ARCHIVIO MAGGIO 2005
31 maggio
Darfur:
denuncia stupri etnici, arrestato il capo di Medici senza frontiere
di red
Ancora
non è chiaro se sia stato solo fermato per un interrogatorio oppure se sia
rinchiuso in carcere. Fatto sta che Paul Foreman, un responsabile della ong
Medici senza frontiere si trova attualmente nelle mani delle forze di
sicurezza del Sudan. Contro il capo di Msf nel paese africano nei giorni scorsi
era stato spiccato un mandato di cattura perché colpevole di aver pubblicato un
rapporto su centinaia di casi di violenza sessuale nella regione del Darfur. Se
riconosciuto colpevole Foreman rischia fino a tre anni di prigione.
A diffondere la notizia è stata la stessa ong che ha una base
operativa a Khartoum. Il procuratore generale sudanese ha spiegato all’agenzia
di stampa Reuters che il procedimento penale avviato contro la sezione olandese
di Msf è in relazione al rapporto “Lo schiacciante peso degli stupri: violenza
sessuale nel Darfur”. Pubblicato a marzo, nel dossier sono state raccolte le
testimonianze di diversi medici su 500 casi di stupro compiuti in quattro mesi e
mezzo nella tribolata regione sudanese. La tesi del procuratore è che il
rapporto «è falso». «Abbiamo emesso un mandato di cattura dopo averne parlato
con la Commissione per gli aiuti umanitari», ha detto il ministro della
Giustizia, Mohamed Farid. La Commissione di cui ha parlato il ministro è un
organismo governativo che cura i contatti con le ong e le agenzie internazionali
che operano nel paese. Il governo di Khartum aveva negato più volte gli addebiti
e chiesto a Foreman una documentazione dettagliata che comprovasse le accuse
contenute nel rapporto: «Se non ci forniscono i certificati medici che
testimoniano le violenze, li porteremo di fronte a un tribunale e lì dovranno
rispondere di falso», ha chiarito Farid aggiungendo che pagando una cauzione
l'esponente di Msf sarà rilasciato. Ma in attesa del processo non potrà lasciare
il Sudan.
Nel dossier si
fa riferimento in particolare alle violenze commesse dalle milizie arabe
Janjawid, responsabili di incursioni e attacchi nei villaggi del Darfur e
sospettate di essere il braccio armato di Khartoum ma la minoranza islamica che
controlla i posti del potere ha sempre negato con forza le denuncie di violenze
sessuali, passando spesso a tacitare con la forza chi ne parla.
Torino, cento ginecologi per il sì
di red
Cento
firme, quasi un intero ospedale. Al Sant'Anna di Torino, il più grande complesso
ostetrico ginecologico italiano, oltre 100 ginecologi (su un totale di 125) di
cui 44 donne (su un totale di 48) hanno presentato un appello per invitare i
cittadini a votare, il prossimo 12 e 13 giugno, per modificare la legge 40.
Durante la presentazione dell'appello, i medici dell’ospedale
torinese, che ospita ogni anno oltre 8500 parti, hanno spiegato come, dopo
l’entrata in vigore della legge, i tassi di successo complessivi delle tecniche
di fecondazione assistita siano diminuiti di almeno il 15%, con un raddoppio dei
tentativi falliti: mancano embrioni e sono aumentate le gravidanze trigemellari
a causa dell'obbligo di impiantare tutti gli embrioni ottenuti.
«Si tratta di
non rimanere fuori dall'Europa e dalla ricerca scientifica internazionale -ha
sottolineato il coordinatore dell'iniziativa, Silvio Viale, ginecologo e
presidente dell'associazione radicale Adelaide Aglietta - La stragrande
maggioranza dei medici italiani è a favore dei referendum, come dimostrano
l'alto numero delle adesioni ottenute. Questo perché con la legge 40 avremo la
peggiore legislazione europea». Una legge da cambiare. Ecco perché, se i vescovi
boicottano il voto, i ginecologi invitano ad andare alle urne: molte donne non
avranno dubbi su chi seguire.
27 maggio
C'è
pollo e pollo
di Bruno
Ugolini
È
l'ora dei polli. I volatili sono comparsi, improvvisamente, ad certo punto
dell'alato, applaudito, spesso condivisibile, discorso di Luca Di Montezemolo,
all'assemblea confindustriale. Il breve passaggio, tra Irap da portare a casa e
rendite da denunciare, era riservato ai sindacati. Non intesi come polli da
spennare. Trattavasi di una nobile citazione letteraria dai "Promessi sposi"
d'Alessandro Manzoni. Ha detto Luca: "Dobbiamo evitare di fare, noi e voi
sindacati dei lavoratori, la fine dei polli di Renzo, che si beccavano
ferocemente mentre erano portati al macello".
Citazione elegante, ma con qualche imprecisione. Non trattavasi,
nel testo manzoniano, di polli, bensì di capponi e non erano destinati al
macello bensì alla pentola dell'Avvocato Azzeccagarbugli dove si era recato il
povero Renzo Tramaglino.
C'è poi un altro problema più complicato. Nell'immaginario
montezemoliano tali volatili sarebbero tutti eguali e destinati ad eguale sorte.
Ma le cose oggi stanno proprio così? Possiamo davvero dire che Cipputi, o
l'operaio metalmeccanico della Fiat o della Zanussi o d'altra piccola media
azienda abbia le stesse paure e melanconie di Pininfarina o di Della Valle? E
come prenderà Cipputi l'invito di Luca affinché capitale e lavoro guardino
insieme al futuro, accantonando però le piattaforme rivendicative poco
compatibili con la disastrosa situazione del Paese? Trattasi di polli (o
capponi) con la stessa vista sul futuro, con gli stessi contratti in scadenza,
con la stessa ansia da fine mese?
C'è poi da rilevare che in quelle citate pagine dei "Promessi
sposi" ad un certo punto compare un potente personaggio. E' quando Renzo
Tramaglino alla fine riesce a confidare le sue pene all'avvocato Azzeccagarbugli
e a spiegargli chi è il tiranno che insidia Lucia. Il giovane pronuncia un nome
e l'Avvocato s'irrigidisce, lo congeda, non vuole nemmeno più i capponi. Quel
nome è quello di Don Rodrigo.
Un sosia di quest'ultimo era seduto proprio davanti a Luca di
Montezemolo, all'assemblea della Confindustria, e sorrideva. Malgrado stesse
ascoltando una requisitoria che parlava anche molto di lui e delle sue colpe.
Sorrideva, come aveva fatto l'altra sera allo stadio d'Istanbul, sia pure
assistendo alla sconfitta del Milan e malgrado Ocse, Istat e chi più ne ha più
ne metta. Perché sorrideva? Forse pensava ai suoi polli. O presunti tali.
Amici miei
LORIS CAMPETTI
Il nemico del mio nemico è
amico mio. Tradotto: basta parlar male di Berlusconi e dei disastri economici
generati dalle politiche della destra per essere applauditi dal centrosinistra.
L'elenco degli amici si infittisce mano a mano che i conti italiani precipitano
e i mitici parametri europei vengono sfondati: Confindustria, Banca d'Italia,
Eurostat, Bce. E adesso anche l'Ocse torna utile per dire che così non si può
più andare avanti. Che l'economia italiana stia andando a rotoli non c'è dubbio,
persino Berlusconi è ormai costretto ad ammetterlo. Siamo in recessione, i
lavoratori dipendenti l'avevano già capito prima che lo decretasse l'Ocse.
L'Italia non è competitiva sui mercati mondiali, anzi ha perso in quattro anni
il 25% di competitività e anche questo lo si era intuito. Deficit e debito
pubblico vanno su, il prodotto interno lordo diminuisce insieme al potere
d'acquisto dei salari, come conferma l'ormai famosa «crisi della quarta
settimana», che vuol dire che in tanti non arrivano a fine mese a mettere
insieme il pranzo con la cena.
Fin qui siamo tutti d'accordo. Il problema nasce quando si
passa dalla diagnosi alla prognosi. Per l'Ocse il costo del lavoro in Italia è
troppo alto e dev'essere tagliato: ma non sarà che uno degli elementi della
specificità della crisi italiana - ben più grave di quella che attanaglia
l'intero vecchio continente - sta nella riduzione dei consumi provocata dalla
contrazione dei salari? E che consiglio è quello di abbassare il costo del
lavoro per recuperare competitività, quando si ha a che fare con paesi in cui
non ci sono limiti alla flessibilità e allo sfruttamento? Ci sarà sempre un
paese più a sud e più a est in cui il lavoro costerà meno e i diritti saranno
più compressi.
Poi, gli «amici» confindustriali dei nemici di Berlusconi
dicono che sì, il paese è in declino, le industrie chiudono e tra poco resteremo
competitivi solo con pizza e ombrellone (Tremonti permettendo e non vendendo le
spiagge). Certo, ma i padroni non hanno proprio nessuna responsabilità? Non sono
forse loro i maestri della finanziarizzazione e della delocalizzazione della
produzione verso lidi più ospitali, con meno lacci e lacciuoli?
Il paese in cui viviamo è più povero e più ingiusto di
quello, tutt'altro che idilliaco, ereditato da Berlusconi nel 2001. Un paese in
cui i lavoratori che al tempo del centrosinistra erano degli omissis ora vengono
colpevolizzati, su di loro e su quelli che una volta si chiamavano ceti medi si
scaricano le conseguenze della crisi per salvaguardare e accrescere i privilegi
delle classi più agiate, quelle che ci hanno ridotto in queste condizioni.
Flirtare con i tanti interessati suggeritori che sostengono una medicina
peggiore della malattia - più liberismo, più ingiustizie dunque, e anche minori
consumi - è un suicidio. Dagli amici ci guardi dio.
Ps. Secondo l'Ocse, prodigo di buoni consigli all'Italia
quanto preoccupato per il nostro futuro, le elezioni del 2006 potrebbero
rappresentare un ostacolo al consolidamento fiscale del «sistema paese». Detto
fatto: aboliamo le elezioni. Non dispiacerebbe neppure a Berlusconi.
Moratti, ultima riforma a sorpresa e per decreto
di red
Venerdì
sarà presentato in consiglio dei ministri l’ultima parte della riforma
della scuola targata Moratti, quella riguardante le scuole secondarie
superiori. Il provvedimento è da tempo nell’occhio del ciclone. Negli
ultimi mesi diverse bozze della riforma sono circolate alimentando le
polemiche e la confusione.
Fulvio Fammoni, segretario
nazionale della Cgil, ed Enrico Panini, segretario generale della
Flc-Cgil avvertono in una dichiarazione congiunta: «Apprendiamo dai
mezzi di informazione che il consiglio dei ministri, nella seduta di
venerdì 27 maggio, approverà lo schema di decreto legislativo relativo
al nuovo assetto della scuola secondaria superiore». Quale sia il testo
che sarà portato in Consiglio, esclusa una ristretta cerchia, nessuno sa
considerato che ormai siamo alla decima versione. Da ciò che si evince -
osservano comunque - non cambia la sostanza di un provvedimento da noi
già duramente contestato in relazione alle principali scelte di merito
(differenziazione della secondaria in percorsi paralleli e distinti;
forte indebolimento dell'asse tecnico; annullamento del ruolo e
dell'identità dell'istruzione professionale). La questione certa è che
venerdì prossimo, se il decreto legislativo sarà approvato, si consumerà
ciò che noi giudichiamo essere uno strappo istituzionale molto grave. Il
Governo, infatti - spiegano - presenta uno schema di Decreto legislativo
senza alcun confronto con le Confederazioni e i sindacati di categoria.
Infatti, l' ultimo incontro risale a molti mesi fa e poi più nulla. La
scuola diventa così una proprietà privata della maggioranza e del
Ministro per cui non si avverte neanche l'esigenza di dare sostanza al
confronto con le parti sociali».
Il provvedimento, del quale
sono state sfornate una decina di versioni, è ancora in queste ore alle
limature finali, soprattutto nella parte che riguarda la copertura
finanziaria (già ipotizzata in una delle ultime bozze in circa 93
milioni di euro, oltre 24 mln per il 2006 e più di 68 mln dal 2007) da
concordare con il dicastero dell'Economia. Uno dei punti più controversi
rimane la divisione in due canali «di pari dignità»: i licei, che hanno
un carattere maggiormente propedeutico all'università, e l'istruzione e
formazione professionale che è più mirata all'immediato ingresso nel
mondo del lavoro. Il canale della formazione professionale è di
competenza delle regioni stabilendo però livelli essenziali di durata
del percorso, prestazioni e qualificazione dei docenti. Le Regioni
perciò saranno autonome nella gestione e nell'organizzazione
dell'offerta formativa, ma all'interno di standard nazionali fissati in
sede di conferenza Stato-Regioni. Altri problemi da risolvere riguardano
l’istituzione di campus che, si legge all’art.1, dovrebbero essere
organizzati «Per la realizzazione delle finalità dell'intero sistema
educativo e per l'attuazione di un forte legame con il mondo del lavoro,
dell'economia e delle professioni».
Un trattamento «sicuramente
gravissimo sul piano istituzionale», secondo la Cgil, è stato riservato
alle Regioni: «Nessun incontro con le Regioni su una materia che vede
una loro competenza costituzionale e un loro interesse oggettivo molto
forte». «Ora ci sono, dopo le elezioni dello scorso aprile, i nuovi
Consigli regionali, i nuovi Presidenti e, in molti casi, i nuovi
Assessori e non si avverte l'esigenza - fanno notare Fammoni e Panini -
di un incontro vero prima del Consiglio dei Ministri! Insomma, le
Regioni sono relegate nei loggioni con tutti gli altri soggetti in
attesa che - concludono - chi può decida per poi graziosamente sentire
le osservazioni». L’assessore della regione toscana all'Istruzione,
formazione e lavoro Gianfranco Simoncini ha scritto una lettera aperta
al ministro Moratti per chiedere di realizzare subito incontri tecnici
bilaterali tra Ministero della Pubblica Istruzione e Regione Toscana per
definire le intese necessarie sulla programmazione scolastica dopo che
la corte costituzionale ha attribuito competenze in materia alle
regioni. Simoncini ricorda come il silenzio che il ministero ha fatto
calare sull’argomento sia dannoso e rischi di sfociare in un conflitto
istituzionale.
Anche i Ds si fanno
sapere indignati dell'atteggiamento del ministro e del modo in cui la
riforma viene portata avanti: «Apprendiamo che il ministro Moratti
intende far approvare dal Cdm di venerdì l'ennesima bozza di decreto
sulla scuola superiore. Sarebbe un atto di arroganza, non solo rispetto
alle forze politiche di opposizione, ma anche alle forze sociali che sul
quel decreto hanno avanzato serie e motivate obiezioni».Lo afferma
Andrea Ranieri, responsabile Scuola, Università e Ricerca della
Segreteria nazionale della quercia. «Ma il fatto più grave - prosegue -
è che l'eventuale approvazione di quel testo costituirebbe un pesante
strappo istituzionale con le regioni, che su questo decreto devono
esprimere non solo un parere, ma sono piuttosto chiamate a una intesa.
Una approvazione di un testo del decreto mai presentato alle regioni
sarebbe viziata da palese incostituzionalità. Un'altra scelta
avventurista di un governo morente - conclude Ranieri - per spingere la
scuola pubblica italiana nel caos». |
BOLIVIA
Corteo contadino, migliaia in piazza
Migliaia di contadini
boliviani, arrivati ieri a La Paz da ogni parte del paese, hanno posto sotto
assedio plaza Murillo, su cui si affacciano il palazzo di governo ed il
Congresso nazionale, chiedendo la nazionalizzazione degli idrocarburi e la
convocazione di una Assemblea costituente. Le colonne di manifestanti sono
entrati in città dal basso e dall'alto portando striscioni, cartelli e la
tradizionale whipala,
bandiera multicolore indigena. Reparti della polizia hanno bloccato con l'uso di
lacrimogeni, idranti e sfollagente l'avanzata dei dimostranti che puntavano ad
entrare sulla piazza. La protesta dei contadini è appoggiata da migliaia di
abitanti di El Alto, la megalopoli dove si trova l'aeroporto di La Paz.
Scontri nell'est, almeno 18 morti
Sono almeno 18 i
civili uccisi e undici quelli rimasti feriti nella notte tra lunedì e martedì
nel corso di un attacco compiuto per rappresaglia contro un piccolo villaggio
nei pressi di Nindja, località del Sud Kivu (nell'est della Repubblica
democratica del Congo) a circa 80 chilometri dal capoluogo Bukavu. Secondo fonti
contattate sul posto dall'agenzia missionaria
Misna
l'intera area di Nindja è stata teatro l'altroieri di violenti combattimenti tra
uomini dell'esercito regolare congolese ed elementi legati ai cosiddetti
Interhamwe. L'esercito congolese è impegnato da tempo in operazione di contrasto
ai molti gruppi armati che non sembrano aver alcuna intenzione di deporre le
armi e partecipare ai programmi di reinserimento voluti da Kinshasa e dalla
comunità internazionale.
26 maggio
Nel rapporto annuale dell'organizzazione
internazionale
dito puntato sulla violazione dei diritti degli immigrati
Amnesty bacchetta le leggi italiane
"La Bossi-Fini deporta i rifugiati"
"Norme
vaghe contro tortura, pena di morte e commercio di armi"

di CRISTINA NADOTTI
I
rifugiati della Cap Anamur
furono respinti dall'Italia
ROMA - Un paese che non apre le sue porte a chi chiede asilo,
dove le leggi per garantire i diritti umani, all'interno dei confini
o all'estero, possono sempre aspettare, perché prima si
ammorbidiscono quelle contro il commercio di armi. Un paese che le
organizzazioni dei diritti umani tengono sotto osservazione perché
"deporta decine di cittadini stranieri da Lampedusa". Nella sezione
dedicata all'Italia, il rapporto annuale sui diritti umani di
Amnesty International punta il dito soprattutto contro la
Bossi-Fini, la legge sull'immigrazione, e sottolinea le proposte di
legge o miglioramenti di quelle esistenti sui diritti umani, che
attendono di essere approvate.
"Permane un quadro legislativo insufficiente, che di fatto impedisce
l'effettivo esercizio del diritto di asilo", dice Amnesty in
apertura del capitolo italiano e sottolinea come sia
l'organizzazione non governativa indipendente, sia l'Alto
commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, hanno più volte
sollevato presso il governo "preoccupazioni sulla tutela legale,
l'identificazione, il trattenimento e le procedure di asilo".
Accoglienza ai rifugiati. Il rapporto ricorda i casi della
nave Cap Anamur, a bordo della quale 37 disperati sono stati tratti
in salvo, ma poi espulsi ( tranne uno) dal Governo italiano, e la
"deportazione" degli immigrati verso Egitto e Libia, respingimenti
avvenuti, secondo Amnesty "in violazione delle principali
convenzioni in materia di diritti umani e dei rifugiati".
Il Governo non solo ha operato in contrasto con leggi
internazionali, ma quando Amnesty ha chiesto di poter vedere i
centri per stranieri in Italia ha fatto cadere nel nulla la
richiesta. "Il ministro dell'Interno Pisanu non ha risposto alla
lettera della Segretaria generale di Amnesty International che, il
15 marzo 2005, chiedeva l'accesso dei ricercatori
dell'organizzazione ai centri". Un modo di fare reiterato, poiché
non ha voluto neanche fornire maggiori dettagli sulla natura
giuridica e sul contenuto degli accordi di cooperazione con la
Libia.
Tortura, pena di morte e cooperazione internazionale.
L'atteggiamento del Governo è passivo riguardo all'approvazione di
miglioramenti delle leggi per la lotta alla tortura, alla pena di
morte e per la cooperazione con la Corte penale internazionale. In
pratica non si perfezionano le leggi per l'applicazione di
protocolli sottoscritti a livello internazionale, oppure, come nel
caso della tortura, si inseriscono emendamenti che lasciano
scappatoie a chi la utilizzasse.
Commercio di armi. L'Italia nel 2004 ha venduto armi per 1,5
miliardi di euro, aumentando del 16 per cento le autorizzazioni alle
esportazioni di armi da guerra. In pratica armiamo paesi come
Malaysia, Turchia e Cina, dove i diritti umani sono sistematicamente
calpestati, oppure alimentiamo conflitti internazionali, come quello
tra India e Pakistan.
Amnesty denuncia poi una "strategia di svuotamento della legge 185
del 1990 (che disciplina il commercio di armi n.d.r.) e di
non applicazione del codice di Condotta europeo" oltre a una
"volontà del Governo di modificare la stessa legge e di rendere meno
trasparenti le informazioni comunicate al Parlamento, per esempio
quelle sulle transazioni bancarie".
Le buone notizie. Una sola: il 6 aprile 2005 il Parlamento ha
approvato un contributo di 120 mila euro per il Fondo delle Nazioni
Unite per le vittime di tortura. Il nome dell'Italia compare
nell'elenco delle buone notizie, mese per mese, del rapporto annuale
di Amnesty altre tre volte, ma non ne può andare fiera. Il nostro
paese è citato perché il Parlamento Europeo è intervenuto, lo scorso
aprile, contro le espulsioni collettive di cittadini stranieri da
parte dell'Italia, e perché la Corte Europea ha accolto il ricorso
di cittadini stranieri espulsi da Lampedusa.
Buona notizia, poi, quella che la compagnia aerea
Blu Panorama, dopo le sollecitazioni di Amnesty e altre associazioni
per i diritti umani, non ha più messo a disposizione i suoi aerei
per le deportazioni dei cittadini stranieri. Davvero poco per
consolarsi.
23 maggio
Dieci ricercatori e accademici italiani
firmano una lettera aperta
a Ciampi e alle massime autorità dello Stato, i vertici Rai e
Mediaset
Scienziati, sciopero della fame
"Manca informazione sui referendum"
Emma Bonino
ROMA - Uno sciopero della fame, per chiedere iniziative
immediate contro la "mancata informazione" sui referendum dei
prossimi 12 e 13 giugno. E' la forma di protesta che adotteranno,
dalla mezzanotte di oggi, dieci ricercatori, scienziati e accademici
italiani, che hanno scritto una lettera al Presidente della
Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, al premier Silvio Berlusconi, ai
presidenti di Camera e Senato, ai presidenti delle commissioni di
Vigilanza Rai e dell'Authority per le telecomunicazioni, Claudio
Petruccioli e Corrado Calabrò, al direttore generale della Rai
Flavio Cattaneo e al presidente di Mediaset Fedele Confalonieri. Una
richiesta di intervento per "restituire ai cittadini italiani" la
possibilità di esercitare "il diritto politico".
"Chiediamo - scrivono i professori - che siano immaginate ed
immediatamente inverate le misure compensative indispensabili per
evitare di accettare a priori che il risultato referendario sia
fondato su una gara falsata, antidemocratica". I Radicali si
associano all'iniziativa, e Marco Pannella paragona i firmatari
della lettera ai dodici professori universitari che si rifiutarono
di giurare al regime fascista.
Firmano la lettera Gilberto Corbellini (ordinario di Storia della
medicina a Roma), Luigi Montevecchi (medico), Demetrio Neri
(Ordinario di Bioetica a Messina, membro del Comitato nazionale per
la bioetica), Maurizio Mori (membro del Direttivo della
International association of bioethics), Adolfo Allegra (direttore
del Centro Andros, Palermo), Anna Pia Ferraretti (ginecologa,
componente del Direttivo della Società europea per la riproduzione e
la sterilità), Luca Gianaroli (direttore scientifico della Società
italiana studi di medicina della riproduzione), Claudio Giorlandino
(direttore Centro Artemisia), Marcello Crivellini (professore di
organizzazione sanitaria a Milano), Fabrizio Starace (direttore area
sociosanitaria ASL Caserta 2, docente di Epidemiologia
comportamentale a Napoli).
I professori auspicano - e suggeriscono - che scattino le sanzioni
delle autorità di controllo, che ci siano interventi normativi, che
il capo dello Stato invii messaggi alle Camere. "Sappiamo che si
tratta di una iniziativa anomala - sottolineano due dei firmatari,
Gilberto Corbellini e Luigi Montevecchi, nel corso della conferenza
stampa presso la sede dei Radicali italiani - anche perché di solito
siamo abituati a poter parlare, ma evidentemente l'Italia è il
'malato d'Europa' non solo per l'economia, ma anche per alcune
elementari garanzie democratiche".
"Una mobilitazione di questo tipo dei ricercatori - afferma il
segretario dei Radicali italiani, Daniele Capezzone - è un evento
choc, che speriamo sia sentito come tale, e al quale confidiamo che
si risponda nell'immediato". Marco Cappato, segretario
dell'associazione 'Luca Coscioni', smentisce invece che la comunità
scientifica sia divisa sul referendum: "Esistono piuttosto dei casi
rari di individualità con ottimi rapporti finanziari coi poteri
politici che si pronunciano per l'astensione".
Emma Bonino attacca sulla questione del quorum, e spiega che in
qualità di presidente del comitato "Donne per il sì" ha chiesto un
incontro a Silvio Berlusconi. Per far sì che il referendum sia
valido - accusa Bonino - il quorum "è diventato del 53-54 per
cento", questo a causa, ad esempio, del fatto che dagli elenchi
degli italiani all'estero (tre milioni) non sono stati tolti i
"morti e fantasmi" che contribuirono a far fallire il quorum
all'ultima consultazione referendaria.
Bonino insiste: non solo le liste non sono state ripulite, ma non
viene fatta informazione ("Vorrei sapere che cosa ne sanno del
referendum i 140 mila cittadini italiani che stanno in Canada") e in
più non potranno votare tutti gli ambasciatori non inseriti
nell'Aire e i militari delle varie missioni italiane nel mondo.
Anche per questo Marco Pannella critica i due
schieramenti. "Mi auguro - dice - che nell'Unione sappiano che il 95
per cento dei loro militanti è sulle nostre posizioni". Mentre
Berlusconi è in qualche modo 'giustificato' ("La legge 40 l'ha
voluta, Gianni Letta l'aveva promessa ai vescovi"), ciò che emerge è
che l'unica presa di posizione che ha fatto parlare è quella di
Gianfranco Fini. Pannella auspica quindi che venga "qualche tributo
dallo schieramento democratico, anche perché farebbe notizia".
Eurostat: rapporto deficit-pil al 3,1%, debito al
106,6%. Sbagliate le stime del governo
di red
Dall’Europa
arriva la conferma della cattiva salute dei conti pubblici, con una
brutta figura anche per coloro che hanno fatto i conti, in quanto si è
rilevata «l'incoerenza tra i dati di cassa e di competenza, le
discrepanze statistiche nei conti pubblici». Sia nel 2003 che nel 2004
il rapporto deficit-pil italiano è stato del 3,1%. Già a metà marzo da
Bruxelles aveva preso con le pinze i dati e le previsioni prodotti dal
governo italiano.
Arriva ora la conferma che i
numeri allora non corrispondevano alla realtà: l’Italia infatti aveva
notificato un deficit pari al 2,9% del pil nel 2003 e al 3% nel 2004 ma
l’Ufficio statistico europeo non aveva convalidato le stime. Non solo:
l’Eurostat ha anche precisato che la revisione sull’entità effettiva del
rapporto deficit-pil è ancorta «provvisoria» e si attende ulteriori
informazioni da Roma relative ad altre voci dei conti pubblici. Come è
presumibile quindi la contabilizzazione di queste cifre potrebbe portare
«a un ulteriore revisione al rialzo del deficit del governo per il
periodo 2001-2004». L’Ufficio statistico europeo ha infatti sconfessato
il metodo di contabilizzazione di una parte della cartolarizzazione Scip
2 e degli introiti incassati dallo Stato dai concessionari d'imposta,
mentre ha deciso di fare rientrare il debito emessoda Infrastrutture spa
a favore del progetto Treno alta velocità nel debito pubblico.
Naturalmente l’Eurostat
ha dovuto rivedere al rialzo anche il rapporto debito-pil italiano sia
per il 2003 che per il 2004, portandolo rispettivamente al 106,5% e al
106,6%. Sconfessate le cifre fornite a suo tempo dal governo italiano,
che aveva notificato invece un debito pari al 106,3% del pil nel 2003 e
al 105,8% nel 2004. |
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Corruppe i giudici. Sette anni di carcere a
Previti
di red.
Sette
anni di reclusione a Cesare Previti per corruzione in atti giudiziari.
Con un lungo dispositivo i giudici della Corte d'Appello di Milano hanno
confermato la condanna dell’avvocato e senatore di Forza Italia
nell'ambito della vicenda Imi-Sir e lo hanno assolto, invece, per il
caso legato al Lodo Mondadori.
Rispetto alla sentenza di
primo grado, pene ridotte per tutti gli imputati: Previti da 11 a 7,
così come Attilio Pacifico. L'ex giudice Vittorio Metta, condannato in
primo grado a 13 anni, ha avuto 6 anni; l'ex capo dei gip di Roma,
Renato Squillante, condannato a 8 anni e 6 mesi in primo grado, ha avuto
5 anni di reclusione. Felice Rovelli, figlio del petroliere Nino,
condannato a 6 anni dal tribunale, ha avuto 3 anni di reclusione, mentre
sua madre, Primarosa Battistella, si è vista ridurre la condanna da 4
anni e 6 mesi a 2 anni di reclusione con la sospensione condizionale
della pena. Entrambi erano imputati solo per il filone Imi-Sir. Assolto
l'avvocato Giovanni Acampora (condannato in primo grado solo per il Lodo
a 5 anni e sei mesi e poi, nel maggio scorso, a 5 anni in appello per
Imi-Sir).
Per quanto riguarda il Lodo
Mondatori, invece, il giudice annulla tutte le condanne: «Il fatto non
sussiste», si legge nella sentenza. I giudici della corte d’Appello,
inoltre, hanno revocato la condanna degli imputati al risarcimento dei
danni a favore della parte civile Imi San Paolo (516 milioni di euro) e
del ministero della Giustizia (1 milione 290 mila euro), rimettendo le
parti al giudice civile per la determinazione dei risarcimenti.
Al centro dell'Imi-Sir-Lodo
ci sono le tangenti che sono state pagate a giudici romani per
influenzare l'esito di due diversi casi: l'assegnazione nella causa
civile Imi-Sir alla famiglia Rovelli di un maxi rimborso di 1000
miliardi lordi di lire e la sentenza per il controllo della Mondadori
nella cosiddetta «guerra di Segrate» tra Carlo De Benedetti e Silvio
Berlusconi, che favorì il gruppo dell'attuale presidente del Consiglio. |
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22 maggio
La paura fa 40
IDA DOMINIJANNI
Meno tre settimane al referendum, e il quorum non c'è
ancora. Fra lo strappo di Rutelli e la rabbia di Prodi, il segretario dei Ds ha
promesso la mobilitazione straordinaria del suo partito da qui al 12 giugno. Ci
contiamo, anche se gli argomenti di Fassino non sono propriamente galvanizzanti.
Ed è certo che le ultime decisioni della Margherita non aiutano né il quorum né
la mobilitazione. Del resto, di che stupirsi? La vicenda della legge sulla
procreazione assistita era stata profetica: dopo lo zelo speso da Rutelli per la
sua approvazione, solo gli ingenui o gli strateghi della domenica potevano
puntare sulle magnifiche sorti della lista unica. Tre settimane però sono poche
per rimontare otto o dieci punti di quorum, e pochissime per risalire l'abissale
distanza che il ceto politico ha messo fra sé e la società civile durante gli
otto anni di legiferazione contro il «far west procreativo». Il fronte teo-con
che nella provetta cerca ancora oggi la rivincita sull'aborto, ha buon gioco
nell'impazzare su una scena politica completamente mutata rispetto all'81.
Allora il circuito della rappresentanza era ancora in piedi e non poteva restare
sordo alle trasformazioni sociali, rivoluzione femminile in primo luogo. Oggi
quel circuito è spezzato e la società civile, tanto coccolata a parole da destra
e da sinistra nell'inconcludente transizione italiana, di fatto è lasciata a se
stessa e alle «guerre culturali» dei media. La politica è assente, spaventata
dalle poste in gioco bioetiche e bioscientifiche e perlopiù trincerata dietro
l'astensione e la libertà di coscienza: come se dinanzi alla sua stessa
trasformazione in biopolitica non avesse più niente da dire.
In tre settimane, bisognerà che il campo del sì ritrovi qualche parola
essenziale e comunicabile. Si sta profilando, nella campagna referendaria, un
prevedibile paradosso. Di fronte alla mutazione antropologica che lo scenario
biotecnologico prospetta, sono i teo-con che impugnano gli argomenti chiave, per
riportare ordine laddove secondo loro c'è disordine. Giocando l'embrione clonato
contro un desiderio femminile diventato troppo libero, la fecondazione eterologa
contro una famiglia «naturale» - ovvero tradizionale - che sta scomparendo, la
ricerca scientifica contro l'autenticità del marchio genetico di sangue e di
razza, i rischi di manipolazione del corpo umano contro la consapevolezza di
quanto già siamo manipolati. Il tutto amalgamato in una indistinta paura del
nuovo, del diabolico, dell'estraneo, del promiscuo, che si incolla sulle
sensazioni di sradicamento e disorientamento già straripanti nel presente
globale.
E l'altro campo? Modera, smorza, abbassa i toni, riduce il danno. Ma non prende
nessun toro per le corna. Non dice che l'embrione non è né un essere umano
(dogma cattolico) né un ammasso di cellule (dogma positivista), ma una
potenzialità dipendente da un corpo e da un desiderio femminile. Non dice che la
fecondazione eterologa non introduce artificialmente niente che non sia già
praticato naturalmente: né l'incertezza del padre biologico né i e le partner
occasionali sono un portato delle tecnologie riproduttive. Non nomina la crisi
dell'identità maschile che c'è dietro la fobia di molti uomini, anche di
sinistra e a cominciare dai leader della sinistra, verso il seme «rivale» del
donatore. Non dice che sì, i rischi di manipolazione ci sono ma non si possono
risolvere vietando la ricerca, bensì mettendo uomini e donne in grado di
decidere quanto più è possibile di sé. Non si mette di traverso al riduzionismo
biologico che impazza trasversalmente, in salsa antiscientista e in salsa
scientista, come se storia, società, cultura, contesti non contassero più nulla
su una «vita» ridotta a cosa e a pezzi di cosa, ovociti, sperma, embrioni,
cellule, geni semoventi come nei film di fantascienza.
Troppo difficile? Questa è la posta ed eluderla è suicida mentre gli altri la
cavalcano. Ma non mancano argomenti più commestibili per chi la consideri
indigesta. Il primo, l'ha ricordato l'altro ieri Stefano Rodotà, è che la legge
40 fa strame dei principi costituzionali. Discrimina, calpesta la dignità,
limita le libertà. Introduce una forma di legge che non va bene sulla
procreazione assistita e non andrebbe bene su niente. Per dire questo, chiaro e
limpido, tre settimane bastano. Per tirare l'allarme sulla Costituzione non c'è
bisogno che arrivi in porto la riforma di Berlusconi. E per buttare una legge
non c'è bisogno di affannarsi a garantire che sarà subito riscritta.
19 maggio
I lavoratori svelano le spaventose condizioni di
lavoro
Orari infernali, sfruttamento e paghe da fame
I lager cinesi che
fabbricano
il sogno occidentale
dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
Per confezionare un paio di Timberland, vendute in Europa a 150
euro, nella città di Zhongshan un ragazzo di 14 anni guadagna 45
centesimi di euro. Lavora 16 ore al giorno, dorme in fabbrica, non
ha ferie né assicurazione malattia, rischia l'intossicazione e vive
sotto l'oppressione di padroni-aguzzini. Per fabbricare un paio di
scarpe da jogging Puma una cinese riceve 90 centesimi di euro: il
prezzo in Europa è 178 euro per il modello con il logo della Ferrari.
Nella fabbrica-lager che produce per la Puma i ritmi di lavoro sono
così intensi che i lavoratori hanno le mani penosamente deformate
dallo sforzo continuo.
Gli operai cinesi che riforniscono i nostri negozi - l'esercito
proletario che manda avanti la "fabbrica del mondo" - cominciano a
parlare. Rivelano le loro condizioni di vita a un'organizzazione
umanitaria, forniscono prove dello sfruttamento disumano, del lavoro
minorile, delle violenze, delle malattie. Qualche giornale cinese
rompe l'omertà. Ci sono scioperi spontanei, in un Paese dove il
sindacato unico sta dalla parte dei padroni. Vengono alla luce
frammenti di una storia che è l'altra faccia del miracolo asiatico,
una storia di sofferenze le cui complicità si estendono dal governo
di Pechino alle multinazionali occidentali.
La fabbrica dello "scandalo Timberland" è nella ricca regione
meridionale del Guangdong, il cuore della potenza industriale
cinese, la zona da cui ebbe inizio un quarto di secolo fa la
conversione accelerata della Cina al capitalismo.
L'impresa di Zhongshan si chiama Kingmaker Footwear, con capitali
taiwanesi, ha 4.700 dipendenti di cui l'80% donne. Ci lavorano anche
minorenni di 14 e 15 anni. La maggioranza della produzione è
destinata a un solo cliente, Timberland. Kingmaker Footwear è un
fornitore che lavora su licenza, autorizzato a fabbricare le celebri
scarpe per la marca americana. Le testimonianze dirette sui
terribili abusi perpetrati dietro i muri di quella fabbrica sono
state raccolte dall'associazione umanitaria China Labor Watch,
impegnata nella battaglia contro lo sfruttamento dei minori e le
violazioni dei diritti dei lavoratori.
Le prove sono schiaccianti. Di fronte a queste rivelazioni il
quartier generale della multinazionale ha dovuto fare mea culpa. Lo
ha fatto in sordina; non certo con l'enfasi con cui aveva
pubblicizzato il premio di "migliore azienda dell'anno per le
relazioni umane" decretatole dalla rivista Fortune nel 2004. Ma
attraverso una dichiarazione ufficiale firmata da Robin Giampa,
direttore delle relazioni esterne della Timberland, ora i vertici
ammettono esplicitamente: "Siamo consapevoli che quella fabbrica ha
avuto dei problemi relativi alle condizioni di lavoro. Siamo
attualmente impegnati ad aiutare i proprietari della fabbrica a
migliorare".
I "problemi relativi alle condizioni di lavoro" però non sono emersi
durante le regolari ispezioni che la Timberland fa alle sue
fabbriche cinesi (due volte l'anno), né risultano dai rapporti del
suo rappresentante permanente nell'azienda. Sono state necessarie le
testimonianze disperate che gli operai hanno confidato agli
attivisti umanitari, rischiando il licenziamento e la perdita del
salario se le loro identità vengono scoperte. "In ogni reparto
lavorano ragazzi tra i 14 e i 16 anni", dicono le testimonianze
interne: uno sfruttamento di minori che in teoria la Cina ha messo
fuorilegge. La giornata di lavoro inizia alle 7.30 e finisce alle 21
con due pause per pranzo e cena, ma oltre l'orario ufficiale gli
straordinari sono obbligatori.
Nei mesi di punta d'aprile e maggio, in cui la Timberland aumenta
gli ordini, "il turno normale diventa dalle 7 alle 23, con una
domenica di riposo solo ogni 2 settimane; gli straordinari
s'allungano ancora e i lavoratori passano fino a 105 ore a settimana
dentro la fabbrica". Gli informatori dall'interno dello stabilimento
hanno fornito 4 esemplari di buste paga a China Labor Watch. La paga
mensile è di 757 yuan (75 euro) "ma il 44% viene dedotto per coprire
le spese di vitto e alloggio". Vitto e alloggio significa camerate
in cui si ammucchiano 16 lavoratori su brandine di metallo, e una
mensa dove "50 lavoratori sono stati avvelenati da germogli di bambù
marci". In fabbrica i manager mantengono un clima d'intimidazione
"incluse le violenze fisiche; un'operaia di 20 anni picchiata dal
suo caporeparto è stata ricoverata in ospedale, ma l'azienda non le
paga le spese mediche".
Un mese di salario viene sempre trattenuto dall'azienda come arma di
ricatto: se un lavoratore se ne va lo perde. Altre mensilità vengono
rinviate senza spiegazione. L'estate scorsa il mancato pagamento di
un mese di salario ha provocato due giorni di sciopero.
Anche il fornitore della Puma è nel Guangdong, località Dongguan. Si
chiama Pou Yuen, un colosso da 30.000 dipendenti. In un intero
stabilimento, l'impianto F, 3.000 operai fanno scarpe sportive su
ordinazione per la multinazionale tedesca. La lettera di un'operaio
descrive la sua giornata-tipo nella fabbrica. "Siamo sottoposti a
una disciplina di tipo militare. Alle 6.30 dobbiamo scattare in
piedi, pulirci le scarpe, lavarci la faccia e vestirci in 10 minuti.
Corriamo alla mensa perché la colazione è scarsa e chi arriva ultimo
ha il cibo peggiore, alle 7 in punto bisogna timbrare il cartellino
sennò c'è una multa sulla busta paga. Alle 7 ogni gruppo marcia in
fila dietro il caporeparto recitando in coro la promessa di lavorare
diligentemente. Se non recitiamo a voce alta, se c'è qualche errore
nella sfilata, veniamo puniti. I capireparto urlano in
continuazione. Dobbiamo subire, chiunque accenni a resistere viene
cacciato. Noi operai veniamo da lontani villaggi di campagna. Siamo
qui per guadagnare. Dobbiamo sopportare in silenzio e continuare a
lavorare. (...) Nei reparti-confezione puoi vedere gli operai che
incollano le suole delle scarpe. Guardando le loro mani capisci da
quanto tempo lavorano qui. Le forme delle mani cambiano
completamente. Chi vede quelle mani si spaventa. Questi operai non
fanno altro che incollare... Un ragazzo di 20 anni ne dimostra 30 e
sembra diventato scemo. La sua unica speranza è di non essere
licenziato. Farà questo lavoro per tutta la vita, non ha scelta.
(...) Lavoriamo dalle 7 alle 23 e la metà di noi soffrono la fame.
Alla mensa c'è minestra, verdura e brodo. (...) Gli ordini della
Puma sono aumentati e il tempo per mangiare alla mensa è stato
ridotto a mezz'ora. (...) Nei dormitori non abbiamo l'acqua calda
d'inverno". Un'altra testimonianza rivela che "quando arrivano gli
uomini d'affari stranieri per un'ispezione, gli operai vengono
avvisati in anticipo; i capi ci fanno pulire e disinfettare tutto,
lavare i pavimenti; sono molto pignoli".
Minorenni alla catena di montaggio, fabbriche gestite come carceri,
salari che bastano appena a sopravvivere, operai avvelenati dalle
sostanze tossiche, una strage di incidenti sul lavoro. Dietro queste
piaghe c'è una lunga catena di cause e di complicità. Il lavoro
infantile spesso è una scelta obbliga per le famiglie. 800 milioni
di cinesi abitano ancora nelle campagne dove il reddito medio può
essere inferiore ai 200 euro all'anno. Per i più poveri mandare i
figli in fabbrica, e soprattutto le figlie, non è la scelta più
crudele: nel ricco Guangdong fiorisce anche un altro mercato del
lavoro per le bambine, quello della prostituzione. Gli emigranti che
arrivano dalle campagne finiscono nelle mani di un capitalismo
cinese predatore, avido e senza scrupoli, in un paese dove le regole
sono spesso calpestate. Alla Kingmaker che produce per la Timberland,
gli operai dicono di non sapere neppure "se esiste un sindacato; i
rappresentanti dei lavoratori sono stati nominati dai dirigenti
della fabbrica".
Le imprese che lavorano su licenza delle multinazionali occidentali,
come la Kingmaker e la Pou Yuen, non sono le peggiori. Ancora più in
basso ci sono i padroncini cinesi che producono in proprio. Per il
quotidiano Nanfang di Canton, i due giornalisti Yan Liang e Lu Zheng
sono riusciti a penetrare in un distretto dell'industria tessile
dove il lavoro minorile è la regola, nella contea di Huahu. Hanno
incontrato Yang Hanhong, 27 anni, piccolo imprenditore che recluta
gli operai nel villaggio natale. Ha 12 minorenni alle sue
dipendenze. Il suo investimento in capitale consiste nell'acquisto
di forbici e aghi, con cui i ragazzini tagliano e cuciono le
rifiniture dei vestiti. "La maggior parte di questi bambini -
scrivono i due reporter - soffrono di herpes per l'inquinamento dei
coloranti industriali. Con gli occhi costretti sempre a fissare il
lavoro degli aghi, tutti hanno malattie della vista. Alla luce del
sole non possono tenere aperti gli occhi infiammati. Lamentano mal
di testa cronici. Liu Yiluan, 13 anni, non può addormentarsi senza
prendere 2 o 3 analgesici ogni sera. Il suo padrone dice che Liu gli
costa troppo in medicinali".
Se mai un padrone venisse colto in flagrante reato di sfruttamento
del lavoro minorile, che cosa rischia? Una multa di 10.000 yuan
(mille euro), cioè una piccola percentuale dei profitti di queste
imprese. La revoca della licenza invece scatta solo se un bambino
"diventa invalido o muore sul lavoro". Comunque le notizie di
processi e multe di questo tipo scarseggiano. La battaglia contro lo
sfruttamento del lavoro minorile non sembra una priorità per le
forze dell'ordine.
Tra le marche straniere Timberland e Puma sono il campione
rappresentativo di una realtà più vasta. Per le opinioni pubbliche
occidentali le multinazionali compilano i loro Social Reports, quei
"rapporti sulla responsabilità sociale d'impresa" di cui la Nike è
stata il precursore. Promettono trasparenza sulle condizioni di
lavoro nelle fabbriche dei loro fornitori. Salvo "scoprire" con
rammarico che i loro ispettori non hanno visto, che gli abusi
continuano. Diversi auditor denunciano il fatto che in Cina ora
prolifera anche la contraffazione delle buste-paga, i falsi
cartellini orari, le relazioni fasulle degli ispettori sanitari:
formulari con timbri e numeri artefatti per simulare salari e
condizioni di lavoro migliori, documenti da dare alle multinazionali
perché mettano a posto le nostre coscienze. La Nike nel suo ultimo
Rapporto Sociale dice delle sue fabbriche cinesi che "la
falsificazione da parte dei manager dei libri-paga e dei registri
degli orari di lavoro è una pratica comune".
La parte delle belle addormentate nel bosco non si addice alle
multinazionali. I loro ispettori possono anche essere ingenui ma i
numeri, i conti sul costo del lavoro, li sanno leggere bene in
America e in Germania (e in Francia e in Italia). La Puma sa di
spendere 90 centesimi di euro per un paio di sneakers, gli stessi su
cui poi investe ben 6 euro in costose sponsorizzazioni sportive. La
Timberland sa di pagare mezzo euro l'operaio che confeziona scarpe
da 150 euro.
Hu Jintao, presidente della Repubblica popolare e
segretario generale del partito comunista cinese, ha accolto lunedì
a Pechino centinaia di top manager, industriali e banchieri
stranieri venuti per il Global Forum di Fortune. Il discorso di Hu
di fronte ai rappresentanti del capitalismo mondiale è stato
interrotto da applausi a scena aperta. Il quotidiano ufficiale China
Daily ha riassunto il suo comizio con un grande titolo in prima
pagina: "You come, you profit, we all prosper". Voi venite, fate
profitti, e tutti prosperiamo. Non è evidente chi sia incluso in
quei "tutti", ma è chiaro da che parte sta Hu Jintao.
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18 maggio
Un fax del
ministero dell'Interno dà l'ok ai magistrati sardi
che indagano sui presunti abusi edilizi nella residenza di
Berlusconi
Villa
Certosa, cade il segreto
via libera alle ispezioni
Ma per il momento gli inquirenti non entreranno nella proprietà
in attesa del pronunciamento della Consulta sul conflitto tra poteri
Villa Certosa
ROMA
- Cade il segreto che avvolge Villa Certosa, la residenza di Silvio
Berlusconi a Porto Rotondo al centro di un contenzioso tra
ambientalisti, magistratura e governo per presunti abusi edilizi. Il
ministero dell'Interno ha inviato un fax alla procura della
Repubblica di Tempio Pausania nel quale si comunica ai magistrati
che la presidenza del Consiglio dei Ministri dà il nulla osta
all'ispezione alla villa. Ma per il momento gli inquirenti non
procederanno all'ispezione.
Il fax è arrivato nel primo pomeriggio di ieri direttamente dagli
uffici del Viminale. Era stato, infatti, il ministro dell'Interno,
il 6 maggio 2004, a firmare il decreto con il quale è stato apposto,
su sollecitazione del Cesis, il segreto di Stato sull'area di Villa
Certosa.
L'indagine, affidata al pm Giovanni Porqueddu, punta in particolare
a verificare l'esistenza e la conformità alle norme di impatto
ambientale di un approdo coperto costruito di recente a Villa
Certosa.
Ora il segreto è caduto, ma questo non siginifca comunque che
l'ispezione sia imminente. Anzi, per il momento i magistrati fanno
sapere che non se ne farà nulla. L'orientamento della Procura è di
aspettare il pronunciamento della Consulta sull'ammissibilità del
conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dagli
stessi magistrati.
"Per ora - dice il procuratore capo di Tempio Francesco Cicalò - non
procederemo ad alcuna ispezione. L'indagine è stata congelata dal
segreto di Stato: la Procura ha fatto ricorso e quindi attendiamo
con serenità il verdetto della Corte Costituzionale".
Infatti il fax del ministero
dell'Interno non fa venire meno il conflitto di attribuzione davanti
alla Corte Costituzionale. Perché ciò accada è necessario che la
procura presenti una formale rinuncia al ricorso: lo può fare o
prima del 25 maggio, quando i giudici della Consulta si riuniranno
in camera di consiglio per decidere preliminarmente
sull'ammissibilità del conflitto, o in prossimità dell'udienza
pubblica (la cui data non è stata ovviamente ancora fissata) quando
la discussione riguarderà il merito della questione.
Dopo aver deciso se ammettere il conflitto, la Corte dovrà fissare
la data per l'udienza pubblica. In quel caso appare scontata la
costituzione dell'Avvocatura dello Stato a nome della presidenza del
Consiglio. L'udienza di merito potrebbe tenersi prima della pausa
estiva (il 7 o 21 giugno, oppure il 5 luglio), altrimenti se ne
riparlerà dal 27 settembre in poi.

Sabrina Harman rischiava cinque anni e mezzo.
Ritenuta colpevole
di tutti i capi di imputazione meno uno, ma la pena è stata mite
Torture ad Abu Ghraib, solo 6 mesi
alla soldatessa della piramide umana
Responsabile anche di aver applicato elettrodi a un prigioniero
incappucciato, l'immagine simbolo dell'orrore del carcere
Sabrina Harman
WASHINGTON - Se la cava con appena sei mesi di prigione la
soldatessa immortalata in una foto mentre nel carcere di Abu Ghraib
sorrideva vicino a una piramide di prigionieri nudi. Sabrina Harman,
una delle aguzzine del carcere iracheno, è stata riconosciuta
colpevole dalla Corte Marziale di Fort Hood, in Texas, di sei dei
sette capi d'imputazione ascrittile. Ma la pena è stata comunque
molto mite.
La Harman rischiava una condanna massima a cinque anni e mezzo:
dieci volte quella che le è stata inflitta. L'accusa aveva chiesto
tre anni. Considerando il tempo già trascorso in carcere, la
soldatessa sarà di nuovo libera prima della fine dell'estate.
Giovedì, all'apertura del processo, Sabrina, 27 anni, si era detta
non colpevole delle accuse di maltrattamenti e umiliazioni a
prigionieri di guerra detenuti nel carcere nei pressi di Bagdad.
Lunedì, testi citati dai suoi legali avevano riferito che la
soldatessa non condivideva il trattamento inferto ai detenuti e ne
provava repulsione. Il comandante dell'unità di Sabrina aveva anche
confermato l'assenza di consegne scritte su come trattare i
prigionieri. I capi di imputazione per la Harman includevano quello
di aver applicato elettrodi a un detenuto iracheno costringendolo a
salire in piedi su una scatola in una posa da Cristo in croce,
immagine che è diventata l'emblema degli orrori di Abu Ghraib.
Il soldato che fece la foto, Ivan Frederick, che ha già patteggiato,
dichiarandosi colpevole dei reati di cui era accusato, era stato
chiamato a testimoniare dall'accusa, venerdì, e aveva riferito di
non avere mai visto la Harman maltrattare detenuti. Un altro soldato
aveva invece testimoniato di avere visto Sabrina umiliare
sessualmente dei prigionieri, che erano sospettati d'avere
violentato un ragazzo pure detenuto.
Il caso della Harman, nella vita civile pizzaiola a Lorton,
Virginia, è uno degli ultimi collegati agli abusi di Abu Ghraib a
finire davanti alla corte militare. Ancora da ultimare il processo a
Lynndie England, la soldatessa che in un'altra foto famosa tiene al
guinzaglio un detenuto iracheno nudo.
C'è anche un'altra vicenda che vede accusati membri dell'esercito
statunitense impegnati in Iraq. Secondo quanto rivelano fonti
militari e documenti appena resi pubblici, due ufficiali
dell'esercito sono stati puniti, e le loro carriere sono state di
fatto troncate, per avere inscenato finte esecuzioni di prigionieri
iracheni nel 2003. Una forma di tortura, secondo il regolamento
dell'esercito, che le vieta.
Per un episodio avvenuto nel luglio 2003, un capitano è comparso
davanti a una Corte Marziale, è stato condannato a 45 giorni di
arresti e alla perdita di 12 mila dollari di stipendio. Per un altro
episodio, è stato punito un sottotenente, che ha ricevuto una
sanzione amministrativa ed è stato congedato con disonore.
I documenti resi pubblici ora descrivono altri abusi, i cui
responsabili sono stati in vario modo puniti.
17 maggio
E allora compagno presidente?
Dodicimila braccianti
senza terra hanno marciato per 15 giorni e oltre 200 chilometri fino a Brasilia
per chiedere oggi a Lula di essere meno attento all'Fmi e più agli impegni presi
con il popolo brasiliano. A cominciare dalla riforma agraria
FREI BETTO *
Il Movimento dei
Sem Terra,
che è arrivato ieri a Brasilia, ha ascoltato il consiglio del presidente Lula e
si è alzato in piedi. A appoggiato dalla Commissione pastorale della Terra e da
altre organizzazioni popolari, ha marciato da Goiânia a Brasília per chiedere di
nuovo la riforma agraria. La marcia è cominciata il 2 di maggio e vi hanno
partecipano in 12.000 provenienti da 23 stati brasiliani. La marcia non punta
alla terra promessa, come quella degli ebrei, descritta nell'Antico testamento.
Vuole solo una porzione della terra promessa dal governo Lula.
Nel 2002, il governo federale ha approvato il secondo Piano
nazionale della riforma agraria (Pnra) che entro il 2006 dovrebbe insediare
400.000 famiglie senza terra. E più di 130.000 dovrebbero ricevere un
finanziamento per l'acquisto di un immobile rurale.
All'inizio dell'anno passato, Lula assicurò che entro il
mese di dicembre sarebbero state insediate 115.000 famiglie. Secondo l'Incra,
l'Istituto nazionale per la colonizzazione e la riforma agraria, nel 2004, sono
state insediate circa 80.000 famiglie. In due anni di governo 117.000. Ma l' Mst
contesta questi dati. Dice che la maggioranza delle famiglie è stata sistemata
all'interno di progetti avviati dal governo Cardoso o ha visto soltanto la
propria situazione regolarizzata. Così in due anni il governo attuale avrebbe
insediato 64.000 famiglie in tutto.
La cosa più grave è che il governo federale non dimostra la
volontà politica di concretizzare la riforma agraria. Dei 3.4 miliardi di
reais previsti nel bilancio di quest'anno dal ministro per lo sviluppo
agrario Miguel Rossetto, il ministro del'economia Antônio Palocci ha tagliato 2
miliardi per fare cassa e assicurare la montagna di denaro - circa 60 miliardi
di reais, più o meno 25 miliardi di dollari (**) - del superavit primario
promesso all'Fmi.
Ci sono state proteste, anche dello stesso ministro
Rossetto, che hanno obbligato il ministro Palocci a liberare 400 milioni della
quantità trattenuta. Se la riforma agraria sarà di fatto priorità del governo
Lula, il miliardo e 600000 reais restanti devono essere restituiti in
breve al ministero dello sviluppo agrario.
La marcia di 223 chilometri culmina oggi a Brasilia. Essa
rivendica quel che il governo Lula ha promesso: insediare 400.000 famiglie entro
il 2006. Il presidente ha sottolineato che non basta dare la terra. Bisogna che
ci siano anche buone condizioni tecniche di semina, raccolta, trasporto e
commercializzazione del prodotto eccedente rispetto al consumofamiliare. E'
quello che desiderano i Senza-terra, attraverso un programma di agro-industrie e
di credito speciale per gli insediamenti.
Tutte le statistiche provano che l'attività rurale è quella
che dà più lavoro in Brasile. E noi conviviamo con un allarmante indice di
disoccupazione. Fare la riforma agraria - una rivendicazione vecchia di 150anni
- significa rimandare indietro l'esodo verso le città, ridurre il numero delle
favelas, diminuire la disuguaglianza sociale e, in conseguenza di
questo,la violenza urbana. In questo paese di 800 milioni di ettari coltivabili,
la terra è quel che non manca.
E' provato che più del 60% degli alimenti che arrivano
sulla tavola delle famiglie brasiliane provengono dall'agricoltura familiare. Il
governo federale ha esteso i benefici del Pronaf (il Programma nazionale di
agricoltura familiare) a tutto il paese, spezzando il monopolio della regione
Sud. Questo, tuttavia, non è sufficiente. La burocrazia rende ancora difficile
l'accesso al finanziamento.
Uno dei maggiori ostacoli alla riforma agraria è il
Congresso nazionale, un nido di ruralisti difensori del latifondo. Basta dire
che, fino ad oggi, non ha approvato la proposta del governo di esproprio
sommario delle fazendas in cui ci sia lavoro schiavo. Questo è uno dei
fattori che favoriscono l'impunità dei criminali accusati delle morti di coloro
che lottavano per la riforma agraria.
Qual è il progetto Brasile del governo Lula? In economia
non lascia adito ai dubbi: equilibrio fiscale, contenere l'inflazione, attrarre
capitali stranieri, ridurre i debiti interno e estero, aumentare le esportazioni
e ridurre le importazioni, ampliare le riserve e la capacità di investimento. La
meta è positiva, il metodo discutibile, perché gonfia gli interessi, riduce il
credito, stimola la speculazione e asfissia la produzione. Una difficile
equazione: promuovere lo sviluppo sociale attraverso una politica economica
neo-liberista che favorisce il capitale e opprime il lavoro.
La riforma agraria è, teoricamente, la «priorità delle
priorità» del governo Lula. A lato della lotta alla fame. D'altra parte le due
cose sono intrecciate. Ma così come il presidente ha ammesso che il drago
inflazionario non può essere contenuto solo con la frusta degli alti interessi,
che fa male ai lombi della nazione, è ora che il governo riporti in primo piano
il Piano nazionale della riforma agraria e, almeno, realizzi gli obiettivi di
insediamento annunciati nei due primi anni di gestione.
Un governo che ha avuto il coraggio sufficiente per
demarcare finalmente la riserva indigena di Raposa Serra do Sol, nello
stato di Roraima, non merita di arrivare alle elezioni del 2006 con una semplice
riverniciatura fondiaria, mentre migliaia di famiglie restano accampate al bordo
delle strade perché sanno che lontano dalla terra per loro non c'è salvezza. Non
possono più, come fece la famiglia del presidente Lula, salire su un camion e
viaggiare nella speranza di ottenere lavoro nell'Eldorado paulista. Gli resta
solo la possibilità di lottare per la terra che hanno perduto.
* Domenicano, sociologo e scrittore, fino a qualche mese
fa consigliere speciale di Lula
Un dollaro vale ora intorno ai 2.5 reais**
Violenze a Bolzaneto, saranno processati in 45
di red
Poliziotti,
carabinieri, agenti della polizia penitenziaria e medici in servizio presso la
caserma di Bolzaneto di Genova durante il vertice del G8 del 2001: sono 45 i
rinvii a giudizio disposti dal giudice per le udienze preliminari Maurizio De
Matteis per le violenze «di feroce gratuità» (così definite dallo stesso
giudice) compiute nella caserma di Bolzaneto della Polizia nei confronti dei
giovani arrestati durante il G8. Il rinvio a giudizio dei 45 arriva dopo 11
udienze preliminari dell’inchiesta sulle violenze ed abusi denunciati dai
manifestanti che furono portati nel carcere genovese nel luglio del 2001. Solo
un agente della polizia penitenziaria di Vercelli è stato completamente
prosciolto, mentre altri cinque indagati hanno avuto una sentenza di non luogo a
procedere solo per alcuni capi di imputazione. Il processo è stato fissato al 12
ottobre.
Tra le persone rinviate a giudizio figura anche il vicequestore
Alessandro Perugini, all' epoca dei fatti vice capo della Digos di Genova, già
rinviato a giudizio insieme ad altri poliziotti per abuso di ufficio, falso e
calunnia nei confronti di sette persone arrestate senza motivo il 21 luglio e
per aver minacciato con una pistola gli arrestati ed aver percosso un
manifestante (il processo è ancora in corso). Tra gli altri che saranno
processati: il generale della polizia penitenziaria Oronzo Doria e Biagio
Antonio Gugliotta, ispettore della polizia penitenziaria, responsabile della
sicurezza del centro di detenzione provvisorio.
Tra gli episodi più inquietanti nei confronti delle persone
arrestate i pm avevano riferito di minacce a sfondo sessuale nei confronti di
giovani e ragazze ed episodi come quello di far indossare un cappellino con il
disegno di una falce e di un organo sessuale maschile, pretendendo una sorta di
sfilata nei corridoi della caserma. Poi le lunghe attese con le braccia alzate,
gli insulti, i calci e i pugni contro i fermati. Il giudice De Matteis, nell'
accogliere la formulazione fatta dai pm di entrambe le accuse, abuso d'ufficio e
abuso contro arrestati o detenuti, sottolinea «la gratuità della condotta
contestata rispetto a qualsiasi ipotesi di limitazione ulteriore della libertà
dei detenuti stessi, anche con forme di rigore non consentite. Non si vede
infatti come, ad esempio, il costringere una persona a chinare la testa dentro
un vespasiano possa costituire una "misura di rigore non consentita". Tali
azioni appaiono, per la loro feroce gratuità, totalmente estranee a qualsiasi
nozione di 'misura di rigorè, sia essa consentita o meno, in quanto non
perseguono il fine di limitare e controllare la libertà di una persona, ma solo
di umiliarne la personalità».
I reati contestati agli indagati, nelle 161 pagine della
richiesta di rinvio a giudizio, sono, a vario titolo, quelle di abuso d'ufficio,
violenza privata, falso ideologico, abuso di autorità contro detenuti o
arrestati, violazione dell' ordinamento penitenziario e della convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell' uomo e delle libertà fondamentali. Per l'
inchiesta sui presunti soprusi e pestaggi da parte delle forze dell' ordine e di
personale sanitario avvenuti nella caserma di Bolzaneto i pm Patrizia
Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati avevano chiesto 47 rinvii a giudizio: 14
agenti e dirigenti della polizia normale, 16 di quella penitenziaria, 2
carabinieri, 5 fra medici e infermieri. Le accuse, a vario titolo, sono abuso d'
ufficio, violenza privata, falso ideologico, abuso di autorità contro detenuti o
arrestati, violazione dell'ordinamento penitenziario e della convenzione per la
salvaguardia dei diritti dell' uomo e delle libertà fondamentali. L'inchiesta
durata due anni e 7 mesi, iniziò dopo le denunce dei maniestanti, nell'agosto
2001. Sono oltre 150 le parti lese, di cui 40 persone picchiate anche nella
scuola Diaz.
«Dopo il rinvio a giudizio c'è ora bisogno urgentemente di un
provvedimento di rimozione o quantomeno di sospensione dal servizio per quei
poliziotti e carabinieri imputati per le violenze commesse all'interno della
caserma Bolzaneto durante il G8 di Genova». È stato il commento di Francesco
Caruso, uno dei portavoce dei disobbedienti. «È una questione di igiene politica
e morale: hanno pestato a sangue e torturato giovani inermi, hanno falsificato
prove e verbali, hanno impedito loro di contattare legali o parenti, li hanno
seviziati, insultati, minacciati, costretti per giorni a rimanere in piedi con
le braccia alzate contro al muro senza possibilità di dormire, di bere o di
mangiare. Malgrado tutto ciò, questi torturatori allo stato attuale prestano
servizio nella polizia, nell'arma dei carabinieri, nella penitenziaria».
«Dalla lettura delle oltre 500 pagine depositate dai PM e
utilizzate dal gup De Matteis per emettere la sentenza a procedere, non vi è
dubbio alcuno che simili violenze siano state commesse da chi era certo di poter
godere dell'impunità e del consenso dei propri superiori - commenta il
parlamentare europeo Vittorio Agnoletto, uno dei portavoce del Genoa Social
Forum durante i fatti del G8 - È necessario quindi che, oltre ai responsabili
materiali delle torture, siano individuati e processati i 'mandanti', ossia
coloro che avendo la responsabilità dell'ordine pubblico e della gestione
politica delle giornate genovesi, hanno autorizzato o comunque tollerato e poi
coperto le violenze consumatesi a Bolzaneto. È importante - conclude Agnoletto -
che il processo si svolga celermente visto che la legge Cirielli incombe e il
rischio di prescrizione dei reati è inaccettabile. Ed è necessario che gli
agenti rinviati a giudizio siano immeditamente sospesi dal servizio».
I 45 rinvii a giudizio per i fatti di Bolzaneto arrivano mentre è
da poco iniziato il processo contro 28 poliziotti per le irruzioni notturne
nella scuola Diaz e nel mediacenter Pascoli la notte del 21 luglio. Ancora in
corso anche l’ultimo “troncone” dei
processi sui fatti genovesi , quello contro 25 manifestanti accusati di
«devastazione e saccheggio».
Almunia
a Berlusconi: basta dare la colpa all'Europa, la crisi è vostra
Nessun
ulteriore taglio delle tasse nè un aumento della spesa pubblica, poichè
il rapporto deficit-pil dell’Italia supera già oggi il limite del 3%.
Joaquin Almunia, in un'intervista pubblicata sul
Financial Times
vede prospettive di sviluppo per l’area europea ma manda un chiaro
segnale al governo italiano.
Al premier Berlusconi
Almunia ripete in sostanza quanto sostenuto anche dal ministro delle
Finanze austriaco Karl-Heinz Grasser, che nei giorni scorsi aveva
chiesto di smetterla con i proclami e di partire con «riforme, riforme,
riforme». Per i due esponenti politici europei l’esecutivo italiano
dovrebbe mettersi subito al lavoro smettendola di criticare gli altri
per i suoi problemi. Il commissario aggiunge che il far parte dell'eurozona
impedisce all'Italia di ricorrere alla tradizionale ricetta della
svalutazione per affrontare le difficoltà, ma riconosce che è anche un
vantaggio per un paese che ha un debito pubblico al 106% dl prodotto
interno lordo: «Pensiamo a come sarebbe la situazione dei tassi di
interesse e del debito pubblico italiano se non ci fosse l'euro».
Riguardo poi alle tentazioni
del governo di Roma sullo sforamento del tetto del 3%, Almunia mette le
mani avanti. Le riforme del Patto di stabilità per renderlo più
“flessibile”, tanto sostenute soprattutto da Berlusconi e Siniscalco non
devono essere un viatico per giustificare le magagne sui conti. Ne va
della credibilità di tutto l’impianto europeo. La procedura per deficit
eccessivo nei confronti dell'Italia quindi, annunciata per giugno,
rappresenta «un'opportunità per dimostrare che il Patto di stabilità
esiste ancora». Non solo: dimostrare che le regole esistono e vanno
rispettate è «vitale per il buon funzionamento dell’Unione economica e
monetaria». Del resto, continua il commissario «non si può avere una
politica monetaria soddisfacente se ogni parlamento nazionale decide
delle politiche di bilancio non coordinate a livello europeo».
Quindi dall’esecutivo
dell’Unione europea arriva una richiesta precisa ai palazzo Chigi: basta
con la finanza creativa, con gli annunci impossibili, con le vecchie
abitudini. Del resto se i problemi si creano in casa non si devono
cercare pretesti all’esterno, attaccando i capisaldi della costruzione
europea perché inadeguati. Il caso italiano «non è un fallimento del
sistema, è un fallimento del paese coinvolto». |
Italiane in fondo alla classifica sulla parità sociale e
politica
di red
Non
c’è molta diversità di trattamento, dalla culla alla tomba, tra le donne
italiane e quelle turche o quelle egiziane, le più discriminate del mondo
secondo una classifica compilata dal World Economic Forum svizzero. Le donne
italiane restano in fondo alla classifica in fatto di parità rispetto agli
uomini, nella partecipazione al lavoro e nella vita sociale. Per fare il
sondaggio sono stati analizzati vari parametri – opportunità di lavoro, potere
politico, educazione, salute e benessere, servizi sociali – in base al
Gender gap index
, un indice
riconosciuto sulle differenze uomo-donna. L'inchiesta ha riguardato tutti e 30 i
paesi Ocse e altri 28 dei mercati emergenti. Italiane, greche, indiane,
pachistane, turche e egiziane sono risultate diametralmente all’opposto delle
donne svedesi, norvegesi, islandesi, danesi e finlandesi.
C’è da dire che nessun paese è tuttavia riuscito a eliminare
completamente le distanze, secondo il World Economic Forum svizzero.
Il rapporto, a firma del capo economista del WeForum, Augusto
Lopez-Claros, prende in considerazione cinque criteri: la partecipazione
economica e la parità di remunerazione tra i due sessi; le opportunità di
accesso a tutti i tipi di lavoro; la rappresentatività nelle strutture
decisionali dei paesi; l'accesso all'educazione; infine l'assistenza alla salute
e alla maternità.
L'Italia detiene il primato negativo per partecipazione e
opportunità economiche (51esimo e 49esimo posto), si colloca al 48 esimo posto
per presenze femminili al potere e al 41 esimo per accesso all'educazione. Punti
di forza restano però la tutela della salute e maternità: qui il Paese delle
mamme si impenna verso la cima della classifica con l'11 esimo posto.
In tema di assistenza alle mamme comunque chi sta meglio sono
ancora le svedesi seguite da danesi e giapponesi (quest'ultime però al 54 esimo
posto per la scarsissima partecipazione alla vita politica del paese). Mentre le
americane, 17esime nella classifica generale, crollano al 42 esimo posto.
13 maggio
Peacekeeping e business: un'inchiesta di Rai
News 24
va alle origini della missione italiana in Iraq
La missione "Antica Babilonia"
e il petrolio di Nassiriya
In un
dossier del governo scritto sei mesi prima della guerra
si indicava la provincia irachena come località strategica per
l'Italia
Soldati
italiani a Nassiriya
ROMA - Siamo in Iraq per il petrolio. Certo anche per scopi
umanitari e di salvaguardia dell'immenso patrimonio archeologico di
quel paese - non a caso la missione si chiama "Antica Babilonia" -
ma l'oro nero c'entra e come.
L'inchiesta di Sigfrido Ranucci, in onda oggi su Rai News 24,
documenti alla mano, prova a dimostrarlo. E non sarebbe nemmeno un
caso che i nostri militari siano stati dislocati a Nassirya e non
altrove, perché il capoluogo della provincia sciita di Dhi Qar era
proprio il posto in cui volevamo essere mandati. Perché? Perché
sapevamo quanto ricca di petrolio fosse quella zona. In gran parte
desertica, ma letteralmente galleggiante su un mare di quel
preziosissimo liquido che muove il mondo.
Un vecchio accordo tra Saddam e l'Eni, che risale a metà degli anni
Novanta, per lo sfruttamento di un consistente giacimento (2,5-3
miliardi di barili) nella zona di Nassiriya induce quantomeno a
sospettarlo. Così come qualche dubbio lo insinua lo studio
commissionato dal ministero per le Attività produttive, ben sei mesi
prima dello scoppio della guerra, al professor Giuseppe Cassano,
docente di statistica economica all'università di Teramo. Un dossier
nel quale si conferma che non dobbiamo lasciarci scappare
l'occasione in caso di guerra di basarci a Nassiriya, "se non
vogliamo perdere - scrive Cassano - un affare di 300 miliardi di
dollari".
Qual è il problema?, si chiederanno molti. In fondo che male c'è se
dopo aver preso parte a una missione così onerosa e rischiosa, alla
fine ce ne viene qualcosa? Salvaguardare "anche" il buon andamento
dei nostri affari petroliferi, suggerisce il sottosegretario alle
Attività Produttive Cosimo Ventucci, intervistato da Ranucci, è una
scelta "intelligente".
Certo, bastava ammetterlo - questa la tesi di Ranucci - e rispondere
alle interrogazioni parlamentari in materia senza nascondersi dietro
formule di circostanza. Ammettere che in realtà la ragione petrolio
era tanto più importante di quella umanitaria: "Ho cercato di
occuparmi di progetti di ricostruzione - denuncia Marco Calamai, che
ha lavorato con il governatore di Nassiriya per un periodo - ma la
ricostruzione non è mai veramente partita. L'America esporta la
democrazia a parole, in effetti ne ha impedito la crescita dal
basso".
I nostri carabinieri hanno pertanto scortato barili di petrolio e
sorvegliato oleodotti. E la strage di Nassiriya, come ha scritto il
corrispondente del Sole24 Ore Claudio Gatti all'indomani
dell'attentato, non era diretta contro il nostro contingente
militare, ma contro l'Eni.
D'altronde, l'Iraq è la vera cassaforte petrolifera del pianeta. Con
scorte che secondo Benito Livigni, ex manager dell'americana Gulf
Oil Company e successivamente dell'Eni, sarebbero superiori a quelle
dell'Arabia Saudita: "Secondo una stima le riserve dell'Iraq
ammonterebbero a 400 miliardi di barili di petrolio, e non i 116 dei
quali si è sempre parlato. Nel Paese ci sono vaste zone desertiche
non sfruttate".
Arretra a marzo anche la
produzione industriale, -5,2%
In forte crisi auto, abbigliamento, pelli e calzature
Istat, nel I trimestre Pil -0,5%
peggior calo dal '98, è recessione
Un calo congiunturale altrettanto
negativo solo nel 1998
Rispetto allo stesso periodo del 2004, il dato è -0,2%
ROMA - Arretra l'economia
italiana. Anzi, c'è già chi parla di recessione dal momento che, secondo le
stime preliminari Istat, il prodotto interno lordo nel primo trimestre 2005
è sceso dello 0,5% sul trimestre precedente, e si tratta del secondo calo
consecutivo (nell'ultimo trimestre 2004 era stato dello 0,4%). Su base
tendenziale il calo del primo trimestre 2005 è stato dello 0,2%. Fortemente
negativi anche i dati sulla produzione industriale, che a marzo è scesa del
5,2% rispetto allo stesso mese del 2004.
Il calo congiunturale del Pil è il peggiore dal quarto
trimestre del 1998, che si era chiuso con una flessione dello 0,5%. L'Istat
ha precisato inoltre che due variazioni congiunturali negative non si
registravano dal 2003, allorchè il I e il II trimestre si chiusero
rispettivamente con un -0,2%. "Vista la pesantezza dei due cali trimestrali
consecutivi del Pil, non c'è dubbio che siamo in recessione", commenta
Fedele De Novellis, responsabile per le analisi macroeconomiche del Ref
(istituto che si occupa di analisi economiche).
Il dato tendenziale, che segna un decremento dello 0,2%,
è il peggiore dal primo trimestre del 2002, quando era stato -0,1 per cento.
Per trovare un altro risultato negativo bisogna tornare indietro fino al
1997, quando nel primo trimestre il pil era sceso dello 0,7% su base annua.
Il risultato congiunturale del Pil è la sintesi di una diminuzione del
valore aggiunto dell'agricoltura e dell'industria e di una sostanziale
stazionarietà dei servizi. Il dato definitivo sul Pil del primo trimestre
sarà diffuso dall'Istat il 10 giugno.
Su base mensile, il
dato destagionalizzato della produzione industriale mostra una
flessione dello 0,6% rispetto a febbraio 2005: gli economisti si
attendevano un valore intorno allo zero. Così l'indice è tornato a
quota 94,1. Per incontrare un valore inferiore bisogna tornare
indietro al dicembre 1998, quando si viaggiava a quota 93,9.
Nel primo trimestre 2005 la produzione è scesa
del 3,7% rispetto allo stesso periodo del 2004 e dell'1,2% rispetto
al quarto trimestre dello scorso anno. Il dato tendenziale, corretto
per giornate lavorative, mostra un calo del 2,9%. Sul trimestre, lo
stesso dato è del 2,5%. La produzione dei beni di consumo ha
registrato la flessione più vistosa, -7,4% su base annua.
Guardando poi ai vari settori, arretra la
produzione di automobili, in calo a marzo del 9,8%, e sul trimestre
rispetto allo stesso del 2004 del 17,7%. Scende di molto anche la
produzione nelle industrie tessili e dell'abbigliamento (-11% a
marzo, -7,0% nel trimestre), e delle pelli e calzature (-16,6% a
marzo, -11,3% su trimestre). In forte calo anche la produzione di
apparecchi elettrici e di precisione (-7,7% a marzo, e -8,3% sul
trimestre).
Il made in Italy "non va benissimo", commentano i
ricercatori dell'Istat, sottolineando come ad essere in difficoltà
siano proprio i settori di punta dell'industria italiana.
Pochi settori mostrano il segno più. Tra questi,
spicca quello della produzione di energia elettrica, gas e acqua che
a marzo registra un aumento del 3%, e sul trimestre del 3,3%. In
lieve aumento anche la produzione del metallo (+0,6% a marzo, +0,1%
sul trimestre).
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12 maggio
La Corte di
Strasburgo boccia l'Italia: sospese 11 espulsioni in Libia
di
Andrea Gagliardi
ROMA - I
Italia bocciata in materia di immigrazione e
asilo. Nel giorno in cui sbarcano a Lampedusa oltre 500 migranti, la corte
europea di Strasburgo censura il governo italiano sui rimpatri forzati in
Libia. L’autodifesa del governo non ha convinto i giudici di Strasburgo. E
ieri il tribunale europeo, con un provvedimento d’urgenza, ha sospeso
l’espulsione di 11 immigrati arrivati lo scorso marzo a Lampedusa. Una
misura che accoglie il ricorso presentato in aprile da un gruppo di legali
guidati dall'avvocato Anton Giulio Lana a nome di 79 persone. Tutte
trasferite e detenute nel centro di prima accoglienza Sant'Anna di Crotone
da dove rischiano di essere inviate in Libia.
Respinta la difesa del governo
La Corte aveva ordinato all'Italia di fornire spiegazioni entro il 6 maggio
sulle procedure di identificazione ed espulsione adottate, sulla presentazione
eventuale di richieste d'asilo da parte degli immigrati respinti e sullo status
delle loro domande. Numerosi parlamentari dell’opposizione e associazioni come
il Cir (Consiglio italiano per i rifugiati) e Amnesty International avevano
censurato tali respingimenti, parlando di espulsioni collettive, vietate dal
diritto internazionale. “La risposta fornita dal governo italiano alla corte
europea – spiega l’avvocato Lana – è stata laconica ed evasiva. Il governo
ammette tra le righe di non aver identificato in maniera certa tutte le persone
sbarcate, afferma che 11 immigrati sono stati colpiti da decreto di espulsione e
che altri sono stati già allontanati, ma non dà notizie sui restanti ricorrenti.
Ce n’era abbastanza per indurre la Corte a fermare le 11 imminenti espulsioni”.
Nel mirino la politica di
collaborazione con la Libia
La notizia è un duro colpo alla politica di collaborazione informale (l’accordo
di cooperazione tra Berlusconi e Gheddafi per contrastare l’immigrazione
clandestina non è mai stato reso pubblico, ndr) tra governo italiano e
libico. “E’ la prima volta – commentano Tana de Zulueta (Verdi) e Chiara
Acciarini (Ds), le uniche parlamentari a Lampedusa nei giorni dei rimpatri – che
uno stato europeo viene sanzionato per espulsioni verso un terzo paese, qual è
la Libia, che non sia quello di origine degli immigrati. La Corte con le sue
decisioni, vincolanti per l’Italia, ha di fatto bocciato l’accordo tra Italia e
Libia”.
La violazione del diritto
internazionale
Non sono servite insomma le assicurazioni del governo che ha sempre difeso la
regolarità delle procedure adottate. “La decisione della Corte dimostra –
continuano De Zulueta e Acciarini - come le espulsioni sommarie attuate più
volte avvengano al di fuori della legalità e delle norme internazionali del
diritto d’asilo”. Colpisce il fatto che la censura di Strasburgo non colpisca
gli accordi bilaterali di riammissione tra Italia e altri paesi extra Ue, come
l’Albania, ma, indirettamente, i rapporti con la Libia. “Le politiche di
immigrazione – conclude De Zulueta - si possono anche gestire con accordi
bilaterali, ma, nel caso della Libia, l’Italia ha tentato una scorciatoia,
utilizzando questo paese, che non ha ratificato la convenzione di Ginevra sulla
protezione dei rifugiati e che non garantisce standard adeguati di tutela dei
diritti umani, come sede impropria di delocalizzazione degli immigrati espulsi,
sulla base di accordi tenuti segreti”.
Espulsioni collettive vietate dalla
Bossi-Fini
Oggetto delle violazioni, del resto, sarebbe la stessa legge italiana. “E’ la
Bossi Fini – conclude l’avvocato Lana - che richiede l’identificazione delle
singole persone, la notifica individuale del provvedimento di espulsione, la
convalida di un giudice in un’udienza pubblica in cui sia garantito il diritto
alla difesa. Tutte condizioni non rispettate dal governo italiano”. Nelle
prossime settimane la Corte europea si dovrà pronunciare sul merito della
questione: dovrà cioè decidere se, come sostengono gli avvocati degli immigrati,
la Libia non offre garanzie adeguate per la tutela dei diritti umani delle
persone espulse sul suo territorio. “Dopo la decisione presa dalla Corte europea
– ha commentato Rino Serri, presidente del Cir - e la risoluzione del Parlamento
europeo che condanna i respingimenti di massa, la politica seguita sin qui dal
governo non può continuare”.
«Fischi tagliati e
applausi finti»: così Giorgino perde la conduzione del Tg1
di red
Giorgino come Santoro e Biagi? «Divertente e incredibile» commenta Nuccio Fava
dell'Udeur, ex direttore del Tg1, annunciando la notizia dell'estromissione di
Francesco Gorgino dalla conduzione del telegiornale più popolare tra gli
spettatori italiani: quello delle 20 del primo canale pubblico. «Il direttore
ha sicuramente i poteri per farlo - spiega Fava - ma il suo resta un atto di
arroganza e di prepotenza da fine regime».
Secondo le indiscrezioni trapelate da Saxa Rubra (poi confermate dalle
dichiarazioni del Cdr) la revoca della conduzione a Giorgino sarebbe scattata
dopo una serie di episodi che avrebbero messo in crisi il suo «rapporto di
fiducia» con il direttore della testata, Clemente Mimun. In realtà a scatenare
le ire di Mimun sarebbe stato un fatto ben preciso: un'intervista pubblicata
sabato 7 maggio dal quotidiano «Libero» in cui Giorgino lanciava strali a tutto
campo sul suo direttore tanto da farlo poi
dichiarare, il giorno successivo, che in realtà non c''era stata nessuna
intervista ufficiale col giornalista autore dell'articolo ma soltanto una
chiacchierata privata poi finita sulla carta. Nell'intervista Giorgino
raccontava dei suoi «rapporti non buoni» con Mimun («non mi pare di essere uno
dei suoi prediletti»). Cause politiche? Chiede non casualmente l'intervistatore
dato che da qualche tempo negli ambienti politici e giornalistici si vocifera di
certe cene (smentite da Giorgino) che il
giornalista avrebbe avuto con Prodi. «Problemi caratteriali», cerca di
minimizzare Giorgino, aggiungendo: «Le questioni politiche vanno affrontate in
modo forte e critico. Per me il giornalismo televisivo, soprattutto nel servizio
pubblico, deve essere equidistante». Però poi ai motivi del dissenso con Mimun
l'intervista ci arriva: «Io ho un dissenso con lui sul modo in cui ha gestito
certe notizie - confessa Giorgino - Ho contestato i fischi tagliati e gli
applausi finti. Per me il giornalismo è un''altra cosa». Immediata (e forse
anche scontata) la reazione di Mimun che ha deciso di togliere al giornalista
dissenziente la conduzione del Tg da lui diretto.
Ma l'estromissione di Giorgino, non è la sola in casa Rai. Un altro direttore di
testata, Mauro Mazza del Tg2, ha infatti rimosso qualche giorno fa la
giornalista Stefania Conti dal coordinamento della rubrica >Nonsolosoldi< Le
motivazioni sembrano anche più preoccupanti dato che la Conti è anche dirigente
dell'Associazione Stamapa romana. «La rimozione è avvenuta a tre giorni
dall''assemblea della redazione del TG2 - spiega una nota della corrente
sindacale Puntoeacapo - nella quale la collega , nel ricordare le norme del
contratto a difesa dei singoli redattori, si era "permessa" di criticare
l''organizzazione del lavoro della testata e di sottolineare il palese affanno
di ascolti del TG2». Anche per Fsni, Usigrai e Assostampa il caso di Stefania
Conti è «particolarmente
grave» poiché «la collega è componente del direttivo dell''Associazione Stampa
Romana, il Sindacato dei Giornalisti del Lazio e del Molise aderente
alla Fnsi. Un chiaro attacco quindi anche al ruolo del Sindacato». «Mentre il
Consiglio di Amministrazione dimezzato continua a sgovernare a causa
dell''assenza dei parlamentari della maggioranza dal voto in Commissione di
Vigilanza, mentre la Direzione Generale annuncia querele a raffica contro le
diverse opinioni dei giornali - cotinuano i sindacati in una nota - i
direttori del Tg1 e del Tg2 rifiutano ogni accenno di critica con provvedimenti
che il Sindacato dei Giornalisti contesterà in tutte le sedi».
Critiche verso la sospensione di Giorgino e della Conti rispettivamente anche
dal cdr del Tg1 e del Tg2: «La sospensione del collega dalla conduzione è un
atto grave perchè avviene a seguito di un''intervista (che il collega conduttore
sostiene di non aver concesso) nella quale si esprimevano opinioni critiche nei
confronti della direzione del Tg1 - spiega il Comitato di redazione del
telegiornale di Rai Uno in una nota - Noi difendiamo in modo assoluto il
diritto di critica e la libertà di esprimere qualsiasi opinione da parte dei
giornalisti anche sul prodotto che va in onda. Questo non può in alcun modo
comportare provvedimenti professionali
che hanno il sapore della ritorsione e che ledono principi fondamentali di
libertà».
«Dissenso» anche da parte del cdr del tg2 nei confronti del provvedimento a
carico della collega Stefania Conti. Della questione il comitato di redazione ha
chiesto di discutere con la direzione della testata nell''incontro previsto per
lunedì 16 maggio, prima dell''assemblea di redazione convocata per il giorno
successivo. «Dopo un primo incontro con il direttore per chiedere spiegazioni e
chiarimenti», il cdr «ha ascoltato sia la collega sia il capo redattore Stefano
Sassi», spiega una nota.
«Successivamente il cdr ha inviato una lettera al direttore esprimendo il
proprio dissenso sul provvedimento e richiedendo di affrontare la questione
nell''incontro fissato per lunedì 16 maggio prima dell''assemblea convocata per
il giorno successivo. Lettera nella quale il cdr denunciava un clima
redazionale peggiorato rispetto al passato ''con un ricorso a decisioni che
appaiono punitive''».
11 maggio
Segnali di coscienza
di Lidia Ravera
Uomini che non ci piacciono politicamente, come
Gianfranco Fini, che non ci piacciono né politicamente né umanamente, come
Vittorio Sgarbi, donne di Forza Italia, come Margherita Boniver, donne ministro
del governo Berlusconi come Stefania Prestigiacomo, donne dell''altro
mondo(quello televisivo) come Mara Venier, uomini come l''onorevole Martino e
l''onorevole Biondi, donne cattoliche come Rosy Bindi andranno a votare per il
referendum contro la legge 40.
Alcuni voteranno quattro sì, altri quattro no, alcuni tre sì e un no, altri,
magari, due sì e due no. ma tutti andranno a votare. E questo è un grande
sollievo. È un sollievo per chi ci tiene a buttare nel cassonetto istituzionale
una legge crudele e oscurantista, ma anche per chi, semplicemente, ci tiene alla
democrazia. Quella che la nostra Costituzione descrive così dettagliatamente e
mai come in questi anni è stata sottoposta al vento minaccioso della
disgregazione. Al mare, mentre l''Italia scrupolosa, attenta, sensibile e civile
si recherà da brava a infilare nell''urna la sua opinione, al mare, intenta a
costruire castelli da sabbia e menefrego, ci sarà l''Italia frivola, egoista,
consumista e irresponsabile, quella che pensa soltanto alle sue tasche e ai suoi
problemi, quella che non riconosce a sé stessa un valore e una competenza tali
da saper/poter correggere l''operato del potere legislativo. Al mare ci sarà
l''Italia che non conta e che non vuole contare. Non è una bella compagnia, per
un uomo della caratura del cardinal Ruini. Se il referendum risulterà valido,
non è detto che vinca chi, come noi, crede nella necessità di una bocciatura
totale della legge 40, chi pensa che l''accesso alla fecondazione assistita sia
un diritto da regolamentare e non da boicottare, chi pensa che la scienza sia
un''opportunità, uno strumento da mettere al servizio delle donne e degli uomni
e non un rischio per la morale come ai tempi di Galileo. Non è detto che vinca
chi preferisce aiutare quelli che hanno bisogno invece di conservare intatto il
privilegio di chi ha tutto facile, tutto naturale, di chi è giovane, sano,
fertile e felicemente accoppiato. Non è detto che vinca il movimento che si va
formando attorno ai "quattro sì". Potrebbe anche andare diversamente. Potrebbero
vincere, nella peggiore delle ipotesi, anche quelli che pensano alla tutela
dell''embrione più che alla salute delle proprie sorelle, figlie, madri. Più ai
principi di certa Chiesa (non tutta, grazie a Dio), che alla vita dura di un
bambino malato o al trauma di un aborto ritardato. Potremmo perdere, ma non è di
questo che abbiamo paura. Temi come il diritto a procreare, come la libertà di
ricerca scientifica, come i limiti della scienza e i grandi cambiamenti che le
conquiste scientifiche possono introdurre nella nostra vita affettiva, sono
importanti, vasti, delicati e profondi. Discuterne, fra diverse culture e
convinzioni anche opposte, vuol dire andare avanti.
L''ipotesi avvilente, l''esito veramente triste, sarebbe proprio non raggiungere
il quorum, avere, cioè, la riprova che una parte degli italiani, una parte
maggioritaria, non è interessata a darsi nuove regole, adeguando il presente al
futuro, saggiamente e pietosamente. Non raggiungere il quorum su un argomento
come la procreazione assistita vorrebbe dire che non siamo abbastanza grandi per
uno strumento da democrazia matura come il referendum.
È un sollievo sapere che non accadrà. La politica, con le sue fregole di
schieramento, per una volta, non ha vinto. Per una volta materia del contendere
non è far perdere la sinistra o mettere alle corde la destra. È una faccenda più
complessa. Infatti non sarà facile, per i cittadini, esprimersi : non ci sarà la
scorciatoia della tifoseria, né alcun cascame ideologico a pesare in una
direzione o nell''altra. Saremo, tutti, soli con la nostra coscienza. Dopo aver
cercato di capire, onestamente, che cosa è meglio fare. La composizione non
uniforme del fronte che invita ai quattro sì è una boccata d''aria fresca
</CS><CS9.8>per chi si è stufato delle intolleranze pregiudiziali e dei giochi
bloccati. È una boccata d''aria fresca la nascita di un comitato trasversale dal
titolo "Donne per il sì": le promotrici sono, tutte e quattro, Boniver
Prestigiacomo Bonino e Craxi (figlia), donne legate al centrodestra, al governo,
cioè, che questa legge ha varato e imposto. L''impresa ha, quindi, anche un
valore aggiunto: quello di mostrare, per una volta, l''indipendenza di una
componente poco rappresentata e ascoltata ai piani alti del potere, quella
femminile. Io ci credo che sono sincere, le quattro madri della battaglia per il
sì. Non è, la loro, una posizione di comodo per aumentare di peso nei partiti da
cui provengono, magari minacciandone la maggioranza con il babau di un voto non
allineato. Credo nella loro sincerità perché conosco le donne. Conosco quella
predisposizione incoercibile (benchè poco utile alla carriera) a lasciar
irrompere il personale nel politico, il privato nel pubblico, il sentimento nel
rigido palinsesto di priorità politichesi quali le sante alleanze, gli scambi di
favori, le tattiche aggressive, le logiche di conservazione del posto. Se la
battaglia per cambiare la Legge 40 sarà vinta da chi la vuole davvero riscrivere
tutta, vorrà dire, probabilmente, che le donne ce l''avranno fatta: innanzi
tutto a muoversi fuori dai ranghi dei partiti, e poi a portare al seggio,
ciascuna, due vicine di casa, due amiche, la zia vecchia e la figlia distratta,
dopo aver parlato e spiegato, raccontato storie vere o verosimili, per
convincere, per far capire. Con parole povere e concrete: "Ma ti pare giusto che
una povera disgraziata per avere un figlio deve farsi martirizzare? Ma ti sembra
decente che ti fanno mettere al mondo un bambino destinato a morire da piccolo
per non farti infilare dentro il seme di uno sconosciuto? Ma non ti sembra
cretino che fanno tutte ste storie sulle staminali? Ma lo sai che ci sono
cellule totoqualcosa che ti possono curare anche il Parkinson e l''Alzehimer e
così io e te non dovremo passare gli anni della maturità a occuparci di vecchi
malati? Ma perché questi ce l''hanno con noi. proprio con noi, con noi donne, ma
che gli abbiamo fatto? È ora che ci facciamo sentire no?". Sì, è ora.
Protestano contro il Cpt,
arrestati per terrorismo
di red
L'accusa è di «aver promosso, costituito,
organizzato, diretto e partecipato ad un''associazione finalizzata al compimento
di atti di violenza a fini di
eversione dell''ordine democratico e di altri gravi reati». Ossia di aver
violato l'articolo 270 bis del codice penale. Quello stesso articolo che ha
portato in carcere decine di islamici accusati di terrorismo internazionale e
numerosi attivisti fra cui il leader dei "disobbedienti" del Sud Francesco
Caruso.
Nei fatti i 5 «anarchici insurrezionalisti» che sono stati arrestati a Lecce nel
corso di un operazione condotta dalla Digos della Questura di Lecce e
coordinata dal Servizio Centrale Antiterrorismo della Direzione Centrale della
Polizia di Prevenzione, sono rei di aver «istigato» numerose rivolte
fra gli immigrati trattenuti all''interno del Centro di permanenza Temporanea
Regina Pacis di San Foca di Melendugno, aver «minacciato» il
personale operante al citato Centro di Trattenimento, di aver danneggiato
esercizi commerciali della società multinazionale di abbigliamento Benetton,
in quanto «appropriatasi» di vaste aree sudamericane, originarie del popolo
indio Mapuche, di aver incendiato numerosi sportelli bancomat di Banca
Intesa poiché depositaria dei fondi del Regina Pacis, e ancora di aver
danneggiato distributori della compagnia petrolifera Esso, in quanto
fornitrice di carburanti alla coalizione militare operante in Iraq.
Gli arresti degli anrchici di Lecce arriva il giorno successivo alla convalida
dei domiciliari peri 23 disobbedienti romani accusati di «rapina»
per la «spesa proletaria» del 6 novembre ad una libreria Feltrinelli e ad un
centro commerciale. Stavolta l'operazione è definita dagli inquirenti
addirittura come «antiterrorismo» e per arrivare agli arresti dei 5 sono stati
impiegate circa 150 unità della Polizia di Stato che hanno inoltre
eseguito oltre venti perquisizioni a carico di altri anarchici dimoranti nelle
province di Lecce, Aosta, Torino, Trento, Trieste, Chieti, Cagliari,
Taranto e Catania.
10 maggio
IL PERSONAGGIO
Il diplomatico
immaginario
dal nostro inviato ANDREA BONANNI
Putin e Berlusconi
MOSCA - A Yalta, nel febbraio '45, tra Roosevelt e Stalin
c'era Winston Churchill. A Mosca, nel maggio 2005, tra Bush e Putin
c'era Berlusconi. Nessuno se ne è accorto, per la verità. Ma questo
è comprensibile: le grandi superpotenze hanno sempre dissimulato le
loro armi segrete. Così Putin ha avuto colloqui bilaterali, pubblici
e teletrasmessi, oltre che con Bush, anche con i leader che contano:
con il cancelliere tedesco Schroeder, con il presidente francese
Chirac, con il cinese Hu Jintao, con il premier giapponese Koizumi.
Di Berlusconi non si è vista neppure l'ombra se non quando, con un
guizzo all'Alberto Sordi, ha approfittato di una distrazione del
protocollo per correre a mettere un braccio sulle spalle della
moglie del presidente russo.
La signora Ludmilla si è garbatamente scostata.
Ma queste erano solo apparenze ingannevoli. Come ingannevole deve
essere l'impressione, condivisa da tutti gli osservatori, che le
celebrazioni di Mosca non abbiano per nulla sciolto il nuovo gelo
nelle relazioni russo-americane. L'incontro tra Bush e Putin,
assicura Berlusconi, è andato benissimo: glielo hanno detto gli
interessati. Del resto è stato il presidente del Consiglio italiano,
come ha spiegato lui stesso ai giornalisti (italiani anche loro, per
fortuna) ad aver "opportunamente preparato" i due leader. È stato
sempre lui, assicura, ad aver ricucito lo strappo che proprio su
Yalta sembrava essersi consumato, quando Bush, nel solenne discorso
pronunciato a Riga, ha condannato la spartizione del mondo in sfere
di influenza decisa a tavolino sessant'anni fa.
Quisquilie, assicura Berlusconi, "è stata una cosa
occasionale, la risposta alla domanda di un giornalista, non ci sono
diverse interpretazioni".
Così Bush, che in spregio a Yalta e a quella che era la vecchia
sfera di influenza sovietica ha infilato la silenziosa tappa di
Mosca nel "panino" di una visita in Lettonia e di una in Georgia,
due paesi ai ferri corti con la Russia, è partito ieri per Tbilisi
dove lo hanno accolto come un liberatore. E Putin, di cui Berlusconi
ha garantito a Bush le credenziali democratiche perché "non è un
comunista", è andato personalmente a decorare il generale Jaruzelski,
quello che prese in potere nella Polonia sovietica per reprimere
Solidarnosc. Poi, nel corso dell'incontro con il cancelliere
Schroeder, ha promesso l'appoggio della Russia per un seggio tedesco
al consiglio di sicurezza dell'Onu che l'Italia sta cercando di
scongiurare con tutti i mezzi.
Forse Berlusconi non lo aveva "preparato" bene. O forse il russo,
pur essendo democratico, non è tanto sveglio è fatica a capire.
In quattro anni da presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi ci
aveva abituato alla sua imbarazzante ma quasi sempre innocua
megalomania nelle occasioni internazionali in cui rappresenta
l'Italia. Un difetto superato solo dalla straordinaria capacità di
travisare la realtà dei fatti. L'Europa ancora sogghigna per la sua
disastrosa conduzione del semestre di presidenza Ue. Ma se finora il
capo del governo aveva bordeggiato sull'abisso dal ridicolo, con le
dichiarazioni rilasciate ieri a Mosca ha fatto, come si dice, un
netto passo avanti sprofondando dalla commedia alla farsa.
Lo devono aver capito anche i sui "amici".
L'atteggiamento di Bush, che gli dà ragione sulle credenziali
democratiche di Putin e si dice pronto a "sostenere" il presidente
russo come Berlusconi lo sollecitava a fare, segna il passaggio di
quella linea sottile che separa la condiscendenza dalla compassione.
Un altro lusso che l'America può permettersi e che l'Italia, per
ora, deve limitarsi ad invidiarle.
6 maggio
IL COMMENTO
Gli omissis
del Cavaliere
di GIUSEPPE D'AVANZO
BERLUSCONI vuole chiudere il "caso
Calipari" senza danni per la dignità nazionale e la politica estera
del governo. Si muove con equilibrio lungo un sentiero assai
stretto. Non può accusare gli Stati Uniti. Al contempo, non può
condannare le manovre che egli stesso ha deciso e coordinato.
Concede all'amico americano, "in buona fede", che la morte di
Calipari è stato "un incidente"; che "non c'è stata alcuna
volontarietà".
Rivendica il diritto di ricordare che "l'assenza di un dolo non
esclude la colpa, che può essere ascrivibile all'imperizia, alla
negligenza". L'assassinio di Nicola Calipari è stato, per Berlusconi,
l'omicidio colposo di un pugno di soldati molto impauriti e male
addestrati perché, dice, quel check-point "non era regolare:
mancavano segnali che lo rendessero visibile". La ricostruzione del
presidente del Consiglio permette di lasciare al loro posto le
tessere più controverse del mosaico che ha costruito in questi anni.
Un legame di fedeltà gregaria con Washington. La legittimità della
nostra "missione di pace" in Iraq. La creazione di "scenari"
inattendibili quanto spaventevoli.
"Non rinunciare alla verità", chiedono le opposizioni, con Fassino.
Il problema si nasconde appunto in queste quattro parole. Venire a
capo di quell'"incidente", non rinunciare alla verità, vuol dire
rovesciare come un sasso le tessere che il capo del governo non ha
voglia di maneggiare. Sotto quei sassi ci sono, con molte muffe,
alcune delle ragioni che hanno consegnato Nicola Calipari al
sacrificio. Berlusconi sottrae quelle ragioni al dibattito. Non dice
che abbiamo trattato e promesso di pagare i sequestratori di
Giuliana Sgrena. Tace la ferma contrarietà di Washington a ogni
trattativa. Non fiata sulla decisione di nascondere agli alleati
l'obiettivo della missione di Calipari a Bagdad. Acceca il ruolo
della nostra intelligence.
La verità, dunque. L'abitudine a dire la verità non è mai stata
annoverata tra le virtù politiche e tuttavia "arriva sempre il
momento in cui la menzogna diventa controproducente". Quel momento,
quell'attimo in cui la menzogna si rivolta contro chi l'ha
costruita, è giunto con la morte di Nicola. Il destino di Calipari
consegna la scena alla durezza di ostinati fatti che, come sempre
accade da quando un bambino gridò "il Re è nudo", non rivelano nulla
che un lettore medio di quotidiani e settimanali non sappia già.
L'operazione di peace-enforcement è una deliberata negazione della
verità fattuale. Tutte le funzioni di costruzione e rispetto della
pace in Iraq sono alla malora. Sono fallite le operazioni per creare
condizioni di sicurezza necessarie a negoziare la risoluzione del
conflitto (funzione militare). Non si soccorre la popolazione
(funzione umanitaria). Non si promuove la riconciliazione nazionale
(funzione sociale). Appare destinata a diventare guerra civile la
nascita di un governo legittimo (funzione politica).
L'Iraq è, in ogni città e villaggio e angolo di deserto, un campo di
battaglia. Lo ammette il rapporto americano, una volta liberato
dagli omissis: "Dal 1° novembre 2004 al 12 marzo 2005, ci sono stati
nella sola area di Bagdad 3.306 attacchi, di cui 2400 contro le
forze della coalizione. Il numero degli attacchi sale a 15.257 se si
considera l'intero territorio dell'Iraq: gli Stati Uniti considerano
l'intero paese zona di combattimento".
In questo scenario l'impostura della "missione di pace" deve
dimenticare guerra, morte e politiche storte. Quando un cittadino
italiano finisce nelle mani delle bande di guerriglia o di
formazioni terroristiche consideriamo il sequestro un "national
issue", come dice Cossiga, una faccenda privata. La gestione di "un
affare interno" si può truccare a piacere, secondo la contingenza e
soprattutto in segreto. Da sempre, la segretezza e l'inganno sono
considerati mezzi legittimi per il raggiungimento di scopi politici.
E' però in questo scarto tra verità e menzogna, tra sostegno alle
decisioni del governo e servizio alla sicurezza del Paese che
affiora un protagonista strategico della politica del governo
Berlusconi, l'intelligence militare.
Berlusconi non ne parla. Curiosamente, nell'intervento alla Camera,
non cita neppure il Sismi. Neanche per ringraziarlo. Mossa furba. E'
nel legame di Berlusconi con l'intelligence, e dell'intelligence con
il governo, che si toccano i fili sensibili di questa storia e si
scova qualche verità e significato politico in un affare che,
altrimenti, rischia di diventare soltanto un maneggio di spie.
In quest'affare - che non è soltanto la morte di Calipari, ma la
storia della nostra avventura in Iraq - gli agenti segreti hanno
fatto il loro lavoro creando le condizioni per oscurare il rapporto
tra i fatti e le decisioni. Per i sequestri, ad esempio. Ci è stato
raccontato che i tre body-guard furono liberati dai "nostri" e
invece "i nostri" non c'entravano. Per giustificare un fallimento,
fu suggerito ai media che Enzo Baldoni fosse stato ucciso dai suoi
carcerieri perché aveva tentato di ribellarsi. Colpa sua. E' stato
negato di aver pagato un riscatto per le due Simone. Si sono volute
tacere le condizioni del sequestro di Giuliana Sgrena.
Non c'è da vergognarsi, conviene ripetere, che per le due Simone sia
stato pagato un riscatto, ma la nuova crisi, con Giuliana
prigioniera (pur se liberata con un riscatto), avrebbe dovuto
imporre una riflessione pubblica, nuovi e condivisi impegni politici
perché la Sgrena, come il Sismi dovrebbe sapere, è stata sequestrata
dagli stessi uomini che hanno intascato il denaro per le Simone.
L'essenziale dettaglio mostra come gli italiani siano diventati
bocconi ghiotti, "obiettivi privilegiati": il governo di Roma paga,
subito e in contanti. La debolezza della nostra politica espone e
non protegge dall'aggressione di banditi, guerriglieri, terroristi,
dall'ostilità del comando americano e, quel che più conta, lascia le
spalle scoperte a tutti gli italiani costretti a stare in Iraq. Non
tanto i giornalisti, oggi richiamati, ma coloro che per lavoro
devono ancora stare in quel Paese: diplomatici, uomini d'affari,
body-guard, lavoratori dell'industria del petrolio. Non ultimi, i
nostri tremila soldati.
Queste informazioni sono state negate all'opinione pubblica e anche
a chi, come l'opposizione, è stato associato alle decisioni di
trattare e pagare. Se Nicola non fosse morto in un "incidente",
questa strategia che condiziona la politica estera e interna del
Paese si sarebbe riprodotta ancora. Nicola è morto e il congegno,
che ha confuso l'opinione pubblica dopo l'11 settembre, si è rotto.
La menzogna oggi si rivolta contro chi l'ha costruita e impone di
aprire il libro e leggere come sono andati davvero i fatti in questi
anni. Qualcosa già sappiamo.
L'intelligence militare (di fatto, la sola intelligence di cui
dispone il Paese) si è trasformata da agenzia di informazioni
necessarie alla sicurezza nazionale, in una squadra di "problem-solvers"
e uomini di mano capaci di trasformare, a uso politico, le ipotesi
in realtà e le teorie in fatti accertati. E' nelle stanze del Sismi,
a palazzo Baracchini, che passa il dossier "Nigergate". Lo combina
un collaboratore del Sismi sotto gli occhi della "sonda" del
servizio nell'ambasciata nigerina a Roma.
Accredita che Saddam si stia procurando uranio arricchito dal Niger
per la sua bomba sporca. E' il caso di ricordare che Bush afferra
quella (falsa) evidenza per dare inizio alla guerra. E' il Sismi che
tesse il filo con Michael Ledeen, l'inviato del Pentagono (poi
scaricato: troppo agitato), in vista di una espansione del conflitto
all'Iran degli ayatollah. E' il Sismi che crea in Italia, con il
costante allarme di attentati (alle metropolitane di Milano e Roma;
alla basilica di san Pietro; alla nostra ambasciata a Beirut, per
dirne qualcuno), un clima emotivo e caotico, che convince una parte
di opinione pubblica ad accettare, come una necessità, la "missione
di pace" in Iraq.
Al Sismi sembrano sapere che le menzogne sono spesso molto più
plausibili, più ragionevoli della realtà stessa. Chi mente ha il
grande vantaggio di sapere in anticipo quello che il governo
desidera o il pubblico si aspetta di sentire. E' quel che accade da
noi, e non solo negli Usa. La manipolazione dell'opinione pubblica,
i dossier farlocchi, le informazioni bugiarde hanno preparato la
guerra; hanno costruito (artificiosi) "pericoli concreti e
imminenti" per l'Italia; hanno giustificato l'invio dei soldati in
Iraq; hanno legittimato le scelte del governo anche quando è stato
costretto a truccare le carte con l'alleato per riportare a casa i
nostri "prigionieri di guerra".
Se non si vuole rinunciare alla verità, anche in
nome del sacrificio di Nicola Calipari, bisogna sentire il dovere di
scrivere questa storia dall'inizio, con tutti i capitoli giusti.
Nella speranza che i prossimi possano essere più rispettosi della
verità. Senza un'informazione basata sui fatti e non manipolata - ha
scritto ancora Hannah Arendt - "ogni libertà d'opinione diventa una
beffa crudele".
4 maggio
Fioriscono in
Iran, Cina, Nepal, Tunisia. Offrono una voce
libera a chi si ribella alle censure dei governi sul web
Minacce, arresti e censure
la vita difficile di quei blogger
RSF
premia il miglior blog che difende la libertà di espressione
di FRANCESCO CACCAVELLA
Il blog di Mohamad Abdolahi
ROMA
- Prima di aprire il suo blog, Mohamad Abdolahi forse sapeva già a
cosa sarebbe andato incontro. Mojtaba Saminejad e Arash Sigarchi,
iraniani come lui, erano
agli arresti per aver denunciato sui loro blog i soprusi
cui vanno incontro giornalisti e blogger sul suolo del grande paese
islamico. Arrestati per insulto alla figura delle autorità religiose
e per crimini contro lo stato iraniano.
Le stesse accuse sono state rivolte verso Abdolahi, incarcerato lo
scorso 28 febbraio e condannato a sei mesi di prigione. Secondo lo
scarno comunicato di Reporter senza frontiere, il blogger, attivista
nel campo dei diritti civili, aveva pubblicato sul suo
Iran Reform
una lettera aperta in lingua farsi all'ayatollah Ali Khamenei. Anche
sua moglie, la blogger Najmeh Omidparvar, ha dovuto subire 24 giorni
di prigione per aver cercato di aiutare il marito pubblicando sul
blog un suo messaggio e rilasciando interviste.
Abdolahi è solo uno dei molti cyberdissidenti imprigionati. Sono
blogger, a volte anche giornalisti, e vivono nei paesi in cui la
censura è più opprimente e dove Internet non è uno strumento libero.
Oscurati e filtrati all'interno del loro paese, fioriscono dove lo
sviluppo tecnologico mette in mano a tutti i blog, trasformati in
liberi fogli pubblici su cui esprimere le proprie idee. Non solo in
Iran, ma anche in Cina, Nepal, Singapore, Tunisia. E anche nell'Iraq
liberato.
In Nepal i blog sono l'unico strumento attraverso cui viene
veicolata la libera espressione. Da quando, lo scorso febbraio, il
re Gyanendra ha assunto con un golpe i pieni poteri, solo i giornali
governativi hanno diritto a pubblicare i dettami del monarca e solo
i blog sembrano poter scalfire la rigida censura.
United We Blog e
Radio Free Nepal
aggiornano continuamente i loro siti con foto e racconti delle
convulse giornate e informano il mondo, in inglese, dei continui
abusi su giornalisti e società civile. "Io scrivo ciò che vedo e che
penso", ha dichiarato l'anonimo editore di Radio Free Nepal alla
Reuters. Il blogger è costretto, per non essere arrestato, a inviare
e-mail con i messaggi da pubblicare ad amici al di fuori del paese.
In Cina, secondo la BBC, sono 63 i cyberdissidenti tuttora
incarcerati. Motivi politici ma anche religiosi, come quelli che
tengono in carcere dal 2003 Zhang Shengqi, che ha messo online
documenti sulle azioni di repressione del governo cinese verso la
comunità cristiana. L'accusa: "violazione di segreti di stato". A
marzo 2004 il governo cinese arrivò addirittura a chiudere i tre
maggiori servizi cinesi di pubblicazione di blog (blogcn.com,
blogbus.com, e blogdriver.com) poiché su alcuni di essi erano stati
trovati messaggi riguardanti i fatti di piazza Tiananmen e
l'epidemia di Sars. Sono stati riaperti solo dopo aver introdotto
sistemi di filtraggio automatico.
I blog danno voce a tutti e tutti possono trovarsi in pericolo. A
Singapore diversi blog, sempre secondo Reporter senza frontiere,
hanno dovuto chiudere i battenti dopo essere stati minacciati di
denuncia dal direttore dell'Agenzia statale per la Scienza e
Tecnologia; in Bahrein, il ventisettenne blogger Ali Abdulemam è
stato arrestato a fine febbraio per aver pubblicato sul forum
Bahrain Online dei messaggi critici verso il regime del piccolo
stato arabo. Zouhair Yahyaoui, per tutti Ettounsi, creò nel 2001 uno
dei più noti blog francofoni tunisini,
Tunezine.com;
arrestato nel 2002 per "divulgazione di false notizie" e rilasciato
dopo 18 mesi, è morto lo scorso marzo a soli 36 anni, sfiancato da
una dura detenzione.
Anche l'Iraq può contare i suoi blog censurati, ma da parte
americana. Il maggiore Michael Cohen, medico militare del 67esimo
reggimento a Mosul, nel nord dell'Iraq, gestisce dal 2004 il sito
67cshdocs.com. Sul
blog oggi rimane solo una scritta: "Superiori mi hanno ordinato, sì,
proprio ordinato, di chiudere chiudere questo sito. Secondo loro le
informazioni contenute in queste pagine violano diversi regolamenti
dell'Esercito". L'esercito americano, chiarisce un portavoce della
coalizione, permette ai soldati di gestire un blog se non rivela
segreti che mettano in pericolo l'incolumità dei soldati. Pochi
giorni della chiusura, il dottor Cohen aveva descritto con grande
pietà umana l'inferno dell'attacco alla base di Mosul del 21
dicembre: 22 morti e 60 feriti americani.
I blog sono uno strumento di libertà e, per "onorare" la loro
importanza, Reporter senza frontiere ha istituito anche un premio.
Per il "Freedom
of expression blog award" sono in lizza 60 blog da tutto il
mondo, in inglese, francese, russo, arabo, farsi e anche in
Italiano. Chiunque, fino al primo giugno, può registrare il proprio
voto e rendere omaggio a chi difende a caro prezzo la libera
espressione delle idee.
3 maggio
Confesso: sono un
disfattista |
STRETTAMENTE
PERSONALE |
Lo ammetto: sono
un disfattista. Forse ha ragione Berlusconi: c' è in giro troppo
pessimismo. Invece, tutto va bene, signor Presidente, anche se, e mi
ripeto, sono convinto che per molti italiani, il mese abbia una
settimana in più: quella nella quale riempiono meno il carrello del
supermercato. Il cavalier Berlusconi mi fa tornare in mente una
storiella che si racconta dalle mie parti: un marito ritorna in
anticipo e trova occupato il suo posto nel letto coniugale. Per non
disturbare troppo la consorte non accende la luce, ma chiede alla
sposa: « Ma chi è? » . Risposta: « È la Giulia » . Commento: « Ma
come mai ha i baffi? » . L' onorevole Berlusconi ci esorta ad essere
ottimisti, mentre si riduce la crescita del Paese e aumenta il
deficit. Eppure, dice il presidente del Consiglio, guarda un po'
dove siamo arrivati e, se gli italiani lo vorranno, « tutto andrà a
posto » . Mentre Bruxelles sta per richiamare l' Italia « per
indebitamento eccessivo » , il premier è fiducioso: « Tutto andrà a
posto se lo vorranno 57 milioni di concittadini » . Per cominciare,
adesso che ha sistemato certe fastidiose pendenze, non potrebbe
lasciar fare la politica nazionale a gente del ramo? Gli
dispiacerebbe troppo riconoscere che De Gasperi, vituperato anche
dalle sinistre ( « E vattene, odioso cancelliere / se no ti
prenderemo a calci nel sedere » ) , era di un' altra ( non si
offenda) statura? E che il mite e coraggioso Parri è morto povero
all' Ospedale militare del Celio? E viaggiava di notte perché non
poteva permettersi certe spese? Ma è proprio convinto, onorevole
Berlusconi, che sia colpa degli italiani, troppo pessimisti, se le
cose vanno male? Che cosa abbiamo fatto? Dica ( se crede) quali sono
i primi provvedimenti che ha preso appena è arrivato a Palazzo Chigi,
come se andasse in ditta? Non ha, per caso, dato qualche importante
dirigenza in Rai a chi ha dichiarato, che tenerezza, che lui e tutta
la famiglia ( penso alla povera nonna) l' amano e la votano? Ultima
domanda: perché non fa Mike Bongiorno ministro? Almeno, allegria.
Biagi Enzo |
1
maggio
Oggi
per le vie di Scampia
I sindacati confederali hanno scelto il quartiere di
Napoli per festeggiare il Primo Maggio. In tanti in corteo sulle strade dove si
è consumata la guerra dei clan
PAOLO ANDRUCCIOLI
Il corteo partirà da piazza della Libertà e si concluderà
nella villa comunale del quartiere di Scampia, divenuto tristemente famoso per
la guerra tra i clan della camorra e visto in tv, magari di sfuggita, per le
riprese esterne della «Squadra», uno dei tanti serial dedicati alla polizia.
Oggi sono attese almeno 50 mila persone in piazza. I tre segretari generali di
Cgil, Cisl, Uil hanno spiegato ieri con un articolo a tre firme pubblicato in
prima pagina da l'Unità, il senso di questa scelta inusuale che - sui
quotidiani locali napoletani - è stata perfino oggetto di accesi dibattiti.
Andare a Scampia, spiegano i segretari confederali, per rovesciare il luogo
comune sul quartiere napoletano come «luogo simbolo della criminalità». Scampia
dovrà diventare invece il luogo simbolo della lotta alla criminalità perché i
lavoratori, la gente che vive a Scampia, i ragazzi che ci nascono hanno un
problema in più oltre quelli che assillano la generalità delle persone. Nascere,
vivere e lavorare a Scampia, come in altri luoghi dove è forte la presenza delle
organizzazioni criminali, significa fare i conti con la violenza di chi pretende
di decidere sulla vita delle persone. Per questo i sindacati hanno scelto di
indicare Scampia come il luogo simbolo del Primo Maggio 2005. Simbolo della
necessità di ripensare e ricostruire il concetto di legalità in un paese dove
sembra trionfare la cancellazione delle regole della convivenza. Simbolo perché
è il Sud la prima vittima delle politiche economiche del governo Berlusconi. «E'
un'idea insieme molto semplice e molto forte», spiegano gli organizzatori della
manifestazione. Ed è un'idea che potrà avere effetti positivi nel suo
svolgimento concreto, perché è la prima volta che un corteo per festeggiare il
Primo Maggio viene fatto passare per le stesse strade che hanno visto le
sparatorie della camorra. Una manifestazione, poi, in un quartiere dove la
sinistra ha comunque sempre vinto le elezioni e dove sono radicate le esperienze
di base della stessa sinistra, a partire dai circoli. L'attuale segretario della
Camera del lavoro di Napoli, sindacalista della Cgil, è nato e resiede a Scampia.
Tutto sommato Scampia è un quartiere relativamente giovane, sia per la data di
costituzione sia per la media di età dei suoi abitanti. E' sempre stato un
quartiere «dormitorio», con una popolazione di ceto medio-basso, con gravi
problemi di scolarizzazione. In Italia il tema degli abbandoni scolastici e
della esclusione di consistenti fasce di ragazzi dalla scuola per ragioni
economiche è ridiventato un problema. Qui a Scampia è un dramma. Come spesso è
un dramma la vita dei minori, tante volte anche soli per l'assenza temporanea
dei genitori o del genitore detenuto. Un'altra caratteristica sociologica di
questo quartiere di Napoli riguarda il lavoro. Guardando i dati statistici ci si
accorge infatti che prevalgono, nelle graduatorie, sempre i soggetti in cerca di
prima occupazione rispetto ai disoccupati veri e propri. Per i giovani il dramma
è dunque doppio: esclusione dalla scuola, quasi nessuna prospettiva di lavoro o
comunque rischio continuo di diventare succubi dei ricatti della criminalità.
Manifestare dunque a Scampia per dimostrare che le cose si possono cambiare. Una
festa celebrata nel cuore dei problemi del sud, ha spiegato ieri il segretario
generale della Cgil, Guglielmo Epifani, per ritrovare la fiducia nel futuro.
Scampia non è il simbolo dell'illegalità, è piuttosto il simbolo delle tante
Scampia che compongono il nostro Sud, ha detto ieri il segretario della Cisl,
Savino Pezzotta. Ognuno dovrà fare la sua parte per il rilancio, ha detto il
segretario della Uil, Luigi Angeletti. Vedremo quindi presto come le parti in
causa reciteranno la loro parte. Un modo sarebbe quello di trovare le risorse a
livello europeo.