Archivio giugno 2005
30 giugno
LA STORIA. Una capillare divisione delle
poltrone tra presidenze
e assessorati. E nessuno vuole più i portaborse di prima
Un consigliere, sette portaborse
il manuale Cencelli della Calabria
di ANTONELLO CAPORALE
La sede della Regione
Calabria
PIÙ poltrone per tutti. Sono stati i calabresi a porsi subito il
dilemma, e loro per primi hanno tentato di offrire una risposta.
Piccola, parziale, ma qualcosa finalmente c'è stato. Il parlamentino
regionale ha iniziato a dare il buon esempio dichiarando guerra ai
nullafacenti. Nella passata consiliatura molti eletti vivacchiavano,
immobili e persi nella propria solitudine. Questa volta ciascuno ha
avuto un ruolo, un ufficio da ricoprire.
I trenta consiglieri della maggioranza sono tutti presidenti di
commissione; e chi non è presidente è assessore, e chi non è
assessore è capogruppo. Tutti e trenta.
E ognuno finalmente può godere di un autista, di un addetto stampa,
di una segretaria, una vicesegretaria, un assistente laureato e uno
solo diplomato. Cinque, sei, per i più bravi anche sette persone a
struttura, sette contratti, sette impegni lavorativi, sette missioni
da affidare. Insomma e dunque: più poltrone per tutti e più lavoro
per tutti.
Nell'ultima e più rilevante seduta del Consiglio, la maggioranza di
centrosinistra ha calcolato attentamente le risorse in campo e ha
promosso, in modo turnario, ogni suo consigliere: io sono presidente
e tu vice alla commissione Agricoltura, ma poi io sono vice di te
all'Industria. Franco La Rupa è questore ma anche segretario della
prima commissione, Cosimo Cherubino è capogruppo socialista e
segretario di qualcos'altro. Con questa formula ogni esigenza e
ambizione è andata soddisfatta: chi non è entrato al governo guida
il gruppo; chi non guida il gruppo guida la commissione. Prendiamo
l'Udeur: aveva cinque eletti da sistemare. Pasquale Tripodi ed Ennio
Morrone sono assessori; Antonio Borrello è segretario questore, La
Rupa è capogruppo e Domenico Tallini presidente di una commissione
"speciale" di Vigilanza. Cinque su cinque. Filotto anche per Unità
socialista, per la Margherita, per i Democratici di sinistra. Chi è
parso così scarso da non poter puntare né a un assessorato, né a un
gruppo politico né a una commissione, è diventato "sottosegretario"
alla Presidenza.
In Calabria s'era in precedenza deciso anche di più. Il
centrodestra, che al solito vuole strafare, nel suo mandato di
governo aveva rivoluzionato il concetto algebrico dei numeri,
definendo meglio, anzi innovando la teoria dell'uno. Nacquero i
monogruppi. Gruppi di uno ma figurativamente gruppi di due. Con
questa semplice ma geniale rivoluzione, i singoli consiglieri ebbero
più uffici, più dipendenti, più assistenti. Ancora meglio andò nel
2002, con la legge numero 25, a Catanzaro nota come la legge dei
parenti. Ingiusta definizione per un concorso che vide finalmente in
ruolo organico una moltitudine di giovani speranze. Questi ragazzi
sono stati assunti ma, sembra, adesso nessuno li vuole più.
Essendo portaborse dei vecchi consiglieri, o anche soltanto loro
parenti (alla lontana, beninteso!), i nuovi, che hanno un altro
indirizzo politico, non vorrebbero avvalersene. I trenta presidenti,
capigruppo e assessori vorrebbero scegliere fiduciariamente i propri
assistenti. Sei per trenta fa centottanta. Centottanta posti di
lavoro in più, una piccola ma sana scossa all'economia calabrese.
C'è da riferire che il centrosinistra ha abolito i monogruppi,
riconoscendo all'uno il valore di uno e tentando, per via
matematica, di definire due persone se sono due distinti i corpi e
le cravatte che si affacciano sull'uscio. Di più, e sembra per
responsabilità del presidente del Consiglio, il diessino Giuseppe
Bova, le commissioni consiliari sono state addirittura ridotte del
trenta per cento. "Io lascio l'auto blu in garage e finche posso
farò da me", dice Bova. Finché lui potrà, ma gli altri? Le auto di
servizio servono al servizio...
Del resto anche in Campania, nel giardino di casa Mastella, quando
marito e moglie sono riuniti per cena, ci sono almeno tre
lampeggianti accesi e sei persone che sorvegliano la frittura di
calamari. La signora Sandra è fresca di nomina a presidente del
Consiglio regionale e reduce da una grandissima innovazione
legislativa. Pur di tener fede agli accordi bipartisan col
centrodestra, i campani hanno ridefinito le procedure per dare
impulso e ragioni istituzionali al ruolo del Consiglio. Sono state
così istituite, accanto alle sei commissioni permanenti, dodici
commissioni speciali, almeno metà delle quali affidate alla cura
dell'opposizione. Un bell'esempio di concordia politica. Le
commissioni speciali vigileranno un po' su tutto, e controlleranno
ogni atto di Antonio Bassolino, lieto peraltro dell'occhiuto
controllo. Nell'ordinata seduta consiliare, guidata con sapienza
dalla signora Sandra, solo una voce stonata ha rotto il coro dei
consensi.
Quella della diessina Luisa Bossa, già sindaco di Ercolano. La Bossa,
dubbiosa, si è chiesta: "Si fa una commissione sul Mediterraneo e
un'altra sul mare. Ma in questo modo non sembra che il Mediterraneo
l'abbiamo fatto diventare terraferma?". Al suo dubbio sono seguiti i
docili rimproveri di Bassolino: anche tu hai fatto il sindaco, e
anche tu sai cosa significa siglare dei compromessi. Mare e monti,
disabili e computer. Ogni attività umana è sottoposta al controllo
di una commissione speciale. Italo Bocchino, capo dell'opposizione,
va fiero dell'accordo. Ma in casa del centrodestra si sono levati
dei mugugni. Specialmente dalle parti di Forza Italia. Fulvio
Martusciello: abbiamo così tante commissioni che ogni giorno almeno
quattro dovranno essere riunite. Molti di noi dovranno essere
contemporaneamente presenti in più d'una e dunque...
E dunque niente. Benché il bilancio della Campania non preveda
incrementi di dotazioni finanziarie, e quindi le diciotto
commissioni dovranno spartirsi i soldi e le strutture per il
funzionamento che prima erano devolute soltanto alle sei permanenti,
è certo che i dodici presidenti nuovi aggiungeranno alla mesata da
consigliere (indennità quasi pari a quella del parlamentare
nazionale) altri 1800 euro. I vice godranno di un piccolo benefit di
900 euro, i segretari di soli 450. Avranno più soldi, vero, ma più
responsabilità. E, vedrete, faranno in modo di organizzarsi secondo
le regole turnarie calabresi aggiornate alle tematiche campane: chi
si occupa di Mediterraneo si prende cura anche delle risorse del
mare, compresa tutta la fascia di navigazione Ischia-Capri. Chi
controlla le spese e i programmi per i disabili, aggiunge alle sue
competenze la Sanità (ortopedia, cardiologia, chirurgia d'urgenza).
I controllori speciali dell'informatica coniugheranno l'attività con
qualche altra utilmente sinergica.
Tutto si può e tutto si fa. E il meglio, questo
sembra garantito, deve ancora venire.
29 giugno
IL COMMENTO
La vendetta
del Cavaliere
di CURZIO MALTESE
CON la riforma della giustizia il governo Berlusconi ha completato l'opera
mantenendo tutte le promesse che il premier aveva fatto a se stesso. Era
difficile ottenere tanto sul piano personale da cinque anni di potere. Era
anche difficile produrre danni più profondi al Paese, alla sua economia,
alle istituzioni. In piena recessione e con l'azienda Italia sull'orlo di un
collasso, la maggioranza chiude i lavori come aveva cominciato, con
l'ennesima guerra alla magistratura. Non si può definire altrimenti una
controriforma della giustizia ispirata dal Piano di Rinascita di Licio Gelli
e aggiornata con i consigli di Previti e Dell'Utri, che è riuscita
nell'impresa di saldare nell'opposizione tutte le componenti della
magistratura, dell'avvocatura e del pensiero giudirico.
Il professor Calvi, giurista e senatore diessino, l'ha definita "il
raffinato tentativo di giungere alla paralisi del sistema giudiziario" e non
ci sarebbe da aggiungere molto.
Semmai da togliere l'aggettivo "raffinato".
L'impianto della legge riflette piuttosto quel clima da festa galeotta che
già si respirava nelle leggi sul falso in bilancio, sulle rogatorie, Cirami,
Lodo Schifani, Cirielli e le altre tappe dell'infinito regolamento di conti.
Leggi mal concepite e peggio scritte, scaturite da una frettolosa arroganza,
poi abbandonate per strada o bloccate dalla Consulta, come forse capiterà
anche a questa nei problematici passaggi alla Camera, alla firma di Ciampi e
all'esame di costituzionalità.
E' una riforma vendicativa per il passato e pericolosa per il futuro. Qui
non s'è trattato soltanto di mettere la pietra definitiva sul ricordo di
Mani Pulite, ormai sepolto da una vera lapidazione. A proposito, proprio
ieri il comune di Milano ha pensato bene di celebrare con una targa Bettino
Craxi, in piazza del Duomo 19, dove Larini portava le tangenti. La
controriforma approvata al Senato rappresenta un passo ulteriore, segna
l'avvio di una specie di guerra preventiva contro la magistratura
indipendente, nel caso osasse ancora indagare sul malaffare politico.
Gli strumenti sono gli stessi sognati dai tangentisti: la sottomissione di
fatto della magistratura alla politica e la separazione delle carriere. Con
in più qualche effetto speciale grottesco, come la norma ad personam per
impedire a Giancarlo Caselli di guidare la procura antimafia. Oppure
l'inserimento dell'ormai celebre test "psicoattitudinale" per l'accesso alla
professione, che certo sarà studiato in modo da premiare i magistrati
"sani", come per esempio Squillante o Carnevale, ed espellere i "malati", i
futuri Borrelli, Di Pietro, Davigo, Colombo.
Tutto questo può costituire un vanto per Berlusconi, l'unico presidente del
consiglio occidentale a piede libero per prescrizione, e magari per il
ministro Castelli una bandierina da sventolare alla prossima scampagnata a
Pontida. Ma è anche serio motivo d'imbarazzo per il Quirinale e una vergogna
per i cittadini onesti.
Stavolta però ancor più del basso livello etico della maggioranza colpisce
il grado di follia che sprigiona da quest'ultimo assalto alla diligenza. In
fondo a quattro anni di governicchio, dopo una serie impressionante di
batoste elettorali, con i conti pubblici allo sfascio e le famiglie
impoverite, la maggioranza trova ancora il coraggio di rilanciare la guerra
alla giustizia.
Come se davvero non esistessero altri problemi.
Nell'afa romana, alla vigilia delle vacanze, berluscones e centristi,
leghisti e cosiddetta destra sociale, riescono a compattarsi per l'ennesima
volta sugli affari del presidente. E' una replica della replica, fonte quasi
più di noia che d'indignazione. E quanto sono seri e gravi, quanto è
compreso nel ruolo il premier quando parla di magistratura.
Mentre invece sui problemi di milioni di famiglie che non
arrivano a fine mese si può, anzi si deve scherzare, raccontare barzellette
sui telefonini e le morose, spargere i consigli del miliardario alle
casalinghe sul come fare la spesa al mercato. Con grandi pacche sulle spalle
e qualcuna sul sedere, alle signore, se non sono finlandesi che si
offendono. Ma come pensano questi di sopravvivere alle prossime elezioni?
Non basterà neppure l'autolesionismo dell'Ulivo.
28
giugno
L'Italia cresce
Grazie ai figli dei migranti |
Abbiamo la
fecondazione assistita. Dagli immigrati. Probabilmente senza ricorso
agli embrioni congelati e all'eterologa, naturaliter. Gli ultimi
dati Istat sull'andamento demografico in Italia, resi noti appena
ieri, annunciano trionfalmente che la popolazione nel nostro Paese è
aumentata, dal 2003 al 2004, di ben 573.130 creature, un bell'1 per
cento in più. Il che ci porta a sussistere, qui sullo Stivale, in
58.462.375, dai 57 milioni e ottocentomila che eravamo un anno
prima.
Ma la bella notizia non si ferma qui. Infatti - è lo stesso Istat a
sottolinearlo - circa due terzi dell'incremento demografico è dovuto
alla popolazione immigrata, che in 12 mesi ha fatto registrare nel
BelPaese 379.717 nuovi cittadini e parecchi nuovi bebè.
Il resto del benefico incremento è dovuto a rettifiche censuarie
rispetto al 2001, pari a 150 mila unità; a un saldo positivo
interno, pari a 25mila, e, in coda, al non trascurabile fatto che i
vivi sono stati più dei morti, un conto pari a 15 mila persone. Un
dato, quest'ultimo, non grandioso, fa notare la Statistica
nazionale, ma è il primo saldo positivo - così è chiamato - da 13
anni a questa parte, appunto i vivi che battono i morti. Segnamolo
con la matita bianca, evviva.
Una nuova stirpe meticcia cresce, su suolo italico e, a quanto pare,
velocemente: un primo effetto delle regolarizzazioni avvenute dopo
il 2002; niente affatto male. Però anche le donne italiane si sono
date una mossa: nello stesso periodo considerato, infatti, il tasso
di fecondità è salito; non vertiginosamente, ma è salito, passando
da una media di 1,19 figli per donna del 1995 a ben 1,33 figli,
sempre per ogni donna feconda, un bel salto...
Procreazione comunque sempre più posticipata: intorno ai 30 al Nord
e al Centro, intorno ai 28 al Sud. Insomma, ci si accontenti, anche
se è lo stesso Istat ad avvertire che non siamo di fronte ad una
vera inversione di tendenza.
Comunque, la nuova mappa demografica dice anche che si nasce più al
Nord: in particolare è nel Nord est che si è procreato di più, col
6,3 per cento di incremento sul 2003; nel Nord ovest si ha il 5;
buona anche l'Italia centrale, col 5,3. «Un incremento lieve ma
costante, particolarmente accentuato nel 2004 e da mettere in
relazione anche alla maggiore presenza straniera. Negli ultimi 5
anni infatti l'incidenza delle nascite di bambini stranieri sul
totale dei nati della popolazione residente è più che raddoppiata,
passando dal 3,9 per cento del 1999 all'8,6 del 2004». Così è che,
grazie ai bimbi venuti da altrove, si nasce di più in Liguria, in
Lombardia (10 per mille), in Veneto, ma anche in Campania, in
Puglia, in Sicilia: là in sostanza «dove c'è una presenza straniera
più stabile e radicata».
E vediamo dove si muore di più, tanto per sapere. Secondo l'Istat
(ma sembra Monsieur La Palisse) si muore di più nelle regioni «a più
forte invecchiamento». Va così che i tassi di mortalità variano da
7,7 morti ogni mille abitanti in Puglia a 12,9 in Liguria, questo
rispetto a una media nazionale del 9, 4. E si muore di più nel Nord
ovest, Nord est (esclusi Lombardia e Veneto) e nel Centro; mentre
hanno un tasso di mortalità inferiore alla media tutte le regioni
del Sud (tranne Abruzzo e Molise) e le Isole.
Ultimi aumenti a parte, risulta che la zona dell'Italia più popolata
(non si sa quanto felicemente) è pur sempre il Nord, che ospita
quasi 27 milioni di abitanti (il 45 per cento); segue il Centro con
poco più di 11 milioni, poi il Sud con 14 e le Isole con 6.
Non siamo immobili. Nel corso del 2004 ci siamo spostati, da un
posto all'altro, in cerca di nuova vita. Quasi un milione e mezzo di
italiani ha infatti trasmigrato, nel solo 2004, dal Sud al Nord e al
Centro (nihil novi). Regione preferita, ambita e attrattiva, sia per
i migranti italiani che per quelli stranieri, risulta essere
l'Emilia Romagna, prescelta dal 14 per mille. Seguita dalla
Lombardia, col 12,9 e dall'Umbria, 11,9.
Ancora più in dettaglio, risulta che oltre 20 milioni di italiani
vivono in comuni con più di 50 mila abitanti e due terzi di essi in
centri con più di 100 mila; in sostanza 17 milioni sono concentrati
nei 203 capoluoghi di provincia e 9 milioni quelli che vivono nelle
sole 12 città con più di 250 mila residenti. Nei piccoli comuni, che
sono quasi 6 mila, vivono appena in 10 milioni e mezzo, meno del 18
per cento dell'intera popolazione.
Animo, avanza un'Italia nuova, multietnica, colorata, blandamente
metropolitana. Foto di gruppo in un interno. L'italica popolazione
residente, così come censita al 31 dicembre 2004, «vive per il 99,4
per cento in famiglie». In famiglie anagrafiche che risultano a
tutt'oggi esattamente 23 milioni 300 mila. Famiglie anagrafiche,
regolari e piccole. Addio per sempre all'Italia proletaria, quella
con tante braccia e tante bocche: oggi, dice l'Istat, la taglia
familiare è small; 2,1 componenti in Liguria, 2,9 in Campania.
Il restante 0,6 per cento della nostra popolazione - circa 350 mila
persone - vive secondo tipologie che l'Istat definisce "convivenze
anagrafiche": si tratta di caserme, case di riposo, carceri,
conventi. Tutti posti concentrati soprattutto al Nord e al Centro.
Soprattutto popolati da donne (per oltre il 60 per cento).
|
di Maria R.
Calderoni) |
Nuovo catechismo
vecchia Chiesa |
di Rina Gagliardi |
Sbaglieremo,
chissà. Ma l'escalation della Chiesa cattolica, ovvero dei suoi
massimi vertici, ci preoccupa e ci allarma. Da sempre, guardiamo con
il massimo rispetto (e di più, con grande e sincero interesse) al
mondo cattolico: non siamo certo mossi da pregiudiziali
anticlericali di un qualche tipo, né pensiamo sia lecito dividere il
mondo in credenti e non credenti. Proprio per questo, la crescita in
corso di un vero e proprio Partito neoguelfo ci appare un fatto
grave, destinato ad esercitare una pessima influenza sulla politica
e sulla società italiana.
Sbaglieremo, forse. Ma, dopo la recentissima visita di papa
Ratzinger al Quirinale (segnata, secondo il Corriere della sera, da
una esplicita «ruvidità ruiniana»), ecco arrivare il suo corredo, se
così si può dire, "spirituale" e dottrinario - il nuovo catechismo,
che oggi verrà presentato ufficialmente. Del testo, si sa che è
stato scritto di pugno dallo stesso Ratzinger e che nella modalità
di scrittura innova "tornando all'antico" - 598 domande con relative
risposte, secondo i vecchi manuali del movimento comunista. Ma
bastano solo alcune delle anticipazioni diffuse per farci respirare
l'odore della regressione: non solo quella che fa leva su contenuti
reazionari e aggressivamente anti-moderni, ma sull'alleanza
neo-moderata con i poteri esistenti o in via di neo-costituzione.
Al centro di questo catechismo, in effetti, sta il sesto
comandamento, ovvero la fissazione sessuofobica della Chiesa. Nel
nome del «Non commettere atti impuri», tutti i comportamenti
peccaminosi sono condannati senz'appello, con parole durissime:
l'aborto come la tecnica stessa della fecondazione assistita, la
sessualità fuori o prima del matrimonio come l'omosessualità. Uno
stato che non tutela l'embrione, si arriva a dire, non è più un
stato di diritto. Una famiglia che non si fondi esclusivamente sul
rapporto tradizionale ("naturale") genitori-figli è una costante
offesa alla «moralità». La Chiesa, dunque, riafferma la sua
vocazione - la sua apparente utopia - a regolare la condotta delle
persone, a dettare le leggi dello Stato, a "cancellare" ogni
progresso della scienza e della tecnica, secondo i dettami della sua
morale. Non sembrano sfiorate, le più alte gerarchie ecclesiastiche,
da dubbi di sorta, sulla realtà dei processi socioculturali che sono
sotto gli occhi di tutti, o da complessi minoritari: il suo pensiero
forte è prospettato con aggressività, intransigenza, fanatismo.
Nella convinta persuasione che la società di oggi è così
attanagliata dal vuoto morale e spirituale, dall'assenza di valori
condivisi, da un'autentica etica umana, da aver bisogno di
ricorrere, prima o poi, all'unica istituzione millenaria che c'è, la
Chiesa.
Un calcolo che diventa molto evidente, se si passa alla lettura di
altri orientamenti - quelli relativi, per esempio, al V
comandamento, «Non uccidere». Qui, il furore integralista di
Ruini-Ratzinger, come per incanto, svanisce nel nulla. Uccidere si
può - per «legittima difesa», che può arrivare ad essere perfino un
«grave dovere». Fare la guerra si può - come si può ricorrere
all'uso della forza militare, tutte le volte «che si ha la certezza
di un durevole e grave danno subito». Eliminare un altro essere
umano, insomma, è lecito, se questo serve all'interesse degli Stati,
dei governi, dei grandi poteri. Neppure alla pena di morte, il nuovo
Catechismo riserva parole di vera condanna di principio: ci si
limita a constatare «che i casi di assoluta necessità sono rari se
non quasi inesistenti». Ma dov'è allora la sacralità della vita?
Perché essa concerne soltanto un'astrazione, una potenzialità
biologica, l'embrione, e non le persone in carne ed ossa? Perché mai
su tutto ciò che ha a che fare con la Realpolitik, i rapporti di
forza, le nequizie del mondo, la Chiesa è così pronta alla
mediazione e al compromesso di basso profilo? Proprio come se il
regno del Sacro si fermasse là dove comincia la libertà della
persona e delle donne - per riprecipitarle in complessi di colpa
ancestrali, per ripristinare una «Natura» che non c'è più, per
riaffermare una filosofia autoritaria di governo (e oppressione) del
corpo. Proprio come se il valore effettivo degli esseri umani fosse
inversamente proporzionale alla loro condizione adulta - se in cima
dominano incontrastati gli embrioni, in fondo alla scala, chissà, ci
sono i vecchi, anzi le vecchie e gli anziani.
Proprio come se tutto questo non avesse nulla a che fare con la
salute delle anime, ma con quella, materialissima, della Chiesa
cattolica. Novecentotrentasei milioni di euro, estorti ai
contribuenti italiani grazie alla truffa dell'otto per mille: tanto
è costato a tutti noi il nuovo Catechismo. |
27
giugno
Il provvedimento legislativo verrà presentato in Consiglio
dei ministri venerdì. La Cgil: "Taglieggiano i lavoratori"
Tfr, pronta la bozza del
governo
Fondi pensione anche per gli statali
Dal 6 gennaio scatta
il silenzio assenso. Se il lavoratore
decide di lasciare la liquidazione in azienda potrà ripensarci
ROMA - Compensazioni alle imprese (4% per tutte, 6% per
quelle con meno di 50 addetti), agevolazioni fiscali sulle prestazioni
previdenziali (aliquota del 15% nel caso di anticipo che scende al 9% se si
hanno 35 anni di contributi ale spalle), una nuova formulazione delle regole
per il versamento del Tfr nei fondi pensione in caso di silenzio assenso,
attribuzione alla Covip della vigilanza sui fondi previdenziali.
Sono queste le linee portanti della bozza del decreto legislativo sulla
previdenza complementare appena licenziato dal ministero del Welfare e che
il ministro Roberto Maroni porterà in Consiglio dei ministri venerdì
prossimo, come da lui stesso annunciato. Protesta la Cgil: "Taglieggiano le
liquidazioni"
Fondi pensione anche per gli statali. La novità principale che emerge
dalla bozza di riforma del Tfr e della previdenza integrativa consiste nella
norma secondo la quale anche gli statali potranno aderire ai fondi pensione.
I dipendenti pubblici potranno optare per la previdenza integrativa mediante
"accordi tra i dipendenti stessi promossi dalle loro associazioni". Le forme
pensionistiche complementari possono essere istituite così attraverso
"contratti collettivi".
Possibilità di ripensamento. Altra novità è costituita dalla norma
secondo la quale un lavoratore che dovesse decidere di lasciare il suo Tfr
in azienda, potrà ripensarci e destinare la liquidazione ai fondi pensione.
Secondo le intenzioni del governo, dal prossimo gennaio scatterà il
meccanismo del silenzio-assenso: in pratica, durante sei mesi, il lavoratore
dovrà pronunciarsi sul destino del suo Tfr. In caso di silenzio-assenso,
appunto, il Tfr andrà a confluire automaticamente nei fondi pensione.
Secondo la bozza del governo, però, se il
lavoratore dovesse scegliere di mantenere il suo Tfr presso il
proprio datore di lavoro, "tale scelta può essere successivamente
revocata e il lavoratore può conferire il Tfr maturando ad una forma
pensionistica complementare dallo stesso prescelta".
La riforma si applica anche ai lavoratori 'anziani'. Anche i
lavoratori 'anziani', e cioè quelli assunti prima del 29 aprile
2003, saranno interessati dalla riforma del Tfr e della previdenza
complementare. Nella bozza del governo si legge infatti che entro
sei mesi dalla data di entrata in vigore della riforma i lavoratori
'anziani' potranno scegliere se mantenere il residuo Tfr maturando
presso il proprio datore di lavoro oppure - se non risultino
iscritti - conferirlo ad una forma di previdenza complementare: in
questo caso, potranno iscriversi conferendo il proprio Tfr "nella
misura non inferiore al 50%, con possibilità di incrementi
successivi".
Misure compensative per le imprese. Le aziende che dovranno
rinunciare alla fonte di finanziamento rappresentata attualmente dal
Tfr potranno dedurre dal reddito di impresa un importo pari al 4%
dell'ammontare del Tfr annualmente destinato a fondi integrativi. La
percentuale sale al 6% per le imprese con meno di 50 dipendenti.
Agevolazioni fiscali. Sulle prestazioni previdenziali
integrative l'imposta viene fissata al 15% ma calerà dello 0,30% per
ogni anno di versamento al fondo pensione superiore al quindicesimo
(con 35 anni di versamenti l'aliquota sarà dunque del 9%).
La contestazione della Cgil. Una bozza che
decisamente contestata dalla Cgil: "Se il testo resta così, diremo
chiaramente ai lavoratori 'attenti, che cosi' si taglieggia il Tfr",
ha detto il responsabile economico di Corso Italia Beniamino
Lapadula, commentando le indiscrezioni sul provvedimento. |
di Guy Fawkes |
Lula sfida i colossi
farmaceutici e gli Usa: «Produrrò medicine anti-aids senza brevetto» |
L'avevano promesso e sono stati di parola. Ora sperano di ottenere
approvazione e plauso da tutto il mondo. Ieri il governo brasiliano, per
bocca del ministro della Sanità Humberto Costa, ha annunciato che
infrangerà il brevetto del farmaco anti-Aids Kaletra. Adesso i giganti
dell'industria farmaceutica temono l'effetto domino in quei paesi dove
imperversa l'epidemia di retrovirus che, sull'onda della decisione del
Brasile, potrebbero infrangere i brevetti dei farmaci.
L'anti-retrovirale, prodotto dalla casa farmaceutica Americana Abbott, è
fornito gratuitamente dalla sanità brasiliana ad oltre 23 mila pazienti.
«Il costo del farmaco Kaletra è così elevato da rappresentare un rischio
per la salute pubblica» ha dichiarato Costa in conferenza stampa. Il
presidente Lula ha deciso di far produrre il medicinale in un
laboratorio statale dopo che la Abbott aveva rifiutato di ridurre il
prezzo o di cedere la licenza di fabbricazione al governo brasiliano.
Adesso la multinazionale farmaceutica statunitense ha dieci giorni di
tempo per accettare una diminuzione del prezzo o per permettere la
fabbricazione di copie generiche. Secondo la Abbott, la decisione di
infrangere il brevetto nel lungo termine sarà lesiva degli interessi dei
malati affetti da Hiv. Il governo del presidente Lula ha aperto
trattative simili con altre due case farmaceutiche, la Merck e la Gilead,
rispettivamente per i medicinali Efavirenz e Tenofovir: le due case
sembrano essere più interessate della Abbott, visto anche il precedente
creatosi ieri. «E' la prima volta che il Brasile infrange un brevetto e
siamo anche il primo paese che lo fa per un farmaco anti-Aids» ha
evidenziato Costa. La decisione del governo di Brasilia arriva in un
momento politico delicato.
Gli Stati Uniti hanno minacciato di tagliare i sussidi economici se il
Brasile non intensificherà gli sforzi per arginare la pirateria
dilagante su Cd e Dvd. Sul fronte interno, Lula deve difendersi dalle
polemiche alimentate dallo scandalo per il finanziamento illecito della
campagna elettorale che ha coinvolto il suo braccio destro Josè Dirceu,
capo di gabinetto della presidenza. Giovedi scorso il quotidiano
americano New York Times, anticipando la decisione del governo del
Brasile, esortava l'amministrazione del presidente George W Bush a
sostenere la presa di posizione brasiliana.
«Infrangere il brevetto del Kaletra non rappresenta una violazione del
contratto di fornitura né degli accordi internazionali sui brevetti, ma
l'applicazione delle norme internazionali e degli accordi del Wto, che
permette di adottare misure del genere in circostanze d'emergenza» ha
spiegato il ministro della Sanità. Costa ha ricordato che la
«dichiarazione di Doha» del 2001, riconosce che gli accordi
internazionali sui brevetti non devono sovrapporsi agli interessi di
salute pubblica. Il governo Lula sarà in grado di produrre il «Keletra»
a 68 centesimi di dollaro (oggi viene comprato per un dollaro). Nel
paese sudamericano, dove secondo le stime ci sono 600 mila malati,
vengono garantiti i trattamenti anti-Aids a 170 mila persone.
|
|
Ustica, la ricerca di
verità e dignità |
La strage impunita |
|
Daria Bonfietti
Ventisette giugno 1980, sono passati 25 anni dalla tragedia di Ustica.
Bisogna sforzarsi di leggere questi anni come storia del nostro Paese.
Vi abbiamo trovato i volti diversi della magistratura, quello che non
vuole cercare e si adagia nelle nebbie del disinteresse - penso agli
anni sprecati delle indagini del giudice Santacroce - quello invece che
sa trovare la sua dignità nell'impegno per il rispetto della legge e la
ricerca della verità - l'indagine del giudice Priore.
Abbiamo sofferto il
disinteresse di una serie ininterrotta di governanti, annichiliti
davanti alla responsabilità dell'evidenza, sempre pronti a trovare alibi
per non agire correttamente, muti davanti a comportamenti militare
colpevoli.
E un'istituzione
dello Stato, l'Aeronauitca militare, schierata compatta con tutte le sue
strutture a difesa dei suoi privilegi, compreso quello di operare contro
la verità per proteggere suoi ufficiali, nella consapevolezza assoluta
di avere sola il sapere tecnico. E che si onora di vedere ai propri
vertici una catena ininterrotta di generali espressamente indicati dai
giudici come protagonisti dello sforzo contro la verità.
E poi abbiamo visto
il Parlamento che si sforza, con le varie commissioni parlametari
stragi, di individuare responsabilità e di suggerire corretti
comportamenti, ma il più delle volte non viene ascoltato o non trova la
forza di farsi ascoltare.
E sullo sfondo
sempre una società civile pronta a muoversi e far sentire la sua volontà
di verità e trasparenza, nella consapevolezza che il rispetto della
legge sia la base per la corretta convivenza.
Questa è la storia
di 25 anni d'Italia e di impegno per la verità per Ustica.
Oggi possiamo
indicare risultati ottenuti: abbiamo saputo che "l'incidente al Dc9 è
occorso a seguito di azione militare di intercettamento», e che i
generali, a capo dell'Aeronautica militare italiana all'epoca dei fatti,
sono stati responsabili di "alto tradimento" per non aver informato di
quanto avevano immediatamente appreso sulla presenza di aerei militari
nella vicinanza del Dc 9.
Ma è ancora al
Paese, alla sua storia complessiva che dobbiamo guardare, nella
consapevolezza che "quella notte con un'azione, che è stata propriamente
atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia
internazionale coperta contro il nostro Paese, sono stati violati i
confini della Patria, sono stati infranti i diritti di sicurezza delle
linee di comunicazione, è stata spezzata la vita a cittadini innocenti.
Nessuno ha dato la minima spiegazione di quanto è avvenuto".
Con questo atto si
è inciso profondamente nella realtà del nostro Stato, contro la sua
dignità nel consesso internazionale, contro i diritti fondamentali dei
suoi cittadini. Allora Ustica deve diventare sempre più non una
questione di verità per 81 vittime, ma una vera questione di dignità
nazionale.
|
Alle presidenziali
vince l'ultraconservatore Ahmadinejad |
E ora l'Iran? |
Martino Mazzonis
Non è stato un testa a testa quello che ha portato alla vittoria di
Mahmoud Ahmadinejad nella corsa alla presidenza dell'Iran. Il falco
conservatore, il partigiano dei "mostafazin" (i "senza scarpe"), la
massa di poverissimi che affolla le città e le campagne iraniane, ha
vinto a valanga, lasciando il suo concorrente nel primo ballottaggio
della storia delle elezioni iraniane, l'ex presidente Rafsanjani,
attorno al 36%. La reazione dello sconfitto, accusato di essere la punta
di lancia della corruzione che piaga il Paese, è stata scomposta,
Rafsanjani ha accusato le istituzioni oltranziste religiose di una vasta
operazione «illegale» per danneggiare la sua immagine e quella della sua
famiglia. «Non intendo ricorrere a giudici che hanno mostrato di non
voler o non poter fare nulla». La vittoria del sindaco di Teheran non si
spiega solo con i brogli, gli elettori della Repubblica islamica sono
andati ai seggi in tanti (il 60%, con un calo del 3% rispetto al primo
turno) e lo scarto tra i due candidati è molto ampio. Le pressioni e la
mobilitazione delle Guardie della rivoluzione e degli uomini della
suprema guida spirituale della Rivoluzione Islamica, l'ayatollah Ali
Khamenei, hanno di certo avuto un peso determinante a partire dal primo
turno.
Se brogli ci sono
stati, questi sono serviti a rafforzare il risultato dell'ingegnere di
49 anni che porta la barba corta, porta la barba e veste come i
rivoluzionari della prima ora e si vanta di non aver mai tradito gli
ideali che portarono alla cacciata di Reza Pahlevi nel 1979. Quello che
non ha funzionato di sicuro è l'appello dei candidati riformisti usciti
sconfitti al primo turno a votare per il meno peggio. L'Iran non è la
Francia e gli elettori che avevano fatto trionfare Khatami sono troppo
delusi per votare una vecchia volpe che ha usato slogan cari ai giovani
occidentalizzati di Teheran solo nella speranza di portarli a votare
contro l'estremista religioso.
Con il voto di
venerdì si conclude una campagna elettorale dai toni molto duri, durante
la quale Ahmadinejad ha promesso di lottare contro la corruzione,
migliorare la condizione dei più poveri e fermare l'occidentalizzazione
dell'Iran mentre il suo avversario ha paventato grandi pericoli per la
libertà in caso di vittoria del sindaco di Teheran.
La paura di
disordini ha spinto l'ayatollah Khamenei a vietare manifestazioni dopo
la proclamazione del vincitore. Le prime dichiarazioni del neo
presidente tendono proprio a smorzare gli animi. «Oggi - ha detto alla
radio statale - è il giorno in cui dobbiamo dimenticare tutte le nostre
rivalità e trasformarle in amicizia. Dobbiamno aiutarci gli uni con gli
altri per costruire una grande società». Dovrà sforzarsi di apparire
come moderato quello che sui blog provenienti dall'Iran viene descritto
come un campione della fede che mette a rischio la libertà di
espressione. A usare il computer e avere un blog sono però gli studenti
urbanizzati, quelli che con più forza si battono per secolarizzare la
società e la politica iraniane e che, delusi dalla presidenza Khatami,
non sono andati votare. Resta da vedere cosa succederà se e quando il
neopresidente metterà mano a riforme sulla pubblica morale - in campagna
elettorale ha annunciato una più forte separazione tra i sessi in
pubblico. Una virata in senso oscurantista da parte delle nuove autorità
politiche del Paese - che ormai controllano ogni ganglio del potere -
rischia di accendere la brace che cova sotto la delusione dei giovani
iraniani. Peggio ancora sarebbe nel caso di un ridimensionamento dei già
limitati spazi democratici di cui si è dotata la Repubblica islamica.
Dalla sua il presidente ha servizi di sicurezza, autorità religiose e
Guardie della rivoluzione e se l'opposizione si facesse forte i rischi
di una degenerazione del conflitto ci sono.
D'altro canto,
Ahmadinejad, dovrà rispondere alla massa dei "senza scarpe" a cui a
promesso un miglioramento delle condizioni di vita in un contesto in cui
l'economia iraniana va male, la disoccupazione è alta e l'inflazione
pure.
Dal canto suo,
l'altro grande vincitore di questo voto, l'ayatollah Ali Khamenei,
gerarchicamente superiore allo stesso capo dello Stato, ha ironizzato
spiegando che il risultato ha «umiliato nel profondo i nemici,
l'arroganza del mondo», che è una forma messianica per dire Stati Uniti
d'America. La Casa Bianca ha commentato freddamente che «il modo in cui
queste elezioni sono state condotte mostra che il regime iraniano non
sembra volersi preoccupare della volontà del suo popolo né di quella
della comunità internazionale». Anche per Washington l'elezione di
Ahmadinejad rischia di essere un bel problema. Il ruolo dell'Iran nel
conflitto iracheno è stato piuttosto cauto in questi anni, non è detto
che resti tale. Altra grande partita è quella sul nucleare.
Ieri i ministri degli Esteri britannico e tedesco - Straw e Fischer -
hanno entrambi ripreso le accuse di scarsa qualità del processo
elettorale, rilanciando comunque la palla sui negoziati relativi al
nucleare nei quali Teheran e l'Aeia sono impegnati. Lo stesso ha fatto
il presidente Chirac - che non ha parlato di brogli. Fuori dal coro il
russo Putin che si è congratulato con il neoeletto presidente auspicando
di continuare a lavorare insieme sul nucleare. |
24 giugno
Alla conferenza di Copenaghen sulla riproduzione Italia nel
mirino. Uno studio: figli più sani impiantando un solo embrione per volta
Sterilità, allarme in Europa
una coppia su tre dovrà curarsi
di ANAIS GINORI
L'infertilità rischia di essere il male che affliggerà
l'Occidente nei prossimi anni. Fare figli sarà sempre più difficile. Tra
dieci anni, una coppia su tre potrebbe essere sterile o comunque dovrà
ricorrere a tecniche di fecondazione assistita. E' questo l'allarme lanciato
da un congresso di esperti della riproduzione, riuniti a Copenhagen. "Una
bomba ad orologeria per l'Europa", l'ha definita Bill Ledger, scienziato
inglese e direttore di una clinica che cura l'infertilità. Ledger ha
pubblicato una ricerca sull'andamento demografico nel 2015. Le sue
conclusioni sono nette: meno coppie in grado di procreare, meno figli, un
Continente sempre più vecchio e il rischio di un'emergenza per i sistemi
sanitari nazionali. Il declino della fertilità è il risultato di un insieme
di fattori. Secondo lo scienziato, la causa non è soltanto da attribuire
alla scelta delle donne di fare figli oltre i 35 anni, l'età in cui la
fertilità comincia a diminuire. Il sistema riproduttivo femminile - spiega
la ricerca inglese - è più esposto alle infezioni sessuali e ai danni
provocati dall'obesità. Le giovani generazioni soffrono di maggiori problemi
di sovrappeso.
I medici italiani presenti a Copenhagen hanno ascoltato i risultati della
ricerca inglese con rabbia e frustrazione. La legge 40 è stata oggetto di
discussioni e quasi di dileggio da parte dei colleghi stranieri. "Gli
italiani hanno usato i piedi invece che la testa", ha detto Guido Pennings,
esperto di bioetica all'università di Ghent, in Belgio. La legge italiana,
tra le più restrittive d'Europa, ha già cominciato a sortire i primi
effetti. "L'obbligo di trasferire tutti gli embrioni, senza alcuna selezione
ha ridotto le chances di gravidanze", ha raccontato Laura Rienzi, dell'European
Hospital. Nella clinica romana il tasso di riuscita delle terapie è sceso
dal 38,7% del periodo prima della legge, all'attuale 30,2%. Secondo Filippo
Ubaldi, un altro esperto, "il calo sarà ancora più evidente nel lungo
periodo per il divieto di congelare gli embrioni". Inoltre, l'obbligo di
impiantare tre embrioni alla volta provocherebbe più rischi. Una ricerca
effettuata in Belgio ha evidenziato che gli embrioni impianti singolarmente
avrebbero minori probabilità di nascere prematuri e sarebbero più sani.
"Siamo vittime della dittatura della Chiesa cattolica", è stato il commento
di Monica Cattoli, del centro bolognese. Il malessere per i medici italiani
è sempre più forte. Ieri, 110 biologi e medici della riproduzione hanno
inviato una lettera a Carlo Azeglio Ciampi. "Sentiamo che il nostro lavoro è
divenuto impossibile da svolgere se non tradendo il giuramento di Ippocrate",
hanno detto al presidente della Repubblica chiedendo un incontro per esporre
le difficoltà quotidiane nell'applicare la legge 40.
La giungla legislativa in Europa ha già creato un turismo riproduttivo
sempre più frequentato dagli italiani. Belgio, Spagna e Svizzera sono i
paesi dove la procreazione assistita è più facile. Nuovi paesi, come la
Romania, il Sudafrica o le isole Barbados, offrono pacchetti-vacanze per le
coppie sterili. Una tendenza che gli esperti riuniti a Copenhagen
considerano pericolosa: "Sarebbe preferibile - hanno commentato - che
l'infertilità fosse considerata come una malattia e affidata ai sistemi
sanitari nazionali".
22
giugno
Il dato di aprile diffuso dall'Istat mostra un calo del 3,9%
rispetto allo stesso mese 2004. Soffrono di più i piccoli negozi
Commercio, crollano le vendite
è il peggior dato di sempre
ROMA - Un crollo senza
precedenti, nelle vendite al dettaglio. Le transazioni di questo tipo
infatti sono scese di un pesante 3,9 per cento rispetto ad aprile scorso, e
dello 0,8 per cento rispetto al mese precedente. E' quanto comunica l'Istat,
precisando che la diminuzione tendenziale - quella del 3,9 - è la più forte
mai registrata. Dunque un altro record negativo che fotografa la difficile
situazione economica del nostro Paese, che a sua volta si riflette nella
crisi dei consumi.
E che si tratti di un fenomeno generalizzato, lo dimostra il fatto che le
flessioni si registrano sia nelle vendite di prodotti alimentari (meno 3,6
per cento) sia quelle di prodotti non alimentari (meno 4).
Il dato di meno 3,9 per cento, inoltre, è il risultato - spiega ancora l'Istat
- di un calo che si è verificato sia nella grande distribuzione (meno 2,7
per cento), sia nelle imprese operanti su piccole superfici (meno 4,8 per
cento). Le prime, cioè quelle più grosse, hanno registrato però diminuzioni
tendenziali meno marcate rispetto alle piccole, sia per i prodotti
alimentari (meno 3,1 per cento rispetto a meno 5,8 per cento) sia per i non
alimentari (meno 1,1 per cento rispetto a meno 4,6 per cento).
All'interno della categoria della grande distribuzione, la diminuzione
tendenziale maggiore è stata riscontrata per gli ipermercati, con un calo
generale del 4,2 per cento e una flessione del solo settore alimentare del
6,7. I supermercati hanno chiuso il mese di aprile con una diminuzione delle
vendite del 2,8, gli hard discount dell'1,5 e i grandi magazzini con uno 0,5
per cento.
21 giugno
Dopo 41 anni il verdetto sull'omicidio dei
tre attivisti dei diritti civili
che ispirarono il film di Alan Parker: Edgar Ray Killen, 80 anni fu
il mandante
"Mississippi Burning", c'è il colpevole
Condannato il capo del Ku Klux Klan
Edgar Ray Killen
FILADELFIA - Hanno trovato giustizia dopo 41
anni i tre ragazzi morti per aver cercato di far votare anche i
neri. Erano militanti del movimento dei diritti civili spintisi al
sud per la loro battaglia contro l'apartheid che impediva alla gente
di colore di dire la loro. Sono stati fermati e assassinati dal Ku
Klux Klan esattamente il 21 giugno 1964. Sulla loro storia Alan
Parker aveva fatto un film, Mississippi Burning. Oggi un uomo
è stato condannato per omicidio preterintenzionale: l'ex capo del
Klux Klan Edgar Ray Killen è sfuggito dunque all'accusa più grave di
aver voluto uccidere Andrew Goodman, Michael Schwerner (bianchi di
New York) e James Chaney (nero del sud).
Il verdetto è stato annunciato dalla giuria in un tribunale di
Filadelfia nel sud del Mississippi. Killen è un ex predicatore
battista di 80 anni. Dopo la lettura del verdetto è stato portato
via in sedia a rotelle. Già nei giorni scorsi si era sentito male in
aula.
L'ex dirigente del Ku Klux Klan è stato dunque riconosciuto solo
colpevole di omicidio preterintenzionale. Era l'estate passata alla
storia come la Freedom Summer, la campagna dei diritti civili che
intendeva estendere il voto ai neri in tutti gli Stati Uniti
d'America. Schwerner, Goodman e Chaney, ventenni come la maggior
parte degli altri attivisti, erano laggiù per aiutare i neri a
registrarsi negli uffici elettorali, un affronto indigeribile per
l'onorata società dei bianchi del Kkk.
Il 21 giugno di quell'anno i tre ragazzi vennero arrestati dallo
sceriffo della Contea di Neshoba Cecil price, che in seguito passerà
quattro anni in prigione per il suo coinvolgimento nella vicenda.
Lo sceriffo, come raccontarono testimoni durante il primo processo
nel 1967, rilasciò i tre qualche ora dopo e in seguito li inseguì
insieme agli uomini del Klan. I corpi dei tre ragazzi furono trovati
sei settimane dopo, grazie a una segnalazione anonima all'Fbi. Erano
stati assassinati a colpi d'arma da fuoco. Killen era già stato
processato nel 1967 per reati legati alla vicenda, ma era stato
assolto.
Nel corso di questo nuovo processo la pubblica accusa ha dipinto
l'imputato principale come un capo del famigerato Kkk, colui che
personalmente reclutò gli autori materiali degli omicidi e la
giuria, composta da nove bianchi e tre neri, ha raggiunto il
verdetto in fretta.
La storia indignò un'opinione pubblica americana fino ad allora
piuttosto tiepida nei confronti dell'integrazione razziale, e diede
impulso al movimento per i diritti civili. Impulso che fu in seguito
ulteriormente alimentato dal film di Parker del 1988 interpretato da
Gene Hackman e Willem Dafoe.
20 giugno
Un rapporto dell'organizzazione punta
l'indice sulle autorità italiane
"Nei Centri di permanenza troppi abusi, servono controlli
indipendenti"
Immigrati,
Amnesty contro i Cpt
"Violati i diritti dei rifugiati"
Uno sbarco di
immigrati
ROMA - Nei centri di permanenza temporanea per immigrati
troppo spesso vengono violati i diritti dei rifugiati. La denuncia
arriva da Amnesty International che ha presentato oggi il suo ultimo
rapporto, 'Presenza temporanea, diritti permanenti'.
"L'Italia - si legge nel documento - sottopone a detenzione un
numero sempre crescente di richiedenti asilo, in violazione degli
standard del diritto internazionale dei rifugiati".
L'organizzazione umanitaria esprime poi preoccupazione circa la
possibilità che problemi simili possano verificarsi anche nei centri
di identificazione, di recente istituzione e destinati in
particolare proprio ai richiedenti asilo e lamenta la "assoluta
assenza di una interlocuzione con il governo e in particolare con il
ministro dell'interno Pisanu", che non ha risposto alle numerose
sollecitazioni e richieste di accesso ai Cpt.
Ogni anno, evidenzia ancora Amnesty, l'Italia espelle o rifiuta
l'ingresso a migliaia di cittadini stranieri, alcuni dei quali
richiedenti asilo. In attesa dell'espulsione, molte di queste
persone sono trattenute nei Cpt, a volte anche più dei 60 giorni
previsti dalla legge come limite massimo di permanenza nei centri.
"I richiedenti asilo - ricorda l'organizzazione - possono essere
detenuti soltanto in circostanze eccezionali, come prescritto dagli
standard internazionali. Allo stesso modo, la detenzione dei
migranti entrati o presenti in Italia senza autorizzazione andrebbe
applicata soltanto nelle circostanze previste dalla legge e
conformemente ai principi internazionali dei diritti umani".
"Attualmente - denuncia il rapporto - in Italia migliaia di persone
passano per i Cpt: secondo dati ufficiali, 14.223 nel 2003 e 15.647
nel 2004; ogni anno, una metà di queste persone viene espulsa al
termine della permanenza nei centri, mentre un quarto viene
rilasciato dopo i 60 giorni". Il dossier di Amnesty contiene anche
dettagliate denunce secondo cui persone trattenute nei Centri sono
state sottoposte ad aggressioni fisiche da parte di poliziotti o del
personale di sorveglianza e alla somministrazione eccessiva o
abusiva di sedativi.
Tutti i dati citati sono però di secondo mano in quanto, denuncia
ancora l'organizzazione, nessun operatore ha potuto accedere ai
Centri in quanto "le richieste avanzate sono state finora
rifiutate". Ma le denunce, sottolinea Amnesty, sebbene fornite da
terzi, sono "rese credibili dal loro numero, coerenza e regolarità e
dalle conclusioni degli organismi intergovernativi e di serie ong
nazionali e internazionali".
Amnesty ha quindi elaborato una serie di raccomandazioni rivolte
alle autorità italiane, in cui vengono sottolineati i principali
standard internazionali applicabili alle persone trattenute nei Cpt
e nei Centri di identificazione, e sono evidenziate le linee guida
sulle procedure di 'rinvio forzato' di cittadini stranieri, adottate
dal Consiglio dei ministri del Consiglio d'Europa nel maggio scorso,
nelle quali si richiamano i diritti esistenti sulla base delle norme
internazionali.
Amnesty chiede tra l'altro l'istituzione di organismi indipendenti
di monitoraggio e ispezione, che possano entrare senza preavviso in
tutti i luoghi di trattenimento.
Crisi della
borghesia ascesa della Chiesa |
di Piero Sansonetti |
La Spagna reazionaria è scesa in piazza contro i
matrimoni gay e contro le scelte del premier Zapatero; quelle di
porre alcune grandi questioni di libertà al centro del suo programma
politico: la fine del patriarcato, l'attenzione al conflitto di
genere, i diritti civili.
Hanno sfilato a Madrid centinaia di migliaia di persone, in gran
parte cattolici oltranzisti o conservatori, pezzi di gerarchie
ecclesiastiche - che hanno avuto un ruolo importante
nell'organizzare questa prova di forza - e anche avanzi del vecchio
franchismo fascistoide e ultraclericale.
Proviamo a mettere insieme la manifestazione spagnola di ieri, la
campagna astensionista condotta dal Vaticano in Italia
(vittoriosamente) contro il referendum sulla fecondazione assistita,
e le novità, di tipo religioso (seppure non cattolico), che hanno
segnato l'ultima campagna elettorale negli Stati Uniti. Cosa
possiamo dedurne? Per esempio che la destra, in tutto l'occidente,
ha preso atto della sua crisi "strategica e di classe" e sta
cercando nuove guide, nuovi valori, nuove prospettive. Scusate se
usiamo questa terminologia un po' datata: "strategica e di classe".
Però rende bene l'idea: la destra ha perso la sua capacità di
progetto, perché sente e vede con chiarezza la fine del
"neoliberismo vincente" e della carica di speranze che il
neoliberismo portava, sia sul piano politico e di assetto sociale,
sia sul piano economico e di sviluppo. Perdendo questa prospettiva
ha perso la sua classe di riferimento, e cioè la borghesia, che da
quando, alla fine del secolo scorso, ha verificato la fine del sogno
liberista - che avrebbe dovuto salvare il mondo - non riesce più a
proporre nulla di concreto, non ha una ricetta, non vede una strada
di uscita dalla crisi che non sia quella sanguinosa e perdente che è
la guerra per la guerra. Ha esaurito le capacità di egemonia.
La caduta della borghesia ha aperto un vuoto, e la destra lo sta
riempiendo con la scelta religiosa. Si affida alla Chiesa, o alle
Chiese, ed è pronta ad accettare i suoi valori, anche quelli più
arretrati e un po' medievali, in cambio di una copertura ideologica
che permetta di raccogliere un nuovo blocco sociale e di blindare un
sistema di interessi economici e di potere. La Chiesa - non solo
quella cattolica - non ha saputo resistere a questa grande
occasione. Era in crisi il suo rapporto con lo spirito pubblico e la
sua capacità di misurarsi con la modernità. Ora ha trovato questa
via d'uscita comoda: abbandonare il Concilio, mettere in secondo
piano la Carità, e scegliere la Fede, alleandosi, a difesa della
Tradizione, con la destra politica. |
A un mese dal lancio dell'atomica nel '45
George Weller raccontò l'orrore
ma i suoi articoli furono bloccati da MacArthur. Ritrovati a Roma
Nagasaki, una voce dal silenzio
Ecco i reportage censurati dagli Usa
dal nostro inviato VITTORIO ZUCCONI
Nagasaki dopo la bomba
WASHINGTON - Sessant'anni di lacrime amare e di censure
militari sono passati da quando non c'erano che topi negli ospedali
e spettri vaganti "senza capelli" e bambini dalle "labbra nere"
destinati a morire presto consumati dalle radiazioni, "nel fetore
dei cadaveri" dei loro genitori. Sei decenni esatti perché
finalmente dal silenzio della censura americana e dalla vanità del
maresciallo MacArthur, che le aveva fatte secretare per non sminuire
il proprio ruolo trionfale, uscissero le parole del primo uomo non
giapponese, del primo giornalista entrato a Nagasaki a vedere
l'impronta lasciata da "Fat Man", dal Ciccione, la seconda atomica
sganciata il 9 agosto del 1945.
Era trascorso meno di un mese dall'esplosione della bomba, in quei
primi giorni del settembre '45 quando George Weller, inviato di
guerra per il Chicago Daily News entrò senza autorizzazione tra le
rovine di Nagasaki. Nello stile freddo, scolorito, cronistico,
doverosamente patriottico del giornalismo del tempo inviò quattro
reportage al suo giornale, che Douglas MacArhur, divenuto
governatore di quel che restava del Giappone, fece appena in tempo a
intercettare e stampigliare con il timbro classified, segreto, e
nascondere negli archivi.
Per sessant'anni, fino a oggi quando il figlio di Weller, Anthony,
ha ritrovato le copie in carta carbone di quei pezzi nel
appartamento del padre a Roma e il Mainichi Shimbun di Tokyo le ha
stampate, le osservazioni del "testimone zero", del primo americano
a Nagasaki, erano rimaste sconosciute.
Neppure la prima squadra di militari, medici e scienziati americani
inviati da Washington aveva ancora messo piede in quella città,
temendo giustamente le radiazioni. Weller cammina con l'ingenuità
coraggiosa di chi, come tutti, non aveva mai avuto esperienze di
un'arma simile dunque precedenti ai quali allacciarsi.
Si meraviglia che la radiazioni di cui aveva sentito parlare, non
gli brucino gli occhi e la pelle, che il tanfo di cadaveri
decomposti sotto il sole estivo "gli dia conati di vomito", ma non
provochi sintomi di "debilitazione". La Bomba, osserva nel primo dei
suoi dispacci, "è sicuramente un'arma formidabile, ma non
particolare", anche se la sua potenza distruttrice è inaudita.
Entra in ospedale, nei quindici edifici del Nagasaki Hospital
contorti ma ancora in piedi perché costruiti di cemento armato e
lontani dal "Ground zero", dal punto della deflagrazione. Passa
un'ora in quegli scheletri di palazzi e "non incontro nessuno vivo".
"Soltanto topi vivono tra le rovine". E soltanto ricordi dentro il
collegio di una missione americana, la American-Japanese Christian
Mission, ridotta in spezzoni, come "schiacciata", appiattita è una
fabbrica di munizione della Mitsubishi dove lavoravano 1.016
prigionieri di guerra Alleati, americani, inglesi, australiani, un
terzo dei quali moriranno per le ustioni radioattive, vittime del
"fuoco amico".
È soltanto continuando a camminare nei gironi di Nagasaki che Weller,
destinato a morire molti anni più tardi, nel 2002 a San Felice del
Circeo, in Italia, comincia a dimostrare nei suoi servizi il
sentimento di avere visto qualcosa di più orrendo che un altro
carnaio di guerra, il sentimento di uno sguardo sulla fine del mondo
che quelle due armi hanno reso per la prima volta tangibile.
La prudenza patriottica delle prime righe si attenua, come si
attenua l'ammirazione orgogliosa per la "precisione dei
bombardieri". "Si può immaginare e calcolare che cosa la forza
dell'atomo liberato possa fare a palazzi di cemento e acciaio, ma
per capire che cosa esso possa fare alla carne umana si deve trovare
un ospedale funzionante". Bambini ovunque, tutti stoicamente in
silenzio, mentre osservano brandelli di pelle e ciuffi di capelli
cadere. Adulti semicarbonizzati che mugolano nella loro agonia, tra
medici che non possono fare altro che guardarli e tamponarli, perché
nessuno di loro conosceva sintomi, né possibili terapie, di quella
che chiamarono il "Male X", la malattia sconosciuta.
"Lo scriverà? Scriverà quello che vede?", lo imploravano i
funzionari giapponesi, per chiedergli di testimoniare la disumanità
di quello che il nemico aveva inflitto, dimenticando in quel momento
ciò che i loro soldati avevano inflitto al nemico in tre anni e
mezzo di guerra totale. E Weller è straziato, diviso, tra la
necessità di raccontare quello che vede e di non tradire la propria
bandiera.
Guarda una donna che due settimane dopo le ore 11 e 02 del 9 agosto
era arrivata all'ospedale per dare una mano come infermiera,
apparentemente sana e illesa, fino a quando improvvisamente le
labbra si erano annerite, piaghe erano comparse ovunque e ora giace
su un "tatami, su un tappetino di foglie di riso, morente, uccisa
dal "Male X"". Ne muoiono così dieci al giorno, senza ragioni che i
medici possano capire o curare, aspettando che "arrivino gli
Americani" con la cura miracolosa. Se hanno inventato quel veleno,
sicuramente avranno anche messo a punto un antidoto, dice la voce
popolare, con vana logica.
Deve arrivare uno specialista giapponese, un vecchio radiologo dalla
città di Fukuoka, il dottor Yosisada Nakashima, per spiegare che
quella gente sopravvissuta allo scoppio, alle ustioni, ai crolli,
sta morendo per radiazioni gamma, come i primi manipolatori di Raggi
X, e per loro non ci sono cure. E molti di loro continueranno a
morire per anni e decenni, consumati dalle leucemie, dai tumori
scatenati dai raggi.
Quando la censura militare intercetta gli articoli di Weller e li
porta al Comandante Supremo e Governatore del Giappone, Douglas
MacArthur, il generalissimo, colui che neppure dieci anni dopo sarà
licenziato in tronco dal presidente Truman quando proporrà di
sganciare altre bombe A sulla Corea del Nord e la Cina comunista,
ordina lo stop.
Troppo orrenda è l'impronta lasciata dal "Ciccione" al plutonio e
troppo decisivo è stato il suo effetto nel costringere l'imperatore
Showa, allora chiamato Hiro Hito, e i militari di Tokyo alla resa
senza condizioni perché il "Nuovo Cesare del Pacifico", come lo
chiamò lo storico William Manchester, possa accettare di dividere
con quegli ordigni la gloria della vittoria.
Gli articoli di Weller scompaiono nelle casseforti degli archivi
militari, ma le copie riemergono dalle carte del vecchio, onesto e
coraggioso reporter Premio Pulitzer, che scelse di finire la propria
vita in Italia, per raccontarci, con una voce che neppure 60 anni
hanno attenuato, il primo sguardo sulla fine del mondo.
Duecentocinquanta mila persone morirono a Hiroshima.
Centosettantamila a Nakagaski. Per una sola bomba
ciascuna.
16 giugno
Debito cancellato o racket delle estorsioni? |
di George Monbiot |
Un'aura di santità sta scendendo sugli
uomini più potenti della terra. Sabato i ministri delle
finanze di sette nazioni appartenenti al G8 (la Russia non è
stata invitata) hanno promesso di cancellare i debiti che i
paesi più poveri hanno contratto con la Banca Mondiale e il
Fondo Monetario Internazionale. Chi potrebbe negare che la
cancellazione del debito è una cosa buona? Poco importa se
molto di questo debito - soldi prestati dalla Banca Mondiale
e dal Fondo Monetario Internazionale per corrompere
dittatori - non avrebbe mai dovuto essere stato contratto
sin dall'inizio. Poco importa se, in termini di risorse
saccheggiate, lavoro rubato e ora di danno causato dal
cambiamento climatico, il ricco deve al povero molto più di
ciò che il povero deve al ricco. Alcune delle nazioni più
povere hanno speso più per ripagare il debito che per il
loro sistema sanitario o educativo. Qualunque sia l'origine
del problema, tutto ciò è osceno.
Voi vi aspettate che io adesso scriva qualche "ma": non vi
deluderò. Il "ma" arriva quando si legge il paragrafo 2
della dichiarazione dei ministri delle finanze. Per
candidarsi alla cancellazione del debito, le nazioni in via
di sviluppo devono "contrastare la corruzione, spingere lo
sviluppo del settore privato" ed eliminare "gli impedimenti
agli investimenti privati, sia nazionali che esteri".
Queste sono chiamate "conditionalities". Le conditionalities
sono le regole che i governi devono seguire per poter
ricevere aiuti, prestiti e cancellazione del debito. A prima
vista sembrano una buona idea. La corruzione fa zoppicare le
nazioni povere, specialmente in Africa. Il denaro, che
avrebbe potuto permettere a chiunque un livello di vita
dignitoso, ha invece reso incredibilmente ricchi un manciata
di uomini. Le nazioni potenti sono giustificate nel cercare
di scoraggiare tutto ciò.
Questa è la teoria. In verità la corruzione raramente è
stata vista come una barriera ad aiuti esteri e a prestiti:
diamo un'occhiata ai soldi che abbiamo elargito,
direttamente e attraverso Banca Mondiale e FMI, a Mobutu,
Suharto, Marcos, Moi e a tutti gli altri truffatori di serie
A. Robert Mugabe, il re demonio dell'occidente, è stato
meritatamente tagliato fuori e dimenticato dalle nazioni
ricche. Ma ha causato meno sofferenze ed è stato meno
corrotto del rwandese Paul Kagame o dell'ugandese Yoweri
Museveni, entrambi citati ripetutamente dalle nazioni dei G8
come praticanti del "buon governo". I loro eserciti, come
dimostrato dall'Onu, sono in gran parte responsabili del
disfacimento della parte orientale della Repubblica
Democratica del Congo (Rdc), pagato con 4 milioni di vite
umane, ed hanno rubato impunemente miliardi di dollari in
risorse naturali. Tuttavia la Gran Bretagna, che ospiterà il
summit dei G8, rimane il loro maggior finanziatore grazie
agli accordi bilaterali, e si è rifiutata di chiedere il
loro ritiro dalla Rdc come condizione per ricevere aiuti
esteri.
La differenza, naturalmente, è che Mugabe non ha limitato i
suoi attacchi alla popolazione nera; egli ha anche sottratto
case, terreni e proprietà ai fattori bianchi e ha confiscato
i loro beni all'estero. Kagame, invece, ci ha
entusiasticamente rifornito di materie prime necessarie ai
nostri telefoni cellulari e computer: materie prime che le
sue truppe hanno rubato alla Rdc.
D'altra parte, la corruzione pura è tollerata e anche
incoraggiata. Venticinque paesi hanno finora ratificato la
convenzione Onu contro la corruzione ma nessuno di questi è
membro G8. Perché? A causa delle nostre multinazionali che
se la cavano molto bene. Nel Regno Unito le grandi aziende
possono, del tutto legalmente, corrompere i governanti
africani se operano attraverso il nostro (profondamente
corrotto) paradiso fiscale dell'isola di Jersey. Lord
Falconer, il ministro chiamato a risolvere una volta per
tutte il problema, si rifiuta di agire. Se si dà un'occhiata
alla lista dei clienti dell'isola, molti dei quali sono
nell'indice delle 100 grandi aziende inglesi quotate in
borsa, si comincia a capire perché.
L'idea, perorata dalla maggior parte dei nostri
commentatori, che le condizioni che il nostro governo impone
possano aiutare a prevenire la corruzione, è quanto mai
ridicola. Per candidarsi a ricevere i fondi della Banca
Mondiale, il nostro cliente modello (l'Uganda) è stato
forzato a privatizzare la maggior parte delle sue aziende
statali prima di poter decidere le regole per la la loro
vendita.
E' stata una svendita: il ministro delle Finanze ugandese
aveva previsto di raccogliere 500 milioni di dollari e
invece ha raccolto solo 2 milioni di dollari. Il rimanente
(498 milioni di dollari) è finito nelle tasche dei
funzionari di governo. Senza alcuna vergogna, la Banca
Mondiale ha preteso che - per candidarsi ora alla
cancellazione del debito - il governo ugandese privatizzi il
suo sistema idrico, i servizi all'agricoltura e le banche
commerciali, di nuovo senza un minimo di regolamentazione.
E qui incontriamo il problema fondamentale delle condizioni
poste dal G8. Non si fermano alla richiesta di bloccare la
corruzione, ma si immischiano in tutti gli aspetti del
governo sovranazionale. Quando i ministri delle finanze
parlano di "buon governo" e di "eliminare ciò che impedisce
gli investimenti privati", quello che intendono è
commercializzazione, privatizzazione e la liberalizzazione
del mercato e dei flussi di capitali. E tutto ciò significa
nuove opportunità per il denaro occidentale.
Ma soffermiamoci ancora un attimo sull'Uganda. Verso la fine
degli anni '80 il Fmi e la Banca Mondiale costrinsero il
governo a imporre delle "tasse sull'utente" nel campo della
salute e dell'educazione primaria. Il risultato è stato
quello di creare nuovi mercati per il capitale privato. La
presenza scolastica, soprattutto per le ragazze, ha avuto un
tracollo. Lo stesso vale per i servizi sanitari,
specialmente per i poveri delle campagne. Al fine di evitare
una possibile rivoluzione, Museveni reintegrò l'educazione
primaria gratuita nel 1997 e la sanità di base gratuita nel
2001. Le iscrizioni alle scuole elementari balzarono da 2.5
milioni a 6 milioni e il numero di pazienti esterni quasi
raddoppiò. La Banca Mondiale e il Fmi - che le nazioni G8
controllano - si infuriarono. All'incontro dei donatori
nell'aprile del 2001, il responsabile della delegazione
delle banche disse chiaramente che, visto il cambiamento di
politica, riteneva ormai il ministro della Sanità ugandese
come un "cattivo investimento".
C'è chiaramente un conflitto di interessi in questa
relazione. I governi del G8 dicono di voler aiutare i paesi
poveri a svilupparsi e a competere con successo. Ma
detengono potenti interessi commerciali a determinarne il
loro fallimento, perché vogliono dare alle nostre aziende la
possibilità di impadronirsi dei loro servizi pubblici e di
ottenere prodotti a prezzi stracciati. Le condizioni che
imponiamo alle nazioni povere tengono queste nazioni al
guinzaglio, un guinzaglio molto corto.
Questo non è l'unico conflitto. La dichiarazione dei
ministri delle Finanze del G8 insiste su un punto: che siano
la Banca Mondiale e il Fmi a monitorare i progressi delle
nazioni indebitate e a decidere se alleviarle del loro
debito o meno. La Banca Mondiale e il Fmi, naturalmente,
sono le agenzie che hanno più da perdere in questa possibile
redenzione. E' nel loro interesse che la cancellazione del
debito avvenga il più lentamente possibile.
Porre condizioni di questo genere agli aiuti è già
abbastanza grave. E' come dire: "Vi daremo un pochino di
soldi se ci darete i vostri gioielli della corona". Ma
legare questa logica alla cancellazione del debito equivale
a dire: "Smetteremo di prendervi a pugni in faccia se ci
darete i gioielli della corona". Il piano del G8 per salvare
l'Africa è leggermente meglio del racket delle estorsioni.
Credete ancora che i nostri leader, novelli santi, si siano
guadagnati le loro aureole? Se pensate di sì, vi siete
bevuti una vagonata di sciocchezze. Sì, dovrebbero
cancellare il debito. Ma dovrebbero cancellarlo
incondizionatamente.
|
15 giugno
Dopo la caduta
IDA DOMINIJANNI
Quindici anni e più di spoliticizzazione della società
italiana precipitano in quella cristallina cifra del 25,9% di cittadini e
cittadine italiani che hanno ritenuto utile esprimersi sulla legge sulla
procreazione assistita. Cifra cristallina, e sconfitta cristallina per chi, noi
compresi, aveva creduto nel referendum non solo per correggere una pessima
legge, ma anche per imporre all'attenzione pubblica un tema importante e i suoi
importanti risvolti politici. Tecnicamente, sarebbe stato meglio attendere che
la legge venisse bocciata - come prima o poi accadrà - da una pronuncia della
Corte. Tatticamente, sarebbe stato meglio affidarsi al solo quesito abrogativo
complessivo, quello proposto dai radicali e bocciato dalla Consulta, più chiaro
e più comunicabile dei quattro quesiti parziali, troppo oscuri e troppo tecnici.
Ma ormai non è questo il punto. E non è nemmeno l'usura dello strumento
referendario, che pure c'è e pure domanda una riforma, ma non può diventare un
alibi - l'ennesimo alibi da ingegneria istituzionale - per non leggere più
spietatamente il risultato. Il punto è che la valenza generale, culturale e
politica, del referendum non è passata nell'opinione pubblica, che evidentemente
l'ha vissuto come una marginale consultazione su una questione di pochi e per
pochi (fatti loro), o peggio, come un sibillino regolamento di conti interno
alle due coalizioni che si contendono il governo del paese. Il che vuol dire
però che il fronte referendario non è riuscito a comunicare nemmeno al suo
elettorato di riferimento l'importanza dirimente delle poste in gioco che la
materia della procreazione assistita trascinava con sé: libertà personali,
laicità dello Stato, qualità della legiferazione, statuto della maternità, della
paternità e della famiglia, rapporto fra politica, scienza e diritto nel governo
della vita. S'era già visto del resto negli otto anni di iter della legge: a
sinistra mancava un discorso all'altezza della sfida bioetica, non subalterno al
moralismo cattolico e non ossessionato dalla contrapposizione o dalla mediazione
con le gerarchie vaticane.
E' in questo vuoto che i fondamentalismi attecchiscono, non solo in Italia; è in
questo vuoto che le «guerre culturali» prosperano, seminando certezze
sull'Embrione, la Vita, Frankenstein, e gettando nel discredito l'intera
tradizione critica della modernità. Non è l'antico conflitto fra laici e
cattolici, Repubblica e Vaticano, Peppone e Don Camillo. E' una nuova mappa
delle appartenenze in cui il tradizionalismo cattolico si salda con la
rivoluzione conservatrice dei teo-con: una miscela aggressiva che consente alla
Cei di cantare vittoria contro «l'assioma modernizzazione-secolarizzazione»,
spalleggiata dai nuovi intellettuali atei che recitano cinicamente il Verbo di
Dio.
L'America che ha premiato Bush è arrivata in Italia? Si direbbe di sì, ma con
molta convinzione in meno e molta indifferenza in più: lì si contavano voti con
le percentuali di partecipazione in salita, qui contiamo astensioni con i quorum
in discesa. Il nuovo fondamentalismo germoglia nel deserto dell'apatia e del
disincanto. Malgrado la convinzione spesa nella campagna referendaria dalle
principali testate nazionali della carta stampata, segno inequivocabile di una
rottura allarmante nel circuito di formazione dell'opinione pubblica, forse
ormai irreversibilmente prigioniera dell'audience televisiva. E segno altresì di
una crisi di rappresentazione, prima che di rappresentanza, della società,
diventata imperscrutabile nei suoi umori e nelle sue oscillazioni. Quand'è così,
è da un paziente lavoro culturale che la politica deve ripartire: preoccupandosi
di incollare le parole all'esperienza, prima che i leader alle sigle di partito
e di coalizione.
14 giugno
BUIO
Il risultato del referendum per l'abrogazione della legge 40
rappresenta una sconfitta per tutto il paese, in quanto segna la conclusione di
una campagna in cui hanno prevalso le ideologie e i fondamentalismi.
Abbiamo assistito al crescere di toni aggressivi, di linguaggi intolleranti,
abbiamo visto il risorgere dell'ostilità verso la libertà e il desiderio
femminile che pensavamo storicamente superata.
Nel dibattito su questa legge, come del resto nel testo della legge stessa, è
stata completamente ignorata la soggettività delle donne e il loro corpo, come è
stata rimossa tutta la nostra elaborazione sulla sessualità, sulla gravidanza,
sull'etica della relazione, sulla bioetica, sulla "scienza del limite". Una
malintesa tutela della salute delle donne, le ha invece cancellate come
soggetti, come soggetti competenti, depositarie di esperienza, di sapienza, di
cura.
Abbiamo affermato che ogni discorso sulla maternità e sulla procreazione non può
che prendere le mosse dalle donne stesse come misura di riferimento.
L'effetto di questo scontro ideologico e violento è una
ferita gravissima alla laicità dello stato e della convivenza civile: non si era
mai vista, nella storia repubblicana una tale ingerenza arrogante della
gerarchia cattolica nella politica italiana né una tale subalternità della
nostra classe dirigente.
L'arcaica volontà di controllo della fecondità femminile si è
saldata, nel nostro Paese, con il moderno fondamentalismo della scienza e della
religione. Continueremo la nostra ricerca e la nostra riflessione, consapevoli,
che, sebbene le possibilità di dialogo civile siano ormai molto ridotte, nostra
responsabilità, in particolare verso i/le giovani è continuare.
8 giugno
Appello per il referendum.
Nobel di tutto il mondo uniti per il Si
di red
Premi
Nobel, prestigiose università, il gotha della ricerca scientifica: si allunga di
ora in ora la lista degli scienziati di tutto il mondo perché nel referendum del
12 e 13 giugno in Italia si affermi il Si. Hanno risposto in massa all’appello
dei “nostri” premi Nobel, Renato Dulbecco e Rita Levi Montalcini, che hanno
pubblicato un documento nel quale si auspica l’abrogazione della legge sulla
fecondazione e un nuovo impulso alla ricerca sulle cellule staminali. Nel
documento si prospetta la possibilità che i ricercatori vengano tagliati fuori
dal circuito scientifico internazionale mentre, si afferma «compito degli
scienziati è studiare le cellule staminali embrionali e adulte in parallelo, con
rigore metodologico e senza pregiudizi». Di conseguenza, si rileva, «da un punto
di vista scientifico non vi è alcuna giustificazione all'affermazione che la
ricerca sulle cellule staminali embrionali e quella sulle cellule staminali
adulte si escludano l'una con l'altra. Rifiutiamo quindi completamente
l'affermazione che la ricerca sulle cellule staminali embrionali non sia
indispensabile».
Adesioni convinte e prestigiose all’appello di Dulbecco e
Montalcini, che hanno visto una straordinaria mobilitazione della comunità
scientifica internazionale. L’università americana di Yale ha fatto sapere di
condividere il contenuto del documento mentre in Europa hanno deciso di sposare
la causa le maggiori istituzioni scientifiche: le università di Cambridge,
Edimburgo, Lund, Bonn, Madrid e Zurigo ma anche l’Istituto Pasteur, il CNRS, il
Consiglio Nazionale delle Ricerche francese e l’EBRI, l’Istituto europeo per le
ricerche sul cervello. Prestigiose le firme di scienziati che hanno aderito
personalmente: tra gli altri Ann McLaren, dell'istituto di Biologia dello
sviluppo dell'università di Cambridge e membro del comitato europeo di Bioetica
e il sostegno dell'ex commissario europeo alla Ricerca Philippe Busquin.
Una mobilitazione
massiccia dei più importanti cervelli della comunità scientifica internazionale,
quindi, che arricchisce la campagna per votare 4 Si al referendum di contenuti
specifici che vanno oltre l’ideologia di parte: «L'Italia - si legge nel
documento - deve essere in prima linea nella ricerca biomedica, in modo da
ricevere pienamente i benefici derivati dalla scoperta di nuovi farmaci e
trattamenti». Per questi motivi, concludono i firmatari, «auspichiamo vivamente
che il referendum del 12-13 giugno porti un sì per il diritto dei nostri
colleghi a condurre la ricerca sulle cellule staminali embrionali umane.
Sosteniamo, quindi, la loro azione decisiva in favore di
questo risultato che interessa l'intera comunità
scientifica».
Comunque vada, la Chiesa ha già perso |
di Ritanna Armeni |
Comunque vadano le cose il 13 giugno la Chiesa perderà il
referendum sulla fecondazione assistita. Lo perderà ovviamente se si
dovesse superare il quorum e dovessero vincere i sì, ma lo perderà anche
se dovesse vincere l'astensione, cioè la posizione che la stessa Chiesa
per prima ha sostenuto attraverso le parole del presidente della Cei.
Questa affermazione non è né provocatoria né consolatoria ma si basa su
alcuni dati.
Se il referendum non riuscirà a raggiungere il quorum sarà evidente che
si saranno sommati i voti del cosiddetto astensionismo passivo a quelli
dell'astensionismo attivo. In poche parole il voto degli indifferenti o
di coloro che non hanno capito a quello di coloro che, pur avendo
argomentazioni e convinzioni per votare no, pur di vincere cavalcano
l'astensione degli indifferenti.
Si tratta di una tattica elettorale del tutto legittima, quasi
sicuramente efficace, resta però da chiedersi se essa ha a che fare con
il ruolo e i compiti che la Chiesa vuole assolvere nel mondo e se essa -
secondo punto importante - può rispondere a quel processo di
secolarizzazione che le gerarchie ecclesiastiche e gli osservatori più
attenti del mondo cattolico vedono avanzare.
Oggi la Chiesa cattolica vive una profonda crisi di valori e di
vocazioni. Le parrocchie sono vuote, la scelta del sacerdozio è sempre
più rara. Non solo. Coloro che si dichiarano cattolici anche in paesi
come la Spagna e l'Italia seguono ben poco la morale della Chiesa
soprattutto nei campo sessuale. Ci si sposa in Chiesa, ma sempre di meno
e aumentano le convivenze. Chi si sposa non ha alcun problema a
divorziare. I figli vengono battezzati, ma spesso l'educazione cattolica
si ferma qui. I contracettivi sono comunemente usati, l'aborto è ammesso
e praticato.
Siamo di fronte ad un a fede che qualcuno ha definito soft e sulla quale
è difficile esprimere un giudizio. Forse si adatta ad esigenze nuove,
forse si modella storicamente, forse si adegua a compromessi, forse è
debole, o forse chiede una guida più comprensiva della nuova umanità.
Comunque è una fede lontana da quello che vorrebbero le gerarchie
ecclesiastiche che ha prodotto più di un grido di pessimismo e di dolore
da parte di papa Ratzinger.
Il principale nemico di questa Chiesa è proprio l'indifferenza e il
qualunquismo. E' l'abbandono dei valori cattolici, non in nome di altri
valori, ma in nome dell'abbraccio ad un mondo consumista ed edonista in
cui il matrimonio si riduce al ricevimento nuziale ed equivale
all'acquisto di una nuova automobile. In cui essere cattolici significa
solo essere battezzati. In cui la vita, o perché troppo faticosa o
perché troppo distratta, contempla poco la ricerca di un senso etico o
religioso.
In cui - per arrivare ai temi in discussione con i referendum - si
allontanano i grandi temi che riguardano il futuro dell'umanità come
inutili o estranei.
Questo mondo che la Chiesa cattolica dovrebbe combattere e convincere
viene spregiudicatamente usato, diventa la leva per raggiungere il fine
di sconfiggere i referendum. I punti di crisi e di debolezza vengono
utilizzati, assunti, giustificati, uniti in una miscela, quella
dell'astensione, in cui la paura dell'eugenetica, il timore di un
mercato che possa usare l'essere umano ha lo stesso valore e si esprime
nello stesso modo dell'indifferenza e del cinismo.
Sbaglieremo, ma una Chiesa anche sconfitta in una battaglia diretta sui
valori avrebbe avuto una autorità morale maggiore della Chiesa che
utilizza il "male" che la corrode, che ogni giorno lamenta e accusa pur
di vincere una battaglia referendaria. Anche chi, avrebbe comunque
votato sì ai referendum considerando sbagliata la legge 40, avrebbe
comunque ascoltato con più attenzione e rispetto le parole che venivano
da una autorità lontana, ma alta. Il processo di secolarizzazione non si
sarebbe certo fermato, ma la possibilità di un dialogo e di una nuova
sintesi sarebbero state maggiori.
Così non è stato. E per questo la Chiesa che ha buone possibilità di
vedere l'affermazione dell'astensione raggiunge una finta vittoria ed
una vera sconfitta. Presso il suo popolo che non è rappresentato, presso
coloro che si sono allontanati nella indifferenza e nella superficialità
e che vengono confermati nei loro comportamenti e anche presso chi, pur
non essendo credente, non ha alcuna voglia di abbandonarsi allo
scientismo e al politicismo. E avrebbe avuto bisogno - anche lui - di
una Chiesa militante e non opportunista. |
Bolivia, il presidente Mesa si dimette e chiede le elezioni anticipate
di red.
In un drammatico
discorso in tv, il presidente boliviano Carlos Mesa, che ha offerto le sue
dimissioni per placare le proteste indigene in corso da settimane, ha invocato
martedì sera elezioni anticipate, dopo che decine di migliaia di minatori e
contadini sono scesi su La Paz per chiedere la nazionalizzazione delle risorse
energetiche e riforme costituzionali.
La polizia ha sparato lacrimogeni per disperdere la folla,
mentre Mesa ha esortato i presidenti del Congresso, Hormando Vaca Diez, e Camera
bassa del Parlamento, Mario Cossio, di farsi da parte e permettere nuove
elezioni per sgonfiare le proteste che bloccano La Paz e altre città. «Il Paese
non può continuare a giocare con la possibilità che vada in mille pezzi...
l'unica soluzione per la Bolivia è un immediato processo elettorale», ha detto
Mesa «Questo arriva da un presidente che è sulla via d'uscita... È un appello ad
un paese sull'orlo della guerra civile».
Mesa ha offerto lunedì di dimettersi – ed è la seconda
volta quest'anno - dopo tre settimane di proteste degli indigeni nella capitale
dello stato più povero d'America Latina. Se Vaca Diez e Cossio si dimetteranno,
la guida del Paese passerà al presidente della Corte Suprema con l'incarico di
organizzare il voto anticipato. Vaca Diez ha annunciato di aver convocato il
Congresso, che ha respinto le dimissioni di Mesa in marzo, giovedì nella città
meridionale di Sucre per discutere se accettare l'offerta del presidente di
lasciare il mandato. La riunione è stata spostata a 200 miglia dalla capitale,
giudicata troppo pericolosa.
Mesa,
subentrato al conservatore Gonzalo Sanchez de Lozada dopo la rivolta popolare
dell’ottobre 2003, si trova a fare i conti con un paese dai forti contrasti
sociali dove i poveri di sempre, gli indigeni e i contadini hanno deciso di
scender ein piazza per reclamare i propri diritti.
Sui
muri delle case ancora si può leggere lo slogan principale della rivolta del
2003, «gas o muerte». La decisione del governo dell’allora presidente, il
conservatore Gonzalo Sanchez de Lozada, di esportare gas negli Stati Uniti e in
Messico attraverso il Cile, innescò quella che venne chiamata la «guerra del
gas». Nel 2004 un referendum sulla revisione delle norme sull’esportazione del
gas fu vinto dalle organizzazioni dei contadini e i “cocaleros”, per lo più
indios, dai sindacati e dalla sinistra.
Ma
ancora oggi, nel 95% delle case boliviane il riscaldamento a gas non c'è. Fa
freddo, nonostante sotto la terra dei boliviani si concentri il 15% delle
risorse di gas dell'intero continente. Che se ne va via terra o per mare,
esportato per conto di quattro imprese (la brasiliana Petrobras, la francese
Total, la spagnola Repsol e la britannica Bp) che muovono un giro d'affari di
700-800 milioni di dollari all’anno, pari al 10% di tutto il Pil nazionale. Di
questa enorme torta lo Stato riceve solo una piccola parte, il 18% degli utili
più le tasse; in tutto 150 milioni di dollari all’anno. Prima delle
privatizzazioni l'ente statale Ypfb (Giacimenti petroliferi boliviani), riusciva
ad incassare più di 300 milioni di dollari, il doppio di quanto riceve oggi. Un
paradosso che si spiega con la corruzione dei governi degli anni Novanta, dal
generale golpista Hugo Banzer allo stesso Sanchez de Losada. E che Mesa, ora, è
chiamato a risolvere.
E
quanto più la discussione si prolungherà tanto più crescerà l'ondata di
malcontento popolare e la domanda di gas, di gas o muerte, come reclamavano le
decine di morti ammazzati negli scontri dell'anno scorso. La partita è
apertissima: otto milioni di boliviani aspettano di conoscere il futuro della
loro unica, ultima e inafferrabile ricchezza.
Procedura deficit contro l'Italia, l'Ue ha detto sì
di red
La Commissione
Europea ha detto sì e ha ufficialmente aperto la procedura per deficit eccessivo
nei confronti dell'Italia. «La commissione europea - si legge nella nota
ufficiale dell’esecutivo di Bruxelles - ha adottato una relazione in
applicazione dell'articolo 104, paragrafo 3 del Trattato Ue, nella quale
constata che il disavanzo di bilancio dell'Italia ha superato, seppur
lievemente, la soglia del 3% del pil nel 2003 e nel 2004 e, secondo le
previsioni, si manterrà al di sopra di tale livello anche nel 2005 e
successivamente, nell'ipotesi di politiche invariate». Per questo, prosegue il
comunicato, «il superamento della soglia non può essere considerato temporaneo»
e neppure «eccezionale» perché, secondo quanto stabilito dal Trattato di
Maastricht, il superamento del 3% del deficit «non è dovuto ad un evento
inconsueto non soggetto al controllo del governo, né è determinato da una grave
recessione».
Come
ampiamente preannunciato dalle indiscrezioni dei giorni scorsi l'Europa ha
accolto il rapporto del commissario alle politiche economiche monetarie Joaquin
Almunia: l’Italia negli ultimi due anni non ha soddisfatto «i requisiti del
trattato Ue concernenti i criteri del disavanzo e del debito» e, in linea con
alcune osservazioni di Eurostat, il disavanzo viene attualmente stimato al 3,2%
per il 2001, il 2003 e il 2004. Inoltre il debito resta molto elevato a circa il
106-107% del pil e non è diminuito a un ritmo soddisfacente negli ultimi anni.
Dato
l’ok dalla Commissione Ue i passi procedurali per l’avvio vero e proprio del
deficit eccessivo prevede varie fasi. Il comitato economico e finanziario, di
cui fanno parte alti funzionati dei ministeri e delle banche centrali, si
pronuncerà sul rapporto. Il 29 giugno è già previsto all'odg della commissione
il varo del parere sull'esistenza di un disavanzo eccessivo e della
raccomandazione all'Ecofin di adottare a sua volta una decisione in questo senso
e di chiedere all'Italia di porre fine a tale situazione entro un determinato
periodo di tempo. Ed è, appunto, sui tempi che si aprirà il vero negoziato
politico tra Bruxelles e Roma.
Proprio per questo il governo italiano prova già a minimizzare quanto accaduto.
Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi si dice tranquillo («Vi sembro
preoccupato?», ha commentato ai giornalisti a margine dell'assemblea Ance) e il
ministro dell’Economia Siniscalco prova a negare perfino l'evidenza: la
procedura è un atto dovuto (spiega Siniscalco in sintesi) ma noi cercheremo di
convincere l’Ecofin che in realtà l’Italia sta già aggiustando i suoi conti anzi
che non ha mai violato il tetto del 3% del Pil nel 2004 perché l'anno scorso c'è
stato un serio aggiustamento dei conti e l'eventuale sforamento è dovuto alla
riclassificazione di Eurostat.
Insomma: «Se c'è stato sforamento è stato per le correzioni di Eurostat -
argomenta Siniscalco che promette - Venerdì porteremo al G-7 il memorandum con
le nostre controdeduzioni rispetto al rapporto della Commissione Ue. Negozieremo
fino all'ultimo giorno. Se vi fosse un deficit eccessivo potremmo avere due anni
se non addirittura tre per l'aggiustamento, non so che cosa sia desiderabile,
verrà fuori nel processo».
E per
non smentirsi un ultimo riferimento all'ormai tradizionale accenno
all'eventualità di una manovra aggiuntiva in corso d'anno. Possibilità che
Siniscalco smentisce nuovamente: «Meglio un'ottima finanziaria che una manovrina»
commenta, ricordando che la stretta-bis operata a luglio 2004 alla luce dei
fatti non si è dimostrata tanto utile.
Sei gay? Allora niente
patente
di Delia
Vaccarello
«Sei
gay? niente patente». Alla visita di leva lo esonerano dal servizio militare
«per disturbi dell’identità sessuale». La motorizzazione civile, avvertita
dall’ospedale militare, gli sospende il permesso di guida. Non ha le condizioni
psico-fisiche. Succede a Catania, ai tempi della leva obbligatoria, nel
settembre del 2001.
Il
giovane gay, che non ha nessuna voglia di restare appiedato, ricorre al Tar. E
il tribunale amministrativo gli dà ragione, non evitando però di scivolare nelle
valutazioni omofobiche. Si legge nell’ordinanza: «È assolutamente evidente che
le preferenze sessuali non influiscono in alcun modo sulla capacità del soggetto
di condurre con sicurezza veicoli a motore», in quanto per il Tar, tali
preferenze, sono «un mero disturbo della personalità» come la logorrea e la
melanconia.
E poiché uno che parla tanto può guidare la macchina, perché non potrebbe farlo
un omosex? Il tribunale amministrativo oscilla tra il buon senso e la
condivisione dell’idea (frutto di pregiudizio) che comunque un omosessuale del
tutto normale non è. Una storia davvero surreale, che farebbe ridere se non
fosse una conferma della diffusa ignoranza sul tema.
Venti anni fa l’Organizzazione mondiale della Sanità ha cancellato
l’omosessualità dal novero delle malattie mentali, considerandola un
orientamento sessuale al pari dell’eterosessualità e della bisessualità. Nulla
si può dedurre delle condizioni di salute mentali di un individuo a partire dal
suo orientamento sessuale. Alla visita di leva però tutto questo ancora non
vale.
Che
cosa è successo al giovane catanese? Ha detto di essere gay, racconta il suo
avvocato Giuseppe Lipera, e gli hanno chiesto una qualche conferma, come la
tessera di un’associazione. Quindi lo hanno esonerato, non per motivi generici,
ma per «disturbi della personalità». Le conseguenze sono automatiche. Come
evitarle? Il giovane che dice di essere gay in alcuni casi lo fa proprio per
esigenze di tutela: i fenomeni di nonnismo e le aggressioni omofobiche da parte
dei camerati potrebbero essere troppo pesanti. In questi casi, però, i medici
militari vogliono una «prova».
«Ai tempi della leva obbligatoria c’è stato un accordo non scritto con le forze
armate - spiega Aurelio Mancuso, segretario Arcigay - il giovane si presentava
con una lettera firmata da noi, a riprova che non stesse fingendo
l’omosessualità per evitare il servizio militare. Ma lo avvertivamo: occhio alle
motivazioni dell’esonero, devono essere generiche, in modo da non comportare
altre limitazioni. Non tutti i distretti però hanno colto lo spirito di questo
accordo».
Si trattava di fatto di una «riduzione del danno omofobico» per evitare
situazioni di eccessivo disagio: poiché gli episodi di nonnismo potevano essere
soverchianti, si preferiva evitarli, stando attenti al certificato di esonero.
«È andata quasi sempre bene», conclude Mancuso. Non per il giovane catanese, che
ora chiede un risarcimento danni pari a 500 mila euro. «Abbiamo intentato una
causa civile contro il Ministero dei Trasporti e della Difesa - dichiara il suo
legale - Qualcuno deve chiedere scusa a questo ragazzo».
La vicenda è sbalorditiva. «I Gay
Pride sono resi necessari dalla “debole costituzione” di cui soffrono i diritti
nel nostro Paese», afferma Luigi Manconi, Ds. E Sergio Lo Giudice, presidente
Arcigay commenta: «Quanto accaduto a Catania, tra leggerezze, ignoranza e
confusione non è degno di un paese moderno e civile». Una storia incredibile ai
confini della civiltà.