ligure ha dato ragione a Marina Spaccini,
pediatra cinquantenne di origine triestina, pacifista che per
quattro anni ha lavorato in due ospedali missionari del Kenia. Alle
due del pomeriggio del 20 luglio, era il 2001, venne pestata a
sangue in via Assarotti.
Partecipava alla manifestazione della Rete Lilliput, era tra quelli
che alzava in alto le mani dipinte di bianco urlando: "Non
violenza!".
Gli agenti e i loro capi avrebbero poi raccontato che stavano dando
la caccia ad un gruppo di Black Bloc, che c'era una gran confusione
e qualcuno tirava contro di loro le molotov, che non era possibile
distinguere tra "buoni" e "cattivi": bugie smascherate nel corso del
processo, come sottolineato dal giudice. I cattivi c'erano per
davvero, ed erano i poliziotti che a bastonate aprirono una vasta
ferita sulla fronte della pediatra triestina. Dal momento che quegli
agenti, come in buona parte degli episodi legati al vertice, non
sono stati identificati, Angela Latella ha deciso di condannare il
Ministero dell'Interno. La cifra che verrà pagata a Marina Spaccini
non è certo clamorosa - cinquemila euro tra invalidità, danni morali
ed esistenziali - , ma il punto è evidentemente un altro.
«Se risulta chiaramente che la Spaccini sia stata oggetto di un atto
di violenza da parte di un appartenente alle forze di polizia -
scrive il giudice - , non si può neppure porre in dubbio che non si
sia trattato né di un'iniziativa isolata, di un qualche autonomo
eccesso da parte di qualche agente, né di un fatale inconveniente
durante una legittima operazione di polizia volta e riportare
l'ordine pubblico gravemente messo in pericolo».
Perché l'intervento della polizia non fu «legittimo», è ormai
abbastanza chiaro. Lo hanno confermato i testimoni e in un certo
senso gli stessi poliziotti e funzionari, con le loro
contraddizioni: «Gli aggressori erano diverse decine; l'ordine era
di
caricarli, disperderli ed arrestarli», hanno detto, interrogati. Ma
poi risulta che furono arrestati solo due ragazzi (non feriti), la
cui
posizione fu in seguito peraltro archiviata. La pacifista era
assistita dagli avvocati Alessandra Ballerini e Marco Vano. Il
giudice ha sottolineato come fotografie e filmati portati in aula
«siano stati illuminanti»: «Si vedono ammanettare persone vestite
normalmente; più poliziotti colpire con i manganelli una persona a
terra, inerme. La
stessa Spaccini è una persona di cinquant'anni, di cui giustamente
si sottolinea l'aspetto mite». E poi, le testimonianze come quella
di una signora settantenne che parla di una «manifestazione
assolutamente pacifica e allegra» e di aver quindi visto agenti
«bastonare ferocemente persone con le mani alzate ed inermi come
lei». Marina Spaccini ha accolto il giudizio con un sorriso: «Era
semplicemente quello che attendevo da sei anni. Giustizia».
G8, l´ultima verità
sulla Diaz - L´ex questore Colucci confessa: " Mi sentivo
inadeguato"
Sconcertante deposizione dell´alto funzionario sei anni dopo tra
smentite e "non ricordo più"
MASSIMO CALANDRI
L´IMBARAZZANTE interrogatorio di Francesco Colucci, che in quei
giorni del G8 era ancora il questore di Genova, ha dato ieri mattina
la misura di quanto difficile sia il compito di chi vuole fare
chiarezza sulle sciagurate giornate del luglio 2001. A distanza di
sei anni, quello che allora era la massima autorità di pubblica
sicurezza presente in città (prefetto escluso) è caduto in una serie
di contraddizioni ed amnesie che hanno lasciato a bocca aperta i
presenti. «Non ricordo». «Forse ho sbagliato
nel parlare». «La mia affermazione forse è stata un po´ sprovveduta,
superficiale». «Non sono sicuro, lo giuro davanti a Dio e allo Stato
italiano». «Mi correggo, forse sono stato impreciso». Per sei ore
Colucci ha risposto alle domande del pm Enrico Zucca, smentendo in
alcuni casi quando aveva dichiarato a verbale negli anni precedenti
e regalando un´informazione inedita. La notte dell´assalto alla
scuola Diaz, il funzionario che doveva coordinare gli interventi era
il vice-questore Lorenzo Murgolo. Che per il massacro e l´arresto
illegale dei 93 no-global, così come per le prove fasulle, non è
imputato. «Murgolo era il coordinatore. Ma c´erano La Barbera e
Gratteri accanto a lui...
«. Affermazione che vuole dire tutto e niente, perché - come l´ex
questore di Genova ha poi ribadito - «non so a che punto poteva
contare la scala gerarchica».
In un´intera giornata passata in aula, Colucci non ha chiarito
nulla. Perché si decise di intervenire nell´istituto di via
Battisti? La versione è quella del fantomatico attacco in serata
alle pattuglie della polizia, e di quei tipi sospetti - «Non gente
gioiosa, gente allegra... ma facce brutte, con atteggiamenti
minacciosi, vestiti di scuro» - davanti alla scuola. Lui avrebbe
voluto lasciar perdere, ormai il G8 era finito, «ma poi tutti quanti
abbiamo deciso l´intervento: identificare gli aggressori e trovare
armi
eventuali. Fare una perquisizione». Chi tra i super-poliziotti
spinse per il blitz? Colucci fa alcuni nomi, poi ci ripensa, alla
fine spiega che il prefetto La Barbera - che è morto - era d´accordo.
«Io mi sentivo un po´ inadeguato», confessa quello che in quei
giorni era il questore di Genova.
A suo tempo aveva detto che il capo della polizia, Gianni Di
Gennaro, gli aveva detto di telefonare al capo dell´ufficio stampa,
Roberto Sgalla: ieri ha detto che fu una sua iniziativa. Lui restò
in questura, chi lo avvertì del ritrovamento delle molotov? Colucci
fa almeno tre nomi, ma non ricorda. Ed è in difficoltà quando deve
raccontare di quel poliziotto che gli disse di essere stato colpito
dalla coltellata fantasma di un altrettanto fantasma Black Bloc:
«Indossava un maglione di cotone... no... un giubbotto
antiproiettile». Per non parlare di quando spontaneamente confessa
di aver saputo di un equipaggio di una squadra mobile che era
entrato per sbaglio nella scuola di fronte alla Diaz: ma dimentica
di aver inviato a Di Gennaro una relazione in cui scriveva che quei
poliziotti stavano facendo una «verifica».
«Io so solo che quella notte dovevamo fare qualche cosa, dovevamo
reagire a quella cosa.
Eravamo un po´ pressati, eravamo condizionati. E decidemmo di
intervenire».
Spese
distruzione Altri
25 milioni di euro per la guerra in Afghanistan. Quanto i tagli alla
scuola fatti da Prodi |
Circa
25 milioni di euro. La stessa cifra che il governo Prodi ha tagliato
dai finanziamenti alla scuola pubblica per il corrente anno
scolastico, ora li investe per finanziare i rinforzi al contingente
militare italiano schierato in l’Afghanistan.
Il ministro della Difesa, Arturo Parisi, ha annunciato davanti alle
commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato l’invio di otto carri
armati ‘Dardo’, cinque elicotteri da attacco A-129 ‘Mangusta’, dieci
blindati ‘Lince’ e 145 militari di equipaggio e supporto tecnico e
logistico. Costo complessivo, calcolato solo fino a fine anno: 25,9
milioni di euro. “La relativa copertura finanziaria – ha spiegato
Parisi – d’intesa con la Presidenza del Consiglio e con il ministero
dell’Economia e delle Finanze verrà apprestata in sede di adozione
del disegno di legge di assestamento del bilancio per l’anno 2007”.
I soldi per l’istruzione non ci sono, ma per la guerra si trovano.
Nonostante l’incontestabile natura bellica dei mezzi militari in
questione, Parisi ha rassicurato coloro che temono una deriva
belligerante della “missione di pace” italiana. “Gli equipaggiamenti
aggiuntivi – ha spiegato il ministro – non potrebbero consentire un
genere di missione differente da quella già adottata dal nostro
contingente in accordo con gli alleati della Nato. I nuovi mezzi
permetteranno però di migliorare le capacità di esplorazione, la
mobilità e la protezione, quindi la sicurezza attiva e passiva,
delle nostre truppe”.
Chi si ostina a pensare che carri armati, elicotteri da attacco e
blindati siano strumenti di guerra, si sbaglia. Parola di ministro.
|
Il
Fronte Sem Terra |
Marce, mobilitazioni, occupazioni delle
terre, azioni di pressione contro Lula per chiedere la riforma
agraria |
Marce, mobilitazioni, occupazioni
delle terre, violenti attacchi della polizia, minacce di morte a
sindacalisti e uccisioni di contadini: si racchiude in questa
vorticosa sequenza di avvenimenti l' "Aprile rosso" ampiamente
preannunciato nei mesi scorsi dai Sem terra e dalle
organizzazioni popolari per chiedere ancora una volta quella
riforma agraria che il Planalto non sembra intenzionato a
concedere.
Aprile
rosso. Stavolta l'Aprile rosso si è svolto con modalità
diverse rispetto alle mobilitazioni e alle rivendicazioni dei
movimenti avvenute in questi ultimi anni. Le novità principali
sono tre: la prima riguarda il bilancio di questo mese di lotte
che il Movimento sem terra (Mst) farà in occasione del suo V°
Congresso nazionale che si terrà in giugno; la seconda si
riferisce alla nascita del Fronte parlamentare della terra nato
su iniziativa di alcuni deputati e senatori; la terza prospetta
una sorta di alleanza tra tutti i movimenti popolari cui
parteciperanno anche i partiti sorti a sinistra di Inácio Lula
in occasione delle recenti elezioni presidenziali.
A fare un bilancio, per la verità piuttosto impietoso, su come
proceda l'assegnazione delle terre da parte del governo alle
famiglie del Mst ci pensa Dom Tomás Balduino, vescovo emerito di
Goias che ha passato una vita a lottare con i contadini
brasiliani lavorando come consigliere della Commissione
pastorale della terra. In un articolo pubblicato dal quotidiano
italiano "il manifesto" il 17 aprile scorso, Balduino definisce
il Brasile come "il paese dell'antiriforma agraria"
sottolineando come nel corso del 2006 siano state insediate non
più di 40 mila famiglie e che nel 2007 non è possibile
aspettarsi alcun progresso significativo: "L'articolo 184 della
Costituzione - scrive - prevede l'esproprio per interesse
sociale, ai fini della riforma agraria, degli immobili rurali
che non rispondano alla loro funzione sociale, mentre
sfortunatamente assistiamo invece all'abbandono della terra da
parte del potere esecutivo alla voracità delle privatizzazioni
nazionali e estere".
Proprio per evitare questa deriva, oltre che per commemorare
l'undicesimo anniversario della strage di Eldorado dos Carajas
(per il cui massacro, seguente all'attacco immotivato della
polizia a un corteo pacifico dei Senza terra occorso il 17
aprile 1996, non sta pagando ancora nessuno) il Mst ha lanciato
l'Aprile rosso aprendo stavolta la sua protesta al coordinamento
dei movimenti sociali di tutto il paese e raccogliendo anche
l'appoggio del governatore di Bahia e di qualche prefetto. La
sfida del Mst in vista dell'imminente congresso è rivolta al
tentativo di costruire l'unità tra le organizzazioni sociali del
paese, peraltro già messa in pratica nell'interessante
esperimento denominato "Carta de Belém aos povos da Amazonia",
redatto da Via campesina, piccoli agricoltori, contadini senza
terra e associazioni ecologiste.
All'insegna
dell'unità. Questo documento, stilato il 20 aprile
durante un seminario intitolato "Contra o imperialismo e pela
soberania popular na Amazonia", denuncia i problemi derivanti
dall'agronegozio, dalla monocultura, dalla privatizzazione di
fiumi e laghi che danneggiano gravemente la biodiversità,
l'agricoltura e la vita dei popoli originari della regione, e
ben si concilia con lo slogan che aprirà il V° Congresso:
"Riforma agraria, per la giustizia sociale e la sovranità
popolare". La riforma agraria, secono il Mst, costituisce la
bandiera storica e permanente del movimento. "Giustizia sociale
perché vogliamo attraverso la riforma agraria contribuire a un
nuovo progetto sociale di sviluppo che elimini le disuguaglianze
economiche, sociali e politiche esistenti. Sovranità popolare
perché, in questa tappa dell'imperialismo, il nostro paese è
attaccato come non mai dagli interessi del capitale
internazionale. La sovranità nazionale non può essere difesa che
dal popolo che prenda nelle sue mani il proprio destino e
difenda il nostro territorio, le nostre ricchezze, la nostra
agricoltura, la nostra biodiversità, la nostra acqua, la nostra
cultura, la nostra lingua e i nostri alimenti".
Sebbene i Sem terra abbiano più volte chiarito che il Congresso
sarà all'insegna dell'unità tra tutti i movimenti per potenziare
le lotte sociali, come spiegato anche dal "Jornal Sem Terra", e
non specificamente contro il governo Lula quanto invece contro
l'agrobusiness, l'ex deputato José Dirceu (pesantemente
coinvolto nel sistema di tangenti per comprare i voti dei
partiti alleati al Pt, aveva rischiato di mandare all'aria la
rielezione di Lula per l'enorme scandalo suscitato) ha definito
la scelta di formare un coordinamento di movimenti sociali
aperto anche ai partiti Pstu (Partido socialista dos
trabalhadores unificado) e Psol (Partido socialismo e liberdade)
come "un fatto molto preoccupante" al solo scopo di creare
scissioni e divisioni all'interno della Coordenação dos
movimentos sociais in via di formazione.In realtà l'apertura al
Pstu e al Psol non è stata decisa perché si pongono alla
sinistra di Lula, ma per aprire nuovi spazi di lotta politica e
lo stesso Aprile rosso, chiarisce la rivista brasiliana "Carta
Maior", proviene dalla volontà della sinistra brasiliana di
"pensare a nuove forme organizzative insieme ai senza tetto,
agli indigeni, ai movimenti che si battono contro le dighe e a
tutti coloro che vogliano creare un processo di trasformazione
verso nuove prospettive". In definitiva si tratta di un'unione
che nascerà non tanto per mettere in crisi il governo Lula in
quanto tale, ma per contrastare la progressiva perdita dei
diritti di contadini e lavoratori rispetto al grande capitale.
Fronte
della terra. In questo senso la spinta e la pressione
dell'Aprile rosso ha già ottenuto un primo risultato, cioè la
creazione di un Fronte parlamentare della terra nel pieno della
mobilitazione contadina. Costituito da 175 deputati e 12
senatori, il Fronte ha tre progetti prioritari, ben messi in
rilievo dal Comitato italiano di appoggio ai Sem terra: la
proposta di modifica costituzionale 438 del 2001 che permette
l'espropriazione di aree con comprovata esistenza di lavoro
schiavo; l'attualizzazione degli indici di produttività; la
ripresa delle proposte della relazione del deputato João Alfredo
(Psol), presentate alla Commissione pastorale missionaria
indigena della terra.
Il Fronte parlamentare intende spingere il congresso sempre più
nelle mani dei gruppi ruralisti e che considera le occupazioni
alla stregua di atti terroristici ad affrontare le tematiche
relative allo sviluppo sostenibile, all'agricoltura contadina e
soprattutto alla revisione di quegli indici di produttività (si
tratta di parametri utilizzati dall'Incra - Istituto nazionale
per la riforma agraria - volti a stabilire se una terra è
coltivata o meno e se può essere affidata ai Sem terra oppure
no) che il presidente Lula ha da tempo promesso senza poi
riuscire ad attuarla per via delle forti pressioni dei
fazendeiros.
La prima uscita pubblica del Fronte parlamentare è stata il 3
maggio scorso quando si è costituito l'Alesp (Frente parlamentar
pela reforma agraria na asembléia legislativa de São Paulo) ad
opera di 19 deputati appartenenti in maggioranza al Pt e al Psol.
Nato grazie all'impegno di Raul Marcelo (Psol) e Simão Pedro (Pt),
l'Alesp intende incentivare e rafforzare l'agricoltura familiare
a scapito dell'agronegozio e della monocoltura della canna da
zucchero per evitare che il progressivo indebolimento dei
piccoli agricoltori li costringa ad abbandonare le campagne
finendo così per aumentare l'enorme numero di disoccupati già
presenti nelle grandi metropoli urbane.
Se il coinvolgimento di un certo numero di parlamentari per la
riforma agraria fa ben sperare, altrettanto positive sono le
notizie rivelate dal sito Global Project
(http://www.globalproject.info/), che ci parlano dell'impegno
del governatore petista di Bahia Jaques Wagner per
"l'accelerazione del processo di riforma agraria e, per la fine
dell'anno, per la costruzione di 3mila case, la sistemazione di
5mila abitazioni e la creazione di oltre 10mila allacci per
l'energia elettrica grazie al programma Luce per tutti" con la
promessa di "costruire circa mille chilometri di strade per
raggiungere gli insediamenti, fornire assistenza tecnica
agricola e stanziare 3 milioni di real per l'acquisto di sementi
per le comunità".
Per un governatore che promette di
farsi carico delle richieste dei movimenti ci sono però troppi
casi di repressione e persecuzione contro i contadini senza
terra: nel Rio Grande do Sul sono stati sparati proiettili di
gomma contro di loro dalla Brigata militare dello stato, le
occupazioni negli stati di Pernambuco, Paraiba e São Paulo hanno
ricevuto la visita di poliziotti privati al soldo dei
latifondisti, mentre la sindacalista Maria Ivete Bastos, nel
Pará, ha ricevuto minacce di morte. Sempre nello stesso stato,
il 2 maggio, un accampamento composto da 320 famiglie del Mst
nel municipio di Iritula (a 140 chilometri da Belém) è stato
aggredito da un gruppo di 50 pistoleiros che hanno
ucciso il contadino senza terra sessantenne Antonio Santos do
Carmo.
Nessuno
riposta. Ai tanti casi di intimidazione, uccisioni e
impunità, il Mst ha deciso di rispondere con un'ampia campagna
di sensibilizzazione basata su iniziative divulgative (ad
esempio la pubblicazione del quaderno sui conflitti nelle
campagne ad opera della Pastorale della terra in cui si denuncia
la grande concentrazione della terra nelle mani di pochi), e su
una catena impressionante di rivendicazioni e marce: grandi
cortei sono sorti a Itapetininga (Stato di San Paolo), ove
alcune centinaia di famiglie si sono stabilite nei territori
dell'impresa Suzano carta e cellulosa; in Pernambuco è stata
occupata l'azienda Xixaim, e ancora nel Rio Grande del Sud,
appoggiati da alcuni sindaci, i contadini hanno chiesto
l'esproprio di una fazenda; in Minais Gerais, nonostante le
minacce di sgombero da parte della polizia, il Mst ha deciso di
non abbandonare i latifondi dove si è insediato, mentre a fine
aprile ha difeso la Comuna da terra Che Guevara (nella regione
del Grande São Paulo) occupata alcune settimane prima e che ha
ricevuto l'ordine di essere sgomberata nonostante la presenza
nell'accampamento di oltre 100 famiglie.
Iniziative di questo genere si sono svolte pressoché in tutto il
Brasile, ma una risposta del governo che faccia registrare dei
cambiamenti profondi in termini di politica agraria, economica
e ambientale sembra ben lontana da arrivare: soltanto dopo il
congresso del Mst si capirà quali ulteriori prese di posizione
saranno adottate in una battaglia che si annuncia sempre più
dura tra due visioni del mondo così differenti.
|
15 maggio
Riflessioni pre "Family Day"
Lettera di
Travaglio a Ruini
Eminenza reverendissima cardinale
Camillo Ruini,
mi rivolgo a lei anche se la so da poco in pensione, anziché al suo successore
card. Bagnasco, perché lei è un po’ l’Andreotti del Vaticano: ha accompagnato la
vita politica e religiosa del nostro paese per molti decenni. Come lei ben sa,
non c’è paese d’Europa che abbia avuto tanti capi del governo cattolici come
l’Italia. Su 60 governi in 60 anni, 51 avevano come premier un cattolico e solo
9 un laico: 2 volte Spadolini, 2 Craxi, 2 Amato, 2 D’Alema, 1 Ciampi, che
peraltro si dichiara cattolico. In 60 anni l’Italia è stata governata per 52
anni da un cattolico e per 8 da un laico. Se la DC e i suoi numerosi eredi
avessero fatto per la famiglia tutto ciò che avevano promesso, oggi le famiglie
italiane dormirebbero tra due guanciali. Sa invece qual è il risultato? Che
l’Italia investe nella spesa sociale il 26,4% del Pil, 5 punti in meno che nel
resto d’Europa a 15, quella infestata di massoni, mangiapreti, satanisti e -per
dirla con Tremaglia- culattoni. Se poi andiamo a vedere quanti fondi vanno alle
famiglie e all’infanzia nei paesi che non hanno avuto la fortuna di avere in
casa Dc e Vaticano, scopriamo altri dati interessanti. L’Italia è penultima in
Europa col 3,8% della spesa sociale alle famiglie, contro il 7,7% dell’Europa,
il 10,2% della Germania, il 14,3% dell’Irlanda. Noi diamo alla famiglia l’1,1%
del Pil: meno della metà della media europea (2,4). Sarà un caso, ma noi siamo
in coda in Europa per tasso di natalità: la Francia ha il record con 2 figli per
donna, la media europea è 1,5, quella italiana 1,3. E il resto d’Europa ha i
Pacs, noi no: pare che riconoscere i diritti alle coppie di fatto non impedisca
le politiche per la famiglia, anzi. Lei che ne dice?
Lei sa, poi, che per sposarsi e fare figli, una coppia ha bisogno di un lavoro
stabile. Sa quanto spendiamo per aiutare i disoccupati? Il 2% della spesa
sociale, ultimi in Europa. La media Ue è il 6%. La Spagna del terribile Zapatero
spende il 12,5. I disoccupati che ricevono un sussidio in Italia sono il 17%,
contro il 71 della Francia, l’80 della Germania, l’84 dell’Austria, il 92 del
Belgio, il 93 dell’Irlanda, il 95 dell’Olanda, il 100% del Regno Unito. E per i
giovani è ancora peggio: sotto 25 anni, da noi, riceve il sussidio solo lo
0,65%; in Francia il 43, in Belgio il 51, in Danimarca il 53, nel Regno Unito il
57. Poi c’è la casa. Anche lì siamo penultimi: solo lo 0,06% della spesa sociale
va in politiche abitative (la media Ue è il 2%, il Regno Unito è al 5,5). Se in
Italia i figli stanno meglio che nel resto del mondo, anche perché sono
pochissimi, per i servizi alle madri siamo solo al 19° posto.
Forse, Eminenza, visto il rendimento dei politici cattolici o sedicenti tali,
avete sempre puntato sui cavalli sbagliati. O forse, se aveste dedicato un
decimo delle energie spese per combattere i Dico e i gay a raccomandare qualche
misura concreta per la famiglia, non saremmo i fanalini di coda dell’Europa:
perché i nostri politici le promesse fatte agli elettori non le mantengono, ma
quelle a voi le mantengono eccome. Sono proprio sacre.
Ora speriamo che il Family Day faccia il miracolo. A questo proposito, vorrei
mettere una buona parola per evitare inutili imbarazzi. Come lei sa, hanno
aderito all’iniziativa moltissimi politici così affezionati alla famiglia da
averne due o tre a testa. Come Berlusconi, che ha avuto due mogli, senza contare
le giovani e avvenenti attiviste di Forza Italia con cui prepara il Family Day
nel parco di villa Certosa. Le cito qualche altro esempio da un bell’articolo di
Barbara Romano su Libero. Vediamo la Lega, che fa fuoco e fiamme per la sacra
famiglia. Bossi 2 mogli. Calderoli 2 mogli (la seconda sposata con rito celtico)
e una compagna. Castelli, una moglie in chiesa e l’altra davanti al druido. Poi
c’è l’Udc, l’Unione democratico cristiana, dunque piena di separati e
divorziati. Divorziato Casini, che ha avuto due figlie dalla prima moglie e ora
vive con Azzurra. Divorziati l’ex segretario Follini e il vicecapogruppo
Giuseppe Drago, mentre la vicesegretaria Erminia Mazzoni sta con un divorziato.
D’Onofrio ha avuto l’annullamento dalla Sacra Rota. Anche An è ferocissima
contro i Dico. Fini ha sposato una divorziata. L’on. Enzo Raisi ha detto:“Io
vivo un pacs”. Altro “pacs” inconfessato è quello tra Alessio Butti e la sua
compagna Giovanna. Poi i due capigruppo: alla Camera, Ignazio La Russa, avvocato
divorzista e divorziato, convive; al Senato, Altero Matteoli, è divorziato e
risposato con l’ex assistente. Adolfo Urso è separato. L’unico big in regola è
Alemanno:si era separato dalla moglie Isabella Rauti, ma poi son tornati
insieme. Divorziati gli ex ministri Baldassarri (risposato) e Martinat
(convivente). La Santanchè ha avuto le prime nozze annullate dalla Sacra Rota,
poi ha convissuto a lungo. E Forza Italia? A parte il focoso Cavaliere, sono
divorziati il capogruppo alla Camera Elio Vito e il vicecapogruppo Antonio
Leone. L’altro vice, Paolo Romani, è già al secondo matrimonio: «e non è finita
qui», minaccia. Gaetano Pecorella ha alle spalle una moglie e “diverse
convivenze”. Divorziati anche Previti, Adornato, Vegas, Boniver. Libero cita tra
gli irregolari persino Elisabetta Gardini, grande amica di Luxuria, che ha un
figlio e (dice Libero) convive con un regista. Frattini, separato e convivente,
è in pieno Pacs. Risposàti pure Malan, D’Alì e Gabriella Carlucci, mentre la
Prestigiacomo ha sposato un divorziato. E al Family day ci sarà pure la Moratti
col marito Gianmarco, pure lui divorziato.
Ecco, Eminenza, personalmente sono convinto che ciascuno a casa sua sia libero
di fare ciò che vuole. Ma è difficile accettare l’idea che questi signori, solo
perché siedono in Parlamento, abbiano dal ‘93 l’assistenza sanitaria per i
conviventi more uxorio e vogliano negarla a chi sta fuori. E che lei Eminenza
non abbia mai tuonato contro i Pacs parlamentari. Ora però non vorrei che
qualche Onorevole Pacs disertasse il Family Day per paura di beccarsi una
scomunica. Perciò mi appello a lei: se volesse concedere una speciale dispensa
almeno per sabato, ne toglierebbe d’ imbarazzo parecchi. Potrebbe pure
autorizzarli a sfilare ciascuno con tutte le sue famiglie, magari entro e non
oltre il numero di 3. Per far numero. Ne guadagnerebbe la partecipazione. Si
potrebbe ribattezzare l’iniziativa Multifamily Day.
Marco Travaglio
Lettera pervenuta a Ultimissime
Riflessioni post "Family Day"
Se chiesa e
destra vanno in piazza insieme
di EDMONDO BERSELLI
MAI la Chiesa, negli ultimi vent'anni,
era stata così vicina alla politica, così influente, così ingombrante.
Affiancata dai partiti di destra, e con il centrosinistra scompaginato dal
conflitto interno, non dichiarato e non elaborato, sulla laicità. Se le cose
stanno così, se questa diagnosi è realistica, sabato scorso in Piazza San
Giovanni è avvenuto un disastro politico e civile. E allora vale la pena di
guardarlo in profondità, senza complessi. La prima e fondamentale conseguenza
del Family Day è evidente: si è saldato un fronte tra ampi settori del mondo
cattolico e la destra italiana.
E ciò è avvenuto in un modo e con un'intensità tali da sorprendere gli stessi
vertici ecclesiastici, la segreteria di Stato vaticana, la Conferenza
episcopale. Alla Chiesa post-wojtyliana era ovviamente utile una dimostrazione
di forza, anche per esibire uno di quegli spettacoli di mobilitazione che senza
il carisma di Giovanni Paolo II risultano difficili da riprodurre oggi sulla
scena pubblica. Ma è tutto da provare che per la gerarchia cattolica fosse
davvero conveniente quella spettacolare fusione di morale e politica, di alto
magistero e di bassi interessi di bottega, che se da un lato ha esibito
l'adesione popolare ai temi della famiglia, dall'altro ha permesso il sequestro
politico di piazza San Giovanni da parte dei leader del centrodestra.
La presenza di Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini
rappresentava con chiarezza qual era una finalità possibile del Family Day,
almeno nelle intenzioni dei suoi sponsor politici più spregiudicati: e cioè
mettere in rilievo che l'appello per una "politica per la famiglia"
rappresentava invece l'opportunità per una polemica caldissima contro il
riconoscimento legale delle unioni civili. Ossia per dividere in due, con
volontà esplicita, l'opinione pubblica: in modo da poter attestare che da una
parte, a destra, ci sono i buoni cattolici, e dall'altra, a sinistra, c'è una
consorteria di avversari, di "laicisti", di personalità insensibili alle grandi
verità religiose.
In quella compagine ostile alla Chiesa e ai suoi fondamenti, guidata dal Prodi "rovinafamiglie"
immortalato sulle magliette, i cattolici del centrosinistra si trovano in
difficoltà. Secondo l'intonazione psicologica della piazza anti-Dico, il mondo
cattolico non è rappresentato da Clemente Mastella o da Francesco Rutelli, e
meno che mai da Rosy Bindi; costoro non rappresentano nessuno e non sono neppure
la foglia di fico sulle vergogne laiciste del centrosinistra: ne è una riprova a
contrario l'accoglienza entusiastica riservata a Silvio Berlusconi, a
testimonianza che c'è stata una fusione politica, di popolo, fra le posizioni
cattoliche più intransigenti e la scelta per il centrodestra.
Matrimonio d'interesse e d'amore. Sicché è superfluo sottolineare che il raid di
Silvio Berlusconi durante il Family day è stato un gesto politicamente
impegnativo, anche a prescindere dalla violenza delle sue parole, quelle frasi
provocatorie secondo cui non è possibile essere contemporaneamente fedeli
cattolici e di sinistra. Berlusconi ha realizzato uno dei suoi blitzkrieg, e ha
tentato di mettersi in tasca in un colpo solo l'ideologia della famiglia, il
movimento ecclesiale, i sostenitori del matrimonio, gli oppositori del divorzio
e dell'aborto, i contestatori della procreazione assistita, dei Dico e delle
unioni omosessuali.
Ebbene, sarebbe il caso di capire come la pensa la Chiesa, al suo vertice,
dell'appropriazione indebita delle istanze cattoliche e delle masse dei fedeli
convenute a Roma per sostenerle. Riesce incongruo infatti credere che la
gerarchia giudichi utile, cioè politicamente conveniente, e spiritualmente
convincente, il cinismo opportunista con cui Berlusconi e i suoi alleati hanno
confiscato la comunità ecclesiale (almeno quella parte che interpreta
l'appartenenza al cattolicesimo con uno spirito di rivalsa, di rivincita, di
spagnolesca "reconquista"). Vale a dire sulla base di un'idea di divisione,
senza nascondere una chiara inimicizia contro quella parte di società, di
politica e di cattolicesimo che la pensa diversamente.
Va da sé che la Chiesa non possa accettare di essere sequestrata in vista
dell'utilità politica di una parte. E quindi non è del tutto irrealistico
attendersi qualche presa di distanza, fosse anche soltanto una sottigliezza per
smarcarsi. Questo perché monsignor Angelo Bagnasco deve ancora guadagnarsi la
titolarità della sua azione come presidente della Cei, uscendo dalla definizione
ristretta di successore di Ruini. E il segretario di Stato, Tarcisio Bertone,
deve curare anche le diplomazie con il governo attuale e con i ministri
cattolici che ne fanno parte. E va rilevato nel frattempo che Bagnasco ha
taciuto sostanzialmente sul Family Day: ciò è un sintomo di quanto sia arduo
rinnovare in modo originale la linea dell'episcopato, ma anche un indizio della
sua prudenza.
Tuttavia il punto cruciale è evidente di per sé: comunque si sia verificata, non
si è mai vista, in tempi di bipolarismo, una collocazione così netta ed
esclusiva della Chiesa a fianco di una parte politica. Al di là dei riverberi
più evidentemente confessionali, si prospetterebbe una conseguenza politica di
estremo rilievo, cioè un attrito vistoso con l'intera evoluzione del sistema
politico: la formula bipolare infatti doveva consentire la libera collocazione
politica dell'elettorato cattolico.
Viceversa, una variante estremistica come quella prospettata sabato da
Berlusconi, i cattolici di qua e i miscredenti di là, assomiglia più a un'eresia
manichea che a un criterio di ragionevolezza politica. Altro che suggestioni
neoguelfe: qui è potenzialmente in gioco la "cattura" della Chiesa da parte di
uno dei giocatori politici. E dunque, se il mercante sequestra il tempio,
sarebbe interesse della comunità ecclesiastica che emergessero voci e figure
indisponibili a schiacciarsi su una soluzione politica confessionale, con le
ripercussioni politiche che si possono immaginare. Di tutto infatti avrà bisogno
la Chiesa, ma non di una guerra di religione. E neppure di diffidenze e ostilità
speculari sul piano del governo e delle istituzioni.
Tanto più che sullo sfondo del Family day (e delle contrapposizioni tra Vaticano
e sinistra, dal referendum sulla fecondazione assistita ai Dico), sono entrati
in gioco principi basilari in materia di laicità dello Stato, suscettibili di
favorire contrasti pesanti dentro il centrosinistra. Per ora nell'Unione il
conflitto non è esploso, ma non c'è dubbio che sulla piazza del Family Day si
sono compiuti sacrifici politici pesanti: si è sacrificata in primo luogo una
parte della presenza e credibilità pubblica dei Ds.
Il silenzio dei Ds è una scelta obbligata, dettata dall'impossibilità di
parlare, perché parlare equivarrebbe a innescare la contrapposizione con il
proprio alleato, la Margherita, proprio mentre si sta avviando il processo che
conduce alla nascita del Partito democratico. Ma la rinuncia effettiva a
qualificare la propria presenza nel Pd, da parte diessina, è già di per sé
un'abdicazione; e anzi l'effetto della distorsione prodotta dalla
politicizzazione della religione, dall'abbandono di un criterio comune di
laicità.
Il Family Day, insomma, ha avuto conseguenze sui due lati della struttura
politica italiano: ha reso asimmetrici gli schieramenti, ha squilibrato il
bipolarismo, dà un'inflessione clericale al giudizio sull'azione di governo.
Sarà il caso che tutto il centrosinistra, da Romano Prodi in giù, valuti con
attenzione queste ripercussioni e le risposte possibili. Ma anche da parte
ecclesiastica dovrebbe esserci la percezione che il nuovo integralismo, la
comunanza indistricabile e "simoniaca" fra destra e Chiesa, è una distorsione
del meccanismo democratico, e potenzialmente una perdita grave in termini di
ricchezza e libertà della convivenza civile.
Filippine,
sangue sul voto
Il paese alla urne. Almeno
cento morti in quattro mesi di campagna elettorale
Più di cento morti e quasi
trecento feriti in quattro mesi: è il tragico bilancio della campagna elettorale
nelle Filippine. Il paese oggi va alle urne per rinnovare la Camera dei
Rappresentanti e metà dei seggi del Senato, nonché per eleggere più di 17 mila
funzionari amministrativi a livello nazionale e locale. Dall'inizio dell'anno,
secondo le cifre diffuse dalla polizia, sono stati uccisi 52 fra candidati e
politici, 36 loro sostenitori, e undici civili che si sono trovati nel posto
sbagliato al momento sbagliato. Che le campagne elettorali finiscano nel sangue
non è cosa nuova nell'arcipelago delle Filippine: nell'ondata di violenza e
omicidi politici che aveva preceduto le presidenziali del 2004 erano morte
almeno 189 persone. I candidati assoldano milizie private per proteggersi e per
intimidire gli avversari, la tensione viene esasperata dalle reciproche accuse
di brogli. E l'infinita disponibilità di armi – perlopiù provenienti dal mercato
nero, quindi vendute e comprate senza nessun controllo - non fa che aumentare le
violenze.
Gli oppositori del governo della presidente Arroyo hanno già iniziato a
denunciare i tentativi di manipolazione del voto. Ma accuse del genere piovono
anche dagli ambienti che al governo dovrebbero essere più favorevoli: un gruppo
di generali dell'esercito in pensione, ad esempio, si è riunito sotto il nome di
Bantay Boto, letteralmente 'le guardie del voto', per denunciare che alcuni
ufficiali dell'esercito – proprio quelli che sono stati incaricati da Gloria
Arroyo di vigilare sulla sicurezza e la trasparenza della campagna - starebbero
lavorando sottobanco insieme ai funzionari elettorali per falsarne l'esito. Il
broglio, accusano i Bantay Boto, potrebbe investire sedici province, con
quattordici milioni di voti che potrebbero essere dirottati a favore dei
candidati alleati della presidente Arroyo.
Intanto non si fermano gli scontri e le violenze sui tre fronti interni
che il governo di Manila, ormai da decenni, combatte con scarsi risultati.
Martedì scorso a Mindanao, nel sud musulmano, un'esplosione in un mercato – per
cui il governo ha subito accusato i fondamentalisti islamici – ha ucciso otto
civili. Mentre a Jolo i gruppi musulmani festeggiano la decisione di un
tribunale di Manila, che ha concesso a Nur Misuari, leader del Fronte Moro di
Liberazione Nazionale (Mnlf), di candidarsi alla carica di governatore,
nonostante sia da anni agli arresti domiciliari. Dal 1971 a oggi, il conflitto
indipendentista islamico nel sud del paese ha causato la morte di almeno 150
mila persone. Nell'isola di Mindoro, invece, giovedì mattina i combattenti
comunisti del Nuovo Esercito Popolare (Npa) hanno ucciso cinque poliziotti
filippini facendo detonare una mina al passaggio del loro convoglio. Contro l'Npa,
attivo nell'arcipelago da trentotto anni, la presidente Arroyo e il suo esercito
usano il pugno di ferro: bombardamenti, sparatorie sui civili, assedii di stampo
medievale per stanare i guerriglieri, per cui non sono mancate le critiche delle
organizzazioni per il rispetto dei diritti umani.
L'ultimo episodio che ha sconvolto la popolazione ha avuto come
protagonista una bambina: Grecil Buya, nove anni, uccisa il 31 marzo scorso
dall'esercito filippino durante uno scontro a fuoco con gli uomini dell'Npa. La
rabbia della popolazione era esplosa quando i comandanti dell'esercito di Manila
avevano liquidato la morte di Grecil in modo molto semplice: era un bambino
soldato, sparare era legittimo. Alla fine di aprile, l'ammissione: non era un
soldato, era solo una bambina, ed è stato un “tragico incidente”. Come aveva
notato un giornalista filippino, non poteva essere un soldato: era alta quanto
il fucile.
Cecilia Strada
11 maggio
Irlanda, la
sofferta scelta di Miss 'D'
Incinta di un bambino
gravemente malato, fa ricorso contro il divieto di abortire e riaccende un
annoso dibattito
Un caso di coscienza. Una
ragazza irlandese di 17 anni ha fatto appello all'Alta Corte di Dublino contro
il divieto di recarsi in Gran Bretagna per abortire. La ragazza, proveniente
dalla contea di Leinster, è incinta di 4 mesi di un bambino affetto da
anencefalia e pertanto condannato a morire entro una settimana dall'eventuale
parto. La vicenda riaccende il dibattito sull'aborto in un Paese che, insieme a
Polonia, Portogallo e Malta, considera perseguibile penalmente chi decide
volontariamente di porre fine alla gravidanza. Dal 1861, infatti, il governo
irlandese nega alle donne il diritto di scelta, permettendo loro di abortire
solo in caso di incesto, violenza sessuale o rischio per la loro vita.
Libertà
di scelta. 'Miss D', come è stata chiamata la ragazza, ha saputo delle
condizioni del feto solo un mese fa. La diagnosi, oltre ad averla sconvolta,
l'ha posta brutalmente di fronte a una scelta: portare comunque a termine la
gravidanza, o interromperla. Miss D ha deciso che sarebbe stato inutile e penoso
far nascere il proprio bambino per vederlo morire qualche giorno dopo. Così, ha
fatto domanda al Servizio sanitario nazionale (Hse), che la sta assistendo, per
potersi recare in Gran Bretagna ad abortire. L'autorità sanitaria irlandese ha
chiesto alla polizia di emettere un divieto di espatrio, ma l'avvocato della
ragazza, Eoghan Fitzsimons, ha dichiarato che tale proibizione sarebbe stata
nulla senza una sentenza da parte del tribunale. Così ha fatto appello all'Alta
Corte, massimo organo giuridico irlandese. Oltre a ricorrere contro
l'interdizione all'espatrio, il legale della ragazza ha denunciato
l'interferenza da parte dello Stato nei confronti dei diritti, sanciti dalla
Costituzione, all'autonomia personale, all'integrità del proprio corpo e alla
sfera privata.
Referendum. Nonostante negli ultimi anni la legislazione sull'aborto sia
stata resa meno rigida, e in alcune circostanze le donne abbiano potuto recarsi
all'estero per l'operazione, il Primo ministro irlandese Bertie Ahern ha
dichiarato che nessun progetto di legge è stato elaborato per modificare la
legislazione, anche in un caso così delicato come quello di 'Miss D'. Dal 1980
al 2002, oltre 100 mila donne hanno deciso di porre termine alla loro gravidanza
nel Regno Unito. Ciò è consentito solo se la gravidanza pone un 'serio e
sostanziale rischio per la vita della donna. Secondo l'Information Act del 1995,
informazioni sulle cliniche che praticano l'aborto in Gran Bretagna sono
accessibili solo tramite un colloquio nei centri di consulenza. Nel 1983 è stato
indetto un referendum per emendare la Costituzione introducendo un nuovo
articolo, chiamato l'emendamento 'pro-vita', che riconosce al feto gli stessi
diritti della donna incinta. Nel 2002, un analogo referendum ha visto nuovamente
la vittoria degli anti-abortisti, con un margine di poco meno di un punto
percentuale. Nel settembre 2005, un sondaggio commissionato dall'Irish Examiner
si è rivelato soprendente: in Irlanda, solo il 36 per cento della popolazione è
favorevole alla legalizzazione dell'aborto, contro il 37 per cento degli
antiabortisti.
Nigeria,
nulla è cambiato. Il governo richiami l'Eni
In Nigeria c'è una guerra e come
sempre a pagarne il prezzo è la società civile. Per appropriarsi delle immense
risorse energetiche del paese più popoloso d'Africa le multinazionali portano
avanti un sistematico sterminio degli ecosistemi del Delta del Niger, fanno
accordi o sostengono direttamente governi militari o assolutamente corrotti e
tengono in ostaggio la possibilità di sviluppo dei 20 milioni di esseri umani
che abitano le zone ricche di petrolio e gas. Interi popoli che vivono con meno
di due dollari al giorno e che non hanno mai né visto né conosciuto i vantaggi
dello «sviluppo», pur essendo da sempre «proprietari» di immense fortune
destinate ad «emigrare» sui conti correnti delle grandi transnazionali, ma che
sicuramente ne pagano il prezzo.
Anche l'Italia fa la sua parte, ma in negativo. Attraverso la sua impresa di
stato, saccheggia e inquina la Nigeria, continuando a portare avanti pratiche
illegali come quella del «gas flaring», contribuendo a far diventare il paese
africano il primo inquinatore al mondo per Co2 da «gas flaring». E tutto ciò
avviene proprio mentre qui in Europa si discute dell'urgenza di intervenire per
frenare i cambiamenti climatici, di rispetto dei diritti umani e di cooperazione
con i paesi del sud del mondo. Un controsenso e un'ipocrisia aggravata dal fatto
che l'Eni è ancora (e per fortuna) una compagnia controllata dallo stato e
quindi dal nostro governo, che da un lato dice di voler cambiare la sua politica
energetica, estera e ambientale e dall'altro non riesce nemmeno a impedire che
la sua più importante azienda porti avanti una politica che è l'esatto opposto
delle parole «pace e cooperazione».
Ormai da tempo in Italia la società civile ha maturato una coscienza e
realizzato un'analisi sui temi della pace, dei diritti umani, dello sviluppo
sostenibile, della difesa dei beni comuni e della cooperazione tra i popoli. Da
anni le associazioni, i sindacati, i movimenti e molti media indipendenti
denunciano le gravi responsabilità dell'Eni su questi temi e i suoi
comportamenti scorretti o incompatibili con la difesa dei valori di pace e
rispetto della sovranità dei popoli, che tutti dovremmo condividere e che
rappresentano l'essenza stessa della nostra Costituzione.
Nello scorso febbraio l'Osservatorio Eni, che raggruppa proprio la rete di
associazioni, sindacati e comitati costituitasi in Italia, ha incontrato i
capigruppo alla Camera di Rifondazione Comunista e dei Verdi, il ministro
dell'Ambiente e il presidente della Camera, durante le concitate fasi del
rapimento dei dipendenti italiani dell'Eni in Nigeria. Sapevamo bene, allora
come adesso, che non sarebbe bastato impegnarci per riportare a casa i nostri
connazionali ma che ci sarebbe servito uno sforzo più grande per risolvere la
situazione. Non si può pensare di salvare la vita ai nostri connazionali e nello
stesso tempo non far nulla per decine di milioni di persone verso le quali siamo
responsabili per le violazioni e lo sfruttamento irresponsabile compiuto dalla
nostra azienda e alle quali dobbiamo delle risposte. Liberare gli ostaggi,
disinquinare il Delta del Niger: era l'appello rivolto alla politica
istituzionale per capovolgere un'impostazione ancora colonialista
nell'affrontare le relazioni con i paesi del sud del mondo e in particolar modo
verso l'Africa.
Tutti i politici che hanno voluto incontrarci si sono impegnati, a parole, ad
agire affinché l'Eni cambi la propria politica ambientale, energetica e di
rispetto dei diritti umani nella regione del Delta del Niger. A oggi ancora
nulla è cambiato.
Il primo obiettivo, riportare a casa gli italiani rapiti, è stato raggiunto con
l'impegno di tutti quando il 14 marzo i guerriglieri del Mend hanno rilasciato
gli ultimi due ostaggi trattenuti, Cosma Russo e Francesco Arena, facendo tirare
un sospiro di sollievo a tutti noi. Lo stesso portavoce del Mend aveva
sottolineato che sul rilascio pesava soprattutto il lavoro positivo delle
associazioni italiane e africane che finalmente avevano fatto luce e detto la
verità sulla situazione nella quale vivono venti milioni di nigeriani e sulle
responsabilità enormi dell'Eni.
Dopo la liberazione dei nostri concittadini, purtroppo, nulla è stato fatto e
nulla sembra essere mutato. La regione del Delta del Niger rimane una delle zone
più inquinate del pianeta e le condizioni in cui vivono le popolazioni locali
sono subumane: senza acqua potabile, fognature, luce elettrica e con un reddito
medio di 1-2 dollari al giorno, mentre le multinazionali del petrolio, tra le
quali l'Eni, estraggono 2,5 milioni di barili di greggio al giorno dagli stessi
territori in cui è a rischio la sopravvivenza di milioni di persone.
Oggi ci troviamo di nuovo a discutere della vita di altri italiani sequestrati
in Nigeria alcuni giorni fa proprio a causa della sciagurata politica portata
avanti dalle multinazionali petrolifere, che continuano a trattare l'ambiente e
decine di milioni di persone come un mero ostacolo ai loro bisogni di profitto.
Per questo non possiamo più accettare che il governo italiano si interessi dei
quattro italiani disinteressandosi allo stesso tempo del debito storico ed
ecologico contratto con la Nigeria attraverso le attività che le imprese
italiane hanno portato e continuano a portare avanti sul Delta del Niger e non
solo.
Chiediamo ancora una volta che il governo, in quanto azionista di controllo,
richiami l'Eni a un comportamento ecologicamente responsabile e al rispetto dei
diritti umani e dei trattati internazionali.
Chiediamo l'istituzione di una commissione aperta a esperti scelti dalla società
civile che verifichi la situazione, il comportamento dell'Eni e i livelli
d'inquinamento del Delta del Niger, che sta mettendo a rischio la vita di intere
popolazioni che vivono nell'area.
Speriamo almeno su queste elementari questioni di democrazia e rispetto delle
regole, di ricevere dalla politica un rapido riscontro. Se la politica non è in
grado di darci risposte e ascoltare le esigenze di milioni di cittadini, a
partire da coloro che partono da una situazione di svantaggio, smette di essere
uno strumento di governo del popolo e per il popolo, e diventa una élite tesa
solo alla sua autoriproduzione, esattamente come i cda delle multinazionali.
Alex Zanotelli, Giuseppe De Marzo
(A Sud), Vincenzo Miliucci (Cobas), Fulvio Vescia (RdB Energia), Alessandro
Marescotti (Peacelink), Franco Ottaviano (Casa delle Culture), Antonio Tricarico
(Crbm), Marco Bersani (Attac Italia), Fabio Alberti (Un ponte per...), Beatrice
Bardelli (Comitato contro il Rigassificatore Offshore Livorno-Pisa), Claudio
Avvisati, Stefano Fossati, Edo Dominici (delegati Cgil Rsu Eni)
Morti di
Portopalo, una strage impunita
Assolto l'armatore della nave
Iohan, che nel '96 speronò una piccola imbarcazione con a bordo più di 300
persone. Ne morirono 283. Accusato di omicidio volontario, per la Corte «non ha
commesso il fatto»
Assolto «per non aver commesso il
fatto». Si conclude così, dopo undici anni, il processo presso la corte d'assise
di Siracusa contro Turab Ahmed Sheik, l'armatore della nave Iohan. Rimane dunque
- almeno per ora - senza colpevoli il cosiddetto «naufragio di Natale», la più
grande strage della migrazione illegale, in cui morirono 283 persone. Cingalesi,
indiani, pakistani, tutti giovanissimi, che da mesi viaggiavano con la speranza
di poter raggiungere l'Italia. Era la notte della vigilia di Natale del 1996. Al
largo della costa di Portopalo si inabissò la piccola imbarcazione (la F-147) su
cui erano state fatte calare più di trecento persone nonostante le cattive
condizioni metereologiche. La Iohan, guidata dal libanese Youssuf El Hallal,
entrò in collissione con la barca almeno due volte: la prima, poco dopo il
trasbordo. La seconda, quandò tornò indietro. Per aiutare i giovani asiatici -
visto che la F-147 stava imbarcando acqua - o per speronarla come sostengono
alcuni testimoni?
Tourab era accusato di concorso in omicidio volontario plurimo. Dello stesso
reato è accusato El Hallal, attualmente sotto processo a Catania. Quello di ieri
era lo scoglio più difficile della vicenda giudiziaria. Per un motivo: Tourab,
che vive a Malta e che dopo la strage ha continuato a trafficare migranti, ha
sempre sostenuto di essere rimasto a terra quella notte. Gli avvocati
dell'accusa hanno cercato in tutti i modi di provare che, invece, Tourab era
presente, basandosi su alcune testimonianze. Hanno, inoltre, cercato di
sostenere che organizzare il traffico implica una responsabilità. Tutte cose
che, però, non hanno convinto la corte, presieduta dal giudice Romualdo Benanti.
Nonostante l'amarezza, i legali cercano di mettere in luce il lato positivo.
Osserva l'avvocato Paolo Reale: «Leggeremo le motivazioni, ma intanto la formula
scelta dalla Corte non è "il fatto non sussiste", bensì "non ha commesso il
fatto"». Ovvero, un filo di speranza per la condanna del comandante El Hallal
(pare rientrato in Libano dopo che la Francia non concesse l'estradizione). Se
«sussiste il fatto», certamente quella notte il comandante c'era e ha preso
tutte le decisioni del caso. Esprime «profonda amarezza» anche l'altro
difensore, l'avvocata romana Simonetta Crisci. La delusione, d'altronde, viene
da lontano, visto che l'assoluzione di Tourab si deve innanzitutto a una cosa:
«Le lacune della nostra legislazione», sottolinea Reale. Inizialmente, infatti,
l'armatore era imputato anche per altri reati, come il traffico internazionale
di clandestini. Tutti decaduti quando venne ritrovato il relitto della nave,
fuori dalle acque nazionali. «E non essendo avvenuto il traffico in acque
nazionali, paradossalmente non può essere perseguito. Come se una persona
trafficata lo fosse soltanto quando fa ingresso nel nostro paese. Assurdo.
Dobbiamo rinnovare la nostra legislazione», denuncia Reale. Si dice
«soddisfatto», invece, l'avvocato di Toruab, Giuseppe Cristiano: «Il processo
non si conclude con un giudizio politico o etico, la sentenza esprime un
giudizio sul piano strettamente giuridico e, vista da questo punto di vista,
ritengo che si tratti di una sentenza corretta».
Parlano di «assoluzione vergognosa», invece, le associazioni che in tutti questi
anni hanno seguito il caso e chiedono giustizia anche per le famiglie di vittime
e sopravvissuti, che non hanno mai ricevuto alcun risarcimento. Senza confine,
Arci, Attac, Rete Antirazzista siciliana, Unione dei lavoratori pakistani in
Italia, ora sono preoccupati. Non soltanto per l'assoluzione di Tourab. Ma
perché sembra che stia naufragando anche la possibilità di recuperare in tempi
brevi il relitto dell'imbarcazione affondata. Impegno che aveva preso in prima
persona il presidente del consiglio Romano Prodi. Un recente sopralluogo della
Protezione civile, infatti, avrebbe rilevato che la F-147 è seppellita da decine
e decine di reti di pescatori: il recupero è difficile. Inoltre, dovrà
probabilmente essere bandita una gara d'appalto. «In pratica tempi lunghissimi -
denuncia Alfonso di Stefano della Rete antirazzista - ma il recupero del relitto
è fondamentale per studiare come l'imbarcazione è stata speronata, e verificare
ciò che sostengono numerosi testimoni: e cioè che la Iohan speronò
volontariamente l'imbarcazione carica di persone».
Cessate il
fuoco
Questa settimana, in tutti i paesi
ancora in guerra, sono morte almeno 934 persone
Iraq
Questa settimana sono morte almeno 684 persone (503 civili, 25 soldati Usa,
un britannico, 102 poliziotti iracheni e almeno 53 miliziani).
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 11.974.
Afghanistan
Questa settimana sono morte almeno 83 persone (43 civili, 18 talebani o
presunti tali, 15 militari afgani e 7 soldati della Nato).
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 1.718 (404 civili, 988 talebani o
presunti tali, 268 militari afgani, 58 soldati della Nato).
Israele - Palestina
Questa settimana è morta almeno una persona.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 121.
Cecenia (Russia)
Questa settimana sono morte almeno 14 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 316.
Colombia
Questa settimana sono morte almeno 9 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 130.
Thailandia del Sud
Questa settimana sono morte almeno 24 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 175.
Filippine-Mindanao
Questa settimana sono morte almeno 13 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 148.
Filippine-Npa
Questa settimana sono morte almeno 2 persone.
Almeno 75 morti dall’inizio dell’anno.
Sri Lanka
Questa settimana sono morte almeno 46 perone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 1.091.
India Nordest
Questa settimana sono morte almeno 12 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 384.
India Naxaliti
Questa settimana sono morte almeno 4 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 206.
India Kashmir
Questa settimana sono morte almeno 13 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 243.
Pakistan Aree Tribali
Questa settimana sono morte almeno una persona.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 704.
Kenya
Questa settimana sono morte almeno 10 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 177.
Somalia
Questa settimana sono morte almeno 4 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 171.
Nigeria
Questa settimana sono morte almeno 3 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 296.
Rep. Dem. Congo
Questa settimana sono morte almeno 11 persone.
Dall’inizio dell’anno i morti sono almeno 464.
La destra
che avanza
Rossana Rossanda
Ségolène Royal non ce l'ha fatta,
sei punti la separano da Nicolas Sarkozy, eletto presidente della repubblica in
Francia con i voti della destra, di metà del centro e quasi tutta l'estrema
destra lepenista. La partecipazione al voto è stata massiccia, il suo segno
inequivocabile. Nicolas Sarkozy, duro ministro degli interni del governo
uscente, era arrivato primo fin dal primo turno, e tale è sempre rimasto. La
candidata socialista era giunta al ballottaggio in difficoltà, con François
Bayrou che le sbarrava la strada, un elettorato centrista perplesso e con le
sinistre alla sua sinistra in briciole - cosa di cui i commentatori si sono
gloriati. La campagna di Ségolène era stata assai moderata, all'insegna
dell'incontro diretto con la gente, e appena ha alzato il tono nell'unico faccia
a faccia con Sarkozy (intendiamoci, niente a che vedere con le pesantezze
nostrane) è scesa di colpo di tre punti. Per amor del cielo, s'è allarmata la
Francia, basta con gli estremismi - la stampa scritta, Le Monde in testa, l'ha
rimproverata e perfino il Nouvel Observateur, che invitava a votare per lei,
aggiungeva che in ogni caso Sarkozy non sarebbe stato il peggiore dei
presidenti. Morale, l'ex ministro degli interni ha vinto alla grande. Adesso ci
sono le legislative per il parlamento, si voterà il 12 giugno, ma è da dubitare
che gli elettori, confusi e pentiti, diano a Sarkozy una buona lezione dopo
averlo promosso.
Che cosa ha indotto su questa strada i nostri vicini, che molto ci avevano
sbertucciato per via di Berlusconi? Primo, la «rottura» promessa da Sarkozy:
basta con l'uguaglianza, basta con le 35ore, detassazione degli straordinari per
le imprese, proibizione degli scioperi senza previo referendum fra tutti i
lavoratori, fine dell'assistenza ai disoccupati che non accettino la seconda
proposta di lavoro, riduzione a metà del turnover nella funzione pubblica, soldi
all'impresa come sola e sufficiente garanzia di crescita e quindi
dell'occupazione, immigrazione «scelta», difesa dell'identità nazionale,
un'Europa senza costituzione e senza bisogno di referendum, ripristino di tutte
le autorità e si finisca una buona volta con la nefasta eredità del maggio '68.
Queste ripetute dichiarazioni non hanno incontrato nessun movimento di protesta.
Quanto sia profonda la «rottura», anche culturale, dimostra lo spiattellamento
delle sinistre, la cui litigiosità è stata nuovamente suicida. Insomma, l'onda
di destra è mobilitante: chi parla di crisi della politica? La politica funziona
ancora a contrastare un riemergere della sinistra, per morbida che si presenti.
Secondo, mai una donna presidente della Repubblica! Bisogna essere stati qui per
crederlo, ma in un paese così moderno, prospero e avanzato è diffuso il dubbio
che una donna possa dirigere lo stato. Una stampa attenta al minimo errore o
presunto tale, le crudeli vignette (la satira sarà sacra, ma lavora sulle
pulsioni sicure), la scarsa propensione delle donne a votare per una di loro, il
defilarsi delle femministe: è stata esplicita l'intenzione di sbarrare la strada
a una donna, ancorché moderata e sostenitrice dell'ascolto, perdipiù avvenente e
così sicura di sé da non farsi cooptare da nessuno, piacesse o no ai leader del
suo partito. I quali sono già partiti per farle la festa. Il sacerdozio,
ecclesiatico o civile, non è cosa da femmine. Su questo la laicissima Francia
raggiunge piuttosto il Vaticano che la Germania o il Regno Unito.
In breve, nell'Europa del terzo millennio la parola «rinnovamento» suona: a
destra tutta. Viene in mente Breznev che, a chi osservava che quello dell'Urss
non era socialismo, ha ribattuto: questo è il solo che ci sia, il socialismo
reale. E questa, ci dicono nel 2007 le urne transalpine, è la democrazia reale.
Fiori
avvelenati
Bajo Flores, 'favela'
argentina, dove il narcotraffico la fa da padrone
scritto da Serena Corsi
Bajo Flores è la più grande Villa
Miseria - equivalente argentino delle favelas- della città di Buenos Aires. Il
nome proviene dalla locazione geografica: la Villa è sorta sotto a Flores, uno
dei quartieri residenziali più vecchi e popolari della città. Ma a nessuno
sfugge l’ironia nera che nasconde il nome: sotto i fiori c’è il fango – il
letame, lo stesso che invade le strade sterrate della Villa ogni volta che
piove, mescolando l’acqua piovana a quello che fuoriesce dalle fogne
artigianali. In questo quadro si innesta una delle questioni più dolorose
dell’attualità sudamericana: il narcotraffico e la diffusione di una droga di
infima qualità fra chi non può permettersi quelle di prima; per il mercato
argentino lo scarto della lavorazione della cocaina (detto paco) proviene
soprattutto dal Perù , e viene prodotto ad hoc per gli ultimi consumatori della
catena. Sono i figli delle Villas, giovanissimi, disoccupati, destinati alla
strada, presto costretti a divenire corrieri del paco per poterlo consumare . E
si ingrossa la lista delle vittime , non solo della droga , ma anche dei
regolamenti di conti delle bande che detengono il potere della distribuzione e
che si spartiscono le zone della Villa , meticolosamente numerate come i settori
di un carcere.
Anche l'omertà. In una notte di qualche tempo fa, sono stati accoltellati due
fratelli : il più giovane , Lucas, è morto. Erano entrambi figli di Susana
Acosta, delegata di quartiere- praticamente l’unica forma di rappresentanza
delle istituzioni in queste terre di nessuno . Susana: una che , quando si è
trattato di rompere il silenzio sullo strapotere della criminalità organizzata ,
non si è mai tirata indietro: “Questi assassini, profughi della giustizia , si
nascondono certi della protezione della polizia”. L’omertà copre come una nebbia
le baracche di Bajo Flores : ognuno, almeno una volta, ha visto uno spacciatore
vendere droga accanto a un poliziotto indifferente, o peggio ancora, corrotto
alla luce del sole. Denunciare è inutile, oltre che molto pericoloso. E non si
tratta solo della paura di ritorsioni: come tutte le mafie del pianeta , anche
quella peruana che controlla la Villa sa che il potere passa anche attraverso il
consenso . E non è raro che gli abitanti considerino i capi della criminalità
come dei benefattori: Salvador, come chiamano qui a Marcos Estrada Gonzalez
–secondo la polizia, il cervello della banda più potente- ha provveduto a pagare
l’albergo a diverse famiglie che hanno dovuto lasciare la casa perchè minacciate
da una banda rivale. Ma Susana è sempre rimasta fuori da queste logiche. “ Con
il tema della droga sono sempre stata molto sincera : io non ci sto. Altri
delegati non erano della stessa opinione : l’unico modo per avere più
sicurezza,dicevano, è allearsi coi cartelli. Ma io sono contraria, ora più di
prima ” .Questo coraggio gli è valso la riconferma puntuale del suo ruolo nel
quartiere, anno dopo anno . E , forse, ha qualcosa a che fare con la morte di
suo figlio. “ Non so. Il giorno della veglia funebre un uomo mi si è avvicinato
e mi ha detto: ‘ sicuramente è stato un errore, sorella. Cercavano
qualcun’altro. Però possiamo rimediare con del denaro’ ”. Susana ha risposto con
un uno sguardo inorridito, racconta. Ma questa pratica- indennizzare le famiglie
delle vittime accidentali della guerra tra Narcos – già diffusa in altri paesi,
probabilmente ha già preso piede anche qui. Una giustizia triviale che rinvia a
chissà quando l’intervento di quella ordinaria .
Il parere. Secondo Gabriela Cerruti, ministro dei Diritti Umani , l’unico modo
di controllare la violenza prodotta dal narcotraffico “è ricostruire e affermare
la presenza nel quartiere, in tutte le forme possibili”; ad esempio, se gli
abitanti non possono denunciare quello che succede, creare una rete che bypassi
la polizia locale e faccia arrivare le denunce, da parte dei rappresentanti del
governo, direttamente alla Camera del Crimine. Questa proposta fa i conti con un
problema profondissimo della società argentina : lo Stato sa che non può
controllare la polizia. Almeno non in tempi brevi. Inoltre, l’Argentina è ancora
piuttosto disarmata perchè la diffusione massiva del paco nelle Villas è
cominciata non prima della fine degli anni ’90, e il cartello peruano si
manifesta ormai come il più potente del Sudamerica . Perciò, è una battaglia che
si può vincere solo combattendola dal basso. Qualche passo può già essere fatto
, investendo su un cambio di mentalità generale che agisca in seconda battuta
anche sui singoli poliziotti: una catena umana , sociale, intorno al
narcotraffico.
4 maggio
Inviato ai politici il rapporto
redatto a Bangkok da un gruppo di esperti provenienti da 120
Paesi
Per evitare un disastro ecologico le emissioni mondiali di gas
serra devono decrescere a partire dal 2015
Clima, l'allarme degli esperti
Onu
"Cruciali gli sforzi nei prossimi 20-30 anni"
Lo sviluppo dell'energia eolica indicata per ridurre
l'emissione di gas serra
BANGKOK - I prossimi venti, trent'anni saranno cruciali
negli sforzi per attenuare il riscaldamento del Pianeta: lo ha
indicato il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico,
l'Ipcc creato dall'Onu, in un testo di sintesi su cui esperti di
120 Paesi riuniti da lunedì scorso nella capitale thailandese
hanno raggiunto stamani un accordo dopo una maratona negoziale
durata tutta la notte.
"Gli sforzi di attenuazione del riscaldamento nei prossimi 20/30
anni avranno un vasto impatto sulle possibilità di raggiungere
livelli più bassi di stabilizzazione delle emissioni di gas a
effetto serra", ha affermato l'Ipcc nel suo rapporto destinato
ai politici incaricati di prendere le decisioni.
"Le emissioni mondiali di gas che causano l'effetto serra devono
decrescere a partire dal 2015 se si vuole mantenere l'aumento
della temperatura media del pianeta fra i 2 e i 2,4 gradi
centigradi", affermano gli esperti del Gruppo intergovernativo
sui cambiamenti climatici dell'Onu. Contenere entro i due gradi
il riscaldamento globale costerebbe appena lo 0,12% del Pil
mondiale ma eviterebbe un disastro climatico.
Il rapporto elaborato è il terzo reso noto quest'anno dall'Ipcc:
i primi due hanno approfondito le prove dell'effetto-serra e i
possibili impatti sull'ambiente. Una bozza del rapporto letta
dall'agenzia France Presse esortava ad un maggiore uso di
energie rinnovabili, come quella solare e idrica, e a una
maggiore efficienza nei consumi.
Posti esauriti da mesi in
classici e scientifici: secondo il ministero arriveranno 6mila
studenti
in più, ma sono a rischio centinaia di cattedre. I sindacati:
"Colpa della Finanziaria"
Licei, posti in
piedi per il nuovo anno
di SALVO INTRAVAIA

Docenti in
trincea e alunni costretti a seguire le lezioni in aule
superaffollate. Ecco il panorama che si prospetta nelle scuole
superiori il prossimo anno scolastico: studenti in crescita e
meno classi. A settembre, gli insegnanti italiani avranno la
sgraditissima sorpresa di entrare in aule che potranno ospitare
anche 35 alunni e gli studenti delle prime classi si
ritroveranno in classi stipate fino all'inverosimile. Non ci
sarà da meravigliarsi se, dopo quello che si annuncia come un
anno difficile per tutti, la dispersione scolastica dovesse
subire un'impennata o come il burnout degli insegnanti.
Del resto, non è un segreto che trovare un posto in un liceo
classico o scientifico è diventata un'impresa titanica: tutto
esaurito da mesi. Ma andiamo con ordine.
L'anno scolastico 2007/2008, in base ai dati raccolti dal
ministero della Pubblica istruzione sulle iscrizioni già
effettuate dai genitori (il cosiddetto organico di diritto),
nelle aule italiane occorrerà fare posto a circa 6 mila alunni
in più con un incremento di appena 42 classi. Se le previsioni
del ministero saranno confermati basta confrontarli quelli,
questa volta reali (alunni e classi effettive), di quest'anno
per fare emergere una situazione diversa. La prospettiva è di
ritrovarsi a settembre con 37 mila studenti in più a fronte di
un calo delle classi che si abbatte pesantemente proprio nella
scuola secondaria di secondo grado. Quasi mille classi in meno
rispetto all'anno che volge al termine con migliaia di cattedre
Aa rischio. Del resto, la Finanziaria varata dal ministro
dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, lo scorso dicembre ha
previsto, per assottigliare l'organico degli insegnanti, un
incremento del rapporto alunni-classi.
Dispersione, sicurezza e stress degli insegnanti subiranno un
ulteriore peggioramento? Se la matematica non è un'opinione,
sembrerebbe proprio di sì. Basta dare un'occhiata alle
statistiche per capire che la dispersione scolastica (abbandoni,
ma soprattutto bocciature) aumenta nelle classi più affollate,
soprattutto le prime che hanno il delicato compito di accogliere
i ragazzini provenienti dalle media. Stesso discorso per la
sicurezza, questione di fatto irrisolta. Le norme sulla
sicurezza nei luoghi di lavoro ammettono, nella migliore delle
ipotesi, un limite massimo di 28 alunni per classe: con 35
potrebbero crearsi situazioni di estremo pericolo, per esempio,
in caso di incendio. E lo stress degli insegnanti? Se la
normativa in materia di composizione delle classi ha stabilito
un tetto massimo al numero degli studenti non è certo per
sperperare denaro pubblico. Anzi. E' chiaro a tutti, anche a
coloro che non hanno messo mai un piede in una aula da docente,
che gestire un gruppo di 30/35 alunni non è la stessa cosa di
gestirne 20. Dove va a finire l'insegnamento individualizzato di
cui c'è traccia in mille documenti ufficiali? "Le disposizioni
sulla formazione delle classi non hanno subito variazioni -
spiega Giuseppe Fiori, direttore generale per il Personale - e
eventuali classi con 30/35 alunni non sono giustificate da
nessuna normativa vigente".
Ma non basta. Al taglio operato i questi giorni si dovrebbe
aggiungere un ulteriore colpo di forbici a settembre: in
organico di fatto. Dove 'sistemeranno', soprattutto i presidi
degli istituti ubicati nelle regioni del Nord, gli alunni?
"E' la prova del disastro della Finanziaria - dichiara Enrico
Panini, segretario generale della Flc Cgil - Non esiste paese al
mondo in cui aumentano i ragazzi, e la richiesta di formazione
qualificata e di alto livello, e il governo risponde riducendo
gli insegnanti e le classi", un atto pesante d'accusa che non
lascia spazio a troppe giustificazioni. "Finora, alle forti
richieste avanzate dal mondo della scuola e dai sindacati -
continua Panini - il governo ha risposto con buone ma vuote
parole". "La situazione economica e strutturale della scuola
pubblica - incalza Piero Bernocchi, coordinatore nazionale dei
Cobas - diviene ogni giorno più drammatica, al limite della
catastrofe e del degrado più inaccettabile. Quello che fa rabbia
è che era tutto già scritto in una Finanziaria che, invece di
rispettare l'impegno elettorale dell'Unione a invertire il trend
sulla riduzione dei finanziamenti nell'istruzione pubblica,
addirittura la accelera". E sui tagli l'affondo finale. "I tagli
alla superiore - continua Bernocchi - sono i più evidenti e
vistosi, resi ancor più gravi dall'aumento delle iscrizioni a
livello nazionale: quello che già accade ora, 30-32-34 alunni
per classe, diverrà la norma, con ripercussioni sulla didattica,
aumento della selezione e ulteriore logoramento di docenti già
molto provati".
3
maggio
La banca dei bambini
Un fenomeno in crescita nei paesi
poveri: piccoli lavoratori, imprenditori di se stessi
Rinunciare all’idea che certe regole e
valori debbano essere comuni a ogni latitudine, trasformando quelli
che nell’ottica occidentale sembrano abusi e illegalità nel loro
esatto contrario. E’ quanto successo in India per la questione dei
bambini lavoratori quando, non potendo abolire il lavoro minorile in
una terra tanto povera, per evitare che questi subissero le
prevaricazioni degli adulti si è cominciato a dare ai baby
lavoratori vere e proprie garanzie sindacali. Da questo si è passati
alla creazione di istituti bancari dedicati ed è così che oggi
migliaia di ragazzi “costretti” a lavorare possono far valere i loro
diritti e le loro necessità.
La Children’s Development Bank. L’esperimento nasce grazie al
Collettivo di bambini lavoratori e di strada di Delhi, Bal Mazdoor
Union, ma la sua azione ha provocato una serie di interventi a
catena che, naturalmente, hanno attecchito in paesi, come lo Sri
Lanka e l’Afghanistan, dove da qualche tempo opera la Children's
Development Bank. Una banca voluta e realizzata da soci che hanno
tra i 6 e i 18 anni e che, proprio nella loro qualità di bambini e
adolescenti, hanno diritto non solo a depositare il denaro
guadagnato con la propria fatica, ma anche ad avere un proprio
libretto di risparmio, a chiedere prestiti e far parte dei Consigli
di Amministrazione.
Si tratta di un modello di banca gestita dai ragazzi come una
cooperativa in cui gli adulti hanno solo il ruolo di garanti e
facilitatori. Un modo per prendere in mano la propria vita che
funziona, a giudicare dai risultati.
Due storie esemplari. Sono stati alcuni di questi ragazzi e
ragazze a spiegare direttamente la loro esperienza nel corso della
visita in Italia.
Tra i “piccoli imprenditori” Gayan Madhushanka e Kosalle
Madhurangika entrambi provenienti dallo Sri Lanka, un paese dove la
povertà si somma a una guerra civile semisconosciuta al mondo.
Kosalle, 15 anni, con il prestito ottenuto è riuscita a mettere su
una piccola produzione agricola e, con l’aiuto di altri coetanei
porta avanti un’attività che la ripaga di un recente passato fatto
di povertà e privazioni.
A Gayan, 16 anni, il prestito della Children’s Develomment Bank è
servito per comprare l’equipaggiamento per giocare a cricket. Il
padre per anni è stato soldato nell’esercito regolare, ma lui di
armi non ne voleva sapere e ha avuto ragione perché grazie al
prestito e a tanto, tanto allenamento, ha vinto, nell’ambito degli
istituti scolastici, il premio per il migliore giocatore del paese e
ora è in attesa di entrare a far parte della squadra nazionale dello
Sri Lanka under 17.
Un po’ di denaro per grandi speranze. E non importa che si
tratti di aprire un negozio, comprare degli animali o semplicemente
conservare i pochi spiccioli guadagnati. Ciò che conta per questi
ragazzi è credere di potercela fare da soli, autonomamente, con le
proprie forze e con pochi, ma semplici diritti garantiti.
Antonella Sinopoli
Missione placebo
A Rio è sempre più violenza e il
governo manda 900 militari. Peccato che non potranno intervenire
Aveva 23 anni e una brillante carriera
universitaria davanti. È morta ammazzata da una pallottola vagante
sparata da chissà quale pistola fra quelle impugnate da orde di
narcotrafficanti impegnati, da ore, a spararsi contro per ottenere
il controllo del territorio. A Rio de Janeiro è sempre peggio e il
governo di Brasilia ha finalmente deciso di ascoltare le accorate
richieste di aiuto del governatore dello stato: novecento uomini dei
reparti speciali dell'esercito brasiliano saranno inviati nella
capitale carioca e schierati in quelli che sono stati definiti i
“punti strategici della città, ma il loro mandato sarà alquanto
limitato”.
Far West. Si chiamava Juliana Perreira da Silva. È stata
colpita all'inguine mentre in auto percorreva l'Avenida Brasil, fra
le arterie principali della zona est di Rio. L'unica sua colpa:
trovarsi nel punto sbagliato al momento sbagliato. Sì, perché quella
lunga strada per alcuni tratti costeggia zone di favelas e
disperazione, dove lo stato è presente solo nelle pistole della
polizia che cerca di avere la meglio sui criminali, in vere e
proprie terre di nessuno. Questa volta però, nel duello scatenatosi
di prima mattina, i poliziotti non c'entrano: a scaricarsi addosso
raffiche di proiettili, in scene da far west, erano i
narcotrafficanti. Due gruppi rivali l'uno contro l'altro armati:
l'uno, gli Amici degli Amici, intento a difendere la loro zona di
spaccio, l'altro, niente di meno che il Comando Vermelho - il più
antico e temuto clan del Brasile - impegnato a conquistare un'altra
golosa fetta di città.
I fatti. Erano le sette del mattino di giovedì. Juliana
viaggiava con due amici, uno di 26 e uno di 23 anni, su un'auto,
destinazione: università. All'improvviso il panico: pallottole da
ogni dove sono piovute da ogni parte, ferendo a morte lei e
leggermente i suoi due compagni. Disperata la corsa all'ospedale,
dove poche ore dopo è morta. La sparatoria ha scatenato il panico
fra tutti i passanti della trafficata Avenida Brasil, gente ormai
sempre più stressata da una violenza senza fine.
Dal primo febbraio 2007, si contano 802 morti e 438 feriti, una vera
e propria guerra, con una media di nove persone uccise al giorno.
Arrivano i nostri. Il giovane governatore dello Stato, Sergio
Cabral, ha accoratamente chiesto al governo federale l'intervento
dell'esercito: “Non voglio passare quattro anni del mio Governo
assistendo a funerali di agenti e civili assassinati nelle strade”,
aveva detto poche settimane fa. Un appello che ha toccato il
presidente Luiz Inacio Lula da Silva che da subito aveva promesso di
aiutare "l'amico Cabral”. E così si è mosso. Il governo brasiliano
ha, infatti, messo a disposizione di Rio de Janeiro circa novecento
unità, destinate al controllo della sicurezza, con un piano ideato
dal ministro della Giustizia, Tarso Genro, che ha coinvolto uomini
di Esercito, Aeronautica e Marina. Eppure un “ma” resta: i militari
non faranno, almeno per ora, operazioni dirette nelle strade di Rio.
Questi sono gli ordini. La loro è una missione di presenza, mirata
ad "aumentare la sensazione di sicurezza in città. "Le forze armate
- ha spiegato Genro - avranno un ruolo di sostegno alla polizia",
non di sostituzione. Il compito delle forze armate, quindi, sarà
solo di appoggio logistico e d'intelligence, tanto che qualcuno ha
commentato: “sempre meglio di niente”. Il piano, che scatterà in
quindici giorni, prevede un primo utilizzo di 600 militari, a cui
verranno poi aggiunti altri 300 uomini. Ma al di là dei numeri,
resta da chiedersi se questa missione “effetto placebo” basterà a
migliorare la qualità di vita di una città ormai teatro di una
guerra interna.
Stella Spinelli
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