Archivio Gennaio 2007
31 gennaio
Bangladesh,
democrazia in bilico
Trentamila arresti in due
settimane, accuse di omicidio contro le forze armate
Continua a peggiorare la crisi in
Bangladesh, con decine di migliaia di arresti, accuse di torture ed
esecuzioni sommarie, tentativi di censura dei mezzi di
comunicazione. L'Alta corte annuncia che le elezioni parlamentari,
originariamente previste per il 22 gennaio e poi rinviate a data da
destinarsi, non si terranno prima di tre mesi.
Trentamila
arresti. L'11 gennaio scorso il presidente Iajuddin Ahmed ha
rinviato le elezioni parlamentari, previste per il 22 gennaio, e ha
dichiarato lo stato di emergenza nel tentativo di disinnescare la
crisi politica che è scoppiata in Bangladesh lo scorso ottobre. Con
la proclamazione dello stato di emergenza, ogni potere è di fatto
passato nelle mani del presidente e delle forze armate, che hanno
immediatamente lanciato una “campagna contro la criminalità e la
corruzione”. Da allora, nell'arco di quindici giorni, la polizia ha
dichiarato di avere compiuto oltre 33mila arresti: criminali comuni,
ma anche funzionari corrotti e esponenti politici dei due maggiori
partiti bengalesi, il Bangladesh Nationalist Party e la Awami League.
Il nuovo capo del governo di transizione, nominato dal presidente
Ahmed per traghettare il Bangladesh verso le prossime elezioni, ha
elogiato il ruolo delle forze armate in questa delicata fase, e ha
sottolineato l'importanza della campagna anti-corruzione perché “la
nazione non può essere ostaggio di un manipolo di criminali”. Le
organizzazioni per i diritti umani, però, raccontano un'altra
realtà.
Esecuzioni extragiudiziali. Fra
le varie denunce spicca quella dell'associazione bengalese Odhikar.
Nei dieci giorni successivi alla proclamazione dello stato di
emergenza, riporta Odhikar, diciannove persone sarebbero state
uccise dalle forze di sicurezza, torturate a morte mentre si
trovavano in custodia oppure uccise in “scontri a fuoco” durante le
procedure d'arresto. Odhikar ha attribuito quattro omicidi
all'esercito, cinque alla polizia e otto alle famigerate Rab, le
forze speciali antiterrorismo del Battaglione d'azione rapida. La
morte in circostanze misteriose dei detenuti in custodia è un
vecchio problema in Bangladesh: nello scorso dicembre Human Rights
Watch ha diffuso un dettagliato rapporto sui crimini delle Rab, che
sarebbero implicate in oltre 350 omicidi dal 2004 a oggi. E proprio
Human Rights Watch ha raccolto la denuncia delle associazioni
bengalesi: “Lo stato d'emergenza non può giustificare le uccisioni
da parte delle forze di sicurezza”, ha dichiarato Brad Adams,
direttore della sezione asiatica di Hrw, “il governo deve porre
immediatamente fine a questi abusi”.
Stampa nel mirino. Un altro
spinoso problema riguarda l'esercizio della libertà di espressione:
lo stato di emergenza prevede grosse limitazioni ai mezzi di
comunicazione, che non possono “turbare l'ordine pubblico”
criticando il governo. Il ministero dell'informazione ha negato che
sia stata imposta una censura: “Ci siamo solo appellati al senso di
responsabilità dei giornalisti”, ha dichiarato sabato Barrister
Mainul durante un incontro con editori e scrittori dei principali
mezzi di comunicazione bengalesi. Lo stesso giorno, tuttavia, il
ministero dell'Interno ha diffuso una nota che minaccia sanzioni
economiche e, soprattutto, pene detentive dai due ai cinque anni per
i giornalisti che violassero le “nuove norme” sull'editoria. E' in
questo clima di tensione che, sabato sera, nella capitale Dacca è
esploso un ordigno destinato, sembra, a una pattuglia del
Battaglione d'azione rapida. Nell'esplosione sono rimaste ferite
sette persone, tra cui due membri delle forze speciali. La polizia
sta ancora investigando, e al momento non ha formulato ipotesi sulla
matrice dell'attacco. Quel che è certo è che la democrazia bengalese,
che negli ultimi quindici anni ha guadagnato il plauso della
comunità internazionale, sta vivendo una terribile crisi, da cui
difficilmente potrà uscire contando solo su esercito e censura.
Cecilia Stra
L'INCHIESTA DI REPUBBLICA / Ammassati nella
sporcizia nel cuore di Roma
Asiatici e africani: in 60 si dividono 150 metri quadri al Pigneto
Dormire a turno per 150 euro
il posto-cuscino degli immigrati
di EMILIO RADICE

CISSÈ, Mohammad, Azar,
Abdou, Bathie, Babacar, Sammadi, Sikdar, Sow, Melick... sessanta uomini
pigiati in 120 metri quadri. Materassi in terra, pavimento nudo, latrina
accanto alla cucina, fili elettrici che pendono a mazzi dal soffitto e che
piovono dalle scatole vuote degli interruttori. Un luogo nascosto e nemmeno
tanto segreto di una strada romana del Pigneto, ex quartiere popolare che
sta diventando di moda: case ridipinte, stucchi ritoccati, colori pastello e
botteghe trendy. Qui il prezzo delle case ha ormai superato i 4.000 euro al
metro quadro, ma per chi abita al numero 97 è tutta un'altra storia: si paga
per passare una notte all'asciutto, sia pure stesi in terra; si paga 100-150
euro a testa per riposare con un cuscino sotto il capo. E se non c'è il
cuscino c'è un rotolo di stracci in due metri di cemento preziosi, da
sfruttare a turno. Uno si alza per andare a vendere accendini e un altro si
riposa.
È il cosiddetto "posto testa", una vergogna diffusa in tutti i ghetti urbani
della capitale e non solo. E loro sono i "migranti", i senza casa e senza
diritti. Senegalesi, bengalesi, nigeriani, pachistani che a migliaia si
nascondono nelle pieghe della città. Disposti a spendere anche un quarto
della loro paga non per avere una stanza o un letto, ma il diritto di
dormire. Anche semplicemente in terra.
"Che dobbiamo fare? Dove possiamo andare?", dicono.
Il vero pericolo per questi disperati è trovarsi senza un tetto, per quanto
pericolante e infiltrato dall'acqua, e senza nemmeno quello spicchio di
cemento detto "posto testa" dove poter chiudere gli occhi (e rompersi le
ossa) quando fuori è freddo.
È per questo che Bilal, del Bangladesh, non ha problemi a raccontare che
dalle parti di Porta Maggiore dorme assieme ad altri 6 connazionali ogni
notte in un buco di stanza. Un solo letto su cui giacciono a turno. Ma guai
a fartelo vedere: "Se qualcuno lo dice al padrone, quello ci scaccia". E la
stessa cosa ci dice Baku, anche lui del Bangladesh, raccontando di come per
un anno intero ha pagato per ottenere un "posto testa" a Centocelle: "Mi
stendevo davanti alla porta di un bagno e tutti quelli che dovevano andarci
mi dovevano scavalcare". La conferma arriva anche da Azar, un albanese che
assieme ad altri 7 dalle parti di via Turati si divide 15 metri quadri di
pavimento e un solo letto a turno per 600 euro al mese. E lì accendono
bombolette e fornelli, stufe e lampadine appese a fili di fortuna, fissati
alla meglio con un chiodo alle pareti. Ogni giorno e ogni notte a rischio
della vita. Stessa sorte di Joseph, indiano, senza permesso di soggiorno,
che paga 150 euro al mese per un letto apribile: "Siamo in 5 in una stanza -
dice - In genere chi arriva prima si mette sul divano e chi arriva dopo si
sistema in terra. A me non pesa molto, l'unica cosa è che al risveglio ho un
po' di mal di schiena. Ma ora abbiamo deciso di fare i turni".
Non è stato facile arrivare a uno di questi luoghi di miseria e
sopravvivenza, protetti dalla diffidenza dei loro abitanti. Ma alla fine
eccolo l'inferno, dietro un portoncino anonimo come tanti altri. Entriamo. È
buio pesto, i fasci di fili scoperti non portano a nessuna lampadina. E
dentro senegalesi, che sopravvivono con la vendita dei cd pirata. Un
posto-testa? Un metro quadrato a pagamento per sdraiarsi in terra e dormire
al riparo della pioggia? No, qui è peggio. "A volte in tutta la palazzina
siamo anche novanta, e allora si dorme dovunque, sulle scale, sui balconi e
se serve anche nel bagno". Eppure il padrone di casa li chiama appartamenti.
Ecco un'altra casa: tre passi da una parte e poi cinque dall'altra. Quindici
metri quadrati, forse meno. Con dentro una cucina alimentata a bombola e
qualche tramezzo di cartongesso per chiudere una minuscola latrina coperta
da muffe. Nello spazio che resta ci vive Elisabeth, peruviana di 38 anni,
con marito e due figli, più uno in arrivo. "Sono incinta di 5 mesi, almeno
credo". Affitto 550 euro, più le spese. E non è neanche l'alloggio peggiore.
Basta arrivare al piano di sopra, dopo essersi arrampicati per una scala
buia con le pareti sporche e unte di grasso. Sul pianerottolo un secchio
d'immondizia. Dentro un pezzo di terzo mondo per come lo raccontano i
documentari: odore di chiuso e umidità, mucchi di gommapiume putride,
stracci, cuscini ammassati in terra, borsoni pieni di cd. Sikdar,
senegalese, spiega che questo marciume risponde a una ferrea logica
economica. Se uno possiede un palazzo cariato dal degrado, lo affitta al
nero spezzettandolo in loculi infami a qualche centinaia d'immigrati che non
hanno la minima possibilità di protestare o di trattare il prezzo; e così
ricava proprio da loro, i più disperati, i soldi che gli serviranno per
ristrutturare la casa e metterla infine linda e pinta sul mercato
immobiliare. Infatti tutti gli sfruttati, una volta spremuti, poi ricevono
l'avviso dello sfratto. I poveri sono un grande affare, due volte.
Sono le 14. Dall'"appartamento" di Melick un refolo di odore di zenzero e
cumino taglia quello delle muffe e del sudore. In terra c'è la tovaglia: dei
giornali vecchi stesi con accuratezza. La fiamma del gas lampeggia a cinque
palmi da una valigia piena di stracci. Dalla latrina si spande minacciosa
una perdita d'acqua che già bordeggia un materasso. Finestre non ci sono. E
se scoppia un incendio? Risposta: "Qualcuno muore, come è successo con i due
bengalesi a piazza Vittorio. Che dobbiamo fare?". Quanto pagate per questo
buco? "Seicento euro". Ci vivono in cinque. I giacigli di fortuna sono
talmente vicini che per mettersi in piedi, vestirsi e imboccare la porta
d'uscita tocca fare a turno. "Ma ora siamo pochi. D'estate è peggio, anche
se ci si può sdraiare sul terrazzo". E le donne? "Non ce le portiamo qui le
nostre donne, fa troppo schifo". Nel palazzo ci sono altri otto vani come
questo, di 10-15 metri ciascuno, "servizi" compresi. E per ognuno nelle
tasche del proprietario vanno dai 400 ai 600 euro.
Il fotografo inquadra feci di topo grandi come noccioli
di oliva e pezzi di gomma piuma arrotolati, pronti ad essere usati per la
notte. Eppure Mohammad, Abdou e Sharani ringraziano il cielo di vivere
comunque sotto un tetto "perché il rischio è di perdere anche questo". Così
come a Porta Maggiore il bengalese Abdil trema all'idea di perdere una
striscia di pavimento per cui paga 200 euro al mese con altri cinque.
"Perché dovremmo denunciare i proprietari? - dice in piazza Vittorio uno dei
capi della comunità del Bangladesh - . Forse per avere un'altra presa in
giro? Chi ha denunciato fino a oggi ha avuto un solo risultato: s'è
ritrovato in strada. Senza neanche un posto-cusci(30
gennaio 2007)
26 gennaio
Filippine, guerra medievale
L'esercito assedia e affama un villaggio per stanare i guerriglieri
comunisti |
Il villaggio di Santa Juana,
nell’isola meridionale di Mindanao, è da giorni sotto assedio da
parte dei soldati della 401esima brigata di fanteria
dell’esercito filippino. Un assedio ‘medievale’ volto ad
affamare la popolazione civile per costringere alla resa un
gruppo di guerriglieri comunisti del Nuovo Esercito Popolare (Npa)
– assieme ai quali si trova anche Jorge Madlos, portavoce
regionale del Fronte Nazionale Democratico (Ndf), organizzazione
politica strettamente legata alla guerriglia.
L’assedio
medievale di Santa Juana. Gli uomini del colonnello
Jose Vizcarra, appoggiati da elicotteri da guerra che sorvolano
la zona a bassa quota, hanno circondato il villaggio con
blindati e unità cinofile. Una cintura militare impenetrabile
volta a impedire l’ingresso di rifornimenti alimentari.
“Restrizione dei viveri”: questa è l’eufemistica espressione
utilizzata dall’esercito di Manila per questo tipo di
operazioni.
Secondo il portavoce dell’Npa,
Gregorio ‘Ka Roger’ Rosal, l’assedio di Santa Juana è “una
crudele misura a danno della popolazione locale e una flagrante
violazione delle leggi umanitarie internazionali in materia di
protezione dei civili in guerra. Se le forze fasciste – ha
dichiarato Rosal – hanno la faccia tosta di difendere
apertamente la legittimità di un blocco dei viveri, chissà quali
altre atrocità commettono senza farne parola”.
Secondo il colonnello Vizcarra, il
blocco starebbe dando i suoi frutti: il portavoce del Ndf, Jorge
Madlos, avrebbe inviato messaggi ai militari in cui si dice
pronto ad arrendersi pur di far cessare l’assedio. Secondo Rosal,
queste affermazioni sono infondate: “Le dichiarazioni di
Vizcarra sono solo una ridicola e disperata tattica di guerra
psicologica”.
Forze
Usa per combattere la guerriglia. La pressione
dell’esercito filippino contro le roccaforti dei guerriglieri
dell’Npa sta notevolmente aumentando. Dopo aver inferto, grazie
all’aiuto delle forze speciali Usa, durissimi colpi ai
separatisti islamici del Gruppo Abu Sayyaf attivi nell’estremo
sud dell’arcipelago filippino (compresa l’uccisione del loro
leader Khaddafy Janjalani, avvenuta in settembre ma confermata
solo nei giorni scorsi), la presidente Gloria Arroyo ha deciso
di dedicarsi all’altro fronte di guerra interna, quello
comunista, rilanciando la famigerata operazione
Bantay Laya.
Il Partito Comunista delle
Filippine (Pcc), braccio politico clandestino della guerriglia,
teme che le forze militari statunitensi, meno impegnate a
sostenere l’esercito filippino contro i ribelli islamici,
vengano ora impiegate contro l’Npa. “Per stessa ammissione del
capo di stato maggiore, generale Hermogenes Esperon, le forze
Usa sono state coinvolte in operazioni di combattimento contro
Abu Sayyaf. Ora le nostre fonti ci dicono che anche la provincia
di Mindanao pullula di forze speciali Usa, uomini della Cia e
dell’Fbi. Temiamo il loro coinvolgimento non solo in azioni
militari ma anche in ‘operazioni speciali’ come attentati fatti
per screditare il nemico. Non sarebbe una novità – sostiene il
Pcc – come dimostra il caso dell’agente Cia Michael Meiring,
ferito nel 2002 in un hotel di Davao City dall’esplosione di una
bomba che stava preparando e fatto uscire in fretta e furia dal
paese”.
|
Gli interrogatori ai pm di
Milano. "Pollari
mi disse di indagare, ma non trovai nulla"
"Da Telecom dossier sui Ds"
Mancini parla dei politici
di PIERO COLAPRICO, GIUSEPPE d'AVANZO, EMILIO RANDACIO

MILANO
- Parla Marco Mancini, appena fino all'altro giorno il
temutissimo direttore del Controspionaggio italiano. Parla e
parla ancora. Almeno in tre interrogatori, ora segretati. Le
sue parole alzano il velo sul nucleo più fangoso
dell'inchiesta Telecom/Pirelli. L'indagine ne è scossa come
dall'alta tensione, e siamo (pare) soltanto all'inizio di un
racconto a puntate che può averne per l'intero arco della
politica italiana, perché tutti i partiti e tutte le
leadership nazionali fino alla terza fila sono al centro dei
dossier illegali raccolti dagli spioni privati, pubblici,
avventizi e fiduciari. Mancini preferisce cominciare da un
partito al governo, la Quercia. Spiega che c'è un report
segreto del 2003 raccolto su indicazione della Security
Telecom sui presunti conti segreti dei Ds.
Da dicembre, Marco Mancini è in carcere, accusato di
"associazione per delinquere finalizzata alla rivelazione e
utilizzazione di segreti d'ufficio". Avrebbe incassato
moneta sonante per consegnare a un investigatore privato di
Firenze (Emanuele Cipriani) le notizie riservate in possesso
del Sismi. Emanuele Cipriani è il private eye a cui Giuliano
Tavaroli, il capo della Security della società telefonica,
assegna il lavoro sporco di intrusioni, pedinamenti,
analisi, furto di informazioni riservate.
Mancini dice: "Non ho mai preso un euro da Cipriani. E'
infamante soltanto pensarlo. Sono un servitore dello Stato.
Con Cipriani scambiavo informazioni. Era il mio lavoro - può
piacere o meno - raccogliere notizie. E anche a Cipriani
capitava di averne d'interessanti. Ricordo che nel 2003 mi
disse di avere informazioni su conti correnti esteri
riconducibili a esponenti di primo piano dei Democratici di
Sinistra. Come m'impongono le regole del Servizio, girai la
notizia al mio superiore il generale Nicolò Pollari. Mi
chiese di verificarla. Al termine di una discreta
ricognizione, maturai la convinzione che la notizia fosse
basata sul nulla. Pollari mi disse che ci avrebbe pensato
lui. Non chiedetemi che cosa abbia fatto dopo".
Il dossier di cui parla Mancini è alto una buona spanna.
Risale a quattro anni fa. Con aggiornamenti bimestrali, gli
spioni della Security Pirelli-Telecom controllano, per il
periodo 2001/2002, banche europee e nazionali, conti,
bonifici, flussi finanziari estero su estero e verso
l'Italia.
L'ex dirigente del Sismi si mostra risentito ai pubblici
ministeri che lo hanno raggiunto nel carcere di Pavia.
Quelli, dinanzi al fiume in piena, si fanno guardinghi.
Accettano l'apertura di Marco Mancini, ma - a quanto trapela
da più fonti - non fanno più alcuna domanda sul "dossier Ds".
Perché?
Sta in questo interrogativo e nelle possibili risposte il
senso di quanto gravi, preoccupanti, persino minacciosi,
siano i quotidiani ritrovamenti nella "caccia" agli spioni.
Mancini cita i Democratici di Sinistra, ma - come conferma
l'ultima ordinanza d'arresto (la terza) - sono moltissimi i
nomi dei politici (otto righe di testo protetto dagli
omissis) che entrano, non si sa bene a che titolo e con
quale attendibilità, nelle attenzioni "sporche" dei "segugi"
retribuiti dalla Telecom.
Se si segue il "cammino istruttorio" del "dossier Ds" si può
comprendere meglio (forse) che cosa è e che cosa può
diventare l'inchiesta di Milano. Non solo. Emergono le
inquietudini dei pubblici ministeri; i tentativi di
inquinamento in corso; il possibile orizzonte di
responsabilità penali e conseguenze politiche. Soprattutto,
si può affrontare la questione che schiaccia l'inchiesta
come un cielo basso e nero: quando - e per conto di chi,
nell'interesse di chi - è nata questa piattaforma di
spionaggio cresciuta dentro e grazie alla Telecom?
La strategia dei pubblici ministeri
L'orizzonte si apre attraverso un semplice compact disc. È
nascosto nello studio del commercialista milanese di
Emanuele Cipriani, Marcello Gualtieri. Per settimane i
tecnici informatici della polizia giudiziaria provano a
violarne l'accesso. Ogni tentativo viene respinto. A quel
punto l'investigatore, per salvare se stesso, comincia una
parziale collaborazione e fornisce le password utili per
sbloccare il cd.
Sui computer dei pubblici ministeri appaiono migliaia di
icone. In ogni icona, un dossier. In ogni dossier, un
profiling personale, finanziario, relazionale dei principali
protagonisti, istituzioni e società della vita pubblica del
Paese, politici, finanzieri, imprenditori, banchieri,
giornalisti e - ora si scopre con sconcerto - magistrati. E'
una massa d'informazioni degna di un servizio segreto.
Notizie vere o false? O parzialmente vere, deformate e
condite fino alla calunnia? Sono informazioni di laboriosa
verifica. In ogni caso, hanno bisogno di molto tempo per
essere valutate. È la prima difficoltà che gli inquirenti
devono affrontare con la squadra di polizia giudiziaria
costituita ad hoc. Che fare? Come procedere? Muoversi
contestualmente su tutto il fronte dell'indagine? Cercare,
prioritariamente, le responsabilità individuali della rete
di spionaggio? Oppure privilegiare con urgenza le eventuali
notizie di reato contenute nell'archivio illegale?
Spiega a Repubblica una voce interna all'inchiesta:
semplicemente non ci sono le forze sufficienti per
affrontare tutti i capitoli dello zibaldone che ci è caduto
in mano. Lo stato delle cose impone, si può dire, un metodo
di lavoro - certo - più lento, ma non minimalista. O peggio,
così cauto da poter apparire ambiguo.
"Abbiamo così organizzato un'agenda di priorità
investigative", dice la fonte. Al primo posto, la rete di
spionaggio e l'individuazione dei burattini e dei
burattinai, riservando a un secondo tempo la valutazione
dell'attendibilità, la fondatezza o l'infondatezza delle
notizie raccolte illegalmente da quella che gli addetti
definiscono una piattaforma di spionaggio.
È il metodo che, al palazzo di giustizia di Milano, chiamano
lo schema del fascicolo in C. Non è una cosa poi molto
complicata, nonostante la formula un po' criptica. Dal
troncone d'un'inchiesta si stralciano alcune posizioni
aprendo un fascicolo di "Atti relativi a...". Questo è il
fascicolo in C: permette al pubblico ministero di tenere in
parcheggio l'iniziativa penale senza pregiudicarla con i
tempi stretti dell'istruttoria, del processo e della
prescrizione. Sono atti che, in qualsiasi momento, a ogni
occasione utile, possono uscire dal parcheggio con
un'ipotesi di reato quando questa viene individuata e
sostenuta da un'apprezzabile fonte di prova.
Nell'inchiesta dello spionaggio illegale, il parcheggio è
affollatissimo. I dossier sono seimila e, se si prende per
buono quel che assicura una fonte bene informata, a parte
duemila sconosciuti aspiranti impiegati di Telecom, ce n'è
per tutti - nessuno escluso - del Gotha nazionale.
Improvvisamente una luce si accende sul dossier dei Ds
Dicembre scorso. Marco Mancini, in codice doppia M e
Tortellino, già capo del controspionaggio del Sismi, decide
di muovere le acque fangose con lo strale contro i Ds. E'
vero, dice di aver verificato le informazioni, di aver
concluso che il castello fosse di sabbia. E tuttavia,
lasciando emergere il dossier del 2003, lancia un segnale
con l'intento di far salire la temperatura politica intorno
all'affaire e raffreddare la tensione dell'istruttoria
intorno alle responsabilità penali sue e dei suoi complici
(Giuliano Tavaroli, Emanuele Cipriani, i loro collaboratori
nei servizi segreti esteri e nelle forze di polizia
nazionali). Promettendo di allargare la manovra all'intero
arco dei politici "dossierati". Mancini non sa che, con "il
fascicolo in C", gli inquirenti hanno già fermato, più o
meno dieci mesi fa, la tritasassi che egli vuole manovrare.
La ragione dello stop tattico, rivela la fonte, è questa:
non possiamo - per il momento - indagare soltanto su uno dei
dossier lasciando in ombra gli altri. Se imbocchiamo questa
strada, rischiamo di far deragliare il treno delle indagini.
Crediamo di doverci muovere con una priorità: accertare la
responsabilità di chi ha controllato e gestito la
piattaforma spionistica; verificare gli interessi reali di
chi ha utilizzato quelle informazioni oblique. Perché questo
- dice ancora la fonte - è per noi oggi il punto cardine
dell'inchiesta: conoscere gli organizzatori, i beneficiari,
gli "utilizzatori" del lavoro della piattaforma. A nostro
avviso, muovendoci al contrario, andando dietro alle
indicazioni estratte dai dossier abusivi, non sarebbe più la
procura a condurre l'inchiesta. Con le loro suggestioni e
indicazioni ed eventuali imposture, sarebbero gli arrestati
a guidarla su un binario che potrebbe essere ancora una
volta cospirativo, diffamatorio, ricattatorio.
Se la procura dovesse occuparsi delle migliaia di fascicoli
su imprenditori di primo piano, ex ministri del governo di
destra, ex segretari dei partiti oggi d'opposizione ieri di
governo - paventa la fonte - ne nascerebbe un'insopportabile
pressione sul già affannoso lavoro dei pubblici ministeri
con la richiesta, pur legittima, di "fare presto" per
sgomberare il campo dalla calunnia o, al contrario, per
accertare le possibili responsabilità penali. Proteggere la
riservatezza dei dossier è per la procura di Milano
un'imprescindibile necessità per lavorare in sicurezza fino
a cavare il ragno dal buco.
I "padroni" della piattaforma Telecom
La fonte vicina all'inchiesta non gradisce fantasie
investigative, e tuttavia se ragiona dell'intrigo che ha
sotto gli occhi, se ne segue le tracce e la logica, è
costretta a proporre una lettura più complicata di quanto
sia apparso sinora. Chi governava la "piattaforma"? Quali ne
erano gli scopi, gli ispiratori, i "garanti"?
Alcuni obiettivi sono ragionevolmente chiari. Lo spionaggio
permette a chi opera nella "piattaforma" (Tavaroli; Cipriani;
un ex-agente della Cia, John Spinelli; un'ex-fiduciario del
Sisde, Marco Bernardini; il capo del controspionaggio del
Sismi, Marco Mancini) di mettere da parte il bel gruzzoletto
in euro e in dollari assicurato da Telecom (più o meno,
secondo i primi, approssimativi calcoli, 20 milioni di
euro). L'arricchimento personale della combriccola, dunque,
è una delle ragioni accertate. Ce n'è una seconda che non
esclude la prima, ma a quella si sovrappone: le informazioni
sono raccolte dagli spioni al di fuori di ogni legge
"nell'interesse dei vertici della Telecom" (come sostengono
i pubblici ministeri) o addirittura a vantaggio del
"proprietario" della società, Marco Tronchetti Provera (come
crede il giudice per le indagini preliminari). Può non
finire qui, perché a Milano è ormai un'ossessione questa
domanda: quando è nata la "piattaforma di spionaggio"? E
quanto è "grande" e diffusa? Sono domande decisive alle
quali sinora non si trovano risposte precise, ma solo
qualche indizio e più di un nesso logico. Appare ragionevole
pensare che la data di nascita della "piattaforma di
spionaggio" possa addirittura pre-esistere a Telecom,
risalire alla Anni Ottanta, quando Giuliano Tavaroli e Marco
Mancini sono ancora sottufficiali dell'Antiterrorismo di via
Moscova a Milano.
I due entrano in contatto (1986) con John Spinelli,
l'ufficiale di collegamento della Cia con l'intelligence
italiana. La circostanza lascia credere che "la piattaforma"
sia stata sostenuta e utilizzata dalla Central Intelligence
Agency. L'essenziale dettaglio è confermato dai primi
risultati dell'inchiesta. Due protagonisti - Tavaroli e
Mancini - appaiono "legati" alla Cia. "L'orecchio di Nicolò
Pollari" (Pio Pompa) si lascia intercettare mentre rivela
che "Tavaroli è stato pagato 15.000 dollari o euro al mese
dalla Cia". Una testimonianza interna al Sismi svela che
Marco Mancini era considerato "un agente doppio della Cia".
Il percorso di un terzo uomo (estraneo a quest'indagine)
lascia intuire quali fossero le tappe di avvicinamento alla
"piattaforma". Luciano Pironi è un maresciallo del nucleo
d'eccellenza dei carabinieri (Ros). Il capocentro della Cia
a Milano (Robert Seldon Lady) gli chiede di partecipare al
sequestro di Abu Omar (2003). In cambio avrebbe ottenuto di
lavorare al Sismi o, in alternativa, di entrare nella
Security di Pirelli.
La storia di Pironi (poi premiato a Langley per la sua
partecipazione al sequestro del cittadino egiziano) può
dimostrare che Pirelli/Sismi/Cia sono fili di quel che
appare ora un unico gomitolo.
Questa approssimata ricostruzione indiziaria e logica impone
così agli inquirenti di verificare se la rete, nata per
scopi illegali ma legittimi (per l'interesse nazionale alla
sicurezza), nel tempo muti la sua "ragione sociale" e si
potenzi, trasferendosi armi e bagagli, e gonfia di risorse
finanziarie e di mezzi tecnologici, prima in Pirelli e
successivamente in Telecom, fino a costruire le basi per
rendersi autonoma con il progetto di creare la "One Security":
"una società di sicurezza internazionale" al cui capitale la
Pirelli - azionista di riferimento - avrebbe dovuto
partecipare per il 40 per cento.
In questo schema, tutti gli attori che
ruotano sulla "piattaforma" ricevono benefici. Gli "amici al
bar" (Tavaroli, Mancini, Cipriani), potere d'influenza e
ricchezza. Pirelli/Telecom o, come sottolinea il giudice
delle indagini preliminari, "il suo proprietario, in un dato
momento storico" (Tronchetti Provera) informazioni
riservate, dossier maligni, notizie ingannevoli, utili però
ad affrontare i conflitti con concorrenti, soci in affari,
sistema bancario, establishment politico, circuito mediatico,
ambiente giudiziario. La Cia, il nostro servizio segreto
militare o altre intelligence" (qui e lì fa capolino anche
il controspionaggio francese), utilizzano, per parte loro,
la "piattaforma" con lo scopo di trarre informazioni
d'interesse strategico (e non) raccolte nei Paesi
(soprattutto in Medio-Oriente e nell'area dell'ex-blocco
sovietico) dove si agitano le iniziative di espansione di
Telecom (eccellente e insospettabile "copertura"per i
maneggi degli spioni). È una trama che non disprezza le
notizie genuine o da manipolare. Se "giocate" nel sottosuolo
italiano, possono essere un buon carburante per condizionare
- avvelenandola - la vita politica del nostro Paese. Forse
davvero questa inchiesta può avere il clamoroso valore dello
scandalo P2.
25 gennaio
Lettera a
Prodi da Nairobi
Flavio Lotti
Caro Presidente Prodi, le scrivo
da Nairobi, nel cuore dell'Africa, seduto accanto a due milioni e
cinquecentomila persone che in questa città sono costrette a sopravvivere e
a morire miseramente con in tasca meno di un dollaro al giorno. Li ho
incontrati a Kibera, la più grande baraccopoli dell'Africa, da dove è
partita la Marcia per la pace che ha aperto i lavori del Forum Sociale
Mondiale. Camminando insieme a loro, dal quartiere più povero a quello più
ricco di Nairobi, ho avvertito un profondo disagio per le ingiustizie che
continuano ad uccidere ogni minuto centinaia di bambini e bambine, donne e
uomini innocenti. Questa mattina li ho incontrati nuovamente a Korogocho, la
discarica di Nairobi, dove si è svolta la prima assemblea del Forum sociale
mondiale: un'assemblea eucaristica carica di preoccupazioni, di gioia e di
speranza.
Caro Presidente, vista da qui a Nairobi, la base militare che gli Stati
uniti intendono costruire a Vicenza appare un insulto a tutte queste persone
private della dignità e di ogni diritto, straziate dalla fame e dalle
peggiori malattie, violentate e abusate, ignorate e abbandonate dal mondo.
Immersi in questa miseria, la costruzione di una nuova base di guerra è un
inaccettabile spreco di denaro pubblico. E le cose inaccettabili non possono
essere accettate. Di chiunque sia quel denaro, sono soldi sottratti alla
lotta alla povertà.
Cosa dobbiamo dire ai ragazzi e alle ragazzi che, forse per la prima volta,
sono usciti dalle loro baracche per marciare al nostro fianco chiedendo
giustizia, diritti umani, pace? Cosa dobbiamo dire quando ci chiederanno
perché l'Italia ha deciso di appoggiare la costruzione di questa nuova base?
Perché signor Presidente? Quale nobile motivo ha spinto il suo Governo ad
assumere una decisione così importante? Quanti aiuti umanitari partiranno
dalla nuova base di Vicenza? Quante vite umane riusciremo a salvare grazie a
questa nuova infrastruttura strategica?
Si dice che gli impegni internazionali si debbono mantenere. Ma allora...
perché l'Italia mantiene sempre gli impegni militari con il governo Usa e
non rispetta gli impegni contro la povertà che il governo si è assunto con
l'Onu e tutti gli altri governi del mondo, come gli Obiettivi di Sviluppo
del Millennio?
Come faremo a spiegare che anche quest'anno dovranno cavarsela da soli
perché l'Italia ha stanziato per la cooperazione internazionale solo una
piccola somma incapace persino di toglierci da quell'angusta posizione che
ci identifica come il paese più avaro dell'occidente? Quest'anno non c'erano
soldi per salvare la loro vita. Non ce n'erano neanche l'anno scorso. Com'è
possibile allora che ogni anno il nostro bilancio militare segni un nuovo
record?
Tra qualche settimana forse qualcuno di loro forse sbarcherà a Lampedusa e
diventerà immediatamente clandestino da rinchiudere in un Centro di
permanenza temporanea in attesa di essere espulso. Altri moriranno lungo la
strada. Caro Presidente, cosa possiamo dire a questa gente? Sono qui al
nostro fianco. Hanno fame e sete ma non c'è né cibo né acqua. Ne hanno
bisogno ora. Domani per alcuni sarà già troppo tardi. Vorrebbero vivere in
pace ma, ad ogni istante, sono vittime di una violenza inconcepibile. Non
c'è nessun esercito in grado di proteggerli. Sono qui al nostro fianco,
signor Presidente. Cosa gli dobbiamo dire? In queste situazioni anche il
silenzio uccide.
Flavio Lotti Coordinatore Tavola della Pace
Tessile
Cgil: più diritti meno pirateria
Francesca Pilla
Napoli
«Bisogna rendere più flessibile e ridurre il costo del
lavoro». E' incredibile che qualsiasi «contraddizione» salti fuori nel
libero mercato, sia questa la crisi industriale o il disequilibrio negli
scambi commerciali, per gli industriali la ricetta non cambi. Così Alberto
Bombassei, vice presidente di Confindustria, a Napoli per il convegno sulla
contraffazione promosso dalla Filtea-Cgil, seduto accanto a Guglielmo
Epifani non ha trovato nulla di meglio da dire per risolvere l'annosa
questione delle merci taroccate se non che in Italia bisogna essere
competitivi permettendo ai padroni di abbassare gli stipendi e ridurre le
tutele dei lavoratori. Alla provocazione, lanciata nemmeno tanto abilmente,
il segretario Cgil ha risposto che «il falso altera i rapporti tra le
imprese, toglie dignità al lavoro e risorse al fisco e ai contributi» e che
si tratta di «un fenomeno da combattere, pena la nostra scarsa credibilità a
livello internazionale».
Sulla stessa lunghezza d'onda il ministro del lavoro Cesare Damiano che
nella sala del museo di Capodimonte ha risposto più direttamente a Bombassei:
«Non è vero che per combattere il lavoro nero c'è bisogno di rendere
estremamente flessibile il lavoro stesso. Anche per colpa delle leggi del
centrodestra - ha detto - è stato dimostrato che la flessibilità è
aumentata, ma è aumentato anche il lavoro nero con oltre 3 milioni e mezzo
di lavoratori sommersi».
Incongruenti le cifre oggi disponibili: l'Osce stima il commercio pirata
intorno al 10% degli scambi planetari, pari a 450 miliardi di dollari,
mentre l'Organizzazione mondiale delle dogane ritiene che si tratti del 7%,
con un valore valutabile tra i 200 e i 300 miliardi di euro. Quale che sia
il fatturato siamo di fronte a un mercato parallelo a quello «ufficiale»,
dove borse, cinture, jeans, pantaloni, maglie (per restare nel settore
tessile) provenienti in maggioranza dall'Asia vengono scambiati a prezzi
stracciati. Ma se da un lato è infatti vero che i lavoratori del mercato
nero mondiale sono degli invisibili sfruttati lo è altrettanto negli scambi
«bianchi». Lo stesso Bombassei ha ricordato come molti prodotti siano
confezionati in India, Cina o Thailandia e spacciati per made in Italy
grazie a una confezione, magari prodotta in quegli stessi paesi.
Il secondo fattore riguarda il valore «falsato» delle merci «vere».
Prendiamo ad esempio un borsa di D&G che in una boutique può essere
acquistata alla modica cifra di 300 euro, contraffatta costa appena 10, 15
euro, oppure un paio di occhiali Gucci dove il rapporto è 200 a 5 (euro), o
finanche le scarpe da ginnastica Tiger, rinomate per essere state indossate
dall'attrice Uma Thurman e acquistabili a 5 euro sulle bancarelle
napoletane. Ben oltre la metà del prezzo delle merci «vere» viene assorbito
dai ricavi delle industrie e dalle catene di distribuzione e non certo
equivale al costo del lavoro, delle materie prime, delle tasse. Allora ci
domandiamo oltre a combattere la mafia internazionale della contraffazione
per essere competitivi in Italia si potrebbe iniziare a ridurre il «costo»
dei ricavi?
Nove sorelle per un cartello
Petrolio e benzina L'Antitrust apre un'indagine sull'Eni e altre otto
«concorrenti»: hanno pilotato tra loro i prezzi dei carburanti in Italia
Manuela Cartosio
La notizia era nell'aria, ieri si è realizzata. Una
settimana fa alla Camera il ministro dello sviluppo economico Bersani aveva
invitato il presidente dell'Antitrust Antonio Catricalà a dare un'occhiata
all'andamento dei prezzi dei carburanti nel periodo natalizio. Giovedì
scorso l'Antitrust aveva sollecitato governo e parlamento a interrompere la
pubblicazione dei «prezzi consigliati» dalle compagnie petrolifere e a
rimuovere i vincoli che frenano la concorrenza nella distribuzione. Dunque,
è un po' enfatico definire «a sorpresa» le ispezioni effettuate ieri mattina
dall'Antitrust e dalla Guardia di Finanza nelle sedi di nove compagnie
petrolifere: Eni, Esso, Shell, Q8, Tamoil, Total, Erg, Ip e Api. Su di loro
il Garante ha aperto un'istruttoria per «cartello» sui prezzi.
L'ipotesi di reato è che le nove compagnie almeno dal 2004 (non solo da
dicembre, quindi) abbiano concordato tra loro i prezzi «consigliati» ai
distributori. I prezzi, di conseguenza, «hanno avuto un andamento parallelo,
con variazioni contestuali di entità comparabile e di segno omogeneo». Fare
«cartello», lo dice la parola stessa, viola la normativa a tutela della
concorrenza. L'istruttoria dovrà essere chiusa entro il 31 marzo. Non di
quest'anno, ma del 2008. L'Antitrust si prende un sacco di tempo per
dimostrare una cosa che tutti, lei per prima, considerano pacifica. Non ci
si sono formule dubitative, infatti, nella nota diffusa dall'Antitrust. Che
afferma quanto segue. A partire dalla fine del 2004 i prezzi di benzina e
gasolio sono stati pilotati in modo da rispondere all'evoluzone strutturale
del settore (calo del consumo di benzina e aumento di quello del gasolio)
trasferendo il maggior margine lordo (e il maggior stacco dalla media Ue)
dalla benzina al gasolio. Il risultato è che prezzi e margini lordi dei
carburanti in rete in Italia sono più elevati che all'estero. A «dettare» il
prezzo in Italia è l'Eni che, proprio dalla fine del 2004, usa un nuovo
metodo meno legato all'andamento della materia prima. Un metodo a cui le
compagnie «concorrenti» si sono «prontamente adeguate». Lo scambio di
informazioni tra le nove sorelle avviene attraverso «svariati canali»,
compresi il sito Internet del ministero dello sviluppo economico, la stampa
e una rivista specializzata. «Le parti sono così in grado di conoscere tutte
le componenti del prezzo consigliato, monitorando efficacemente il reciproco
comportamento».
Dalle compagnie indagate nessuna reazione ufficiale. Ieri mattina, quando le
ispezioni erano già in corso, Bersani le aveva stuzzicate. «Sulla benzina ci
sono di mezzo tante altre cose, ad esempio i petrolieri», aveva detto il
ministro a chi gli chiedeva un commento sulla serrata minacciata dai
benzinai contro la liberalizzazione dei distributori nei supermarket. Una
protesta «prematura», aveva ripetuto Bersani, consapevole che i benzinai,
l'ultima ruota del carro rispetto ai petrolieri, minacciano la serrata per
trattare con il governo.
Le associazioni dei consumatori battono le mani all'Antitrust. Il Codacons
chiede che «eventuali anomalie» riscontrate nelle ispezioni siano
«tempestivamente» segnalate alle procure della Repubblica. L'Adusbef
confronta il prezzo del greggio (calato del 22% dall'inizio di dicembre al
19 gennaio) con quello della benzina in Italia (sceso solo dell'1,7%) e
afferma: questo è aggiotaggio, un reato già segnalato in numerosi esposti.
24 gennaio
Contro la base e
contro le menzogne
Da sei giorni un cittadino di Vicenza rifiuta di
mangiare. Opponendo la sua lealtà alle bugie della politica
Quando
sarà grande e glielo racconteranno, Bianca probabilmente non ci crederà.
Non crederà che il padre Giorgio, a quasi 50 anni, dopo un'onesta e
laboriosa vita da tecnico delle comunicazioni si sarebbe trovato in
piazza a manifestare contro la base militare. Che, nottetempo, assieme a
cinquemila persone avrebbe occupato la stazione. E soprattutto che, dopo
il nefasto 'sì' del premier italiano Prodi agli americani, papà Giorgio
avrebbe deciso, oltre che con la voce e con le braccia, di protestare
anche con lo stomaco. Da sei giorni Giorgio Benedetti non mangia. Ha
deciso di rinunciare a ingurgitare cibi solidi per rispondere, con
l'unica arma che possiede, a una classe politica che l'ha "tradito,
umiliato, ferito". L'unica arma di Giorgio è la lealtà. Ce lo ha detto
quando lo abbiamo incontrato, il terzo giorno delle proteste, nel
capannone dontato da Radio Sherwood, sede del presidio contro la base,
tra le nebbie della campagna di Caldogno. Aveva un megafono in mano. Ed
è proprio di lealtà che parlava.
Le
bugie del governo. "Qualcuno potrebbe anche disapprovare la mia
scelta - diceva -, ma per me è stato quasi naturale passare alla forma
più estrema di protesta, lo sciopero della fame. Se dico che non sto
mangiando potete scommettere che, anche se non mi vedete, io non
toccherò un pezzo di pane. Chi mi conosce - dichiarava, mentre i suoi
occhi cercavano quelli dei suoi amici e concittadini - sa che nella vita
io sono stato sempre una persona leale, e solo con la lealtà si può
rispondere alle bugie". Le bugie sono quelle della giunta Hullweck, del
ministro Parisi, di Prodi, e di una classe politica che, a giudizio dei
vicentini, ha nascosto alla città ciò che era già stato deciso da tempo:
la costruzione di una nuova base militare all'ex-aeroporto Dal Molin.
Una
questione di valori. "La mia decisione è stata improvvisa -
racconta -, ed è scaturita dalla delusione. La sera del 16 gennaio,
quando si è saputo delle intenzioni di questo governo, è stato come se
avessi ricevuto un pugno in faccia. Ho avvertito un incredibile rifiuto
per la politica. Come l'anoressico rifiuta il cibo, io ho rifiutato di
colpo la politica. Ero in preda a una delusione violenta, e quando ho
sentito Prodi al Tg3 mi sono detto: 'Ma come? Come è possibile che la
menzogna sia stata così grande?'. Hanno mentito tutti, sapendo di
mentire, oltre ogni immaginazione. Sapevo che la politica poteva
bluffare, ma non fino a questo punto. Mio padre ha lasciato a me dei
valori, io non potevo non lasciarne qualcuno a mia figlia".
"Rinuncerei
anche al mio lavoro". Così, da sei giorni, Giorgio non tocca un
pezzo di pane. Contattato telefonicamente nella tarda serata di ieri, di
ritorno dalla manifestazione di Bologna, ci ha raccontato che, sotto
consiglio dei medici che lo seguono, beve solo liquidi, integrati con sali
minerali, vitamine, proteine. E che è sua intenzione continuare lo sciopero
"fino a che riuscirò a resistere senza far del male a mia figlia. Devo
pensare prima di tutto a lei, ovviamente". Giorgio non ha deciso solo di non
mangiare più. Si è spinto oltre, promettendo che, se potesse servire a far
chiudere la caserma Ederle, lui sarebbe disposto a lasciare anche il lavoro.
"Lo dico senza nessun desiderio di protagonismo - ci ha spiegato -, ma se
potesse servire io oggi stesso rinuncerei al mio lavoro, pur di non vedere
una base militare nel bel mezzo di una città". Eppure, a dispetto della
discrezione e del desiderio di stare al riparo dalla troppa luce dei
riflettori che, oltre al presidio del Dal Molin, illuminano mediaticamente
tutta la protesta vicentina, Giorgio ha già degli emuli. Sono i ragazzi
della rete di Lilliput, scesi in campo accanto a lui per ricevere il
testimone. Quando Giorgio smetterà, tornando a pranzare con
la figlia Bianca, a rotazione cominceranno a digiunare i 'lillipuziani'.
Allora, finalmente, anche Bianca, dall'innocenza dei suoi quattro
anni, smetterà di chiedergli: "Papà, ma perché non mangi più?".
MARE|
La priorità
è pompare il combustibile
Un
anno per svuotare la Napoli

Scongiurato il disastro ambientale. Ma il rischio
durerà a lungo. Legambiente:
«Chi inquina
paghi» di E. GALGANI
Lotta contro l'ecodisastro
La richiesta di
Pecoraro
GUARDIAN:
l'ultimo viaggio
Ci
vorrà probabilmente un anno intero per svuotare completamente la
portacontainer Napoli che da sabato è arenata a poche centinaia di metri dalle
spiagge inglesi del Devon e minaccia di capovolgersi o spezzarsi in due. Ha
fatto oggi questa previsione Robin Middleton, coordinatore delle operazioni di
soccorso. Middleton ha confermato che la priorità
 |
è adesso il pompaggio delle 3.500 tonnellate di
combustibile stivate nella pancia della Napoli.
Lo svuotamento delle cisterne è essenziale per scongiurare una
fuoriuscita dalle conseguenze disastrose per la costa e «ci richiederà una
settimana di lavoro». In seguito bisognerà scaricare gli oltre duemila container
a bordo della nave, andata in avaria giovedì scorso in seguito ad una violenta
burrasca scatenata dall'uragano Kyrill: è quest'impresa che potrebbe richiedere
moltissimi mesi. Nel corso di una conferenza-stampa Middleton ha precisato che
finora risulta fuoriuscito dalla sala macchine della Napoli molto meno
carburante di quanto è stato stimato ieri: non 200 ma 60 tonnellate di
idrocarburi al massimo.
23 gennaio
L'inferno
nell'inferno
di Fabrizio Gatti
Locali luridi. Fatiscenti. Una
saletta per l'espianto di cornee. Nelle carte riservate, lo scandalo
della camera mortuaria al Policlinico
Più o meno a metà sotterraneo, tra i
laboratori di Fisica sanitaria e i congelatori del dipartimento di
Malattie infettive. Un corridoio ricoperto di piastrelle beige
arriva a una porta sempre aperta. Appena fuori, un cortile asfaltato
e l'ombra di un'antica palazzina. Fino a quattro mesi fa questo era
l'inferno nel Policlinico inferno dell'Umberto I a Roma. Qui si
fermavano i pazienti morti durante il ricovero nel grande ospedale
dell'Università La Sapienza. E da qui è partito l'allarme che ha
convinto la direzione a far scortare i cadaveri da una guardia
armata, per scongiurare il rischio che qualcuno rubasse loro gli
occhi. Perché da anni, secondo
documenti riservati che 'L'espresso' ha potuto consultare, il
Policlinico non era in grado di controllare cosa avvenisse nella
palazzina della camera mortuaria ora sigillata.
Al piano seminterrato, sotto le
stanze per le autopsie e il deposito delle salme, accanto alle celle
frigorifere, era stata ricavata anche "una piccola sala utilizzata,
quando necessario, per il prelievo delle cornee". Come rivela una
nota interna dell'11 settembre 2006. Nonostante le condizioni
igieniche spaventose e pericolose per i destinatari del trapianto,
confermate da una ispezione dei carabinieri dei Nas il 14 agosto
2006 e dal loro rapporto scritto tre giorni dopo. Per questo, il
18 settembre la camera mortuaria viene chiusa. Le aziende del
consorzio Gefit che la gestivano vengono allontanate e il servizio
trasferito all'Istituto di medicina legale in piazzale del Verano.
La cronistoria è spiegata in un memorandum conservato
dall'amministrazione del Policlinico Umberto I.
In testa, sottolineato, l'avvertimento: confidenziale. Il primo
giorno indicato è il 24 ottobre 2005: "Direzione sanitaria scrive al
consorzio Gefit in relazione a uso della divisa, cartellino di
riconoscimento, ingresso ai locali consentito solo al personale
addetto, esposizione di un cartello sulla libera scelta dell'agenzia
funebre (da questo momento direzione sanitaria intensifica i
controlli presso la camera mortuaria)". C'è il sospetto di un viavai
incontrollato di persone estranee all'ospedale sui tre piani della
palazzina, tanto da scatenare
l'intervento del direttore sanitario, Maurizio Dal Maso: "Si
ricorda che è assolutamente indispensabile che il vostro personale
indossi la divisa prevista e che sia munito del relativo cartellino
di riconoscimento...", è scritto nella lettera del Policlinico alla
Gefit: "Si rammenta altresì che... nei locali della camera mortuaria
possono sostare solo gli addetti necessari al ritiro della salma".
Il 18 aprile 2006 ecco i primi turni di vigilanza ai cadaveri:
"Attivazione servizio Security service alla sbarra della ex camera
mortuaria". Il 15 giugno il direttore generale, Ubaldo Montaguti,
"relaziona al presidente del collegio dei sindaci sulle
problematiche connesse con la camera mortuaria (consorzio Gefit)".
Il 10 luglio la direzione sanitaria scrive nuovamente al
personale della camera mortuaria "richiamando il rispetto delle
normative vigenti in materia... con particolare riguardo a
professionalità tecnica e comportamentale".
In agosto le indagini entrano nella
fase più delicata. Alla vigilia di Ferragosto, una domenica, mentre
negli ospedali di tutta Italia migliaia di malati protestano per la
riduzione dell'assistenza, i carabinieri dei Nas vanno al
Policlinico Umberto I a controllare come vengono trattati i morti. E
si accorgono subito che non è un'ispezione a vuoto:
"Anomalie riscontrate: l'intera struttura si presenta fatiscente sia
architettonicamente che igienicamente", scrive il comandante,
capitano Marco Datti, "risultano carenti anche le opere di pulizia,
infatti nella sala settoria è stata riscontrata la presenza di un
tavolo autoptico e delle attrezzature utilizzate per tali
operazioni, incrostato di materiale ematico. Lo spogliatoio del
personale risulta del tutto inadeguato, nonché in completo
disordine. Accanto allo spogliatoio del personale è presente inoltre
un locale completamente invaso da materiale di risulta accatastato
alla rinfusa. Quanto sopra si comunica agli enti in indirizzo,
ognuno per i conseguenti provvedimenti...". Il comandante dei Nas
avverte di avere informato anche l'autorità giudiziaria. Cioè la
Procura. Il blitz dei carabinieri è riassunto così nel memorandum
del Policlinico: "14.08.06 ispezione dei Nas presso la camera
mortuaria e comunicazione informale alla direzione sanitaria".
Due giorni dopo, il 16 agosto, secondo il documento conservato
dall'amministrazione, il vertice del Policlinico universitario
viene informato verbalmente del rischio che qualcuno possa
approfittare della situazione di caos per prelevare illegalmente
cornee: "16.08.06. Comunicazione informale alla direzione sanitaria
del possibile problema delle cornee". Durante l'intervista a 'L'espresso',
tuttora in versione audio sul sito www.espressonline.it, alla
domanda se l'informazione fosse arrivata dalla Procura, il direttore
generale risponde di sì. Per poi precisare nella conferenza stampa
di venerdì 12 gennaio che il rischio è stato segnalato all'ospedale
dai Nas dei carabinieri.
Il
memorandum aggiunge altri giorni: "17.08.06. Data verbale Nas in
seguito all'ispezione effettuata presso la camera mortuaria e la
sala settoria". Il 4 settembre la "direzione sanitaria scrive alla
Asl comunicando di aver avviato le procedure per il trasferimento
delle attività presso il dipartimento di Medicina legale a far data
dal 18.09.06". Lo stesso giorno la direzione sanitaria convoca la
riunione per "la riorganizzazione dei servizi di sala settoria".
Le indagini dei carabinieri però non si fermano. Lo confermano
due fatti del 17 settembre. Il primo: "Richiesta informale da parte
dei Nas di cartelle cliniche dei pazienti deceduti dal 1.01.06 al
15.08.06". Il secondo: "Direzione sanitaria richiede formalmente ai
reparti interessati le cartelle cliniche". Tra gli altri interventi,
il 12 settembre viene chiesto al servizio di vigilanza dell'ospedale
la scorta ai cadaveri durante il trasferimento dal reparto alla
camera mortuaria del Policlinico e, dopo la sua chiusura, fino
all'Istituto di medicina legale: "Assegnazione alla Security service
dei compiti di ricezione degli avvenuti decessi, attivazione ed
assistenza alle procedure di trasporto delle salme". Il 14 settembre
il direttore sanitario spiega le nuove procedure con una lettera a
tutti i direttori di reparto: "Constatato
il decesso di un paziente, la struttura interessata dovrà darne
comunicazione al numero telefonico interno aziendale 70... (sala
operativa servizio interno di vigilanza)". Al secondo punto: "Il
servizio di vigilanza provvederà ad attivare la squadra di emergenza
della direzione sanitaria per la successiva traslazione della
salma". Terzo: "Identica procedura dovrà essere seguita per
l'allontanamento dalle strutture di feti, placente e pezzi
anatomici". Il rischio di gravi irregolarità evidentemente non
riguarda soltanto il "possibile problema delle cornee".
Da
qualche giorno un'indagine interna riservata ha confermato che,
nonostante le sconvolgenti condizioni igieniche, una stanza della
camera mortuaria è stata attrezzata per il prelievo di tessuti. Lo
scrive nell'allegato 1 la dottoressa Rossella Moscatelli in una
relazione ai direttori generale, sanitario e amministrativo. Il
rapporto è dell'11 settembre 2006, quasi un mese dopo l'ispezione
dei Nas. E descrive le attività nella palazzina degli orrori:
"Attività di sala settoria al primo piano della camera mortuaria",
"sale deposito salme situato al piano terra", "attività di camera
mortuaria al piano seminterrato". Su quest'ultima struttura, la
dottoressa Moscatelli scrive: "È costituita da due grosse sale
refrigerate con divisioni in muratura, dove sono inseriti 4
sportelloni a tenuta... Contigua a tali locali, si trova una piccola
sala utilizzata, quando necessario, per
il prelievo delle cornee (nei casi autorizzati)".
Dal 18
settembre la camera mortuaria dell'Umberto I viene sigillata e il
trasporto delle salme affidato alla cooperativa Operatori sanitari
associati, già presente in ospedale. Il passaggio di mansioni è
previsto nel memorandum il 12 settembre:
"Direzione sanitaria richiede all'Osa numero 7 unità di personale
ausiliario da affiancare al personale della squadra di emergenza
(nota di conferma della coop Osa del 18.09.06)". Per ogni ora di
lavoro dei sette dipendenti la cooperativa chiede al Policlinico
13,76 euro più Iva. Soldi che vanno solo in parte al personale. Il
consorzio Gefit, composto da sei imprese di pompe funebri, esce così
dal Policlinico della Sapienza. Dal 12 giugno 2002 al 18 settembre
2006 ha gestito la camera mortuaria in comodato gratuito. Senza
versare affitti, né ricevere compensi. Per pagare gli stipendi ai
sei assunti, ai tre aiutanti e le tasse comunali sulle sepolture
bastavano e probabilmente avanzavano gli incassi ufficiali dei
funerali sui 1.200 morti all'anno dell'ospedale più grande d'Italia.
In cambio il consorzio avrebbe dovuto ristrutturare la palazzina
degli orrori. Il contratto del 2002, firmato dal direttore generale
Tommaso Longhi, viene rinnovato e prolungato nel 2003 a due anni dal
commissario straordinario Dino Cosi. Ma i lavori di ristrutturazione
non vengono mai eseguiti. Le aziende del consorzio devono avere
qualche santo nel paradiso universitario e amministrativo del
Policlinico. Perché nessuno riesce a far rispettare gli obblighi
dell'accordo. Fino all'ispezione dei Nas, che chiude definitivamente
la porta su questo inferno nell'inferno.
La mafia dei
baroni
di Davide Carlucci, Gianluca Di Feo e
Giuliano Foschini
Metodi da Cosa Nostra. Per gestire
il potere negli atenei. Bari, Bologna, Firenze: tre inchieste sui
concorsi. Già decisi prima del bando. A favore di parenti e allievi.
Ecco i risultati choc delle inchieste delle procure sui professori
Mafia. Il guaio è che non sono solo i
magistrati a usare questo termine. Adesso anche i docenti più
disillusi citano il modello di Cosa nostra come unico riferimento
per descrivere la gestione dei concorsi nelle università italiane.
Proprio nei luoghi dove si dovrebbe costruire il futuro, prospera
una figura medievale capace di resistere a ogni riforma: il barone.
Un tempo i suoi feudi erano piccoli, poteva controllare direttamente
vassalli e valvassori, mentre doveva piegarsi davanti a un solo re,
lo Stato. Ora invece il numero dei docenti e degli atenei è esploso.
C'è da corteggiare aziende e fondazioni, mentre spesso bisogna anche
fare i conti con le Regioni. Così l'ultima generazione di baroni per
mantenere intatto il potere ha rinunciato a ogni parvenza di nobiltà
accademica e si è organizzata secondo gli schemi dell'onorata
società. Questo raccontano gli investigatori di tre procure che
hanno radiografato l'assegnazione di decine e decine di poltrone
negli atenei di tutta Italia, dalle Alpi alla Sicilia. Un terremoto
con epicentro a Bari, Firenze e Bologna che vede indagati un
centinaio di professori. E che ha messo alla luce gli stessi giochi
di potere in tutti gli atenei scandagliati. Scrive il giudice
Giuseppe De Benectis: "I concorsi universitari erano dunque
celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro
effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano
simili a pochi 'associati' a una 'cosca' di sapore mafioso".
Rincarano la dose i professori Mariano Giaquinta e Angelo Guerraggio:
"'Sistema mafioso' vuole dire 'cupole di gestione' delle carriere e
degli affari universitari, spesso camuffate come gruppi democratici
di rappresentanza o gruppi di ricerca".
Se i giovani più promettenti emigrano
non è solo questione di risorse; se la ricerca langue e i
policlinici sono sotto accusa, la colpa è anche del 'sistema'. Che
fa persino rimpiangere il passato: "Una volta si parlava di 'baroni'.
Adesso i numeri (anche dei docenti) sono cresciuti. Al posto del
singolo barone ci sono i clan e i loro leader, che non
necessariamente sono i migliori dal punto di vista della
ricerca...", scrivono sempre Giaquinta e Guerraggio, docenti di
matematica che hanno appena pubblicato un saggio coraggioso
intitolato 'Ipotesi per l'università'. E continuano: "La situazione
non sembra migliorata: baroni per baroni, sistema mafioso per
sistema mafioso, forse i vecchi 'mandarini' sapevano maggiormente
conciliare il loro interesse con quello generale. La difesa delle
posizioni conquistate dal 'gruppo' riusciva, in parte, a diventare
anche fattore di progresso. Sicuramente più di quanto accada
adesso".
Cattedre immortali
Come nelle cronache del basso impero,
i nuovi baroni non si limitano a spadroneggiare nei loro castelli,
ma creano alleanze con altri signorotti, in modo da proteggersi l'un
l'altro e dilagare nell'immunità. Eppure ci sono state prese di
posizione dirompenti, come quella di Gino Giugni, che nell'estate
del 2005 denunciò in una lettera aperta ai professori di diritto del
lavoro "la gestione combinata nella selezione dei giovani studiosi".
Il padre dello Statuto dei lavoratori chiedeva che "tutti i colleghi
di buona volontà" unissero il loro impegno "per riportare serenità,
trasparenza, e ancor più equità nelle scelte accademiche". Raccolse
un plauso tanto ampio quanto generico. Insomma, nessuno ebbe il
coraggio di fare un nome o denunciare un concorso specifico. Oggi
Giugni spiega a 'L'espresso' di non essere pentito di quella
sortita. Da vecchio socialista si sforza di mantenere un ottimismo
di principio, ma ammette: "Da quello che mi raccontano, temo che non
sia cambiato proprio nulla". La razza barona infatti gode di un
privilegio tra i privilegi: quello dell'immortalità accademica. Gli
effetti concreti dell'intervento della magistratura sono limitati.
Se non totalmente inutili: le sentenze non riescono a scalfire le
poltrone. Ai tempi biblici della giustizia penale si sommano le
controversie civili e amministrative, con ragnatele di ricorsi
incrociati. Alla fine, persino il baronetto riesce quasi sempre a
conservare il feudo ereditato dal padre in violazione d'ogni legge.
Il caso più assurdo è quello del concorso di otorinolaringoiatria
bandito nel 1988: ci sono state dieci sentenze, confermate pure
dalla Suprema corte, centinaia di articoli di giornali, almeno
quattro libri e una decina di interrogazioni parlamentari. Il
professor Motta senior è stato condannato, eppure il professor Motta
junior continua a detenere legalmente quel posto da 18 anni. Se
l'immortalità è garantita anche nell'immoralità in caso di giudizi
definitivi, facile immaginare il colpo di spugna che calerà con
l'indulto sugli ultimi scandali universitari. Tutte le accuse di
abuso in atti d'ufficio, il reato classico delle selezioni
addomesticate, verranno spazzate via: resteranno solo le più gravi,
quelle per le quali viene contestata anche l'associazione per
delinquere, la corruzione o la concussione.
Il burattinaio e il santino
L'indulto potrebbe anche sbiancare
l'inchiesta partita dall'università più antica, quella che ha preso
di mira l'eccellenza dell'eccellenza: i vertici di medicina interna
e gastroenterologia del Sant'Orsola di Bologna, che hanno
partecipato alle ricerche dei vincitori dell'ultimo Nobel. Partendo
da una storiaccia di viaggi premio e di presunte mazzette elargite
da una casa farmaceutica, le Fiamme Gialle si sono imbattute nelle
manovre per manipolare tutti i concorsi italiani del settore. Le
intercettazioni disposte dal pm Enrico Cieri per un anno sono
riuscite a cogliere in diretta la genesi delle gare, pilotate passo
passo per garantire la vittoria dei prescelti. Prima si decideva la
composizione delle giurie, poi ai commissari veniva inviato il
'santino' ossia il curriculum del predestinato.
A questo punto, il bando veniva
disegnato su misura. Mister X aveva una specializzazione in
microbiologia? Diventava requisito fondamentale. Eventuali sfidanti
non graditi si facevano da parte, quasi sempre con le buone
concordando una futura designazione. In caso di contrasti,
interveniva il 'burattinaio': così veniva chiamato dagli
intercettati Ettore Bartoli, 70 anni, cattedra a Novara ma potenti
agganci nella capitale. Di lui i professori Corinaldesi e Vaira
dicono che "è quello che ha sulle spalle tutta Italia", che "è molto
ingranato a Roma", che "è come le vacche sacre", che "si fotte
l'Italia". Gli inquirenti hanno incriminato 12 concorsi di medicina
interna svolti a Bologna, Verona, Brescia. Ma ci sono cataste di
indizi che riguardano altre regioni e che potrebbero dare vita ad
altre inchieste. Nessun favore ai parenti: in questo circuito i
candidati da promuovere hanno curriculum di rispetto. No, al Sant'Orsola
la logica è diversa: si tratta di potenziare la squadra. Perché per
una cattedra, come dichiara la preside Maria Paola Landini in
un'intercettazione, "serve mezzo milione di euro" e non si può
correre il rischio che finisca alla persona sbagliata. Aggiunge uno
degli inquirenti: "Abbiamo ascoltato uno dei prof che motiva la
necessità di imporre i suoi uomini per creare una 'squadra
d'attacco' e ottenere così più fondi, pubblici e privati".
Insomma, un modello all'americana.
Come ha spiegato la Landini, che ha rinunciato alle dimissioni dopo
la solidarietà di tutti i professori: "C'è la convinzione diffusa
che il concorso universitario corrisponda a una procedura di
valutazione comparativa. Ma quello è solo uno dei criteri. Conta in
ogni disciplina la valutazione dei docenti su quelli che a livello
nazionale sono i giovani migliori". La preside davanti ai pm ha
respinto le accuse e parlato di "coptazione concertata". Che per gli
inquirenti si traduce comunque in una violazione della legge penale.
Peccati veniali che possono venire risolti dal codice etico che
Bologna (vedi scheda) ha appena introdotto? Il procuratore capo
Enrico De Nicola non è d'accordo. Senza entrare nel merito delle
indagini, si ancora ai principi di uguaglianza sanciti dalla
Costituzione e dichiara a 'L'espresso': "Non credo nel ricorso ai
codici etici senza sanzioni. Credo nella cultura delle istituzioni :
qui si tratta di applicare la legge che parla di eguaglianza nella
valutazione dei rapporti. Sono principi che non possono venire
sostituiti dalla cultura individualistica e corporativistica". De
Nicola, elogiando la qualità dell'università bolognese, ritiene che
anche le deviazioni più piccole vadano perseguite: "Altrimenti si
corre il rischio di arrivare a una degenerazione persino nei posti
migliori, di trovarci con un ordinamento minato dal cancro
dell'illegalità diffusa, che in quanto tale non si manifesta e
diventa più pericolosa". Adesso l'istruttoria è praticamente chiusa:
gli investigatori della Finanza stanno completando gli ultimi
interrogatori, poi la Procura presenterà le richieste di giudizio.
Gli indagati sono 70, inclusi luminari di livello internazionale:
sono accusati di abuso in atti d'ufficio e falso ideologico. Nel
loro rapporto le Fiamme Gialle ritengono che una decina di
professori, i 'burattinai' che tiravano le fila delle commissioni,
abbia formato una vera 'cupola' e ipotizzano per loro il reato di
associazione per delinquere: una posizione che dovrà poi essere
valutata dal pm. Intanto tutti gli indagati, a partire da Bartoli,
hanno respinto le contestazioni.
La cupola e Big Pharma
Negli atti della Procura emiliana
comincia a delinearsi un interesse delle grandi aziende a
condizionare le cattedre. I fondi stanziati per la ricerca non
possono essere usati per creare nuovi posti da ordinario, ma servono
per quelli da ricercatore. E in questo modo pesano sugli
organigrammi. L'industria ha bisogno di individuare gli 'opinion
leader', i professori con maggiori potenzialità a cui affidare la
sperimentazione e la pubblicizzazione dei prodotti: per questo il
marchio di atenei d'eccellenza era fondamentale. Ma il futuro della
spartizione rischia di essere sempre più condizionato dalle
strategie di Big Pharma. Nell'inchiesta più sconvolgente, quella
della Procura di Bari sulla 'cupola di cardiologia', emergono
numerosi indizi dell'influenza dei capitali aziendali nel mercato
delle nomine. Al telefono gli indagati parlano addirittura di
pagamenti di un grande imprenditore per far promuovere il suo medico
di fiducia. Ci sono poi le sponsorizzazioni alle associazione
specialistiche, viste spesso dagli inquirenti come alter-ego della 'cupola'.
Discutendo della disputa per alcuni uffici chiave, il primario
pisano Mario Mariani annuncia al telefono che "la Società italiana
di cardiologia ha creato la Fondazione... che è la più importante
d'Italia perché raccoglie tutti i fondi. E m'ha designato
presidente. Allora: Collegio presidente so' io, la Fondazione il
presidente so' io. Ecco io lo stermino in tre minuti, perché in
Italia non si muove foglia di cardiologia che io non voglia".
Mariani, arrestato nel 2004, viene indicato dal gip come il dominus
delle gare di cardiologia. Per inciso: la Fondazione in questione
venne creata nel 2003 per volontà, tra gli altri, di Calisto Tanzi
ed Emilio Gnutti.
Affari di cuore
Le intercettazioni sulla 'cupola di
cardiologia' ricostruiscono un feuilleton spietato, in cui si
ricorre a qualunque trucco per insediare parenti e accoliti. Nel
mirino alcuni maestri della disciplina, registrati mentre pilotano
cattedre e borse di studio da Brescia a Palermo. Il protagonista
principale dei nastri è Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario
a Bari. Il mandato di cattura lo ritrae come un personaggio da
commedia all'italiana. Viene ascoltato mentre trama per ottenere una
composizione favorevole della commissione che dovrà valutare suo
figlio. Poi concorda anche il tema dell'esame e lo segnala
prontamente al rampollo. E quando scopre che l'erede non riesce a
reperire nemmeno la documentazione indicata ("Ho guardato su
Internet, non c'è niente"), si muove persino per procurargli il
testo. E pensare che nello stesso periodo in un'intervista a
'Repubblica' il barone respingeva le critiche di nepotismo: ""Chi si
lamenta spesso è poco bravo". La Rizzon story mostra risvolti
boccacceschi, con triangoli sessuali e scambi di amanti e una
terribile componente di vera mafia. Secondo gli atti, a un candidato
'da eliminare' che vuole presentare un ricorso, viene trasmesso
questo messaggio: "Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a
due mafiosi per farti dare una sonora bastonata". Un modo di dire?
Non proprio. I due bravi di ispirazione manzoniana hanno nome,
cognome e curriculum criminale pesante. Con loro il professore
conduce numerosi affari, inclusi 'commerci di reperti archeologici'.
Degno di nota, il dialogo tra l'illustre cardiologo e uno di questi
figuri - da lui definito 'boss dei boss' - a cui chiede di
recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo scoprire
il giorno dopo che l'utilitaria non era stata portata via: il
docente si era semplicemente dimenticato di averla posteggiata
altrove.
Bari offerta family
È come essere a un matrimonio, a una
festa di famiglia: c'è il padre che ha appena messo a contratto la
figlia, nella facoltà di cui è preside, senza alcun concorso (Vito e
Giulio Maria Gallotta). C'è il vecchio professore di medicina
(Riccardo Giorgino) che sta giudicando il cognato (Sebastio Perrini)
di suo figlio Francesco. A uno stesso tavolo potrebbero sedersi otto
invitati della stessa famiglia (Antonella, Fabrizio, Francesco
Saverio, Giansiro, Gilberto, Lanfranco, Manuela e Stefania: tutti
Massari), stesso cognome, stesso mestiere: professore universitario,
facoltà di Economia. Il grande ricevimento si tiene all'Università
di Bari, il luogo italiano per eccellenza dove il mondo accademico e
gli affetti familiari tendono a fondersi. Nulla che sia stato
dichiarato illegale. La Procura, però, vuol capire sin dove si sono
spinti i sentimenti. E in un anno e mezzo ha aperto 18 inchieste.
Gli otto Massari rappresentano per Bari (e probabilmente per
l'Italia) un record assoluto. Seguono a ruota a quota sei i
Dell'Atti e i Girone, capitanati dall'ex rettore Giovanni. Il
proliferare di figli e dunque di cattedre ha provocato non pochi
problemi alle casse dell'ateneo: stretta la cinghia, lo scorso anno
non è stato bandito nemmeno un concorso da professore. Nel 2005
furono più di cento. E la parentopoli barese alimenta feroci
sarcasmi. A Medicina, è scritto in alcune delle denunce anonime che
riempiono le scrivanie della Procura, è scoppiato il 'caso Ottanta':
è la somma di Antonio e Nicola Quaranta, padre e figlio. Il primo,
eletto preside, ha lasciato due mesi fa al secondo (34 anni appena)
la direzione della scuola di specializzazione. Era l'unico
candidato. Tradizione questa assai diffusa: solo alla meta anche
Pierluigi Passaro, fresco di nomina a ricercatore in gestione delle
imprese. Il concorso era stato bandito dalla facoltà nella quale
insegna suo padre, Marcello.
Prova statistica
Di nuclei familiari pullulano anche
gli atenei siciliani, ma parentopoli non è solo una questione
meridionale. Un professore di economia agraria, emigrato in
California dopo avere tentato invano di vincere una cattedra in
patria, si è tolto il gusto di una vendetta da Edmond Dantès. Usando
la scienza: Quintino Paris con una lunga analisi statistica ha
dimostrato come le nomine dei commissari fossero anomale. Il suo
esposto è diventato la mappa con cui gli investigatori di Firenze si
sono mossi negli atenei. Trovare la rotta è facile: basta seguire i
cognomi. Così Nicola Marinelli, figlio del rettore, vince il
concorso per un posto da esperto di economia agraria nella facoltà
di medicina. Economia agraria a medicina? Che c'azzecca? Per il
preside Gianfranco Sensini "è una scelta dettata da necessità di
interdisciplinarietà". E quando Sensini è stato poi accusato dai pm
di Bari per un altro concorso, il rettore-padre gli ha rinnovato
"piena stima". Quanto all'indagine penale, il preside ha detto di
essere tranquillo: "Mi metto a disposizione della magistratura". E
l'inchiesta sulla 'cupola di economia agraria'? Di stirpe in stirpe,
si è imbattuta in Mario Prestamburgo, ex sottosegretario del governo
Dini: lui è ordinario a Trieste, la figlia non lontano. Le Fiamme
Gialle hanno sostenuto che si muovesse assieme a una vera e propria
corte, con due vassalli più fidati e altri tre collaboratori:
insomma, un vero barone. Una ricostruzione negata dall'ex
parlamentare, che ha querelato gli accusatori.
Il magnifico dei magnifici
La Toscana è terra di proteste dure. E
di tradizioni familiari. Martedì 16 con un gesto clamoroso il
rettore Marinelli ha annullato l'inaugurazione dell'anno accademico
contro i tagli del governo. Ai tempi della Moratti a guidare la
rivolta c'era il suo collega di Siena. Anche lui con un figliolo in
ateneo. Una vicenda che Piero Tosi, presidente dei rettori italiani,
ha pagato a caro prezzo: un anno fa il gip lo ha sospeso
dall'incarico. Scrive il giudice Francesco Bagnai: "Mentre Tosi
doveva decidere se rispettare una legge dello Stato oppure violarla
e contribuire così con un atto illegittimo a nominare il professor
Caporossi a un importante incarico, quest'ultimo intanto si
adoperava affinché il figlio del rettore salisse in cattedra". E
quando la grana rischia di scoppiare, si muove pure il direttore
amministrativo dell'ateneo senese, "non tanto per convincere l'altro
candidato a non presentarsi al concorso a cui partecipava Gian Marco
Tosi, quanto piùttosto per spingerlo a non presentare denunce".
Ovviamente, oltre alle cattedre anche i panni sporchi devono restare
in famiglia. E i meriti? Sono un'opinione. Che può venire travolta
dal volere della 'cupola' anche nelle gare per i centri
d'eccellenza, come quella del Sant'Anna di Pisa. Commentava il
solito primario Rizzon: "Qua è dura l'aria, perché noi stiamo
bocciando il candidato loro che è il meglio...". Lo stesso docente
che magnificava la sua capacità di selezione mirata: "Fare giudizi
in modo tale da fregarne tutti tranne uno o due non è facile. Io
però ne sto uscendo fuori con una bella lingua italiana. Mi sto
divertendo...".
Moby Prince a
Castelvolturno
La denuncia di Legambiente
Campania: il traghetto che nel '91 si scontrò con una petroliera
smaltito illegalmente nel casertano. L'associazione: «La discarica?
Una bomba ecologica»
Anche la Moby Prince negli intrecci
dell’ecomafia. La denuncia è di Legambiente Campania. «I rottami
ferrosi e materiale legnosi del traghetto - denuncia Legambiente -
ci risultano essere stati smaltiti illegalmente, caricati su furgoni
e scaricati di notte, nella discarica So.ge.ri di Castelvolturno,
adiacente alla famosa discarica Bortolotto, già nota alle cronache
per essere stata gestita per anni dai Casalesi».
Il famoso traghetto, nella sera del 10
aprile 1991 in servizio di linea tra Livorno e Olbia, si scontrò con
la petroliera Agip Abruzzo e determinò la morte di 140 persone. Un
destino terribile che ora sembra intrecciare la camorra del
casertano.
«La So.ge.ri, dove i resti del
traghetto sono stati smaltiti – dichiara l’associazione - è una vera
e propria bomba ecologica, dove per decenni si è sversato di tutto e
che tra breve dovrebbe essere bonificata»
L’associzione attende comunque la
conferma degli enti preposti.
«E proprio vero che quando si tratta
di smaltimento illegale, gli ecomafiosi non conoscono limiti -
dichiara Michele Buonuomo, presidente Legambiente Campania- ed
ancora una volta, ma questo non ci meraviglia, la Campania e la
provincia di Caserta si confermano sempre più crocevia dei traffici
illegali legati alla Rifiuti Spa».
Cessate il fuoco
Turchia. Dall'inizio del 2007
la guerra ha ucciso 5 persone.
Il 14 gennaio, un guerrigliero curdo è stato ucciso in scontri con
le forze di sicurezza turche nella provincia di Bingol, nell'est del
Paese.
Il 16, 3 ribelli curdi e 1 soldato turco sono morti in scontri
vicino a Diyarbakir, nel sud-est della Turchia.
Colombia. Dall'inizio del 2007
la guerra ha ucciso 4 persone.
L'11, 3 guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie della
Colombia (Farc) sono morti, durante uno scontro con l'Esercito nella
regione petrolifera dell'Arauca, al confine con il Venezuela, in una
zona agricola a 500 chilometri da Bogotà, e un altro è stato ucciso
nel Casanare, nel nord est del paese. Lo riferiscono fonti militari.
Somalia. Dall’inizio del 2007,
la guerra ha ucciso almeno 91 persone.
Il 12, 6 persone sono morte in scontri tra miliziani e poliziotti a
Mogadiscio.
Il 14 gennaio, almeno 13 persone sono morte in scontri tra due
milizie rivali a Goobo, nella Somalia centrale.
Il 15, almeno 2 persone sono morte in scontri tra esercito e ribelli
a Mogadiscio
Il 17 gennaio, 8 presunti militanti islamici sono stati uccisi da un
raid aereo Usa vicino a Warsow, nel sud del Paese.
Kenya. Dall'inizo del 2007, la
guerra ha ucciso 6 persone.
Il 16 gennaio, 6 persone sono morte in un raid di razziatori
sudanesi di bestiame nel nord-ovest del Kenya.
Nigeria. Dall'inizo del 2007,
la guerra ha ucciso 18 persone.
Il 16, 14 persone sono state uccise in un attacco contro una barca
passeggeri in un canale del Delta del Niger, nel sud del Paese.
Il 17, 4 lavoratori petroliferi sono stati uccisi in un attacco a
una nave nel Delta del Niger.
Uganda. Dall'inizo del 2007, la
guerra ha ucciso 3 persone.
Il 14 gennaio, 3 persone sono morte in scontri nel distretto di
Kasese.
Israele e Palestina.
Dall'inizio del 2007, la guerra ha causato 15 morti.
Il 15, 2 militanti palestinesi sono stati uccisi dall'esercito
israeliano, nel settore nord della Striscia di Gaza, vicino al
confine con Israele.
Filippine. Dall'inizio del 2007
la guerra ha causato 30 morti.
Il 16 gennaio nell’isola di Jolo l’esercito ha ucciso in
combattimento Abu Sulaiman, uno dei leader storici del gruppo Amu
Sayyaf.
Il 17 nella stessa zona altri 10 guerriglieri islamici sono stati
uccisi in una battaglia. Morti anche 3 soldati filippini.
Thailandia. Dall'inizio del
2007 la guerra ha causato 12 morti.
Il 13 gennaio nella provincia di Yala un poliziotto è stato ucciso
dai militanti separatisti islamici.
Il 14 nella provincia di Pattani un soldato e un amministratore
locale sono stati uccisi dai ribelli islamici. Altri 3 civili sono
stati uccisi nella provincia di Yala.
Il 17 nella provincia di Songkhla 2 civili sono stati uccisi dai
militanti. Un altro civile ucciso nella provincia di Yala.
Stati nord-orientali dell’India.
Dall'inizio del 2007 la guerra ha causato 105 morti.
L’11 gennaio nello stato del Manipur i ribelli del Prepak hanno
ucciso un civile.
Il 12 nello stato di Assam 4 guerriglieri dell’Ulfa sono stati
uccisi dall’esercito.
Il 13 nello stato del Nagaland 2 civili sono stati uccisi dai
ribelli dell’Nscn-Im
Il 17 nel distretto di Tinsukia 2 guerriglieri dell’Ulfa sono morti
in uno scontro a fuoco con l’esercito. Nel distretto di Guwahati 2
civili sono morti nell’esplosione di una bomba in un mercato.
Stati centrali dell’India.
Dall'inizio del 2007 la guerra ha causato 15 morti.
Il 12 gennaio nello stato dell’Andra Pradesh 2 guerriglieri maoisti
Naxaliti sono morti in uno scontro a fuoco con la polizia.
Il 17 nello stato di Chattisgarh 7 poliziotti sono morti in un
agguato dei guerriglieri maoisti Naxaliti.
Kashmir indiano. Dall'inizio
del 2007 la guerra ha causato 28 morti.
Il 13 gennaio a nord di Srinagar un civile e 2 ribelli kashmiri sono
stati uccisi dai militari indiani.
Il 17 nel distretto di Anantnag 4 guerriglieri sono stati uccisi in
uno scontro a fuoco con l’esercito.
Sri Lanka. Dall'inizio del 2007
la guerra ha causato 123 morti.
Il 13 gennaio nella zona di Jaffna l’esercito ha ucciso un prete
cristiano tamil.
Il 16 nella zona di Vavnuiya 6 civili tamil sono stati uccisi dai
militari dopo che 5 soldati erano morti per l’esplosione di una
mina. Lo stesso giorno nella zona di Batticaloa una violenta
battaglia, accompagnata da pesanti bombardamenti aerei governativi,
ha causato decine di morti: 30 ribelli e 11 soldati secondo
l’esercito.
Il 17 nella zona di Jaffna un soldato è stato ucciso dai ribelli
dell’Ltte. Un altro civile è stato ucciso nei pressi di Vavnuiya.
Cecenia e Daghestan (Russia).
Dall'inizio del 2007 la guerra ha causato 23 morti.
L’11 gennaio in Daghestan 3 guerriglieri islamici sono stati uccisi
in un’operazione di polizia.
Il 12 alla periferia di Grozny è stato rinvenuto il cadavere di un
civile rapito alcuni giorni prima.
Il 13 in Daghestan i ribelli hanno ucciso un alto ufficiale di
polizia.
Il 14 sempre in Daghestan un poliziotto è stato ucciso in un
agguato.
Nella campagna fuori Grozny è stato rinvenuto il cadavere di un
civile arrestato il giorno precedente dalle forze di sicurezza.
Il 16 in Daghestan un guerrigliero è stato ucciso in uno scontro a
fuoco con la polizia.
Stati Uniti:
presidente sotto assedio
Sempre più persone negli Usa
criticano Bush e l'aumento delle truppe in Iraq
Il “presidente di guerra” è sotto
assedio sul fronte interno. Dopo aver annunciato alla nazione un
aumento di 21.500 soldati in Iraq nei prossimi mesi, nel tentativo
di pacificare Baghdad e le regioni più turbolente, su George W. Bush
piovono critiche da più parti. Il 60 per cento dei cittadini Usa è
contrario alla sua decisione, e anche tra i militari il consenso
verso questo conflitto è precipitato: ormai solo il 41 percento dei
soldati crede che l’invasione dell’Iraq sia stata una buona idea. Un
gruppo di generali in pensione ha bocciato l’escalation militare
davanti alla Commissione Esteri del Senato. E tre senatori hanno
presentato una risoluzione per affermare che la proposta di Bush va
contro gli interessi nazionali degli Stati Uniti. Intanto, i gruppi
pacifisti stanno preparando una grande manifestazione di protesta a
Washington per sabato 27 gennaio.
Le statistiche. I sondaggi condannano
la scelta di Bush, bocciato ormai dall’opinione pubblica su tutta la
linea. Solo un terzo approva la gestione del conflitto da parte
dell’amministrazione Bush. Metà degli intervistati è convinta che il
presidente abbia mentito di proposito per giustificare l’invasione.
Per tre americani su cinque (soprattutto, anche per un repubblicano
su quattro), questa guerra non doveva essere combattuta. Due terzi
degli statunitensi vogliono che il ritiro delle truppe inizi entro
il 2008, uno cinque preferirebbe che venisse fatto subito. Per
quanto riguarda l’aumento delle truppe, metà degli interpellati
vorrebbe che il Congresso bloccasse l’escalation, negando il
finanziamento alla missione o con altre misure volte a contrastare
la decisione di Bush.
La battaglia al Congresso. Nonostante
il recente cambio di colore di Capitol Hill, dove ora entrambe le
camere sono controllate dai democratici, una battaglia al Congresso
per rovesciare la decisione di Bush viene però considerata
improbabile dagli analisti. La definizione della politica estera, in
fondo, spetta al presidente: il Congresso può concedere o meno i
finanziamenti richiesti ma, nonostante i democratici siano ormai
compatti nel volere un ritiro in tempi brevi, opporsi in un muro
contro muro potrebbe essere controproducente. E in fondo, ai
democratici non dispiacerebbe arrivare alle elezioni presidenziali
del 2008 con l’Iraq ancora palla al piede dei repubblicani.
Tuttavia, il malcontento della nuova maggioranza al Congresso è
emerso mercoledì 17 gennaio, quando tre senatori (tra cui un
repubblicano) hanno presentato una risoluzione per esprimere la loro
contrarietà all’aumento temporaneo delle truppe. La misura, che
verrà votata la settimana prossima dal Senato, anche in caso di
approvazione avrebbe solo un valore simbolico. Non vincolerebbe Bush
a tornare sui propri passi, ma gli manderebbe un segnale del tipo
“per questa volta te la passiamo, ma non abusare della nostra
disponibilità”.
Il
no dei generali. Il giorno dopo, le obiezioni al piano Bush sono
arrivate anche dagli ambienti militari. Un comitato di generali in
pensione ha liquidato con un “troppo poco, troppo tardi”
l’escalation militare, sostenendo che in Iraq “la soluzione è
politica, non militare”. “I nostri alleati ci stanno abbandonando ed
entro l’estate se ne saranno andati”, ha detto davanti alla
Commissione Esteri del Senato il generale Barry McCaffrey, che ha
guidato le truppe Usa nella prima Guerra del Golfo. Da tempo una
parte crescente dei vertici militari ha puntato il dito contro l’ex
segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, reo di aver voluto
combattere una guerra con poche truppe (in media gli Usa hanno
impegnato in Iraq un quarto delle forze disponibili). Per questo,
secondo questo filone di pensiero, un’aggiunta di 21.500 soldati ai
circa 130.000 già presenti non può costituire una grande differenza.
Per molti soldati, ciò significa comunque un terzo periodo servizio
in Iraq: per alcune brigate è già cominciato.
Manifestazione per la pace. Già
rinvigorito dalla crescente opposizione dell’opinione pubblica alla
guerra, anche il movimento pacifista negli Usa ha sfruttato la
decisione di Bush per dire ancora una volta no alla guerra in Iraq.
Il gruppo United for Peace and Justice, che fa da ombrello a
centinaia di associazioni, ha indetto per sabato prossimo una
“marcia su Washington”. Vista l’ormai diffusa impopolarità del
conflitto, gli organizzatori sperano che alla manifestazione
partecipino anche persone che all’inizio erano favorevoli
all’invasione.
Alessandro Ursic
Carissimo mais
Messico, l'eccessivo aumento del
prezzo della farina di mais, con la quale si prepara la tortilla,
potrebbe causare danni rilevanti alle famiglie più povere
Poliziotti sospettati di corruzione e
per questo disarmati, interi stati militarizzati per contrastare il
movimento di droga, proteste sociali a Oaxaca che durano da sette
mesi e violente repressioni dell’esercito a Atenco, dove i
lavoratori del mercato dei fiori sono stati aggrediti a sangue
freddo. Così il Messico ha vissuto per tutto il 2006 e così si
appresta a vivere il nuovo anno. Con un nuovo problema in vista:
l’aumento spropositato dei prezzi della farina di mais, ingrediente
fondamentale per cucinare la tortilla, alimento alla base della
dieta delle famiglie povere del Messico.
I fatti. La notizia, curiosa, arriva
dalle pagine della Bbc on line che, citando la stampa locale, spiega
cosa sta accadendo alla tortilla.
I fatti raccontano che le famiglie
messicane (l’attenzione si concentra soprattutto su quelle più
povere) si trovano a dover spendere più soldi per la farina di mais,
con la quale si cucinano le energetiche tortillas.
Per gli studiosi di questo fenomeno,
che potrebbe avere ricadute devastanti sui più indigenti, la
motivazione di questi aumenti deve essere ricondotta alla maggiore
domanda di mais negli Usa, paese dal quale il governo di Città del
Messico importa il prezioso prodotto.
Secondo la stampa messicana, infatti,
la grande richiesta di mais nel paese dello Zio Sam, sarebbe dovuta
a un sempre più incessante bisogno di bio-combustibili.
Anche le autorità messicane, in primis
il presidente Felipe Calderon, si sono dovute arrendere davanti
all’evidenza e hanno dovuto ammettere che l’aumento dei prezzi della
farina di mais ha raggiunto in un solo anno il 10 percento.
Garantendo di aver già dato mandato al
ministero dell’Economia e alla Procuraduria federal de Consumidor
perché si eserciti un maggiore controllo e si evitino abusi,
Calderon ha promesso che adotterà “tutte le misure possibili per
evitare un’innalzamento vertiginoso dei prezzi”.
Si affaccia il transgenico. E quasi
per dare una mano a risolvere quella che si potrebbe definire la
“crisi della tortilla” arrivano in soccorso del governo, con una
soluzione discutibile, i produttori agroalimentari messicani.
Jaime Yesaki, presidente del Cna (Consejo
nacional Agropecuario), un organismo che raggruppa più di 500
produttori, ha, infatti, fatto sapere che la coltivazione di semi di
mais transgenico potrebbe essere la soluzione immediata, anche se di
difficile realizzazione. E c’è già chi, come l’organizzazione
Geenpeace, non vede di buon occhio questa alternativa.
Da otto anni, infatti, esiste in
Messico una divieto sulla semina di mais geneticamente modificato e
l’organizzazione ambientalista crede che l’aumento folle dei prezzi
della farina di mais sia stato utilizzato come pretesto per poter
annullare i divieti di semina di Ogm.
In un comunicato rilasciato da Arelì
Carreon di Greenpeace si capisce che l’impianto di semi
geneticamente modificati potrebbe essere molto dannoso per i terreni
coltivabili: “I campi sperimentali di mais transgenico in Messico
possono danneggiare in forma irreversibile l’ambiente e incrementare
il rischio di contaminazione del mais convenzionale che arriva sulle
nostre tavole”.
18 gennaio
Genova, secondo l'accusa furono portate
nella scuola dalla polizia
La difesa: "Senza corpo del reato impossibile andare avanti"
G8, sparite le molotov della Diaz
Gli avvocati difensori: "Processo finito"
GENOVA - Non si trovano
più le due molotov del G8, che rappresentano una delle prove a carico
più pesanti nel processo contro i 29 poliziotti, imputati della
irruzione nella scuola Diaz e di aver falsificato gli indizi per
incastrare 93 ragazzi. Svanite nel nulla. Lo si è scoperto ieri mattina,
nel corso di un'udienza del processo. Il presidente Gabrio Barone ha
dato incarico alla procura di rintracciarle e i magistrati oggi
chiederanno ufficialmente spiegazioni al questore Salvatore Presenti.
Le ipotesi spaziano dall'ufficio corpi di reato di palazzo di giustizia,
il cui responsabile ha allargato sconsolato le braccia, alla questura,
come spiega il vicedirigente della mobile Francesco Borré: "Io sono
arrivato alla squadra mobile nel 2002, un anno dopo il G8. Non abbiamo
mai trattato quel reperto. Ma esiste un registro di carico e scarico.
Ritengo che teoricamente dovrebbero essere agli atti della Digos".
Mantengono comunque la calma i pubblici ministeri e i legali delle parti
offese: "Forse uno dei tanti pasticci della pubblica amministrazione, le
molotov salteranno fuori nei prossimi giorni e comunque su quelle
bottiglie, filmate e fotografate da ogni angolazione, sono stati fatti
tutti gli accertamenti previsti". Ma gli avvocati difensori tentano
l'affondo: "Le fotografie non possono sostituire l'oggetto. Senza corpo
del reato il processo è finito".
Le ricerche per trovare i reperti proseguiranno, ma fintanto non saranno
trovate le bottiglie incendiarie il processo rimarrà congelato nella sua
parte più delicata. "Le fotografie di un oggetto - ha commentato
l'avvocato Alfredo Biondi, difensore del vicequestore Pietro Troiani -
non possono sostituire l'oggetto corpo del reato, che deve essere
materialmente riconosciuto".
L'indagine ora continua per capire da
chi, quando, perché sono state spostate le molotov. E chiarire
l'ennesimo mistero del G8 genovese del 2001.
L'offesa
di Vicenza
Marco Revelli
Non necessariamente i governi si
giudicano dai grandi gesti di coraggio. Ma dai piccoli atti di viltà sì. E
quello di Vicenza è un mediocre, umiliante - e anche gratuito - atto di
viltà.
Assistiamo ormai quotidianamente allo spettacolo grottesco che un presidente
americano allo sbando, abbandonato dai suoi stessi elettori, infligge al
mondo intero. Ai sacrifici umani di Baghdad. Alle mattanze somale, se
possibile ancor più scandalose nel loro mettere in scena, sul palcoscenico
globale, l'immagine della potenza dei primi - dei più ricchi, dei più forti
- scaricata ad annientare gli ultimi, i più poveri della terra, i più
invisibili, quelli delle capanne tra le paludi. Tutto il mondo può vedere
ormai, ad occhio nudo, il disastro morale, umano, politico di quella
pratica. E non è questione di anti-americanismo o di filo-americanismo. Si
tratta qui dell'aver conservato o meno un brandello di capacità di giudizio.
O anche semplicemente un residuo d'istinto di conservazione.
Abbiamo, dall'altra parte, un territorio - come quello vicentino - che si
difende. Che da mesi si mobilita e resiste. Non per ostilità politica. Per
tutelare la propria quotidianità. Non c'era nessuna necessità di ruere in
servitium, alla velocità del fulmine. E di prostrarsi in ginocchio dal
potente alleato col dono in mano, solo perché dall'altra parte dello
schieramento politico qualcuno ha pronunciato la parola magica e tanto
temuta - «anti-americanismo» -, e ha richiamato agli impegni (da lui, dal
«suo» governo) assunti. «I patti vanno rispettati», sussurra il cavaliere
disarcionato. Ma quali patti? Quelli assunti dal vecchio governo con l'amico
George? O quelli stipulati dall'Unione con i propri elettori, quando
servivano per vincere? O, ancora, quelli che dovrebbero legare un governo ai
propri cittadini in un rapporto di responsabilità e di fiducia? Perché mai
il «patto» con Washington dovrebbe valere di più di quello con gli elettori
di Vicenza, abbandonati da Prodi alla loro «questione urbanistica»? In nome
di quale «Ragion politica», umiliarli e frustrarli, ostentando questa
incapacità e indisponibilità all'ascolto?
C'è, in questo paese, un tessuto civile che ancora, nonostante tutto,
resiste, vuole crederci, si indigna e vorrebbe partecipare. E' ciò che resta
delle grandi mobilitazioni di quattro anni fa. Il residuo solido della
«seconda potenza mondiale» che aveva tentato di inceppare la macchina
bellica globale. E' l'Italia che gli oligarchi di Caserta, chiusi nella
propria reggia, si ostinano a non vedere. Né ascoltare. Sarebbe una risorsa
non solo per una sinistra che volesse degnarla di uno sguardo, ma per la
comatosa democrazia post-contemporanea. Ma sta al limite. Sente crescere
dentro di sé frustrazione e disprezzo, di fronte all'impenetrabilità del
«politico».
Ancora poco e ogni comunicazione verrà interrotta. Ci si guarderà,
esplicitamente, come «nemici» tra chi sta dentro la reggia e i suoi codici
lobbistici e chi sta nella vita, senza mezzi per difenderla. Perché
aggiungere alla distanza abissale costruita con ostinata sicumera, anche la
derisione?
Ci si conquisterà, forse, una critica in meno sul Corriere della sera. Ma si
perderà, con certezza, un bel pezzo di futuro.
«Reporter
ucciso», ordine d'arresto per soldati Usa
a. d'arg.
Parte da Madrid un ordine di cattura internazionale per
i tre militari statunitensi accusati dell'omicidio di José Couso, il
cameraman di Tele5 ucciso l'8 aprile 2003 a Baghdad da un proiettile sparato
da un blindato Usa sull'Hotel Palestine ripieno di giornalisti. Lo ha deciso
ieri il giudice dell'Audiencia Nacional Santiago Pedraz riattivando il caso,
archiviato il 10 marzo scorso perché la stessa Audiencia lo considerava un
«atto di guerra contro un nemico erroneamente identificato» e affermava che
la Spagna non era competente a giudicare i militari Usa. Tutto fermo fino al
5 dicembre scorso quando il Tribunal Supremo, la più alta istanza giuridica
spagnola (a parte la Corte Costituzionale) ha approvato all'unanimità il
ricorso della famiglia Couso, ribaltando la frittata: la giustizia di Madrid
è competente a istruire il processo. Ieri il seguito con il mandato di
arresto e di cattura internazionale per il sergente Thomas Gibson, il
soldato che ha materialmente sparato, per il suo superiore immediato, il
capitano Philip Wolford, e per il tenente colonnello Philip De Camp, che ha
preso la decisione. Il futuro è però incerto visto che gli Usa non
consegnano i loro soldati e in Spagna non esiste il processo in contumacia.
Bisturi contro bombe
di Gianni Perrelli da
Erbil
La
loro colpa: curare le vittime degli attentati. Per questo i medici a Baghdad
rischiano la vita tutti i giorni. Come racconta uno di loro
La festa
musulmana della Id al-Adha ha appena circoscritto nei primi giorni dell'anno
la collera dei sunniti per l'impiccagione di Saddam. Ma se il ritmo degli
attentati si è lievemente attenuato durante la ricorrenza, immutata è
rimasta la cappa di terrore che grava per le strade di Baghdad. Il presagio
rassegnato degli iracheni è che il rispetto della tradizione religiosa abbia
solo rinviato l'escalation della guerra civile fra la minoranza sunnita
assetata di vendetta e la maggioranza sciita manovrata da Teheran che ha
accelerato l'esecuzione dell'ex dittatore.
"Temo proprio che nelle prossime settimane i nostri ospedali scoppieranno",
è la drammatica previsione di Nawzad Fuad Hussein, chirurgo curdo di 32
anni, che esercita al Baghdad Medical Center (con più di 2 mila posti letto
è il più grande della capitale irachena). È arrivato in Kurdistan
attraversando spericolatamente in macchina tutte le insidie del triangolo
sunnita, epicentro della guerriglia. Un viaggio di una decina di ore,
attraverso 16 check-point e imprevedibili eruzioni di violenza. "Vicino a
Baquba mi sono trovato in mezzo ad un'autentica battaglia. Presso Kirkuk un
proiettile ha bucato il finestrino laterale della mia auto e mi ha sfiorato
il viso". Su una delle strade più insanguinate del mondo mette a repentaglio
la vita un paio di volte al mese per incontrare la fidanzata, ginecologa a
Suleimanya. E, tre-quattro volte l'anno, per portare da Baghdad a Erbil i
passaporti vistati dei piccoli pazienti curdi che l'Ime (Istituto
mediterraneo di ematologia) manda in Italia per patologie al momento
incurabili in Iraq.
Un medico in prima linea. Testimone di una barbarie quotidiana che negli
ultimi mesi ha colpito tre dei suoi migliori amici. Chirurghi come lui,
trucidati a Baghdad dall'ala più fanatica della guerriglia che nella
mattanza generale si spinge a eliminare i medici per impedire che curino le
vittime sopravvissute degli attentati."Mi sento anch'io nel mirino. A
Baghdad nessuno è al riparo. Contro noi chirurghi si spara nel mucchio,
senza tener più conto né dell'etnia né del credo religioso. I miei amici
scomparsi avevano come denominatore comune solo la professione. Il primo era
sunnita, il secondo sciita, il terzo turcomanno. Sono andati a stanarli
incappucciati nei loro studi. Li hanno fatti fuori brutalmente, senza una
spiegazione. Uno di loro davanti alla moglie, che è stata miracolosamente
risparmiata. Nel mio reparto eravamo in 40. Oggi siamo in otto. Una decina
sono stati uccisi. Altri sono stati sequestrati. La maggior parte sono
scappati altrove. Io sono rimasto. Ma non mi sento un eroe. Sono soltanto un
fatalista. Verrà la mia ora quando lo vorrà Allah".
Il dottor
Nawzad Fuad ha un appartamento a un paio di isolati dal posto di lavoro. Una
decina di minuti a piedi. Un paio in macchina. "Ma muoversi per Baghdad è
diventata una roulette russa. Scoppiano autobombe anche davanti alle porte
del pronto soccorso. I chirurghi del nostro reparto lavorano solo un paio di
giorni alla settimana, con turni senza interruzione di 24 ore, per limitare
al minimo i pericoli degli spostamenti. Ciascuno di noi, prima di uscire,
adotta delle precauzioni. Io ho due automobili, che cambio spesso sperando
di confondere le acque. Ma quando mi sento meno sicuro chiamo un taxista
fidato. E se nel breve itinerario trovo una strada sbarrata, scendo, faccio
un piccolo tratto a piedi e cerco un altro conducente amico. Quando vedo ai
margini della strada un'auto vecchia penso sempre al peggio. Mi
tranquillizzo parzialmente solo in corsia o in sala operatoria. Dove sono
costretto a misurarmi con altri problemi. La priorità dei casi, quasi tutti
gravissimi, da trattare. La scarsa disponibilità dei posti letto che ci
costringe spesso a invadere anche il reparto pediatrico. La cronica mancanza
di strumenti e di medicinali. C'è un solo apparecchio per la Tac, usato per
le emergenze. Manca il riscaldamento, spesso l'elettricità. A volte non
disponiamo nemmeno dell'acqua. Eppure riusciamo a eseguire una trentina di
interventi al giorno. Nell'80 per cento dei casi, con pieno successo".
In questo clima
di tensione spasmodica c'è pochissimo spazio per la vita privata. "Nel tempo
libero me ne sto a casa. A leggere i miei libri. Accudito da una governante.
Va lei al mercato a fare la spesa. Per me sarebbe troppo rischioso. Evito
ormai anche di andare ai matrimoni degli amici. Un tempo si festeggiava fino
a notte fonda. Ora, dopo le cinque del pomeriggio, non trovi più nessuno che
si azzarda a camminare per strada. La scorsa settimana, un mio collaboratore
che aveva dovuto attendere fino alle sette di sera la consegna dei
passaporti vistati dal consolato italiano, ha preferito trascorrere la notte
su un divano della vostra sede diplomatica. Dopo il tramonto Baghdad è
infestata non solo dalla guerriglia, ma anche dalla peggior delinquenza. E
poi c'è sempre il pericolo del fuoco americano. I marines premono il
grilletto al minimo sospetto".
La prudenza non inibisce però la difesa dei propri diritti. "Il mese scorso
stavo rientrando a casa in auto con un paio di colleghi che avevo invitato
per un tè. Dallo specchietto retrovisore mi accordo di essere seguito da una
colonna di carri armati americani. Mi accosto per farli passare. Ma il primo
dei tre blindati colpisce di striscio la fiancata della mia auto. Parto
all'inseguimento, ignorando le preghiere dei miei amici che mi dicono si
lasciar stare. Supero il carro armato che mi ha danneggiato e faccio cenno
al conducente di fermarsi. A mente fredda mi rendo conto di essere stato un
incosciente. Tutto lasciava pensare che potessi essere un kamikaze. Ma è
andata bene. Una quindicina di soldati sono scesi dai mezzi, chiedendomi
bruscamente cosa volessi. Sentendo il mio buon inglese si sono un po'
calmati. Permettendomi di spiegare chi fossi e di ricostruire la dinamica
dell'incidente. Alla fine un graduato si è complimentato per la mia
pronuncia e mi ha scritto su un foglietto il suo nome e l'indirizzo
dell'ufficio a cui potevo chiedere il risarcimento".
Dopo la laurea, durante la dittatura di Saddam, Nawzad Fuad aveva fatto
l'apprendista nello Yarmuk Hospital. "Per lavorare avevo dovuto iscrivermi
al partito Baath. Il terzo piano era occupato dai servizi segreti. Per
questo, quando scoppiò la guerra, fu uno dei primi edifici a essere
bombardato. Quando gli americani si insediarono nell'ospedale furono molto
gentili. Giocavamo al calcio insieme nel cortile. Ma ben presto i marines si
innervosirono. Non riuscivano a domare le rivolte e sparavano anche su gente
incolpevole. Poi arrivarono i tempi degli omicidi mirati. Ora siamo nel
mirino noi medici. In tutta Baghdad ne hanno già ucciso una cinquantina. La
polizia? Non riesce a proteggere neanche se stessa".
17 gennaio
Dal Molin, il
giorno dopo
Prodi aunnuncia l'ampliamento della base: a Vicenza si infiamma la
protesta
Vicenza - Il giorno
dopo il sì, Vicenza si risveglia livida e stupefatta. Non tanto per
la decisione di Prodi di ampliare la caserma Ederle, concedendo agli
americani l'areoporto civile Dal Molin, quanto per la tempestività
con cui il premier italiano ha comunicato all'ambasciatore Spogli
che la posizione del suo governo era in linea con quella del governo
precedente.
Tempismo
governativo. Il sì è arrivato proprio mentre i comitati si
stavano cominciando a mettere in cammino da piazza Castello per
manifestare la propria opposizione alla nuova struttura, che
accorperà la 173esima brigata aviotrasportata statunitense,
aggiungendo ai 2.750 militari di stanza alla Ederle 1.800 soldati
attualmente in Germania, per un costo di oltre 400 milioni di euro.
Il tempismo del primo ministro ha scatenato la protesta per le
strade del centro. Lungo il corteo che portava alla stazione
i sentimenti di delusione, rabbia e impotenza trovavano sfogo negli
slogan contro il governo e contro l'amministrazione cittadina.
Vicenza non odia gli americani. Non li ha mai odiati, nei 50 anni di
presenza della Ederle. Nonostante negli anni '60 si siano verificate
risse, violenze, aggressioni e anche qualche caso di stupro per mano
dei soldati Usa, la popolazione è tiepida e talora indifferente alla
loro presenza. Ciò che non digeriscono, i 5 mila che ieri hanno
sfidato il freddo pungente e l'umidità, è stato il silenzio di un
governo cittadino - e nazionale - che li ha tenuti all'oscuro di
tutto, recitando una parte goffa, incoerente e talvolta subdola.
Città incollerita.
"La decisione era già stata presa da tempo dal sindaco Hullweck -
commenta un commerciante del centro - un sindaco che, manca poco,
con l'ambasciatore Spogli ci va a letto". La stessa visita
dell'ambasciatore della settimana scorsa è stata tenuta in gran
segreto dagli amministratori, e sarebbe passata del tutto sotto
silenzio se qualche centinaio di contestatori non avessero appreso
la notizia per passaparola, inscenando una protesta di fronte al
palazzo comunale, il cui atrio è stato simbolicamente occupato.
Così, ieri sera Vicenza ha accolto la decisione di Prodi
manifestando la propria collera per il comportamento del governo
nazionale. "Prima fanno la pantomima dell'antiamericanismo - dice un
operaio -, con Berlusconi che dice a D'Alema di mettere a rischio
l'alleanza con Bush, poi il Consiglio dei ministri che deciderà
venerdì, infine Prodi che fa tutto da solo e comunica da Bucarest
che è 'doveroso mantenere gli impegni' con gli alleati". Partono gli
slogan, mentre i media di tutta Italia, che si trovano per una volta
nel posto giusto al momento giusto, raccontano la cronaca della
manifestazione.
Pronti,
via. Partenza alle 20.30 da piazza Castello. Il popolo del
'no' è variegato e composto. Ci sono ragazzi, nonni, bambini. Tutti
hanno le bandiere contro la base stampate dai comitati. Molti
hanno pentole e padelle, e fischietti. Ogni tanto spiccano i simboli
di qualche partito, gli stendardi dell'unico sindacato che ha preso
una posizione netta contro la base, gli striscioni di ong e
associazioni. Ci sono esponenti di sinistra, di destra e di centro.
Dopo l'annuncio di Prodi, sul volto di Cinzia Bottene, la portavoce
del comitato del 'no', si dipinge l'incredulità: "Non ci posso
credere, non ci credo". Ci sono i Disobbedienti di Francesco Pavin,
c'è Oscar Mancini, segretario generale Cgil, poi alcuni
rappresentanti dei partiti, forse i più in imbarazzo dopo la
decisione del premier. Ma c'è anche la destra, quella estrema, con
il leader di Azione Sociale Alex Cioni. E poi la Lega col suo 'cane
sciolto', il consigliere comunale Franca Equizi, che non risparmia
bordate al 'suo' sindaco, essendo il suo partito nella coalizione
del governo locale. Ci sono tutti, ma nel corteo non vi sono
divergenze d'opinione. Non vi sono stecche nel coro del dissenso.
La messa laica.
'Vergogna, vergogna' echeggia dal centro della folla che si muove
compatta verso il Comune. Qui, provocatoriamente, alcune decine di
manifestanti hanno bruciato le loro tessere elettorali, come nella
migliore tradizione delle genti di Carrara durante la sfilata del
Primo maggio anarchico. Oltre alle bandiere, a Vicenza ieri tutti
avevano una fiaccola. Mentre la processione si snodava sul lungo
viale che conduce alla stazione, si aveva l'impressione di
partecipare a una messa laica. Una cerimonia urbana e civile, che
celebrava però il definitivo, ulteriore distacco dei cittadini dai
loro amministratori. Qui come in Val di Susa, contro il Tav. Qui
come tutte le volte che la politica ha disatteso non solo la
volontà, ma anche il diritto dei cittadini di partecipare alle
decisioni. "Il referendum forse non si farà più - lamenta uno
studente -, ma a che potrebbe servire, se tutto è già stato
deciso?". "A mostrare a questo sindaco - gli fa eco un amico - che
tutta la città è contro di lui, che nessuno è stato informato, che
nessuno ha potuto dire la sua". La loro la dicono adesso, i
vicentini, mentre la stazione è presa pacificamente d'assalto e sui
binari occupati sale l'entusiasmo, si gonfia il coro contro governi
e governanti, si percuotono pentole e padelle, si grida 'Vicenza
libera' e ci si conta, ci si riconosce.
Quanto
durerà la protesta? "La mia, personale, è già iniziata -
spiega Giorgio, 40 anni, in braccio la figlia avuta dalla moglie
americana -. Da stasera ho iniziato il mio sciopero della fame:
questo governo mi ha deluso e ferito. Da stasera la situazione si è
fatta inaccettabile". Quanto durerà?, chiedono con gli occhi i 5
mila a Cinzia Bottene, cittadina comune, senza alcun passato di
militanza politica o di attivismo sindacale, che adesso arringa la
folla con un megafono in mano. "E' stata l'indignazione a farmi
scendere in piazza". La Polfer ha bloccato 20 convogli, in arrivo da
Verona e da Padova. C'è chi suggerisce di restare in stazione tutta
la notte. Ma il luogo dove la protesta continua, e continuerà a
lungo - assicurano - è al Dal Molin, sede della nuova base. Ci si
sposta, con la truppa di operatori televisivi che illuminano la
notte, due chilometri più a nord. Il presidio è un grande capannone
prestato ai cittadini da RadioSherwood di Padova. C'è musica, vino
caldo, qualche falò. La signora Giuliana, che ha concesso il proprio
terreno ai comitati, vota Lega, e nelle villette residenziali tutt'intorno
abita la buona - e ricca - borghesia vicentina, una volta fedele
alla Democrazia cristiana, oggi a Forza Italia. Ma anche loro
contrari alla base. Anche loro simboleggiano una protesta
trasversale, che, secondo Giovanni, 32 anni, "testimonia la crisi e
l'imbarazzo di una classe politica incapace di rappresentare".
La notte di Vicenza termina, e la
città al risveglio riprende la sua vita, tra operai che partono alla
volta delle concerie di pellami e i distinti operatori della
gioielleria mondiale giunti in città da ogni dove per la fiera
dell'oro. Chiediamo a uno di loro, finlandese, cosa ne pensa della
presenza militare Usa in Italia. "Non lo sapevo - risponde -. Non
sapevo che gli Usa fossero in guerra con l'Italia"
Uganda, torna la paura
I ribelli ricusano
il mediatore, sempre più a rischio i colloqui di pace tra governo e Lra
La speranza della fine della
guerra in nord Uganda, durata sei mesi, sta svanendo.
Nell’ultima settimana, il deteriorarsi dei rapporti tra governo,
ribelli del Lord’s Resistance Army e mediatori sudanesi
ha fatto precipitare la situazione. Il Lra ricusa il
vicepresidente del sud Sudan, Riek Machar, come mediatore,
minaccia di lasciare i campi di raccolta nel Sudan meridionale
(dove parte dei ribelli si sono raggruppati in vista del
disarmo, secondo la tregua firmata ad agosto) e di fare ritorno
in Uganda, l’esercito risponde che il gesto verrebbe visto come
un atto di guerra.
Trattative.
“Innanzitutto, c’è da precisare che il comando non ha
preso ancora una decisione ufficiale – precisa a
PeaceReporter Obonyo Olweny, portavoce del Lra –.
Quella del ritorno in Uganda è solo una delle opzioni, ma non
percepiamo più come neutrale l’atteggiamento del governo
sudanese. Di conseguenza, se non otterremo un altro mediatore,
non riprenderemo i colloqui di pace e lasceremo il Paese”. Una
brutta gatta da pelare per Joaquim Chissano, ex-presidente
mozambicano e nuovo rappresentante speciale dell’Onu per
l’Uganda. La scorsa settimana, il Lra ha chiesto al
Kenya e al Sudafrica di prendere in mano le trattative, a
séguito delle dichiarazioni della presidenza sudanese che
definiva i ribelli “non più graditi” chiedendo loro, in caso di
fallimento dei colloqui, di lasciare il Sudan meridionale dove
il Lra ha le sue basi. La mossa di Khartoum, mirante a
dare una scossa a una trattativa in stallo da qualche settimana,
ha dunque sortito l’effetto contrario. “La verità è che il
Lra è diventato indipendente dal Sudan, che un tempo ci
appoggiava – continua Olweny – e questo a Khartoum non piace. Le
loro dichiarazioni dimostrano che non siamo pupazzi nelle loro
mani come si crede”.
Minacce.
Dall’altra parte, il governo ugandese tiene la
posizione: da Kampala fanno sapere di non avere intenzione di
cambiare la sede dei colloqui, fissata fin dall’inizio a Juba,
nel Sudan meridionale. Meno che mai l’esercito sarebbe disposto
a vedere i ribelli tornare nel nord. “Qualsiasi loro movimento
in territorio ugandese sarà visto come un atto ostile - conferma
a PeaceReporter il maggiore dell’esercito, Felix
Kulayigye – anche perché i luoghi di raccolta sono stati scelti
assieme al Lra. Perché ora vogliono tornare in Uganda?
Sarebbe una contraddizione. Abbiamo il dovere di proteggere i
civili, per questo suggeriamo ai ribelli di rimanere dove sono”.
Nemmeno la garanzia di non riprendere gli scontri, data nei
giorni scorsi dal Lra, è sufficiente. “Il Lra
continua ad attaccare civili in Sudan – prosegue Kulayigye – che
garanzia abbiamo che non lo facciano anche in Uganda?”. Di tutt’altro
tono la posizione di Olweny, che accusa l’esercito “di aver
impedito, a causa dei continui attacchi, la raccolta dei nostri
uomini nei campi in Sudan. Per questo stiamo valutando la
possibilità di tornare indietro, ben consci che ciò
significherebbe una ripresa del conflitto”.
Speranza. Una
pessima notizia soprattutto per le centinaia di migliaia di
sfollati che, nei mesi scorsi, hanno fatto ritorno alle proprie
case. Nonostante i colloqui non siano ancora falliti e ci sia un
margine di manovra, la situazione è molto delicata. “La guerra
in Uganda ha portato tanta distruzione – ammette Olweny – e una
sua ripresa sarebbe disastrosa per la popolazione, specialmente
per i 3 milioni di persone che il governo ha ammassato in
maniera irresponsabile nei campi profughi. Ma non accettiamo di
essere additati come gli unici responsabili della situazione”. E
mentre i mediatori sudanesi tentano di smorzare i toni facendo
appello alle parti, Chissano è da ieri a Juba per tentare di
salvare il salvabile. Non è ancora troppo tardi.
|
I
programmi di morte delle autorità americane
di Antonella
Randazzo per www.disinformazione.it
- 15 gennaio 2007
Le autorità degli Stati
Uniti ritengono necessario istituire programmi di “addestramento” militare e
spionistico per gli eserciti delle nazioni del mondo. Nel 1991, il Congresso
americano approvò una legge che nella sezione 2011, titolo 10, autorizzava
il programma Joint Combined Exchange Training (Jcet). La legge
prevedeva che il Dipartimento di Difesa americano inviasse forze “speciali”
ovunque nel mondo, per addestrare soldati. Non si specificava il contenuto
di questi addestramenti. I soldati americani dovevano raccogliere molte
informazioni e fotografie del paese in cui venivano mandati, e capire chi
erano i nemici su quel territorio.
Nel 1998, erano state
attuate missioni Jcet in 110 paesi, in cui si verificarono crimini
orribili, massacri, torture e violenze di ogni genere contro le popolazioni.
Le “missioni” Jcet riguardarono l’addestramento dei commandos turchi che
trucidarono 22.000 curdi, e altre operazioni in America Latina, in Rwanda,
in Pakistan, nello Sri Lanka, in Indonesia e in molti altri paesi.
Il Presidente del
sottocomitato per le operazioni internazionali e i diritti umani della
Camera dei deputati, Christopher Smith, dichiarò: “Le nostre
esercitazioni congiunte e l’addestramento di unità militari accusate più
volte dei più atroci crimini contro l’umanità, tra cui tortura e omicidio,
esigono delle spiegazioni”.
Il Segretario della Difesa William Cohen rispose alle richieste
avanzate da Smith in modo retorico, dicendo che “nelle aree in cui le
nostre forze armate portano avanti il programma Jcet… promuovono i valori
democratici e la stabilità regionale”.
Gli addestramenti del
Jcet vennero richiesti dai dittatori più spietati e sanguinari, come
l’indonesiano Suharto. In Indonesia il Jcet fu accompagnato dal
programma del Pentagono di assistenza al reggimento Kopassus, che
sequestrava, torturava e uccideva i dissidenti politici. Migliaia di persone
scomparvero misteriosamente, probabilmente giustiziate dal Kopassus.
Le attività del Jcet in Indonesia furono sospese soltanto nel maggio del
1998, quando la stampa rivelò la vera natura di quelle “missioni”. Il
giornalista Allan Nairn scrisse un articolo sul giornale Nation, in
cui spiegava la natura criminale dei programmi che il Pentagono sosteneva in
Indonesia.
I programmi come Jcet
vengono posti al di sopra della stessa autorità governativa americana, come
spiega lo studioso Chalmers Johnson: “Se anche un giorno il
presidente americano e il Congresso dovessero decidere di assolvere ai
propri doveri costituzionali e ristabilire la propria autorità sul
Dipartimento della Difesa, non riuscirebbero comunque a porre sotto
controllo i programmi Jcet e altre iniziative simili”.
Il pericolo che la
stampa potesse svelare aspetti delle “missioni” Jcet o di altre
organizzazioni simili, com’era accaduto nel caso indonesiano, ha fatto in
modo che le autorità statunitensi elaborassero una strategia per svolgere
queste operazioni senza alcuna responsabilità diretta. Attraverso la
privatizzazione delle attività militari di addestramento è stato reso
possibile occultare efficacemente le attività criminali che il Pentagono
attua in molti paesi del mondo. Nel caso di impiego di soldati mercenari
forniti dalle società, il Pentagono non ha nessun obbligo di informare, in
quanto si tratta di attività di società private, non soggette alla legge
sulla libertà di informazione poiché di “proprietà riservata”. Può avvenire
così l’occultamento e la deresponsabilizzazione dei crimini commessi. Come
osserva il giornalista Ken Silverstein:
Senza che l’opinione
pubblica ne sia al corrente o abbia sviluppato un dibattito al riguardo, il
governo sta inviando società private – la maggior parte delle quali
strettamente legate al Pentagono e costituite da personale militare in
pensione – a fornire addestramento militare e di polizia agli alleati
stranieri degli Stati Uniti.
Le aziende americane
forniscono addestramento militare a moltissimi paesi del mondo, fra questi,
Haiti, Angola, Bosnia, Colombia, Croazia, Ecuador, Egitto, Guinea
Equatoriale, Ghana, Haiti, Ungheria, Arabia Saudita, Kosovo, Perù, Uganda,
Liberia, Malawi, Mali, Nigeria, Rwanda, Senegal e Taiwan.
Nei paesi del Terzo Mondo, queste società vengono sempre più spesso pagate
con parte delle risorse sottratte ai paesi sottomessi. Data l’alta
probabilità di rimanere impuniti, vengono assoldati anche assassini e
squilibrati di ogni genere, abili nel commettere i crimini più orrendi
(mutilazioni, torture, violenze), per sottomettere i popoli con il terrore.
Nel rapporto del World Policy Institute di New York
si legge:
Negli anni '90 gli
Usa hanno continuato a fornire ai paesi africani armi e addestramento
militare, per un valore di oltre 227 milioni di dollari. Inoltre, le forze
speciali americane hanno addestrato i militari di 34 dei 53 paesi africani,
compresi i soldati impegnati su entrambi i fronti della guerra civile in
Congo... Gli Stati Uniti sono i maggiori mercanti di armi. I problemi che
l'Africa deve affrontare 'conflitti, instabilità politica, tasso di crescita
economica più basso del mondo' sono stati alimentati in parte dal
coinvolgimento degli Usa nel continente.... la fornitura e vendita di armi,
e i conflitti che esse alimentano, hanno un impatto devastante sull'Africa
subsahariana. (Mobutu è stato) aiutato a costituire il suo arsenale militare
con una flotta di aerei C-130, un continuo rifornimento di fucili, armi
leggere e pesanti, l'addestramento di 1350 soldati... fino alla sua
caduta....gli Usa hanno contribuito a costituire gli arsenali militari di
otto dei nove governi coinvolti... Nel marzo '99 un trafficante di armi
belga è stato arrestato in Sudafrica mentre cercava di vendere 8 mila fucili
M-16 di fabbricazione statunitense, provenienti dagli arsenali costituiti al
tempo della guerra del Vietnam. In realtà, molti trafficanti illegali d'armi
attualmente operanti in Africa centrale hanno cominciato come operatori
segreti degli Usa.
Una delle società più
importanti, che ha stipulato contratti con
la Cia per intervenire in numerosi paesi, è la Dyncorp. Un
“esperto” di questa società guadagna all’anno almeno 120 mila dollari.
Sempre più spesso, le stesse autorità governative e della Cia sono i
maggiori azionisti delle imprese che forniscono mercenari. Ad esempio,
James Woolsey, ex capo della Cia, possedeva parecchi titoli della
Dyncorp. Le società che forniscono personale mercenario sono sulla stessa
lunghezza d’onda della propaganda americana. Ad esempio, sul sito della
Dyncorp si leggeva lo slogan "La nostra missione è di costruire la
democrazia in tutto il mondo", che è lo stesso slogan dei governi americani. La Dyncorp ha arruolato "combattenti" da almeno 36
paesi diversi, e ha fornito truppe per il Kosovo, l'Albania, l'Afghanistan,
la Bosnia e
l'Iraq. E’ stata denunciata per brutalità in Afghanistan, e in Bosnia per
traffico di minori e violazioni dei diritti umani. Un metodo per conservare
l’impunità anche quando emergono i crimini, è di sciogliere la società e
rifondarla con un altro nome, per dare ad intendere che la società non
esiste più. Anche la
Dyncorp è stata trasformata nel 2005 in Veritas Capital,
che è oggi una delle principali agenzie di “difesa e sicurezza”.
Oggi le operazioni del
tipo Jcet, sia pubbliche che private, sono coordinate dal Dipartimento della
difesa e accompagnate dall’attività di vendita delle armi. Gli Stati Uniti
sono il primo produttore e venditore mondiale di armi. Per i prodotti
bellici i governi americani spendono almeno il 25% del Pil, e il governo ha
assunto ben 6500 persone incaricate di stabilire relazioni “diplomatiche”
finalizzate alla vendita di armi. Quasi sempre gli Stati Uniti armano
entrambi i contendenti, come nel caso Grecia/Turchia, Iran/Iraq,
Israele/Arabia Saudita, Taiwan/Cina. Gli Usa possono così influire sulla
durata e sull’epilogo della guerra. Hanno cioè il potere di “alterare
significativamente gli equilibri militari”.
Gli Stati Uniti vendono
armi a paesi privi di nemici, come la Tailandia e la Birmania , in cui i regimi
utilizzano la forza per distruggere ogni ribellione.
Le autorità americane hanno reso potentissimo l’esercito birmano, per
proteggere la produzione di oppio.
La Birmania è il secondo produttore di oppio al mondo (il
primo è l’Afghanistan). Tale mercato, è controllato dai servizi segreti
occidentali (come la Cia
), che per mantenere la produzione costringono la popolazione a vivere in
miseria e nel degrado. Le sollevazioni popolari vengono represse anche da
forze militari mercenarie, pronte a commettere torture, violenze e ogni
sorta di crimine.
Oggi gli Usa e la Gran Bretagna sono
gli investitori più importanti in Birmania e i maggiori fornitori di armi al
regime birmano. La popolazione è costretta a vivere nel terrore, e le stragi
del regime vengono spacciate per "guerra al terrorismo di al Qaeda".
Negli ultimi tre anni sono state uccise decine di migliaia di persone. Solo
fra la popolazione Karen della Birmania, i morti sono almeno 30.000.
Attualmente vengono
creati numerosi programmi per tenere sottomessi i paesi africani e asiatici.
I rapporti delle autorità militari e politiche americane sono infarciti di
menzogne per negare i crimini commessi attraverso questi programmi di morte.
Ad esempio, il generale americano James L. Jones ha dichiarato alla
Commissione per i servizi armati del Senato, il 7 marzo del 2006, che le
varie organizzazioni armate create per terrorizzare e sottomettere il popolo
africano, come l’African Contingency Operations, Training and Assistance (Acota)
e il Theater Security Cooperation (Tsc) sono “programmi di cooperazione per
la sicurezza”.
Jones fa più volte appello all’esigenza di “una sicurezza comune”, e per
“sicurezza” intende in realtà il mantenimento del potere sui popoli. Egli
parla di “disordine” e “minacce”, senza specificare di preciso chi sarebbe
l’artefice di tutto questo, includendo nei presunti pericoli l’immigrazione
come il terrorismo, le carestie come i tracolli economici:
(Il) nuovo
“disordine” mondiale, porta con sé sfide del tutto uniche, che richiedono
approcci nuovi e differenti nella cooperazione con i nostri alleati, la
distribuzione delle risorse e lo sviluppo di strategie volte a proteggere i
nostri interessi nazionali… Le complessità del mondo e la diversità delle
sue minacce richiedono il nostro continuo impegno per la completa
implementazione della nostra trasformazione… Attraverso la continua
trasformazione possiamo aiutare i nostri amici ed alleati a mantenere sicuri
i propri confini, a sconfiggere il terrorismo e a migliorare le prospettive
economiche di molte regioni del teatro afro-europeo… In questo secolo, il
cammino verso un mondo più pacifico e prosperoso si basa sul riconoscimento
di una nuova gamma di pericoli che minacciano in modo chiaro i nostri
interessi comuni… In nessun ordine particolare, queste minacce includono
epidemie, terrorismo, carestie, tracolli economici, immigrazione illegale
incontrollata, proliferazione di armi di distruzione di massa,
narcotraffico, fondamentalismo radicale e, naturalmente, conflitti armati.
Questi pericoli hanno natura transnazionale e non possono essere facilmente
contenuti all’interno dei confini geopolitici.
La parola “terrorismo” è
menzionata di frequente dal generale, che però non spiega cosa intende con
tale parola, e non menziona i crimini delle truppe americane e le
conseguenze devastanti delle occupazioni militari americane. Descrive
l’operato delle truppe americane come fosse una missione di tipo
filantropico e attribuisce la causa dei problemi a fattori ambientali o
demografici:
In Africa,
l’instabilità politica è aggravata dai problemi sociali, economici e di
sicurezza legati al tasso di crescita della popolazione, all’inefficace
gestione del territorio, alla desertificazione, ai dissesti agricoli ed
ambientali, agli spostamenti in massa dei profughi e alle pandemie. Nel
corso degli ultimi cinque anni, gli Stati Uniti hanno risposto a crisi
umanitarie ed instabilità politiche in Somalia, Mozambico, Liberia, Chad,
Sierra Leone, Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio e,
recentemente, nel Darfur. Negli ultimi cinque anni, abbiamo perseguito una
posizione di maggiore impegno nel raggiungimento di una stabilità durevole,
attraverso misure proattive e preventive. Le conseguenze della mancanza di
azione potrebbero includere il continuo e ripetuto intervento americano nei
conflitti e nelle crisi umanitarie, l’interruzione di commerci vitali per lo
sviluppo delle economie nascenti africane e l’aumento della presenza del
fondamentalismo radicale, specialmente nei vasti spazi africani ingovernati.
Considerato tutto questo
impegno umanitario, non si capisce come mai le popolazioni africane vivono
in miseria, muoiono di fame e protestano con forza contro il dominio
americano. In realtà, la presenza massiccia di truppe americane e di
formazioni mercenarie finanziate dal Pentagono, ha causato la morte di
milioni di persone, e provocato immani devastazioni sociali, politiche ed
economiche, rendendo l’Africa un vero e proprio inferno per i popoli
africani.
La retorica buonista americana è un ulteriore affronto per tutti coloro che
a causa dei programmi terroristici americani hanno perso i familiari e sono
stati privati dei diritti umani.
16 gennaio
2007
Filippine, guerra ai comunisti
L’esercito
rilancia l’offensiva contro i guerriglieri dell’Npa. Accuse a
entrambi da Hrw |
L’uomo forte delle Filippine, il
capo delle forze armate, generale Hermogenes Esperon jr., ha
annunciato nei giorni scorsi il rilancio dell’Oplan Bantay
Laya (Piano Vigilanza della Libertà), l’operazione militare
che la presidente Gloria Arroyo ha avviato nel 2002 contro la
guerriglia comunista del Nuovo Esercito Popolare (Cpp-Npa),
attiva nel paese da 38 anni. Un’operazione che, secondo Esperon,
ha finora ottenuto grandi risultati. Non la pensa così il
portavoce dell’Npa, Ka Roger, che rivendica invece un forte
avanzamento della guerriglia. Né Human Rights Watch,
che nel suo rapporto annuo, diffuso pochi giorni fa, ha
denunciato i gravi crimini di cui si sono macchiate le forze
armate filippine nell’ambito dell’Oplan Bantay Laya -
oltre a quelli commessi dai guerriglieri dell'Npa.
La
versione del generale Esperon. “Stiamo vincendo e
continueremo a vincere”, ha dichiarato alla stampa il generale
Esperon. “Dal 2002 abbiamo neutralizzato 5mila ribelli
comunisti, di cui 850 nel 2006, nel corso di quasi 1.800
operazioni. Ne sono rimasti 7mila, e contiamo di ridurli a 3.500
entro tre anni grazie all’avvio della ‘fase due’ dell’operazione
Bantay Laya, che inizia ora concentrandosi su 28 degli
oltre cento fronti attualmente tenuti dall’Npa. Entro quella
data avremo raggiunto la vittoria strategica sui ribelli
comunisti”. Altri generali hanno poi specificato che la nuova
fase dell’offensiva governativa si concentrerà nel nord del
paese, nell’isola di Luzon, roccaforte storica dell’Npa, che
però oggi è molto attivo anche nel centro (isola di Visayas) e
nel sud (isola di Mindanao).
La
versione di Ka Roger. Gregorio Rosal, nome di battaglia
Ka Roger, voce e volto del movimento guerrigliero fondato nel
1969 da Jose Maria Sison (in esilio in Olanda e dal 2002
inserito nella lista Usa dei terroristi), ha subito risposto a
Esperon. “Le affermazioni del generale gli scoppieranno in
faccia insieme all’intensificazione della lotta armata
rivoluzionaria, e nel 2010 si dovrà dimettere con disonore
perché avrà fallito questi suoi obiettivi”. Ka Roger ha dato la
sua versione della situazione attuale: non ha fornito numeri sui
ranghi dell’Npa, ma ha detto che esso controlla 128 fronti in
800 comuni di 70 province di tutte le regioni dell’arcipelago.
E, riguardo al 2006, ha detto che l’Npa ha condotto 400 attacchi
in cui sono stati uccisi circa 200 tra soldati dell’esercito,
agenti di polizia e paramilitari delle Cafgu (Unità Geografiche
delle Forze Armate Civili) e solo 30 guerriglieri.
Hrw
accusa sia l’esercito che la guerriglia. Al di là della
propaganda delle opposte fazioni, Human Rights Watch (Hrw)
ha denunciato nel suo
rapporto 2006 sulle Filippine che la lotta del governo
Arroyo contro la guerriglia comunista si caratterizza per il
crescente numero crimini (esecuzioni sommarie, rapimenti e
torture) commessi dai militari e dai paramilitari nei confronti
della popolazione civile che vive nelle zone considerate
roccaforti dell’Npa e, più in generale, verso tutti coloro che
vengono definiti “comunisti”: un’ampia categoria che comprende
giornalisti indipendenti, sindacalisti, avvocati democratici e
difensori dei diritti umani, religiosi e operatori sociali. Solo
nel 2006 ne sono stati assassinati 180.
Il rapporto di Hrw non è tenero
nemmeno con i guerriglieri dell’Npa, accusati di analoghi
crimini contro i civili ritenuti “nemici del popolo” e
collaboratori “regime fascista” della Arroyo.
|
CALABRIA|Vicino
le Vasche di Cicerone
Giù
l'ecomostro di Copanello

Ecomostro di CopanelloOggi
l'abbattimento del complesso edilizio. Costruito nell'80 a due passi dalla
scogliera di Stalettì, sito di importanza comunitaria. Dal 1987 esiste
un'ordinanza di demolizione
Quattro corpi di fabbrica di cui uno di cinque piani fuori terra, due di
sei piani fuori terra, e un ultimo di nove piani con andamento a gradoni
intervallati da vani e scale di collegamento in cemento armato. E' questo il
complesso edilizio, comunemente noto come “ecomostro di Copanello”, che sarà
demolito oggi, alla presenza, tra gli altri, del presidente della Regione
Calabria, Agazio Loiero, del ministro dell' ambiente e della tutela del
territorio, Alfredo Pecoraro Scanio. Entreranno in scena le ruspe dell'impresa
Fiore, ditta che si è aggiudicata la gara d' appalto lo scorso ottobre, per il
prezzo, in via provvisoria, di 170.960 euro, al netto del ribasso d' asta del
36,66 %, su sei ditte partecipanti.
La costruzione è stata realizzata in pochi anni, a partire dell' agosto
1980, con una licenza edilizia mancante di alcuni pareri di enti preposti ed è
uno degli undici ecomostri d' Italia da abbattere. Il complesso, che sorge nel
comune di Stalettì sulla costa jonica catanzarese, si trova a vicino alla
battigia e il luogo è caratterizzato dalla presenza, a poca distanza, di un sito
archeologico nel quale si troverebbe la tomba di Cassiodoro e del suo Vivarium,
prima struttura universitaria e di studi sistemici in Europa.
Il 29 dicembre scorso era stato siglato a Roma l'Accordo di programma
quadro tra la Regione Calabria, il ministero dell' Economia e delle finanze e
quello delle infrastrutture e dei trasporti sulle Emergenze urbane e
territoriali. L'atto dopo che la Giunta calabrese aveva deliberato, su proposta
dell'assessore all'Urbanistica e governo del territorio, Michelangelo Tripodi,
l'approvazione di questo accordo in tema di salvaguardia ambientale. Per
l'assessore, è uno dei provvedimenti più significativi, che pone la Calabria
all'avanguardia tra le altre regioni italiane ed europee in materia di tutela
del territorio. Il quadro complessivo delle risorse finanziarie disponibili
ammonta a cinque milioni di euro.
«L'abbattimento dell'ecomostro di Copanello è un esempio dell'impegno
nella lotta all'abusivismo- dice Pecoraro- e costituisce un perno della
battaglia per la legalità, a tutela delle bellezze paesaggistiche e ambientali
del nostro Paese». E che ciò «avvenga in Calabria» assume un significato
particolare.
15 gennaio
Presunti fondi
neri Mediaset, prescrizione per Berlusconi
MILANO - Reati prescritti per Silvio
Berlusconi fino al luglio del 1999 nel processo sui presunti fondi
neri di Mediaset che vede imputati anche il presidente della
società, Fedele Confalonieri, l'avvocato inglese David Mills e una
decina di altre persone accusate a vario titolo di appropriazione
indebita, falso in bilancio, frode fiscale, ricettazione e
riciclaggio. Il presidente della prima sezione del Tribunale di
Milano, Edoardo D'Avossa, con un'ordinanza ha decretato il non luogo
a procedere, per intervenuta prescrizione, relativamente
all'appropriazione indebita (fino al luglio del 1999), al falso in
bilancio (fino al 1998), alla frode fiscale (fino al 1998), i tre
reati contestati a Berlusconi. Restano per il leader di Forza Italia
i reati di falso in bilancio e frode fiscale per il 1999 e
l'appropriazione indebita relativa ad alcuni mesi. Il reato di
ricettazione, contestato a Mills e al banchiere Paolo Del Bue, è
andato prescritto fino al 1993.
Figlio di uno
Stato minore
Il racconto di Carlo Calcagni,
capitano elicotterista contagiato da sostanze radioattive in Bosnia
nel '95
Carlo Calcagni, pugliese, 38 anni,
durante la missione in Bosnia si intossica con metalli pesanti. Le
accuse, i riconoscimenti mancati, l'amarezza di un militare
dimenticato dallo Stato Maggiore dell'esercito. E da quello (minore)
italiano.
Capitano,
quando e come inizia la sua vicenda?
Sono partito con il primo contingente
italiano in Bosnia. Era il gennaio '96. I bombardamenti delle forze
Nato erano terminati da due mesi. C'era una situazione di
elevatissima contaminazione ambientale. Da quanto risulta dalle
mappe che gli americani avevano fornito ai nostri vertici, e che non
erano state divulgate (ma oggi su internet si trovano
tranquillamente), risulta che proprio la zona di Sarajevo era quella
più bombardata. Si parla di circa 18 mila proiettili all'uranio
impoverito. C'era una base strategica, poco a sud di Sarajevo, dove
abbiamo operato per 4 mesi. E' chiamata la ex-Wolksvagen, e si trova
nel quartiere di Vogosca. Lì costruivano armamenti. Le forze Nato
hanno dovuto radere tutto al suolo. Essendo io pilota di elicotteri,
tra l'altro l'unico del contingente italiano, ero preposto ad avere
i contatti con i francesi, già stanziati all'aeroporto di Rajlovac.
Io utilizzavo un elicottero francese per espletare le missioni.
Come fa ad essere certo che i suoi
problemi di salute sono iniziati a seguito della sua missione a
Sarajevo?
Quando si utilizzano tali velivoli in
zone dove si è verificata una contaminazione ambientale
caratterizzata dai residui post-esplosione, tutto ciò che si va a
depositare sul terreno, specialmente in fase di decollo e di
atterraggio, viene risollevato. I rotori degli elicotteri sollevano
anche i sassi, figuriamoci le particelle di metalli pesanti. Queste
vengono respirate e sedimentano nell'organismo, specialmente nel
fegato. Non colpevolizziamo l'uranio in se' e per se', ma tutto ciò
che ne deriva, cosa già nota agli americani fin dagli anni '70,
quando è iniziata la sperimentazione, nei loro poligoni, delle armi
incriminate. In un primo momento vennero subito messe da parte
perché vi erano dati certi sui danni che causavano all'organismo
dopo l'esplosione.
Il caso di Carmine Pastore, da noi
intervistato il 7 gennaio, ha smosso nuovamente le acque stagnanti
della questione uranio in Italia. Pastore ha raccontato che in
Bosnia siete andati con protezioni inadeguate, non commisurate alla
grave entità del pericolo. Protezioni che gli americani, invece,
possedevano.
Vero, ma la colpa ancor più grave
dello Stato maggiore dell'esercito è che dopo la Bosnia c'è stato il
Kosovo, nel '99. Gli americani ci avevano avvertito che quelle erano
zone pericolose. Dopo Sarajevo, le circolari hanno cominciato a
girare per i reparti, ma - per quanto ne so io - in quell'epoca l'equipaggiameno
di protezione non è mai stato distribuito.
L'uranio impoverito nuoce alla
salute? Secondo qualcuno no. Secondo altri, come l'immunologo Franco
Mandelli, estensore della relazione elaborata dalla Commissione
medico-scientifica istituita dal governo, non esiste correlazione
certa tra l'uranio impoverito e la cosiddetta 'Sindrome dei Balcani',
ovvero l'insieme di patologie di cui si ammalano i nostri militari.
E' una vergogna che i nostri
continuino ancora oggi a negare, nonostante tutte le prove, ciò che
è sotto gli occhi di tutti. Io stesso sono la prova vivente della
contaminazione. Nel mio organismo - e lo provano i documenti
sanitari in mio possesso - sono state rinvenute particelle
metalliche non esistenti in natura, che possono venire prodotte solo
da esplosioni di quel tipo, con temperature che superano
abbondantemente i 3 mila gradi. Sono costantemente sottoposto a
terapia per limitare i danni, con la ghigliottina che è pronta a
cadere su di me. Il referto medico di un gastroenterologo, il dottor
Michele Pasculli, consultato dall'ospedale militare di Bari, è
probabilmente un documento unico, in quanto vi è scritto che il mio
problema può dipendere dal mio impiego in zone contaminate
dall'uranio impoverito. Vi si legge, testualmente: "Nel '96 il
paziente ha operato in regioni belliche, verosimilmente esposto a
uranio impoverito". E' il marzo 2005. Sono giudicato ad altissimo
rischio di tumore. A giugno, qualche giorno dopo un servizio delle 'Iene',
mi arriva il riconoscimento della causa di servizio. Ciò che è
insolito è la procedura in seguito alla quale l'ho ottenuta.
Perché?
Di prassi, il Centro militare
ospedaliero quantifica l'entità del danno, poi invia la domanda per
il riconoscimento della causa di servizio a Roma, al comitato di
verifica. Nel mio caso l'iter è stato del tutto particolare, perché,
pur di mettermi a tacere, quasi a dirmi 'stai tranquillo perchè la
tua domanda l'accettiamo', non è stato quantificato il danno. Ci
sono state pressioni per evitare che parlassi. Il mio calvario è
cominciato quando mi hanno diagnosticato un'insufficienza renale,
poi problemi alla tiroide, fino ad arrivare ai problemi al midollo.
Dopo una biopsia, la dottoressa Antonietta Gatti, dell'università di
Modena riscontra particelle metalliche tossiche anche nel midollo.
Ciò che mi lascia sconcertato è che nessuno, oltre alla stampa, si
sta interessando alla cosa, non c'è nessuno che indaghi, verifichi,
spieghi come sono realmente andate le cose. Io ho scritto a molte
persone, istituzioni, ministeri ma nessuno mi ha mai risposto. E'
questa la cosa grave. Non ho potuto confrontarmi con nessuno. C'è
un'omertà, nel nostro ambiente, di cui non si ha idea. Non solo i
miei commilitoni sono morti, ma le loro famiglie sono state
abbandonate. Io sto male, ma ci sono situazioni più tragiche della
mia. Dei dieci piloti francesi che erano con me, sei si sono
ammalati, e lo Stato francese li ha risarciti tutti.
La causa militare di servizio per
malattia l'ha ottenuta. Cosa vuole Carlo Calcagni dallo Stato?
Che mi siano riconosciuti i miei
diritti. L'invalidità perchè "vittima del dovere". Sono duemila euro
per ogni punto di invalidità, la mia era del 70% prima dei problemi
al midollo. Si tratta dell'indennizzo che poi hanno dato, dopo
pochissime ore, alle famiglie dei poveri carabinieri morti a
Nassiriya. Ho pensato: come hanno fatto a risarcire così in fretta i
miei colleghi? Poveracci, ribadisco, aver fatto quella fine. Le
famiglie sono però state indennizzate con 200 mila euro, alcune di
loro hanno addirittura ricevuto un milione di euro. Sono stati
definiti 'eroi della patria'. Giustissimo. Hanno dato loro una
medaglia d'oro al valore. Giustissimo. Ma a noi? Cosa danno a noi
vittime dell'uranio? La medaglia di legno? Loro sono morti per
l'effetto diretto della bomba, noi stiamo morendo per gli effetti
indiretti di bombe, tra l'altro, sganciate da 'amici'.
Luca Galassi
Cessate il fuoco
Somalia. Dall’inizio del 2007
la guerra ha causato almeno 62 morti.
Il 6, 3 persone sono morte in scontri a fuoco tra le truppe etiopi e
dimostranti somali a Mogadiscio, quando centinaia di abitanti della
capitale sono scesi in piazza per protestare contro i soldati di
Addis Abeba e la campagna di disarmo forzato della popolazione
promossa dal governo somalo.
L’8, 4 persone sono state uccise negli scontri tra le truppe di
Addis Abeba e manifestanti, sempre a Mogadiscio.
Il 7, raid aerei lanciati da forze statunitensi e dall’aviazione
etiope nel sud della Somalia, proseguiti per tre giorni, avrebbero
causato almeno 50 vittime civili.
Balucistan (Pakistan).
Dall'inizio del 2007 la guerra ha causato 11 morti.
Il 9 nel distretto di Bolan 9 ribelli baluci sono stati
uccisi in una battaglia.
Il 10 nei pressi di Quetta 2 soldati sono morti in uno scontro a
fuco con i ribelli baluci.
Il 9 nel distretto di Bolan 9 ribelli
baluci sono stati uccisi in una battaglia.
Il 10 nei pressi di Quetta 2 soldati sono morti in uno scontro a
fuco con i ribelli baluci.
Assam (India). Dall'inizio del
2007 la guerra ha causato 74 morti.
Il 6 gennaio 35 immigrati hindi provenienti dallo stato indiano del
Bihar sono stati uccisi dai ribelli dell’Ulfa in una serie di
attacchi coordinati.
Il 7 sono stati uccisi altri 27 immigrati del Bihar.
L’8 altri 7 immigrati sono stati uccisi dai ribelli e 2 ribelli sono
morti in uno scontro a fuoco con i soldati.
Il 10 l’esercito indiano ha ucciso 3 ribelli.
Stati centrali dell’India.
Dall'inizio del 2007 la guerra ha causato 6 morti.
Il 4 gennaio nel Maharashtra i ribelli maoisti Naxaliti hanno ucciso
un aspirante poliziotto.
Il 5 gennaio Nel Chhattisgarh un ribelle maoista dei Naxaliti è
morto in uno scontro a fuco con l’esercito.
L’8, sempre nel Chhattisgarh, altri 4 ribelli maoisti sono stati
uccisi dall’esercito indiano.
Sri Lanka. Dall'inizio del 2007
la guerra ha causato 68 morti.
Il 5 gennaio una bomba è esplosa su un autobus vicino alla capitale
Colombo uccidendo 6 civili.
Il 6 un’altra bomba è scoppiata su un autobus nel sud del paese: 15
civili uccisi.
Nel distretto settentrionale di Jaffna 4 soldati e un civile sono
morti per l’esplosione di agguati dei ribelli.
Il 7 nel distretto di Vavuniya un ribelle è morto per l’esplosione
di una bomba a mano.
Il 9 nella zona di Batticaloa 6 ribelli tamil sono morti in sconti a
fuoco tra fazioni rivali. Nel vicino distretto di Vavunya un
bombardamento aereo governativo ha colpito un ospedale uccidendo 4
civili.
Il 10 nella stessa area 10 ribelli sono stati uccisi in un attacco
dell’esercito.
Filippine. Dall'inizio del 2007
la guerra ha causato 16 morti.
Il 6 gennaio nel corso di un combattimento nell’arcipelago di Sulu
sono stati uccisi 7 guerriglieri del gruppo islamico Abu Sayyaf.
Il 9 un leader ribelle di Abu Sayyaf è stato ucciso in uno scontro a
fuoco nell’arcipelago di Sulu.
Il 10 nell’isola meridionale di Mindanao, 7 civili sono morti per
l’esplosione di tre bombe. Le autorità hanno accusato il gruppo Abu
Sayyaf.
Thailandia. Dall'inizio del
2007 la guerra ha causato 3 morti.
Il 10 gennaio nella provincia meridionale di Pattani, una maestra è
stata uccisa dai ribelli separatisti islamici.
Cecenia e Nord Caucaso.
Dall'inizio del 2007 la guerra ha causato 12 morti.
L’8 gennaio un poliziotto ceceno è morto in un agguato dei ribelli.
Il 9 gennaio in Inguscezia 2 ribelli ingusci si sono fatti saltare
in aria durante uno scontro a fuoco con la polizia. Nel distretto
ceceno di Vedenò un ribelle ceceno è stato ucciso in una battaglia
con i soldati russi.
Il 10 gennaio un militare ceceno ha ucciso se stesso e sua madre.
Alla periferia di Grozny un ribelle ceceno è morto per lo scoppio
dell’esplosivo che portava addosso. 4 presunti miliziani sono stati
uccisi in uno scontro a fuoco nella capitale del Daghestan,
Makhachkala.
Kashmir indiano. Dall'inizio
del 2007 la guerra ha causato 21 morti.
Il 4, 4 militanti del Harkat-ul-Mujahideen sono stati uccisi dalle
forze di sicurezza indiane nel distretto di Udhampur.
Il 6, presunti miliziani separatisti hanno lanciato una granata
contro un mezzo delle forze di sicurezza indiane che transitava nei
pressi di un mercato a Shopian, nel distretto di Pulwama, uccidendo
2 civili e 3 militari.
Il 7, 2 militanti del Jaish-e-Mohammed sono stati uccisi a
Chrar-e-Sharief, nei pressi di Srinagar. Nel distretto di Baramulla
2 civili sono stati uccisi da presunti militanti separatisti.
L'8, le forze di sicurezza indiane hanno ucciso un militante
separatista del Lashkar-e-Toiba, nel corso di una battaglia nella
foresta di Kuta, vicino a Bandipore.
Il 9, un militante del Lashkar-e-Toiba è stato ucciso dalle forze di
sicurezza nel distretto di Udhampur.
Israele e Palestina.
Dall'inizio del 2007, la guerra ha causato 13 morti.
Il 4, a Jabaliya, nel nord della Striscia di Gaza, un membro di
Hamas è stato ucciso durante gli scontri con i membri di Fatah. 7
palestinesi sono morti durante un’incursione dell’esercito
israeliano a Ramallah, in Cisgiordania
Il 5, un religioso è stato assassinato nella striscia di Gaza.
Secondo il sindacato inquilini per
80mq si paga 502 euro a Bari periferia e 2.000 nel centro del
capoluogo lombardo
Casa, affitti
sempre più cari
In un anno aumenti dell'8.7%.
Schizzano in alto i prezzi di Roma, Milano, Firenze e Venezia
ROMA
- Affitti delle case sempre più su. L'incremento medio è stato
dell'8,7% con in testa Roma 12%, e Milano 11%, quindi Firenze e
Venezia con il 10%: per un alloggio medio di 80mq si paga dai 502
per l'estrema periferia di Bari ai 2.000 euro nel centro di Milano.
E' quanto scaturisce dal confronto fatto sui canoni d'affitto tra
giugno 2006 e giugno 2005 nelle aree metropolitane dal Sunia.
Il sindacato degli inquilini ha
calcolato anche il peso di un alloggio medio di 80 mq, in periferia,
per due classi di reddito, 15 e 30 mila euro l'anno. Per la prima è
necessario impegnare tra il 40 e l'80% dell'intero reddito, variando
- rivela il Sunia - da un'incidenza minima del 40% a Bari, del 45% a
Genova, del 48% a Palermo, del 74% a Roma. Per la seconda classe di
reddito, l'incidenza è tra il 20% a Bari e il 40% a Firenze e
Milano, con in mezzo il 37% di Roma e il 35% di Bologna.
"Ora ci aspettiamo che varata la Legge
Finanziaria, che non ci ha dato grandi cose, il governo avvii
politiche abitative forti e serie - sostiene il segretario generale
del Sunia Luigi Pallotta - con l'obiettivo minimo di calmierare gli
affitti".
Il 'popolo' degli affittuari è di 15
milioni: il 19,98% è in affitto, il restante 8,62% a vario titolo.
"Il diritto ad una abitazione - aggiunge Pallotta - va assicurato e
tutelato per cui le politiche abitative debbono assumere una
centralità nell'azione del Governo e non continuare ad essere una
cenerentola".
Le regioni con la percentuale più alta
di case in affitto sono: la Campania 27,6%, il Piemonte 24,2, la
Liguria 23,8% e la Valle d'Aosta 23,3%. Superiore alla media
nazionale del 20% è anche la quota rilevata in Lombardia e Trentino
Alto Adige con il 21,7 e 21,6%. Tra le aree metropolitane, c'è
Napoli in testa con la quota di abitazioni in affitto pari al 36%
mentre al di sopra della media nazionale del 20% ci sono Torino con
il 26,27%, Milano 24,8%, Palermo 24,7%, Roma 24,5%, Bari e Bologna
23%.
Le radici
dell'odio
Se il modello vincente è questo,
non ci si può poi stupire di tragedie come quelle di Erba
Guerra. Lo stato permanente di
guerra in cui versa il mondo ci dice che la guerra è legittima, è
uno strumento sempre più normale da usare. Ogni giorno siamo
bombardati da immagini, suoni, parole di guerra. Non solo dai film o
dalle fiction. Ma dalla realtà. E la realtà che ci viene presentata
è un incentivo alla violenza. Perché ogni giorno, con i notiziari,
con l’informazione intrattenimento, ma anche con reality show il
modello vincente che ci viene proposto è quello di risolvere i
problemi usando lo strumento della guerra, della violenza. La legge
giusta è quella del più forte.
Isolamento. Non ci sono più
comunità. Non c’è più solidarietà tra conoscenti, tra vicini. Non ci
sono più gruppi, circoli, partiti. Luoghi dove confrontarsi,
parlare, sfogarsi. Giocando a carte o bevendo un caffè o tra una
discussione politica e l’altra. Son sparite non solo le bocciofile,
ma anche le piazze. Solo chi è fortunato partecipa a una
associazione. Ma sono sempre più rari, i fortunati.
Non c’è più collettività. Lo Stato non è un modello, ma un nemico. E
questo è più colpa di chi lo Stato gestisce che non di chi sullo
Stato informa.
Quando, e succede da decenni, la cosa pubblica diventa affare
privato, il modello che si propone è quello dell’arroganza, della
furbizia, del proprio interesse sopra ad ogni altra cosa.
Siamo soli di fronte al mondo. E gli eroi che ci propongono sono
quelli che fanno da soli, contano solo su loro stessi. Chi conta
sulle proprie forze vince. Perché intorno a noi, questo ci dicono i
modelli sociali, abbiamo solo o furbi egoisti o addirittura cattivi
nemici.
Terrore. Sono anni, ben prima
dell’attentato alle torri, che i governanti, aiutati dai grandi
mezzi di comunicazione, hanno adottato quella che gli analisti
chiamano la “strategia del terrore”. Una strategia antica come il
mondo: siamo sotto attacco, il nemico è alle porte, e il nemico è
feroce. Può arrivare in ogni momento e da ogni parte. Divide et
impera.
Questa strategia spesso funziona, e funziona proprio perché fa
sentire le persone, anche inconsciamente, sempre in pericolo.
Se poi la strategia del terrore è costruita sul nemico “arabo” o
“islamico”, poveri gli Azouz di tutto il “nostro” mondo.
Bastano queste cose a spiegare una
tragedia come quella di Erba? Probabilmente non bastano. Ma
l’assenza di quel movente che viene di solito chiamato “rasptus
omicida” ci dice che la guerra, il terrore e l’isolamento, sono
capaci di generare l’odio assoluto.
Ed è per questo che il nostro modello, non può che essere un altro.
Maso Notarianni
Le lacrime di
Bush
Anche i presidenti piangono. George W.
Bush, all'indomani della decisione di inviare in Iraq altri 20 mila
soldati americani che uccideranno e saranno uccisi nella carneficina
di Bagdad, si è commosso durante la celebrazione in memoria del
soldato caduto in Iraq mentre tentava di salvare un compagno.
Sono vere le sue lacrime? Chissenefrega.
Penso che il comandante supremo degli
Stati Uniti d'America sia responsabile delle centinaia di migliaia
di vittime innocenti di questa sporca guerra e della morte di oltre
tre mila soldati americani.
Invece di ritirarsi dal teatro iracheno il presidente americano
punta all'escalation militare contro la maggioranza della sua
opinione pubblica e l'invito della commissione Baker al disimpegno
graduale.
Dicono che l'amministrazione di
Washington sia irritata perchè l'Italia e l'Europa l'hanno criticata
per i raid in Somalia. Chissenefrega.
12 gennaio
Qui rubavano gli occhi
ai morti
di Fabrizio Gatti
L'espianto clandestino di cornee. La
decisione di dare una scorta armata ai cadaveri. La testimonianza-choc
del direttore del Policlinico. E ancora: le omissioni dei politici, i
controlli mancati. Colloquio con Ubaldo Montaguti
Il lenzuolo copre il volto
dell'ultimo paziente andato all'altro mondo. Dietro di lui, un
portantino spinge senza più fretta la lettiga. Accanto a loro,
cammina un vigilante armato con la pistola nella fondina. Al
Policlinico Inferno di Roma anche la gente comune a volte è trattata
da Vip. Prima però bisogna morire. Perché qui l'ultimo percorso i
morti lo fanno con la scorta al seguito. Succede ogni volta che un
malato o un ferito o un neonato se ne va dalla porta sbagliata. I
cadaveri vengono sorvegliati come fossero statue d'oro. Per evitare
che qualcuno li porti nei sotterranei dell'ospedale e rubi i loro
occhi. Bastano un oculista senza scrupoli e pochi minuti per
espiantare le cornee. Due protesi di vetro e palpebre abbassate
possono mascherare la profanazione. Al massimo, c'è sempre la scusa
per i parenti dell'autopsia necessaria. Così, un anno fa, la
direzione dell'Umberto I ha dovuto ingaggiare le scorte armate.
L'ennesimo esempio, il più spietato dopo l'inchiesta de 'L'espresso'
sul numero scorso, di un'Italia da buttare e votata al malaffare. E
una grana in più sulla scrivania di Ubaldo Montaguti, 59 anni,
bolognese, dal primo agosto 2005 direttore generale dell'ospedale
tra i più grandi d'Europa, che dal suo ufficio ammette il degrado,
la sporcizia, la battaglia contro il rischio di infezioni, la
politica vigliacca che distrae i finanziamenti e le sue proteste
che, dice, sono rimaste senza ascolto.
Direttore, come avete saputo del furto di cornee?
"Dalla Procura ci è arrivata una indicazione riservata di
stare molto attenti perché qualche rischio che si verificassero
eventi di questo tipo c'era".
Quando avete avuto la segnalazione?
"Circa un anno fa. Non ci sono stati rivelati dettagli. Visto che le
salme sono sotto la nostra giurisdizione fino alla partenza del
corteo funebre, noi abbiamo l'obbligo di stare particolarmente
attenti. Anche se non ci saremmo aspettati di dover affrontare
questo tipo di problemi".
Cosa avete fatto dopo la
comunicazione della Procura?
"Intanto abbiamo cercato di mettere una guardia armata del
nostro servizio di vigilanza per accompagnare le salme quando vanno
portate dal reparto alla camera mortuaria. Questo è il tragitto più
rischioso rispetto a possibili manomissioni della salma".
Avete avuto altre segnalazioni?
"Sì, abbiamo messo la vigilanza anche perché abbiamo avuto
segnalazioni di altre cose molto meno gravi, anche se del tutto
inaccettabili. Tipo la sottrazione di beni o indumenti ai cadaveri.
Per cui siamo stati costretti a provvedere".
Quali organi possono essere espiantati in modo
approssimativo, poiché probabilmente queste operazioni non avvengono
in sala operatoria?
"Da medico posso dire che l'organo più facilmente
asportabile e in maggior sicurezza è la cornea. È difficile poter
intervenire su altri organi perché a distanza dal decesso, solo la
cornea può ancora conservare una trapiantabilità adeguata".
Oltre alle scorte armate, avete preso altri provvedimenti?
"Non per questo motivo, ma dato che avevamo problemi per
inadempienze contrattuali e per le cattive condizioni ambientali
della camera mortuaria, abbiamo deciso di rescindere il contratto
con la società esterna e arrangiarci da soli facendo riferimento
alla camera mortuaria dell'Istituto di medicina legale in attesa di
ristrutturare la nostra, che al momento è chiusa".
Gli espianti sarebbero avvenuti nei corridoi sotterranei?
"Non è necessario molto spazio, basta togliere l'occhio e
mettere una protesi. Credo che se qualche cosa si è verificato, è
avvenuto durante il percorso. È difficile nella camera mortuaria, in
cui sono presenti più persone. Non di notte, certo, ma di notte le
salme vengono messe praticamente in cassaforte. È atroce la
malattia, ancora più atroce è pensare che qualcosa venga fatto a
danno dei defunti".
Chi trasporta le salme fino all'Istituto di medicina legale?
"Il servizio è ora assicurato da nostro personale,
acquisito appositamente. Non è più in mani estranee. Dal reparto la
salma viene scortata fino all'auto. E in auto il personale interno
dell'ospedale la porta fino all'istituto di Medicina legale".
Chi potrebbe aver fatto gli espianti?
"Se si tratta dell'asportazione della cornea è
assolutamente necessario un oculista, cioè uno che se ne intende. Se
si tratta di scucchiaiare l'occhio e sostituirlo con una protesi,
basta personale meno importante. Però il rischio che poi non vengano
osservate certe misure per conservare gli organi è alto".
A cosa sarebbero serviti questi occhi rubati?
"Penso a trapianti di cornea".
Quindi ci sarebbero équipe complici da qualche parte in
Italia che fanno il trapianto.
"Se non ci fosse qualcuno che compra non ci sarebbe neanche
il commercio".
Avete sentore di personale sanitario interno o esterno?
"No, nessuno ci ha mai detto di badare al personale
interno. È sempre stato un discorso rivolto all'esterno".
Quindi personale esterno che si intrometteva nell'ospedale?
"Esatto. Io penso di sì. Ribadisco, non ho altri elementi".
A parte il furto di cornee, dopo l'inchiesta de 'L'espresso'
lei ha detto pubblicamente che sapevate di situazioni anche più
gravi di quelle documentate. Quali?
"I trasudamenti di feci, le feci che colano dai muri. Lei
non le ha viste".
I muri non li ho annusati, per la verità. Lei ha parlato
anche di vostre fotografie: chi le ha viste?
"Le foto sulle feci le ho fatte vedere al sindaco Veltroni,
al presidente della Regione Marrazzo, all'assessore regionale della
Sanità Battaglia. E quelle feci sono più pericolose di tutto il
resto".
E cosa ha fatto la direzione del Policlinico per denunciare
questo pericolo?
"Abbiamo parlato con tutti quanti e presentato i progetti
di ristrutturazione già un anno fa. Io ero arrivato da cinque o sei
mesi. Abbiamo mostrato queste cose alle istituzioni di riferimento.
Forse le mie fotografie e le mie parole non sono state altrettanto
convincenti come quelle pubblicate da 'L'espresso'. Prima di Natale,
io in persona ho fatto un tour di tutti i ministeri per riuscire a
convincerli che non possiamo andare avanti in queste condizioni".
Chi ha incontrato?
"Sono andato da Micheli che è il sottosegretario di Prodi.
Sono andato dal senatore Mazzucchelli che è sottosegretario del
ministro della Salute, Livia Turco. Ho fatto informare il ministro
Padoa-Schioppa e ho parlato con il suo capo di gabinetto. Abbiamo
parlato con il capo di gabinetto del ministro dell'Università Mussi.
Anche l'assessore Battaglia ha sollecitato l'attenzione di tutti. Io
ho parlato con Veltroni il quale, anche lui ne sono sicuro, ha preso
contatti con altri ministeri. Dal 2003 una legge dello Stato prevede
che il Demanio trasferisca la proprietà dei policlinici
all'Università la quale avrebbe ceduto la gestione della struttura
all'azienda ospedaliera. Ma il demanio non ha ancora consegnato la
proprietà del nostro Policlinico. Così io non riesco a utilizzare
gli strumenti finanziari, come le forme di leasing sui lavori
pubblici, perché non ho il diritto di superficie. Questo abbiamo
cercato di smuovere. Le dico un'altra cosa".
Prego.
"Se voi vedeste i denari che sono stati spesi in questo
ospedale per ricoprire in boiserie di legno pregiato gli studi dei
vari primari. Ne abbiamo inaugurato uno ai primi di novembre da un
milione e mezzo di euro con un dispendio di parquet, legni
aromatici, eccetera. Lavori eseguiti e pagati dal ministero dei
Lavori pubblici il quale ha sempre fatto queste cose. E non ha mai
svolto, nonostante le richieste, interventi di manutenzione
importanti. Bisognerebbe chiedere al ministero dei Lavori pubblici
quanti denari hanno speso per queste cose".
Nel nuovo dipartimento di Clinica e terapia medica applicata
fondato e diretto dal professor Antonino Musca, da poco in pensione,
una targa in ottone loda l'ingegner Angelo Balducci, dirigente
generale del ministero delle Infrastrutture 'per la generosa
concessione del finanziamento della progettazione e della esecuzione
di questa struttura istituita quale sede dei laboratori di ricerca'.
Quasi fosse una donazione privata. Dottor Montaguti, si riferisce a
episodi come questi?
"Io non faccio nomi di nessuno. I primari fanno la loro
gara al prestigio. Il problema è chi, al ministero, glielo concede.
La mia personale ipotesi è che se noi continuiamo a pensare di dover
gestire l'ospedale tenendo conto dell'impatto che esercita il potere
accademico dell'Università sull'ospedale, non ce la caviamo più.
Ogni barone, ogni professore universitario ritiene di essere al
centro del mondo. Ma nella sanità vige la regola assolutamente
dimostrata dell'interdipendenza nell'organizzazione, della
collegialità. Il personale per me è tutto uguale. La regola delle
elezioni accademiche, dei rapporti di forza tra componenti di
professori, rende tutto più difficile".
Quanto è l'ammontare complessivo degli stanziamenti?
"È una cifra che ho sentito dire, ma io ancora non c'ero.
Nel giro di cinque anni sono stati stanziati 300 milioni di euro o
300 miliardi di lire, comunque una grossa cifra. E di questi soldi
statali, per attività di manutenzione ordinaria e straordinaria sono
arrivate poche lire".
Dice che dei soldi stanziati non è arrivato quasi nulla?
"No, niente".
Cioè ci sono soldi che partono dal ministero dei Lavori
pubblici e qui non arrivano?
"Oppure arrivano, ma su cose veramente di scarsa rilevanza
come le boiserie. Rilevanza sul piano della sicurezza dei pazienti,
intendo. Io non ho la mania di fare il commissario Basettoni. Anzi,
ho anche cercato di nascondere cose che non condividevo. Perché a me
non piace sollevare polveroni. Nell'ospedale sono state costruite
aree bellissime, aree direzionali, cose di questo genere e si è dato
preferenza a quello. Il provveditorato dei Lavori pubblici cinque
anni fa ha avuto 3 milioni e mezzo di euro per fare la nuova terapia
intensiva post operatoria di Cardiochirurgia. Sono cinque anni che
di questi denari non è arrivato niente. Se li avessero dati a me,
l'avrei fatta tre volte la terapia intensiva post operatoria. Così
quello è un reparto pregiato abbandonato a se stesso, in cui ci son
solo delle mezze macerie. Ci sono i barboni che di notte vanno a
dormirci. Ma adesso l'abbiamo chiuso e spero non ci vadano più".
Lo Stato ripiana puntualmente i conti dell'altro
Policlinico, il Gemelli dell'Università Cattolica. Ma a voi non
arrivano nemmeno gli stanziamenti...
"Il Policlinico Gemelli è l'ospedale del papa. Non so se
questo vuol dire qualcosa. Che so, tutte le volte che il papa va a
visitare il Bambin Gesù, dallo Stato arrivano 50 milioni di euro.
Adesso speriamo che anche da noi succedano queste cose".
In attesa dei soldi per la ristrutturazione, però,
basterebbe controllare meglio le pulizie, l'igiene ed evitare la
promiscuità tra immondizia e pazienti. Perché nessuno l'ha fatto?
"Io penso che sia un problema di priorità. I controlli sono
una funzione debole nell'ospedale. È un lavoro noioso, non
stimolante. Per cui coloro che dovrebbero fare i controlli vengono
assorbiti prevalentemente dai problemi contingenti".
Qualche esempio?
"Il 40 per cento dei bagni di questo ospedale ha il water
senza tavoletta, che per me è la cosa più schifosa che possa
esistere".
Non li ripara nessuno?
"Sì, sostituiscono le tavolette e spariscono. Altro
esempio, la mancanza di personale nei reparti: un terzo è preso da
cooperative esterne. È perfino difficile imporre comportamenti
rigorosi sul piano delle pulizie. Vedo che vengono fatte spazzando,
quindi a secco. Mentre in ospedale la pulitura a secco non va fatta.
La polvere si solleva dai pavimenti e vola nell'aria".
Basterebbe multare i fornitori o rifare le gare d'appalto.
"Prima di tutto dovremmo avere un gruppo ispettivo in
incognito. Vestito da personale, irriconoscibile, che va in giro e
riesce a fare repressione. Non è possibile, chi lavora qui è
riconosciuto. Per questo, dopo la vostra inchiesta, preferisco
sensibilizzare il personale all'autocontrollo: rispetto della
persona, rispetto della cosa pubblica e sicurezza".
Lei è conosciuto come allievo di Mario Zanetti, accademico
bolognese e massone. Professionalmente è cresciuto in Emilia
Romagna. Come mai Luigi Frati, potente preside di Medicina a Roma,
ha scelto lei al Policlinico?
"Io non sono massone. Ero direttore generale a Ferrara.
Frati aveva bisogno, uso le sue parole, di una persona
particolarmente competente".
Lei ha annunciato di aver ridotto il deficit del Policlinico
nel 2006 del 25 per cento, portandolo a 110 milioni di euro. Le
condizioni dell'ospedale però lei stesso le ha denunciate a vari
ministeri. Come mai il rettore dell'Università la Sapienza le ha
appena riconosciuto un incentivo sugli obiettivi di 62 mila euro?
"Io prendo come il direttore generale di Tor Vergata, 207
mila euro lordi l'anno. Mia moglie, medico di direzione sanitaria,
come consulente del Policlinico per il controllo della gestione
dell'ospedale guadagna 107 mila euro lordi. Per questo incarico ci
siamo trasferiti apposta da Bologna. Lavoro con lei dal 1974 e si
sapeva che chi compera Montaguti compera anche Daniela Celin. Il mio
contratto prevede la possibilità di un incentivo del 30 per cento
sullo stipendio ogni sei mesi. Ho rinunciato ai primi due incentivi.
Dopo 17 mesi di incarico ho presentato una relazione all'organo di
indirizzo e i componenti, tra cui il preside di Medicina Luigi
Frati, il professor Mirabelli ex vicepresidente della Corte
Costituzionale, il professor Baravelli della Bocconi, hanno
stabilito che ho raggiunto obiettivi assolutamente adeguati per il
periodo a cui si riferiscono".
Secondo lei è un giusto compenso?
"Io l'ho anche chiesto al rettore della Sapienza, Renato
Guarini, se riteneva che avessi raggiunto gli obiettivi. Lui ha
detto di sì".
L'ultimo
sfregio alla verità
Daria Bonfietti
Abbiamo vissuto una nuova giornata
di delusione in questa tormentata vicenda giudiziaria della strage di
Ustica: la Cassazione ha respinto il ricorso della Procura Generale avverso
alla sentenza della Corte d'assise d'appello che assolveva per insufficienza
di prove i generali al vertice dell'aeronautica militare nel giugno 1980. Si è trattato di una discussione paradossale in quanto i generali dovevano
rispondere di alto tradimento, un reato che con una delle famigerate leggi
ad personam della maggioranza berlusconiana è stato abrogato: i difensori
degli imputati l'hanno definito un processo di serie C. Anche questi
paradossi danno l'immagine di una vicenda troppo tormentata. Di una verità
che fatica oltre ogni misura a emergere completamente. Bisogna ricordare che a venti anni dalla tragedia il giudice Priore aveva
traccciato un primo panorama dell'accaduto: «l'incidente al DC9 è occorso a
seguito di azione militare di intercettamento, il DC9 è stato abbattuto, è
stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un'azione, che è stata
propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di
polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati
violati i confini e i diritti. Nessuno ha dato la minima spiegazione di
quanto è avvenuto». Aveva inoltre delineato un inquietante scenario di
depistaggi e di reati contro la verità; molto è andato perduto ed è rimasto
soltanto il reato di alto tradimento per i vertici dell'aeronautica. Davanti alla Corte d'Assise di Roma si è svolto un primo processo molto
lungo, articolato, con il dibattito fra molti testi, con una conclusione che
attestava che il reato era stato commesso, anche se poi assolveva gli
imputati per prescrizione. Inaccettabile è stato il processo in Corte d'appello, un processo
affrettato, di poche udienze, senza escussione di testi. Si è intervenuti
con molta rapidità su un precedente dibattimento che aveva approfondito ogni
aspetto. Una sentenza già scritta ha smantellato tanto lavoro. E altrettanto
inaccetabili sono state le motivazioni, contradditore, non congrue con il
pur misero dibattimento. Era questo procedimento che pensavo si potesse
cancellare: perché c'è stato un progressivo allontanamento della vicenda
giudiziaria dalla verità. La tragedia, le vittime, l'impegno per la verità,
anni di lavoro degli inquirenti sono svaniti poco alla volta dalle aule. Non cambia molto un'assoluzione per prescrizione da un'assoluzione per
insufficienza di prove. Penso che si può esserne sollevati, ma nessuno a
ragione può andarne fiero. Nessuno può cantare vittoria. E' la verità che
continua a mancare in questa giornata, ed è umiliante se pensiamo che
potrebbe essere l'ultima giornata della vicenda giudiziaria. Rimangono le
ricostruzioni della sentenza ordinanza di Priore, rimangono le rogatorie
internazionali a cui stati amici e alleati non hanno dato risposte. Bisogna trovare ancora la forza per cercare. Ma se può essere finita la
vicenda giudiziaria bisogna considerare finito anche l'alibi dietro il quale
troppe volte il mondo della politica si è trincerato. La storia non la può
scrivere la magistratura da sola: ognuno deve fare la sua parte, serve un
intervento vero delle istituzioni. Perché continuo a pensare che Ustica sia
un grande problema di dignità nazionale con il quale dobbiamo continuare a
fare i conti.
Tutti i nodi irrisolti della nuova-vecchia Telecom
Italia
Quattro mesi dopo le dimissioni di Tronchetti Provera, le nuove sfide della
convergenza e il che fare del più grande gruppo di telecomunicazioni
italiano. Sotto la presidenza di Guido Rossi
F. C.
Sono passati esattamente quattro
mesi da quando, l'11 settembre, Marco Tronchetti Provera propose, e il
consiglio di amministrazione di Telecom Italia approvò, un'«operazione di
riorganizzazione mediante scorporo dei rami d'azienda relativi alla rete
fissa locale e al business di telefonia mobile nazionale». A seguire ci fu
la violentissima polemica con Romano Prodi e il 15 settembre le dimissioni
dello stesso Tronchetti Provera da presidente, sostituito da Guido Rossi. Da
allora il gruppo dirigente è stato riorganizzato e altri problemi, ultimo il
WiMAX, attendono soluzione.
Tre almeno: la più pesante è la vicenda giudiziaria della banda degli
spioni. Telecom rivendica di essere parte lesa e l'ordinanza dei giudici lo
riconosce. La conclusione processuale è attesa con ansia, come un peso da
cui infine liberarsi. Nella gestione di Rossi sono anche cadute le
lamentazioni alla Berlusconi contro i giornali e i gruppi editoriali che «ce
l'hanno con noi». In audizione al Senato i rappresentanti di Telecom Italia
hanno dichiarato ufficialmente che la riassunzione del Tavaroli già
licenziato venne sollecitata dall'allora governo Berlusconi. Nessuno dei
senatori ritenne nell'occasione di chiedere nomi e cognomi. E nessuno di
quelli che hanno accusato Prodi di ingerenza si è troppo indignato perché
Gianni Letta, o chi per lui, interferisse così pesantemente nella gestione
di un'impresa privata. Anche in questo caso lo spettro del terrorismo sembra
azzerare le intelligenze di illustri commentatori. O forse si trattava solo
di anti-ulivismo preconcetto.
Poi c'è il problema del principale azionista. Che è Olimpia, dove stanno
anche i Benetton, e più in su Pirelli e lo stesso ex presidente. Su questo
terreno è impossibile, allo stato delle informazioni, fare previsione
alcuna, ma, visto l'uomo, è difficile immaginare Tronchetti Provera a far
vita da pensionato e di semplice investitore che incassa i dividendi,
sperando prima o poi di coprire l'indebitamento.
La terza questione riguarda il piano industriale e soprattutto gli
investimenti, ormai indilazionabili, per la rinnovata rete fissa tutta
digitale (il famoso NGN, "Next Generation Network"), analogamente a quanto
stanno facendo i concorrenti stranieri. Di tale Ngn la tecnologia WiMAX
dovrà far parte obbligatoriamente, perché offre dei vantaggi anche a chi già
porta il doppino di rame nelle case. Una banda davvero larga infatti, ed
estesa a tutti, richiede anche nelle città un potenziamento delle reti
attuali, accorciando la lunghezza tra le centraline di strada e le case.
Dunque anche a Telecom Italia converrà coprire senza fili interi quartieri.
Quanto al governo del gruppo (che ormai, chissà perché viene chiamato «governance»)
e alla sua struttura, Tronchetti Provera pensava di spaccare Telecom Italia
in diverse società anche per valorizzarle separatamente, il che, nel
linguaggio dell'economia industriale, significa venderle a pezzi come faceva
il leggendario Edward Lewis di Pretty Woman (Richard Gere). Ora invece la
strada scelta è la divisionalizzazione: attività separate funzionalmente e
relativamente indipendenti, anche per rispettare le richieste dell'Autorità
delle comunicazioni. Sembra che saranno quattro le divisioni, a dipendere
dall'attuale ad Riccardo Ruggiero, il quale a sua volta, in organigramma,
resta sotto il vicepresidente esecutivo Carlo Buora che ha abbandonato i
precedenti incarichi in Pirelli, risolvendo un potenziale conflitto di
interessi. Dopo gli scontri, tra i due è armistizio.
Birra
La Heineken di
Messina annuncia la chiusura
In via di chiusura lo stabilimento
Heineken di Messina. Lo annuncia Ivan Comotti della Flai-Cgil nazionale: «Da
diverso tempo - ha spiegato - le Rsu e i sindacati territoriali chiedono un
confronto sugli investimenti del gruppo nello stabilimento e nella regione
Sicilia, ma l'azienda ha dilatato i tempi fino ad annunciare la chiusura». Lo
stabilimento occupa 53 persone, imbottiglia circa 500 mila all'anno di birra di
cui circa 400 mila per il mercato siciliano. Il sindacato sta definendo una
convocazione urgente del coordinamento nazionale. Il coordinamento nazionale e
le segreterie di Fai, Flai e Uila hanno rinnovato a settembre dello scorso anno
l'integrativo aziendale, approvato da tutti i lavoratori degli stabilimenti e
della sede, e non erano emersi in quella sede segnali di criticità alcuna
sull'attuale collocazione produttiva del gruppo.
Campari
Chiude l’impianto di Sulmona
A rischio 101 dipendenti
La Campari-Crodo ha annunciato la
chiusura dello stabilimento di Sulmona dove lavorano 101 dipendenti. Il gruppo,
con una nota, ha dichiarato la «volontà di trasferire tutta la produzione in
altri siti produttivi, con la conseguente cessazione di quelle attività». Lo
stabilimento di Sulmona, ricorda la società, era entrato a far parte del gruppo
Campari con l'acquisizione Bols del 1995 e «non ha raggiunto nella sua storia un
livello di efficienza accettabile, nonostante tutti gli investimenti, i
trasferimenti di produzioni e gli sforzi, risultati vani di trovare nuove
opportunità produttive anche per conto terzi».
11 gennaio
Cinque anni di illegalità
Centinaia di proteste per il quinto anniversario del centro di detenzione
per presunti terroristi a Guantanamo
Cinque anni dopo, i detenuti sono circa la
metà. Ma il campo di detenzione di Guantanamo, all’interno della base
statunitense a Cuba, c’è ancora e per il momento non è in programma la
sua chiusura. E proprio in coincidenza con il quinto anniversario dei
primi arrivi di presunti terroristi, oggi, 11 gennaio, sono previste in
tutto il mondo centinaia di manifestazioni per chiedere che i circa 400
detenuti di Guantanamo siano rilasciati, o che almeno vengano accusati
di qualcosa di preciso, con un processo regolare. Veglie, proteste
davanti alle ambasciate Usa, travestimenti con le tipiche tute arancione
dei detenuti, la “mamma della pace” Cindy Sheehan a protestare
all’esterno della base. Ma anche una lettera indirizzata a Tony Blair.
Mittente: un bambino di 10 anni figlio di un detenuto a Guantanamo, che
al primo ministro britannico chiede “Perché mio padre è in prigione?”.
Le
proteste. Nella lettera, il piccolo Anas al-Banna accenna a una
missiva già spedita ma rimasta senza risposta: “Perché mio padre è
lontano, in quel posto chiamato Guantanam (sic) Bay? Non vedo mio padre
da tre anni, mi manca tantissimo. E so che non ha fatto niente perché è
un brav’uomo. Spero che questa volta lei mi risponda”, scrive il bambino
figlio di Jamil al-Banna, un giordano che risiede in Inghilterra,
arrestato nel 2002 in Gambia insieme a un amico iracheno, durante un
viaggio di lavoro, e spedito a Guantanamo come presunto terrorista.
Giovedì 11 gennaio Anas sarà all’esterno di Downing Street con la madre,
mentre davanti all’ambasciata statunitense a Londra centinaia di
manifestanti si inginocchieranno con indosso la tuta arancione dei
detenuti. Un’iniziativa simile sarà organizzata da Amnesty International
a Roma, in piazza di Pietra, alle 17.30. Altre manifestazioni sono
previste a New York, Sydney e decine di altre città negli Stati Uniti,
in Gran Bretagna e in Italia.
La
Sheehan a Cuba. A Cuba, nel frattempo, è già arrivata Cindy Sheehan
insieme ad altri undici attivisti tra cui Asif Iqbal, uno dei tre ex
prigionieri britannici la cui storia ha ispirato il film “The Road to
Guantanamo”. Oggi il gruppo sarà all’esterno della base Usa. Nei
giorni scorsi, la Sheehan ha definito i componenti dell’amministrazione
Bush “nemici dell’umanità”, sostenendo che il suo viaggio vuole far
conoscere “le barbare attività di Guantanamo” e spingere il nuovo
Congresso di Washington, controllato dai democratici, a contestare la
politica di detenzione a tempo indefinito voluta dall’amministrazione
Bush. La visita della Sheehan, che ha anche chiesto la fine dell’embargo
commerciale statunitense su Cuba, è stata accolta con reazioni miste dai
rappresentanti dei dissidenti del regime di Castro. Miriam Leiva,
un’attivista dei diritti umani dell’isola, ha detto che la Sheehan è
benvenuta, ma che avrebbe anche potuto dire qualcosa sui 280 detenuti
politici nelle carceri cubane.
Tutto
da rifare. Ma nonostante i ripetuti appelli internazionali e le
centinaia di manifestazioni, la chiusura di Guantanamo non sembra affatto
vicina. Nel centro di detenzione sono rinchiusi 395 detenuti, 11 dei quali
ancora in sciopero della fame. In questi cinque anni sono stati rilasciati
379 prigionieri, mentre altri 10 detenuti avrebbero dovuto essere processati
davanti alle corti militari istituite dall’amministrazione Bush. Nel giugno
scorso la Corte Suprema dichiarò però incostituzionali questi procedimenti,
ordinando che i detenuti venissero processati davanti a una corte penale
statunitense. Ma prima delle elezioni di novembre, quando il Congresso era
ancora repubblicano, l’amministrazione Bush è riuscita a far approvare il
Military Commissions Act, legittimando in sostanza quello che per la Corte
Suprema era incostituzionale. Al momento, la situazione è in stallo. La Casa
Bianca vorrebbe processare un’ottantina di detenuti in queste corti
militari, che dovrebbero costare oltre 125 milioni di dollari (96 milioni di
euro). Quelli che lottano per la chiusura di Guantanamo, in pratica, sanno
che è tutto da rifare. “Spero”, ha scritto Michael Ratner, direttore del
Center for Constitutional Rights, “che non ci vogliano altri cinque
anni”.
10 gennaio

Cassazione, sentenza
definitiva a 27 anni dalla tragedia del DC9
Assolti i generali dell'Aeronautica. La rabbia dei parenti delle
vittime
Ustica, una strage senza colpevoli
Il governo: "Ci sarà un risarcimento"
In Finanziaria una norma che garantisce
un indennizzo: "Come per i morti del terrorismo"
Il
relitto del DC9 dell'Itavia ricostruito in un hangar
ROMA -
La strage di Ustica non ha colpevoli. A 27 anni dall'esplosione
in volo del DC9 dell'Itavia diretto a Palermo, la prima sezione
penale della Corte di Cassazione ha impiegato cinque ore per
dichiarare definitivamente innocenti i due generali
dell'Aeronautica accusati di aver depistato le indagini. Resta
preclusa quindi la possibilità di riaprire il processo anche per
la parte relativa ai risarcimenti civili. La Suprema Corte ha
deciso che i familiari delle 81 vittime non avranno alcun
indennizzo dallo Stato. Ma il governo, pur rispettando la
sentenza, assicura che il risarcimento ci sarà: è stata inserita
in Finanziaria una norma che equipara i parenti delle vittime
della strage ai familiari delle vittime del terrorismo,
garantendo così un risarcimento. Detto questo, però - si osserva
in ambienti di Palazzo Chigi - dal governo non si entra nel
merito della sentenza e si sottolinea il "massimo rispetto" per
il lavoro della magistratura.
Familiari, stupore e rabbia. Tra i familiari delle
vittime, un senso profondo "di amarezza e indignazione per ciò
che è accaduto in questa vicenda anomala". Così l'avvocato
Alfredo Galasso, legale di alcuni parenti delle vittime di
Ustica, commenta il verdetto emesso oggi dalla Corte di
Cassazione: "Lo Stato a livello di tutte le sue articolazioni
consegna alla storia come mistero una delle più grandi tragedie
italiane. In 27 anni non si è riusciti a raggiungere la verità".
Il legale, inoltre, ribadisce di essere "convinto che si trattò
di una 'pirateria' aerea. La verità del giudice Priore è la
nostra verità".
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Il nostro paese finisce sotto la lente d'ingrandimento dei giudici europei. La causa è la non corretta applicazione di una direttiva del 1999 per ridurre l'impatto ambientale
«Rivedere al più presto la normativa e intervenire sull’eco-tassa per lo smaltimento in discarica». E’ questo il commento di Roberto Della Seta, presidente nazionale di Legambiente, a proposito della procedura d’infrazione avviata dalla Commissione Ue nei confronti dell’Italia per la non corretta applicazione della direttiva del 1999 sulle discariche.
«E’ l’ennesimo richiamo di Bruxelles al nostro Paese per la mancata applicazione di normative comunitarie sui rifiuti – dice Della Seta -. Una buona occasione per affrontare anche il tema del basso costo di smaltimento in discarica, che caratterizza in particolare gli impianti del centro sud. Dopo aver risolto l’annosa questione degli incentivi alle fonti assimilate, che renderà certamente più costoso l’incenerimento dei rifiuti, - conclude il presidente di Legambiente - occorrerà intervenire anche sul sistema di tassazione delle discariche stabilito da una legge del 1995, per evitare che torni conveniente l’interramento dei rifiuti e rendere più competitivo il riciclaggio da raccolta differenziata».
Ennesimo massacro in Iraq
Circa 350 miliziani uccisi a Najaf dall'esercito Usa e da quello iracheno