Archivio marzo 2005

 

 

24 marzo

IL COMMENTO
Le garanzie cancellate
di ANDREA MANZELLA

Non c'è stata dunque tregua nella corsa per sradicare la nostra Costituzione dai suoi principi originari. L'estrema difesa sembra ormai affidata al referendum impeditivo. Tutte le previsioni dicono che in quel referendum prevarrà la grande maggioranza moderata degli italiani: di centro, di sinistra e anche di destra. E che sarà battuto l'estremismo di chi predica e pratica ogni giorno, da quattro anni, un bipolarismo feroce: nelle leggi, nelle nomine, nell'informazione, nella immagine esterna del Paese. Il clima di divisione nazionale, appunto, cristallizzato nel disegno governativo.

Maestri giuristi ci spiegano anche che questo progetto comunque non funzionerà. I maldestri meccanici che vi hanno lavorato hanno avvitato bulloni a casaccio. Ne è uscito fuori un macchinario che sembra privo di logica motrice. Ma il punto non è in tutto questo.

Il punto, che peserà come una zavorra nella storia della Repubblica, è che con questo progetto si è rotto il bene più prezioso che ci univa dal 1946: la pace costituzionale degli italiani. È un bene che aveva resistito allo scontro tra laici e cattolici, tra liberali e comunisti e persino alla guerra civile fredda che per trent'anni, dal 1946 al 1976, aveva opposto pro-atlantici a pro-sovietici. Ora si è dimostrato che è sufficiente un calcolo elettorale a breve, una baratteria di coalizione, la voglia di agitare un successo parlamentare, sia pure di corta durata, per potere spezzare senza scrupoli quel segno storico della nostra unità.

E, allora, non basterà vincere un referendum. Esso non potrà essere una misura di conservazione. Dovrà essere piuttosto la riscoperta e la rifondazione dei principi e degli equilibri della Costituzione. Una battaglia, in questo senso costituente, per una ricostruzione della specifica identità istituzionale italiana nel grande movimento costituzionale europeo.

La riconquista della pace costituzionale significherà innanzitutto la ricomposizione delle garanzie violate. Dopo le rotture, ci sarà da ristabilire le garanzie per i tre grandi principi di base: l'equilibrio democratico tra maggioranze e minoranze; l'equilibrio parlamentare tra poteri e contropoteri del governo; l'equilibrio nazionale tra unità e pluralismo territoriale.
Risultano, infatti, fiaccate, in primo luogo, le garanzie democratiche. La stessa contestata procedura seguita in modo convulso per cambiare 53 articoli della Costituzione, con fortissima limitazione dei diritti dell'opposizione, dimostra, per sé sola, che in questo Paese il governo ormai può tutto. E può di più quando, come nel caso della revisione costituzionale, sono tecnicamente fuori gioco sia il Presidente della Repubblica sia, forse, la Corte costituzionale.

Manomettere, come fa il progetto, queste garanzie si traduce immediatamente in un attacco alla zona dei diritti fondamentali. Si è così costruita una passerella di aggressione che va dalla parte organizzativa della Costituzione alla parte, apparentemente illesa, dei diritti dei cittadini. La prima tradizionale tutela dei diritti è affidata alla ordinaria legge parlamentare. Ma questa ora non è più una difesa.

Questo degrado di sicurezza costituzionale avviene contemporaneamente al rigetto di tutte le proposte dell'opposizione che cercavano di adeguare le garanzie della Costituzione al nuovo sistema elettorale maggioritario. Erano proposte che non ponevano minimamente a rischio la stabilità dei governi e le condizioni di governabilità. Il loro rifiuto è reso più cupo dal pesante contorno di leggi che minano le pre-condizioni della democrazia: stabilizzando il monopolio governativo dell'informazione televisiva, legittimando il conflitto di interessi, insidiando l'indipendenza della magistratura.

Sono in giuoco, poi, le garanzie per il regime parlamentare. C'è già ora il disprezzo di un primo ministro che rifiuta di andare in parlamento non solo per rispondere ad un cortese question time di importazione, ma perfino sull'indecifrabile destino di tremila soldati italiani, trascinati in un teatro di guerra. Il progetto consolida e legittima questa retrocessione del parlamento.

Una sovranità elettorale assoluta cancella ogni autonomia delle Assemblee rappresentative. Il rapporto a due parlamento-governo che è la vita stessa del principio parlamentare è bruciato fin dal giorno delle elezioni. La legge elettorale, si dice, deve "favorire la formazione di una maggioranza collegata al candidato alla carica di primo ministro". Con voti bloccati, questioni di fiducia, minaccia di scioglimento la stessa maggioranza parlamentare non ha alcuna possibilità di confronto e men che meno di controllo sull'operato del governo.

Quanto all'opposizione, i suoi voti sono considerati costituzionalmente appestati e non le si concede neppure il rimedio tipico delle democrazie maggioritarie: il ricorso preventivo al tribunale costituzionale almeno nei casi di sospetti abusi nel procedimento legislativo.

Nessun temperamento dunque all'attuale situazione di prevaricazione governativa. Vi è semmai il suo aggravarsi: con uno squilibrio ancor più forte a favore di una figura di primo ministro che assorbe in sé praticamente anche la rappresentanza parlamentare, cancellandone la differente identità.

È compromessa, infine, la garanzia dell'unità territoriale della Repubblica. Compromessa dall'inserimento della clausola di "esclusività" nelle competenze legislative delle regioni. Una "esclusività" che non tocca solo i grandi sistemi unitari nazionali - la scuola, la sanità - ma si estende indefinitamente anche "ad ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato". Ora, questa "esclusività" - che è il punto di inconciliabile frattura tra il regionalismo di tutti (e non solo del centro-sinistra) e quello della Lega - è una aberrazione sia per l'ordinamento italiano sia per l'ordinamento europeo. Nell'uno e nell'altro è in contrasto, infatti, con il fondamentale principio di sussidiarietà. Un principio - imperniato sulle intese fra i differenti livelli di governo - che rende mobili e flessibili le competenze.

La competenza esclusiva, se ha un senso, creerà invece un sistema di rigide gabbie legislative nel territorio della Repubblica, di compartimenti impermeabili a principi comuni, di vere e proprie dighe alla stessa legislazione comunitaria e prevedibili ostacoli alla circolazione delle imprese e dei servizi. D'altronde la logica della frammentazione e del separatismo lascia le sue impronte digitali. Là dove consente che per cinque anni tutte le tentazioni alla diaspora del localismo italiano trovino sfogo. Sia attraverso una sospensione delle garanzie attuali della Costituzione. Sia stabilendo che ai referendum di amputazione territoriale partecipino solo "i cittadini residenti nei comuni o nelle province di cui si propone il distacco dalla regione"...

Per tutte queste ragioni il referendum non potrà esaurisi in un semplice "no". Con esso si devono ridefinire le condizioni e i principi repubblicani per un coabitare mite in Costituzione.

Nel 1946 quando cominciò la Costituente, il fascismo era definitivamente morto. Eppure si creò una Costituzione antifascista: per cercare di evitare, sbagliando magari qualcosa in senso opposto, gli eccessi di potere di quel regime trascorso. Forse è troppo pretendere che si ponga ora mano a regole costituzionali che mettano fine all'attuale esorbitante accumulo di poteri pubblici e privati proprio del berlusconismo. Ma è certamente impossibile accettare, dopo questa esperienza, meccanismi che concedano al berlusconismo (non ancora morto) o a qualunque altro estremismo populista, una patente costituzionale per prevaricare di più. Ogni politica costituzionale deve partire dall'esistente e non dalle teorie. E l'esistente è questo. Non c'è Westminster né la Bbc.

Ecco perché, alla fine, questo referendum avrà logicamente una forte influenza sulle elezioni politiche del 2006. Quale che sarà la data del suo svolgimento, esso consentirà ai cittadini di valutare l'intera posta in giuoco e di riappropriarsi di valori costituzionali che si sono fatti lontani. E che, come ogni cosa lontana, rischiano di essere perduti per sempre.


 

«Ingiustizia è fatta»
Kater I Rades, le associazioni criticano la sentenza
ANTONIO MASSARI
BRINDISI
Irrisoria la pena, irrisorio il risarcimento. La sentenza emessa il 19 marzo sull'affondamento della Kater I Rades non ha fatto giustizia: questo è il pensiero di molti, tra gli attivisti delle associazioni che da anni seguono la vicenda dell'affondamento della Kater I Rades, la nave carica di immigrati albanesi speronata otto anni fa, nel mare di Brindisi, dalla motovedetta italiana Sibilla. Era il 28 marzo 1997: morirono annegate 86 persone. In tanti sono rimasti perplessi dalle stesse modalità del tribunale, che ha emesso la sentenza in sordina, in un sabato con pochi riflettori. Sabato 26 marzo, intanto, alle 17,30 molti si presenteranno sul lungomare per commemorare con un lancio di fiori tutti gli immigrati morti in mare. Seguirà un corteo, fino al centro cittadino, dove si terrà una mostra con dibattito. «In questa sentenza», dice Alessia Montuori, dell'associazione Senza confine, «l'unico dato positivo è il riconoscimento della colpevolezza dello Stato, che in Italia non è affatto scontata, sopratutto perché, in questo caso, si tratta della Marina militare. Tutto il resto è inadeguato, a cominciare dalla pena: tre anni al comandante italiano e quattro a quello albanese. La ripartizione del risarcimento obbliga il comandante albanese al pagamento del 40 per cento, ma non sappiamo se davvero riusciranno a punirlo e se mai pagherà. Riguardo le cifre, poi, 280mila euro mi sembrano davvero pochi. La vita di un uomo non ha prezzo, certo, ma al di là della retorica mi chiedo davvero quanto valga la vita di un albanese. E non dimentichiamo che c'è un altro drammatico naufragio che attende ancora giustizia:quello del Natale 1996, a Siracusa, che coinvolse 283 persone».

Altrettanto duro il commento dell'Osservatorio sui Balcani di Brindisi: «Si tratta di una strage di Stato che si conclude, purtroppo, con una sentenza scontata». Molti i punti ancora da chiarire, secondo Antonio Camuso: «In questi cinque anni le accuse degli ammiragli responsabili dell'operazione sono state stralciate dal processo. I responsabili politici del governo Prodi non sono mai stati portati sul banco degli imputati: lo Stato ne è uscito assolto, restano solo le esigue condanne ricadute sui due comandanti. Ma le nostre domande non hanno risposta: chi aveva autorizzato un blocco navale in acque internazionali dove è libera la circolazione? Perché si doveva impedire a tutti i costi l'arrivo di un centinaio di uomini, donne e bambini che fuggivano da una Albania in piena rivolta civile? Quali ordini erano stati impartiti ai comandanti italiani? Vogliamo un tribunale internazionale, come lo vogliono gli albanesi superstiti, perché non s'è trattato di un incidente. E' stato un atto di barbarie, condotto in violazione dei diritti umani sanciti dall'Onu e dalla nostra Costituzione».


 Donne e Sud, ritorno al passato
«Un fallimento, torna la dipendenza economica». L'allarme di Chiara Saraceno
R. C.
«E' un fallimento». Chiara Saraceno, sociologa, è stata tra le prime a lanciare l'allarme quando già nei mesi scorsi dai dati dell'Istat andava emergendo il fenomeno dell'abbandono del mercato del lavoro da parte delle giovani donne del Mezzogiorno. Adesso, con i dati Istat che certificano il fenomeno di un «effetto-scoraggiamento» che sta diventando una vera e propria fuga, dice: «E' un fallimento della speranza dell'autonomia economica per tante donne, drammatico nel Mezzogiorno». E si meraviglia del fatto che «nella sinistra anche estrema ancora non si prenda atto di questa emergenza». E' davvero una fuga delle donne dal mercato del lavoro? Cosa sta succedendo?

Se non è una fuga, certo è un forte rallentamento della presenza femminile, dopo anni e anni di crescita. E' successo che le donne del Mezzogiorno, nonostante siano mediamente più istruite e qualificate di prima, hanno smesso di cercare lavoro. La tendenza si è interrotta e poi invertita perché il lavoro non si trova e dunque arriva lo scoraggiamento. Basta guardare i dati: tra le ragazze che hanno tra i 15 e i 24 anni del Sud e che sono sul mercato del lavoro, le disoccupate sono il 44,6%. Quasi la metà. La stessa percentuale per le ragazze del Nord è al 17,7%, per quelle del centro del 25,9, per i maschi del sud della stessa età è del 32%. Sono numeri che scoraggiano. Come quelli sulla disoccupazione di lunga durata, che per le donne del Mezzogiorno è pari a 7 volte quella delle donne del Nord-est.

E' solo economica la spiegazione di questo fenomeno?

Un fatto certo è che non smettono di cercare lavoro perché «fanno le signore». Quest'aumento delle inattive si verifica nelle stesse zone in cui più alta è la povertà, dunque non si spiega con una riduzione del bisogno di lavorare. Per anni l'offerta di lavoro femminile è aumentata, poi tutta questa pressione non ha trovato sbocco e dunque c'è un ritorno all'indietro. Mentre il contesto culturale e familiare può contribuire, in senso opposto a quello che di solito si pensa: nel Mezzogiorno è anche più difficile la conciliazione tra lavoro retribuito e lavoro domestico. Da un lato, ci sono meno servizi sociali - il che dà anche meno occupazione femminile. Dall'altro, la «famiglia allargata», comincia a essere un peso in più: mentre nel Nord est è una grande risorsa per le donne che lavorano, nel mezzogiorno si sta configurando sempre meno come un aiuto e sempre più come un altro lavoro da svolgere, soprattutto nella cura degli anziani.

Come si concilia tutto questo con la riduzione del tasso di disoccupazione, che fa cantare vittoria al governo?

La disoccupazione all'8% sembrerebbe un buon risultato, senonché la disoccupazione è scesa proprio perché è sceso il tasso di attività quasi ovunque. A livello nazionale sale il tasso di occupazione, ma è un fenomeno solo demografico, non stabile. Nel Mezzogiorno poi è tutto un segno meno. Il Sud si allontana sempre di più dall'Italia, mentre l'Italia è sempre più lontana dagli obiettivi europei di Lisbona in termini di tasso di occupazione, maschile e femminile. Per le donne del Sud ricomincia a crescere la dipendenza economica, in un contesto di sovraccarico di lavoro familiare: un quadro preoccupante, un allarme che si fatica a far suonare, anche a sinistra.

22 marzo

C'era una volta l'acqua
che adesso non c'è più

di UMBERTO ECO

"SI POTREBBE cominciare così". Lo Scrittore lesse la prima frase che aveva scritto sul computer. Non era molto, né sapeva come andare avanti. Gli avevano chiesto un breve racconto sull'acqua. Non un romanzo, o una saga in molti volumi, impresa a cui si sarebbe accinto con lena ed energia; e nemmeno un saggio, in cui avrebbe potuto spaziare sulla presenza dell'acqua nelle grandi cosmogonie, da Talete ai Dogon, tanto per dire. Ma un racconto, una storia breve. Che non era nelle sue corde.

Cosa doveva rispondere? "Non mi è venuta l'ispirazione?". Ci avrebbe fatto la figura di un prefetto a riposo, Poeta a Proprie Spese, di quelli che credono al Demone.

Avrebbe potuto inventare una storia di fantascienza. Il bambino fa una domanda al papà mentre viaggiano sulla Grande Autostrada Po, che attraversa tutta l'Altura Padana.

Ha letto il termine "acqua" su un vecchio libro, e chiede che cosa voglia dire, mentre inghiotte la sua pillola giornaliera di H2O Synt2.

"Eh, l'acqua, l'acqua", gli dice il papà perplesso. "È una cosa che non c'è più su questa terra. Vedi, per esempio qui, sull'autostrada Po, non si andava in macchina, ma c'era l'acqua, come dire, una cosa bagnata, con dentro delle bestie senza zampe e senza ali, e che se ci cadevi dentro rischiavi di morire.

E quando scenderemo tra due ore alla Valle Tirreno, anche lì non c'erano tutti quei grattacieli, quei casinò, quei Luna Park e quei Fast Food per miglia e miglia. C'era tutta acqua. Vedi laggiù quei contadini che spargono sugli ombù e sulle palme quella polvere di H2O Synt4? Ecco, allora invece sulle piante cadeva l'acqua. "Ma come faceva l'acqua a cadere", chiede il bambino, "se stava in basso, nelle autostrade e nelle valli?" "Difficile da immaginare", dice il papà, "ma l'acqua cadeva anche dal cielo".

Il cielo adesso ti sembra tutto nero, ma allora era azzurro e pieno di una specie di lana bianca, che a un certo punto si disfaceva e cadeva giù l'acqua sotto forma di gocce. "Gocce?" "Si, palline, perline, quasi come quelle che si formano sulla tua pelle al mattino quando per pulirti ti nebulizzi con H2O Synt15. Solo che erano bagnate". "Io non so cosa voglia dire bagnato, ma certo un mondo con questa cosa che dici tu doveva essere bruttissimo", esclama il bambino.

E infatti come fare a spiegare a un bambino che cosa siano la pioggia, le cascate del Niagara, la Garganta do Diablo di Iguazùl, l'arcobaleno, il temporale, il mare, la neve e le sorgenti, se l'acqua non l'ha mai vista? E se le cose stanno così, non si può scrivere neppure questa storia, perché più di così il bambino non può capire e il padre non può dire.

Salvo che a quel certo punto lo Scrittore si è ricordato che al mondo, non quello della fantascienza ma quello della scienza, in certe zone, esistono bambini quasi così, che conoscono solo deserti solcati da crepe secche e vene di sale, e l'acqua non la vedono quasi mai, e quando arriva è razionata in certi contenitori - e naturalmente non ci sono neppure le pillole di H2O Synt.

E si è chiesto se davvero la storia di una possibile scomparsa dell'acqua sia una storia solo di fantascienza.

Ecco, si è detto allora, potrei raccontare la storia di come sia difficile raccontare questa storia.

Si è seduto al computer e ha iniziato a digitare: "Si potrebbe cominciare così".

In occasione della giornata mondiale dell'acqua, ha voluto offrire questo breve racconto ad Amref - Fondazione Africana per la Medicina e la Ricerca - per sostenerne i progetti idrici in Africa orientale e l'impegno in Italia in favore del messaggio "acqua è vita".

17 marzo

COMMENTO
Tra propaganda
e alleanza

di EZIO MAURO

L'avventurismo berlusconiano ha disegnato ieri una giornata esemplare, con il governo allo sbando da mattina a sera nel triangolo Roma-Washington-Londra, Bush e Blair costretti a correggere il premier italiano, il ministro degli Esteri che corre ai ripari avvertendo che non cambia nulla, il Capo dello Stato colto di sorpresa durante una visita di Stato in Gran Bretagna.
Per una volta, la politica degli annunci del Cavaliere - che in Italia non paga mai dazio, nella sua dissociazione dalla realtà - si è scontrata contro la logica dell'alleanza, che ha messo a nudo la piccola furbizia berlusconiana: massima propaganda in pubblico, con l'annuncio televisivo del ritiro a settembre, massima lealtà in privato, con una telefonata di rassicurazione a Bush: "Voleva per prima cosa che io sapessi che non c'è nulla di cambiato nella sua politica", ha rivelato il presidente americano. Fuori dall'Italia, il doppio binario non regge. Negli altri Paesi, infatti, la politica estera si decide nella responsabilità delle sedi istituzionali - i governi e i parlamenti - e non nella scorciatoia irresponsabile di Porta a Porta.

Solo da noi, mentre il ministro della Difesa siede inconsapevole alla Camera dove si vota il rifinanziamento della missione, e il ministro degli Esteri incontra ignaro Blair a Londra, il premier può permettersi di ammiccare come un crooner verso le telecamere annunciando una svolta personale sulla questione della presenza militare italiana a Nassiriya.
La politica estera è un'altra cosa: e in guerra ancor più. Persino nell'epoca berlusconiana, va sottratta alla doppia tentazione in cui si muove il Cavaliere, l'ideologia e la propaganda. Entrambe a buon mercato, naturalmente, all'ingrosso, governate non dai valori o dall'interesse nazionale ed europeo, ma dalla convenienza populista del leader e peggio ancora, dalla furbizia.

L'importante è recitare la parte di miglior alleato di Bush finché serve. E quando incombono le elezioni regionali annunciare, da solo, che "la missione è compiuta". L'annuncio comporta conseguenze? Nella scaletta televisiva non era previsto, tutto doveva finire con un bell'applauso. Per poi ricominciare prima delle elezioni politiche, con la scena del ritiro. In seconda serata, naturalmente, con un ponte aereo preelettorale e qualche tuta mimetica che sbarca felice in tivù, magari baciando la scena di Porta a Porta come il vero suolo patrio dell'Italia berlusconiana.

 

IL RETROSCENA. Il ministro degli Esteri era a Londra con Blair
E il presidente del Consiglio se la prende con la Cnn...
Fini protesta con il Cavaliere
"Almeno potevi avvertirmi"

di CLAUDIO TITO

 
ROMA - "Ma cos'è questa storia? Almeno mi potevi avvertire visto che stavo a Londra". La linea telefonica di Palazzo Chigi ieri si è surriscaldata molto rapidamente. Gianfranco Fini, in Inghilterra insieme al presidente della Repubblica Ciampi, ha alzato la cornetta, ha chiamato il premier e tutto di un fiato non gli ha nascosto nemmeno una delle tante perplessità sull'uscita fatta a "Porta a porta". Non solo il vicepremier non era stato avvertito, ma si trovava proprio a fianco di Tony Blair mentre il Cavaliere annunciava una tappa fondamentale della missione in Iraq e spiegava di averne discusso con il premier britannico. Dopo le parole di Berlusconi, nessuno nella delegazione italiana riusciva a celare un certo "imbarazzo". Quell'imbarazzo di cui poi il titolare della Farnesina si è lamentato con una certa veemenza nella telefonata.

Il presidente del Consiglio ha dunque dovuto fronteggiare le proteste dell'alleato "interno" ma le ha rapidamente derubricate sapendo di poter contare sull'appoggio della Lega e sulla sostanziale condivisione dell'Udc. Nello stesso tempo si è visto investire dall'ondata di reclami diplomatici partita dalla Gran Bretagna e dalla Casa Bianca. Bush, infatti, lo ha contattato costringendolo di fatto a correggere la linea. "Forse - ha ammesso ieri pomeriggio il premier - quella data di settembre ha provocato qualche confusione... io però ho ripetuto esattamente le stesse cose che milioni di volte hanno detto sia Fini, sia Martino". Se davanti ai richiami di Washington e Londra, ha dovuto fare buon viso a cattiva sorte, in privato continua a sostenere che "un exit plan va comunque preparato".

Se non a settembre, di certo in autunno Berlusconi vorrebbe avviare il ritiro dei soldati dall'Iraq. "In maniera concordata - puntualizza - e se a settembre non fosse possibile, vuol dire che non sarà possibile. Ma di certo non faremo come la Spagna. Siamo riusciti a cambiare la politica italiana, sempre ballerina, e ora non ricambiamo". La paura di Palazzo Chigi è che all'estero si possa dare l'immagine di una "Italietta" che cambia bandiera quando conviene.

Nega poi che ci sia stato una incomprensione con Blair e mette nel mirino la Cnn. A suo giudizio, infatti, sarebbe stata l'emittente americana, notoriamente critica con Bush, a montare il caso, a provocare gli articoli durissimi dei giornali Usa come quello del "New York Times" e quindi la reazione della Casa Bianca. "Sono stati loro, quelli della Cnn, a ingigantire tutto" dando ampio spazio alle sue dichiarazioni e soprattutto mettendole in connessione con la vicenda Calipari-Sgrena.

Ma l'idea di far scattare il rientro "anche minimo" a "settembre o in autunno", comunque rimane. "Io - diceva ieri a chiare lettere nel cortile di Palazzo Grazioli - ho già tutti i numeri in testa. Ho già tutto pronto. Ma non ve li posso dire". Il suo progetto dovrebbe muoversi "in parallelo e in complementarietà" con l'addestramento delle forze dell'ordine irachene: "stiamo lavorando in primo luogo con la Nato proprio per preparare gli agenti iracheni". "La gente - ripete un po' a tutti - ci chiede il ritiro". Tant'è al ministero della Difesa ha colto il segnale e un piano di disimpegno lo hanno già messo a punto da febbraio.


16 marzo

Il 24% degli adolescenti subisce offese e prepotenze
prima il fenomeno era diffuso solo alle elementari
Scuola, piccoli bulli crescono
alle superiori vittima uno su quattro

di MARIA STELLA CONTE

ROMA - Come può essere dura la vita a 16 anni se non si sta dalla parte giusta. Se si finisce per essere lo zimbello della classe. Quello che gli dai uno scappellotto sulla nuca ogni volta che fai finta di andare a buttare la carta nel cestino; quello che fammi un po' vedere che c'hai da mangiare? non mi piace e la merenda vola giù dalla finestra; quello che vengoanchionotuno... Aggressioni, prepotenze, estorsioni, umiliazioni che gli adulti - presidi, insegnanti, bidelli - non vedono o fanno finta di non vedere, perché alle superiori i ragazzi hanno l'aria di voler badare a se stessi; alle superiori i ragazzi fanno muro; e sono capaci di ritorsioni che allora è meglio starne fuori.

Forse è anche per questo miope timore collettivo che per anni nel nostro Paese si è pensato che il bullismo si concentrasse quasi esclusivamente nelle scuole elementari e medie: ora due studiosi, Elena Buccoliero e Marco Maggi, sostengono che non è per niente così: lo fanno in un primo volume di oltre 300 pagine - Bullismo, Bullismi - Le prepotenze in adolescenza dall'analisi dei casi agli strumenti di intervento - da oggi nelle librerie per la Franco Angeli.

E in un secondo, di prossima uscita, nel quale tra l'altro verranno esaminati i dati di sei ricerche svolte con lo stesso metodo di indagine a Cuneo, Lodi, Bergamo, Ferrara, Piacenza, Messina per un totale di 3.244 studenti di scuola media superiore. Risultato: il 24 per cento - circa un ragazzo su quattro - dice di aver avuto a che fare con prevaricazioni, offese o aggressioni di qualche genere.

Che il problema esista - spiegano i ricercatori - lo conferma la quasi totalità degli intervistati: il 15 per cento dichiara di subire soprusi; il 9 di vestire i panni di vittima in alcuni casi e di "carnefice" in altri; l'11 si riconosce tout court nel ruolo di bullo; il 46 per cento afferma invece di non essere coinvolto direttamente dal fenomeno ma di esserne stato testimone e solo un 19 di non aver mai assistito o vissuto atti di bullismo.

Il bullo è una sorta di "mutante" che si occulta e modifica a seconda che frequenti un liceo, un istituto tecnico o le scuole professionali, diventando nel passaggio da un corso di studi all'altro, sempre più visibile e aggressivo. Ovunque sia, comunque, nel codice rosso delle angherie troviamo al primo posto le aggressioni verbali, che sembrano poca cosa, ma non è vero perché il tormentone quotidiano, l'essere ogni santo giorno preso di mira perché sei grasso, perché puzzi, perché sei un asino, perché sei un secchione, perché ce l'hai piccolo, perché sei tettona, può distruggerti l'esistenza; seguono le offese e gli insulti che sono la versione trash dei primi; e arriviamo agli scherzi pesanti, quelli che fanno rabbia fino alle lacrime, subiti dal 30 per cento delle vittime: il diario fatto a pezzi, la pipì nelle scarpe da ginnastica, il lancio dalla finestra di libri e quaderni; fino alle minacce, alle aggressioni e ai piccoli furti che sì, sono una minoranza ma non si possono più neppure chiamare scherzi.

A questo punto, uno pensa che sia la strada, e più precisamente il tragitto tra scuola e casa, lo spazio meno protetto, quello nel quale le vittime vengono prese di mira dai bulli. Invece no. E non sono neppure i bagni di scuola. O i corridoi o gli spogliatoi. Il luogo del delitto per eccellenza è la classe. Solo che, spiegano i ricercatori, i grandi - bidelli e insegnati - spesso non sono presenti quando occorre, e in ogni caso, tra chi non se ne accorge e chi fa finta di niente, raramente ci si può contare.

Per la verità, c'è un 23 per cento che testimonia l'intervento degli adulti, ma in generale quelli degli studenti e dei professori appaiono troppo spesso "mondi paralleli nei quali ciascuno ha già abbastanza preoccupazioni per interagire veramente con l'altro". A confermare i dati di queste sei ricerche, c'è anche una "Indagine sul disagio giovanile nelle scuole secondarie superiori della Lombardia" realizzata dallo Iard nel 2001 per l'Ufficio scolastico Regionale su un campione di 2.566 studenti e coordinata da Crisitina Margheri.

Ostilità e diffidenza - scrivono i ricercatori - più che amicizia e condivisione sembrano caratterizzare i rapporti tra compagni di scuola: il 50,6 per cento del campione lombardo ha dichiarato di aver incontrato colleghi di scuola che si sono rifiutati di aiutarli, e il 53,5 di essere stato vittima di offese, il 16 di scherzi pesanti, il 6 di minacce o ricatti. Un mondo più che parallelo sovrapposto a quello degli adulti, nel quale essere amici è bello. Ma essere forti e vincenti, costi quel che costi, è meglio.

 

15 marzo

Mangiati dalla paura
L'analisi del Censis mostra un paese sicuro di un aumento dei prezzi nell'immediato futuro. Cambiano persino le abitudini alimentari, costrette al compromesso tra qualità dei prodotti e reddito. Le uniche spese che aumentano sono quelle incomprimibili: sanità, istruzione, trasporti e casa. Pochi sperano di incrementare il reddito quest'anno
FRANCESCO PICCIONI
Le indagini socio-statistiche sui comportamenti degli italiani hanno un destino abbastanza segnato: ci dicono, quasi sempre, quello che sappiamo già. Ognuno di noi, infatti, è solito «rivedersi» in questo o quell'altro «modello di consumo», con tanto di varianti che ciascuno è solito pensare abbastanza «individuali». Insomma, leggendo questi dati ognuno potrebbe scoprire - con un piccolo brivido per la schiena - che la sua «libertà» non va molto più in là delle possibilità offerte dallo scaffale del supermercato diviso per il contenuto del portafoglio. Così, «scopriamo» - leggendo le anticipazioni dell'indagine Censis-Confcommercio dal titolo «Scenari, simboli e luoghi del consumo: Italia, Francia, Spagna, Inghilterra e Germania a confronto» - che ben il 96,3% di noi «teme per il futuro nuove spinte inflazionistiche». L'attesa per altri aumenti generalizzati dei prezzi è conseguente alle pessime esperienze maturate negli ultimi tre anni (in cui il passaggio all'euro è stato utilizzato come occasione per dare il via ad aumenti poco e male registrati dalle statistiche ufficiali), e trova concordi gli abitanti dei cinque paesi citati. Certo che, però, l'Italia sta in ogni caso messa peggio dei suoi vicini.

Ad esempio, il costo di molti prodotti di largo consumo è cresciuto secondo il 95% dei nostri connazionali, mentre gli spagnoli che hanno registrato la stessa impressione sono l'83%, vicino all'81,6 dei tedeschi e all'80,1 dei francesi; ma parecchio lontani, tutti, dal 57,5% degli inglesi (che possono però vantare, in termini assoluti, i prezzi più alti d'Europa). Ma anche nel campo delle tariffe i servizi italiani battono tutta la «concorrenza»: secondo il 92,6% degli intervistati, infatti, hanno preso anche questi l'ascensore verso il cielo.

Che non si tratti solamente di «sensazioni», però, lo provano altri dati. Ben il 61,7% - quasi i due terzi della popolazione - afferma di aver modificato le proprie abitudini alimentari, con un «contenimento delle spese» e un'«accentuata mediazione tra prezzo e qualità dei prodotti». In parole povere, si fa spesa guardando ai banchi delle «offerte», scegliendo - si fa per dire - un prodotto di qualità notoriamente minore ma alla portata delle proprie tasche. In Francia si comporta allo stesso modo solo il 12,6% degli intervistati, mentre nella carissima Inghilterra fanno «gli italiani risparmiosi» oltre il 27%. La qualità della vita - la salute, ci spiegano ogni giorno le varie Marie Antoniette che governano la comunicazione mediatica, «dipende in via principale dagli stili di vita e dalla corretta alimentazione» - ovviamente decade, predisponendo tutti a vari tipi di malattie. Tant'è vero che tutti prevedono di spendere di più, nel 2005, soltanto per le «spese incomprimibili»: ovvero affitto (o mutuo), sanità, utenze domestiche, istruzione, trasporti (privati e pubblici).

A soffrire della contrazione generalizzata dei consumi saranno inevitabilmente le spese «edonistiche» come il benessere personale (cosmetici, fitness, ecc), la cultura (!), il tempo libero e i viaggi. E questo a dispetto del fatto che in tanti, da anni, hanno preso abitudini tipiche di un «viver bene», come l'acquisto di frutta proveniente da agricoltura biologica (43%), prodotti cosmetici naturali in erboristerie (41%, anche se saltuariamente), prodotti alimentari naturali (24,8%) e cibi etnici (21%).

I «luoghi del consumo» più frequentati sono ovviamente super e ipermercati, in grado di praticare politiche di prezzo - specie sui prodotti alimentari - in alcuni casi vantaggiosa per l'acquirente. Dal lato delle «entrate», invece, regna un pessimismo se possibile ancora più grande. Ma sono ancora molto utilizzati i negozi «di vicinato» e i mercati rionali, che hanno sia una rilevante funzione di coesione sociale, sia - specie nei mercatini settimanali di abbigliamento usato e oggettistica varia - fasce di prezzo abbordabili per le tasche meno capienti.

Dal lato delle «entrate», se possibile, il pessimismo dilaga ancor più che sul fronte delle «uscite». Solo il 7,9% degli italiani prevede che quest'anno disporrà di un reddito superiore al 2004; al contrario, ne è convinto il 50% dei francesi, il 51,8% dei tedeschi (ma con fortissime differenze tra Est e Ovest), il 32m5% in Inghilterra e il 30% degli spagnoli. A conferma della capacità di «ammortizzare» gli effetti negativi offerta dalla tradizionale «arte di arrangiarsi», però, sono più alte all'estero anche le percentuali di chi pensa di veder peggiorare la propria posizione reddituale (addirittura il 33% in Germania, soprattutto nei länder orientali).

Interessante - per capire come le diverse classi sociali «vedano» in modo differente la fase attuale - è notare che solo il 3,5% di chi dispone di un reddito mensile fino a 1.000 euro pensa di «migliorare» in futuro; mentre ne è persuaso (al 22,5% appena, però) soprattutto chi guadagna oltre 3.100 euro al mese. Insomma: per la maggioranza, se va bene, sarà un anno di redditi «stazionari» a fronte di prezzi comunque in ascesa.

In apparente controtendenza è stato reso noto ieri anche un'analisi della Coldiretti sulla base di dati Ismea-Ac Nielsen, secondo cui dopo anni di progressiva riduzione dei consumi, «il vino è tornato sulle tavole degli italiani». Quasi 8 milioni di bottiglie in più rispetto all'anno precedente, con un coinvolgimento che interessa ben tre famiglie su quattro. Le vendite sono state floride sia per i vini doc (il 42% del totale, con un incremento di ben 5 punti) che per i vini da tavola (58%); la parte del leone, e non poteva essere altrimenti in un paese di buongustai, la fanno i vini rossi (56%). A favorire l'incremento dei consumi, viene fatto giustamente notare, ha concorso anche la stabilità dei prezzi (+2,3%, assolutamente in linea con l'inflazione). Ma non si può non pensare che gli italiani, costretti a «stringere» la cinghia su tutti i bisogni principali, abbiano finito per ripiegare sul più antico (e in fondo economico) dei piaceri. Chissà se «per mandarla giù» o «per dimenticare».


 

Protesta su due sponde
Doppia manifestazione, a Reggio e Messina, contro il Ponte sullo Stretto
In piazza contro la mafia e contro una «grande opera» che nessuno sembra ormai volere, sono scesi studenti, ambientalisti, sindaci ed esponenti politici della maggioranza e dell'opposizione

ANGELO MASTRANDREA
INVIATO A MESSINA
Sarà per quella infelice frase del ministro Lunardi che guarda caso è anche il più strenue sostenitore del Ponte: «Con la mafia bisogna convivere». Sarà per quelle due inchieste, datate rispettivamente 11 e 28 febbraio, che hanno svelato gli appetiti attorno ad una «grande opera» ancora nemmeno in progettazione. Sarà per quel sistema che vedrà un «general conctractor» vincitore della gara e poi tanti subappalti a trattativa privata che si prestano ad ogni tentativo di infiltrazione. Fatto sta che dopo «Ponte», ieri, alle due manifestazioni di Reggio Calabria e Messina la parola più pronunciata era mafia. Lo hanno fatto gli studenti che sul versante calabrese agitavano uno striscione e dicevano: «Noi giovani siamo contro la mafia». E lo ha fatto il presidente nazionale di Lega Ambiente Roberto Della Seta, quando dal palco di Villa Quasimodo a Messina ha denunciato proprio il «rischio di una miriade di subappalti senza nessun controllo, sia dal punto di vista delle garanzie per lavoratori, che della trasparenza delle imprese». E' per questo che il simbolo delle manifestazioni di questi giorni - che hanno toccato anche posti come Gioia Tauro - è una enorme «gallina dalle uova d'oro». Simbolo di un'opera che, spiega il professor Alberto Ziparo, «tutti, anche i più strenui sostenitori, sanno bene che non si farà». Ma che nel frattempo continua a far sborsare fior di milioni di euro per studi di fattibilità e consulenze, «senza che sia stato nominato un general conctractor o che siano pronti i progetti».

Nel frattempo la mobilitazione non si ferma. Non erano mai state unite come ieri, le due sponde dello Stretto, nel difendere insieme i laghetti di Ganzirri e la spiaggia di Cannitello che i mega-piloni spazzeranno via. E senza pensare ognuna alla propria metà del Ponte. E mai come ieri si è avuta la sensazione che la «grande opera» comincia a non esser più tale nella testa della gente e non solo in quella di un pugno di volonterosi attivisti.

Ora contro il Ponte sono davvero in tanti. C'è l'intero centro sinistra anche se in piazza a Messina si è visto solo il diessino Claudio Fava mentre il candidato alla presidenza della regione Agazio Loiero ha detto sì ma senza strombazzare troppo in giro la sua adesione. C'è Fabio Granata, che è di An e soprattutto è assessore regionale ai trasporti, ma anche lui preferisce non farsi vedere. Ma il vero motore, oltre alle associazioni ambientaliste, sono i tanti comitati locali sorti su questioni ambientali, da quello contro le trivellazioni petrolifere autorizzate dalla regione nella Val di Noto a quelli del «triangolo della morte» Augusta-Melilli-Priolo, o ancora i cittadini del quartiere Gallico, Reggio Calabria, che da un anno bloccano la costruzione di una discarica. Accade anche che a Reggio Calabria ci sia un coordinamento Scilla-Cariddi e sull'altra sponda un suo alter ego Cariddi-Scilla. La palma dei più agguerriti va invece ai 38 sindaci della costa siciliana che ancora ieri erano in piazza dopo aver bloccato - solo il giorno precedente - i binari della stazione di Rometta Marea. Stazione che - tre anni fa - fu scenario di un incidente nel quale persero la vita otto persone. «Il governo - denunciano Lega Ambiente, Wwf e Italia Nostra - ci disse che il raddoppio della linea Palerno-Messina rappresentava una priorità». E invece? «I cittadini siciliani sono costretti a viaggiare su treni con una velocità commerciale di 24 km/oraria, con solo metà delle tratte elettrificate e solo 105 km su 1400 a doppio binario». Con il risultato che per andare da Palermo a Siracusa, 260 Km, si impiegano quasi sei ore, e da Trapani a Siracusa, 360 Km, ben nove ore e mezza. Da qui la denuncia degli ambientalisti contro quella che chiamano «tassa sulla ferrovia», 100miliardi di euro dalle Ferrovie dello stato alla società Stretto di Messina. E le polemiche con l'amministratore delegato di quest'ultima Ciucci e con il comune di Messina, irritato dall'inevitabile risonanza mediatica delle manifestazioni contro il Ponte di questi giorni.

E a causa delle quali, attacca il segretario del Wwf Gaetano Benedetto, «l'Italia diverrà più povera. Dal punto di vista economico, poiché i circa 6miliardi di euro di finanziamenti destinata alla realizzazione dell'opera vengono da società pubbliche o comunque saranno raccolte dai privati grazie all'emissione di obbligazioni garantite dallo stato. E dal punto di vista ambientale perché il Ponte e le opere connesse, con sette anni di cantiere e decine di discariche e cave, devasteranno un habitat unico nel Mediterraneo per la ricchezza della bio diversità». Inoltre, per Benedetto «il Ponte è un'opera che nasce e resterà sempre in perdita economica». Il segretario di Italia Nostra Gaia Pallottino punta invece il dito sulla questione occupazionale: «Con il Ponte andrebbero persi 1234 posti tra gli addetti al traghettamento», dunque «meglio rilanciare il trasporto marittimo».

 

10 marzo

IL COMMENTO
Il trionfo dell'ambiguità
di CURZIO MALTESE

IL GOVERNO Berlusconi è riuscito a rovesciare una crisi in potenza rovinosa in un successo d'immagine, fra gli applausi dell'opposizione e le adoranti genuflessioni dei telegiornali ("Berlusconi mette d'accordo tutti", l'incredibile Tg1) grazie a una strategia ovvia ma efficace. Ha rimosso dal caso Sgrena l'elemento centrale e più pericoloso: il riscatto. E' la parola chiave dell'intera vicenda, il nocciolo del conflitto fra americani e italiani, la spiegazione della salvezza di Giuliana Sgrena e forse della morte di Nicola Calipari. Ma Berlusconi è riuscito a non nominarla mai una volta nel suo discorso al Senato, neppure per negare o per replicare agli interrogativi di Andreotti e Amato che cercavano invano di richiamarne l'attenzione sul cuore del problema.

E' giusto o sbagliato pagare la liberazione degli ostaggi, finanziando la guerriglia irachena e sfidando le ire dell'alleato? E' un dubbio che lacera, divide, chiede scelte dure. Già Andreotti e Amato, che ormai sono d'accordo perfino sulla fecondazione, sul tema dei riscatti hanno indicato due risposte diverse.

La risposta giusta, per Berlusconi, è stato dunque non porsi la domanda. Il premier si è limitato a rilanciare l'invito a non andare in Iraq. Chiaro avvertimento che i riscatti non verranno più pagati. Per chi vuol intendere.

"Massima chiarezza", come ha scolpito il titolista del Tg2? Al contrario, il massimo dell'ambiguità. Per i parametri nazionali è questo il marchio dello statista. D'altra parte Berlusconi in un certo senso ha davvero messo d'accordo tutti. Per un motivo o per l'altro a nessuno conviene affrontare la questione dei riscatti.

Non conviene agli americani, furibondi per la montagna di dollari finiti nelle tasche delle bande ma attenti a non attirare sospetti sulle possibili cause alternative dell'"incidente" al check point. Non conviene naturalmente al governo italiano, fedele alleato ma spinto dall'opinione pubblica a trattare per la vita degli ostaggi, a differenza di quanto hanno sempre fatto gli inglesi. Non conviene neppure ai terroristi che rischiano intorno al caso Sgrena di perdere una delle più floride forme di finanziamento, e infatti si sono precipitati a smentire.

Insomma non è un caso che nelle opposte versioni fornite da americani, italiani e iracheni vi sia un solo punto comune, la negazione del riscatto. Infine non conviene aggredire il nodo dei riscatti neppure all'opposizione, che sull'Iraq è già abbastanza divisa senza bisogno di alimentare con un altro tema l'indomito dibattito interno.

Una volta eliminato dal tavolo della discussione il problema centrale, tutto si può risolvere nel solito trionfo di retorica e luoghi comuni da informazione televisiva. Su queste basi di partenza è difficile che la commissione d'inchiesta si trasformi in qualcosa di diverso da un risarcimento simbolico o che giunga a conclusioni più profonde della "tragica fatalità".

Ma il verdetto della commissione arriverà in ogni caso fra molti mesi e qualche elezione. C'è tempo di studiare un compromesso onorevole fra buoni alleati. Il governo italiano smetterà di pagare milioni di dollari alle bande irachene. Il comando Usa correggerà la storia dell'auto impazzita che forza il posto di blocco. Tanto assurda da meritarsi d'essere sbugiardata da Berlusconi, sommo paradosso. Tutto questo lavoro di ricucitura avverrà, come si dice, "nel massimo riserbo", "lontano dai riflettori". Ora, nel momento di massima visibilità, con gli occhi del mondo addosso, c'era bisogno di uscire con dignità da una tragedia con troppi misteri.

Meglio ancora se con il consenso dei media, nel caso italiano comunque scontato, e con la comprensione dell'opposizione, che non è mancata.

Un'operazione d'immagine riuscita perché voluta da tutti, con buone ragioni, per evitare l'esplosione di una crisi senza sbocchi. Certo i problemi non si risolvono col nascondere le parole sotto i titoli-slogan dei telegiornali.

Domani, fra una settimana o un mese un altro italiano verrà rapito davanti a una moschea o a un mercato e non ci sarà più un Nicola Calipari a liberarlo.


 

Il fuoco è nemico
LUCIANA CASTELLINA
Ma insomma: quel fuoco detto amico che ha ammazzato Nicola Calipari e che ha, con il proiettile che ha attraversato il suo corpo, ferito Giuliana, era un «agguato» o uno spiacevole «incidente»? La domanda ci arriva pressante da insidiosi avversari ma anche da amici sinceri che vogliono capire. Il perché di quanto è accaduto in quella manciata di minuti di venerdì sera lungo la strada che porta all'aereoporto di Baghdad non lo sapremo probabilmente mai con esattezza. Fra l'altro perché quando di mezzo ci sono i militari americani, che, a differenza dei comuni mortali, sono esentati dalla giurisdizione del paese in cui si trovano e affidati al privilegiatissimo foro delle loro forze armate, raramente si arriva a un processo vero, fondato su indagini e prove. Il Cermis e i venti morti della funivia falciata dagli allegri piloti Usa insegnano. Vorremmo comunque tutti sperare che non ci sia stato un preciso ordine di sparare rilasciato dai comandi americani: sarebbe così grave da far temere per la civile convivenza.

Ma fra il crimine deliberato e l'incidente ci sono una gamma di altre possibili opzioni (compresi gli ostacoli che gli americani frappongono al riscatto degli ostaggi). Il termine «incidente» fa infatti pensare a un fortuito infortunio, una assurda casualità, un evento inaspettato e non aspettabile, un «chissà come è potuto accadere». Così non è in questo caso; e questo già lo sappiamo. Sull'auto che trasportava Giuliana e i due agenti del Sismi - già oltre i check point, ad andatura moderata, segnalata alle autorità Usa - i militari americani hanno sparato perché in Iraq sparano - per colpire chi è a bordo e non alle ruote - come facessero il tiro al piattello. Per la suprema arroganza di occupanti, per il disprezzo della vita umana che sempre accompagna le legioni imperiali. E' questo atteggiamento ad essere deliberato ed è la cifra - centinaia ma forse migliaia - di altri disgraziati sconosciuti, per lo più iracheni, che sono stati ammazzati nello stesso modo, a impedire di definire quanto è accaduto «un incidente».

Non si tratta di una causalità, bensì di una norma. Si dirà che i giovani soldatini americani hanno paura, e a ragione, di ogni cosa che si muove. Li capiamo: si trovano ad operare in un paese che gli avevano detto che andavano a liberare e invece scoprono che si tratta di un paese che gli è così ostile da far loro temere anche delle ombre. Ma è proprio questa occupazione che espone tanti giovani americani alla morte - e centomila volte di più i loro coetanei iracheni - a non essere un incidente, ma un atto deliberato: un «agguato» all'umanità. Per il quale non ci sono scusanti. E un solo rimedio: farla cessare.

E a noi italiani impone di ritirare la nostra spedizione militare, perché, oltretutto, la nostra presenza ha l'aggravante di non contare niente. Il modo come è stato ammazzato Nicola Calipari, non é deliberato, ma è almeno spensierato, prova che veniamo addirittura sbeffeggiati. Ieri c'era tanta gente al funerale di Nicola, chiamato ormai per nome anche da chi mai avrebbe pensato di farlo con un uomo dei servizi segreti; tanta commozione di popolo, sincera e non retorica: perché quell'uomo aveva sacrificato la vita per salvarne un'altra, e cioè non per una «patria» astratta, o peggio ambigua, ma per un essere umano appartenente alla propria collettività storica e geografica, che è poi la forma concreta e reale della nazione. Calipari ha fatto anche di più che salvare una vita. L'impegno a liberare una giornalista è stato anche un impegno a proteggere i giornalisti non embedded, senza la cui sacrosanta «imprudenza» resteremo privi persino di una briciola di verità.


 La Moldavia resta «comunista»
Il voto nel «paese più povero d'Europa» conferma lo status quo
Ambiguità L'assalto dell'opposizione non scuote il Pc di Voronin che ha giocato d'anticipo voltando la faccia a Mosca per volgersi all'Ue

LUCIA SGUEGLIA*
La Moldavia non è pronta per una rivoluzione di velluto. Ben altre le priorità e i problemi, al momento attuale, per la piccola repubblica ex-sovietica incastrata tra Romania e Ucraina che oggi vanta il triste primato di «paese più povero d'Europa», sebbene le cifre nascondano più d'una contraddizione. La rivoluzione oggi non fa comodo a nessuno. Questo sembra essere il responso emerso dal voto di domenica scorsa, per il nuovo parlamento moldavo. Ha retto bene (46%), pur perdendo terreno come previsto, il Partito comunista del presidente Vladimir Voronin. Non è bastato a scuoterlo l'assalto del blocco centrista «Moldova Democratica» (Bmd) guidato dal sindaco di Chisinau, Serafim Urechean, che nelle settimane precedenti il voto aveva tappezzato le strade della capitale di manifesti arancioni che lo ritraevano mentre stringeva la mano a Viktor Yushchenko. Né quello, più a destra, dei Cristiano Democratici che sono saliti dal 4 al 9%. E' stata una campagna elettorale forse troppo ambigua per gli elettori moldavi, quella portata avanti dalle forze d'opposizione: liberal-democratici a parole, ma supportati da Mosca nei fatti. Voronin, per sconfiggerli, ha giocato d'anticipo: eletto nel 2001 alla guida del paese con la promessa di rafforzare i legami con la Russia e l'imposizione del russo come seconda lingua ufficiale, dopo qualche tempo si è reso protagonista di un formidabile voltafaccia nei confronti di Mosca. Più realista del re, il presidente di lingua russa che viene dall'establishment sovietico si è d'un colpo trasformato in alfiere della necessità di integrarsi nella Ue, spiazzando i suoi avversari politici.

Contraddizioni e paradossi sono pane quotidiano per un paese che da Mosca ancora dipende fortemente per i rifornimenti energetici e per gli indispensabili investimenti commerciali, ma che non gradisce più l'interferenza russa nei propri affari interni.

Al centro della rottura con Mosca c'è una piccola lingua di terra al di là del fiume Dniestr, che taglia verticalmente il paese: la Repubblica autonoma di Transnistria, proclamatasi indipendente da Chisinau nel 1992 dopo una sanguinosa guerra civile, e tutt'oggi non riconosciuta internazionalmente. Con l'appoggio del Cremlino (che vi mantiene le proprie truppe con funzioni di peacekeeping) e sotto la guida dal padre-padrone Igor Smirnov, l'anomalia del piccolo stato-fantasma filorusso (ma non a maggioranza russofona) è cresciuta negli anni dandosi una bandiera, visti, targhe e timbri propri. Oggi prospera sotto il manto di simbologie sovietiche d'antan (un inno all'Urss che qui ancora vive) grazie a traffici illeciti d'ogni tipo, armi in testa. Agevolati dalla frontiera-colabrodo con l'Ucraina a est, che il governo di Tiraspol controlla direttamente. Una situazione che ha attirato sulla piccola Moldavia gli occhi di tutto il mondo, in prima linea quelli degli Usa, interessati insieme alla Nato al contenimento della Russia nell'area e che finora hanno contribuito al mantenimento dello status quo. Ora, con i mutamenti avvenuti a Kiev (Yanukovich mostrava simpatia per Tiraspol), qualcosa potrebbe forse sbloccarsi.

In più di dieci anni la tensione determinata dall'affaire Transnistria ha così determinato il progressivo allontanamento da Mosca di Chisinau. La situazione è peggiorata nel luglio 2004, quando Tiraspol ha preso di mira le scuole moldave presenti in Transnistria con la minaccia di chiuderle: ree di adottare una lingua e un curriculum di studi non allineato con i programmi dello stato separatista, che prevedono l'obbligo del cirillico. Una crisi tutt'oggi non risolta, nota come «la guerra delle scuole». Il clima è poi tornato a farsi rovente a poche settimane dalle elezioni, scandito da reciproche scaramucce e minacce tra Mosca e Chisinau. Quest'ultima ha rifiutato di ammettere osservatori russi e bielorussi al voto di domenica, espellendo 100 cittadini russi nella notte di sabato con l'accusa di «spionaggio». Un no chiaro all'interferenza di Mosca. Che da parte sua, tramite un pronunciamento ufficiale della Duma, ha risposto minacciando Chisinau di sanzioni commerciali e revoca dei visti gratuiti per la Russia.

8 marzo

Famiglie sempre più in crisi
In un anno l'indebitamento medio è cresciuto quasi del 15%
La media è intorno al 15%, ma ci sono picchi che superano il 20%. Stiamo parlando dell'incremento dei debiti delle famiglie del 2004 rispetto all'anno precedente. Lo dice uno studio della Cgia, la confederazione generale degli artigiani di Mestre, che ha messo a confronto i dati dell'indebitamento delle famiglie nelle varie città con quelli dell'anno precedente. Lo studio è aggiornato al 30 settembre del 2004, ultimi dati disponibili. I picchi massimi si raggiungono in città come Crotone che registra un aumento dell'indebitamento del 20,78%, a Caserta con il 20,60% e a Napoli con un incremento del 20,05%. I dati raccolti dalla Cgil coprono tutto il territorio nazionale e descrivono con una certa verisimiglianza quel fenomeno legato alle difficoltà economica, alla diminuziuone delle occasioni di lavoro e in generale al rallentamento evidente di tutte le attività produttive. Rallenta l'economia e scarseggiano i soldi e in generale le risorse finanziarie. Sia le imprese, sia le famiglie sono costrette a indebitarsi più di quello che accadeva negli anni passati. Se si vanno ad analizzare i dati per città, si possono scoprire elementi interessanti. Il primo elemento riguarda le cifre assolute dell'indebitamento. La cifra media che i nuclei famigliari devono restituire alle banche è di 11.837,81 euro. Ovviamente le cifre variano da città a città e non c'è solo il sud in grande affanno. A Bolzano, per esempio, la cifra dell'indebitamento medio si attesta sui 17.842,89 euro, 17.791,02 a Milano e 16.509,68 a Rimini.

Nord e sud, a proposito di indebitamento, si mescolano nella stessa sorte o almeno in una sorte molto simile. Ai primi tre posti delle città che si sono indebitate di più nel 2004 rispetto al 2003 ci sono tre realtà del sud, Crotone, Caserta e Napoli. Ma al quarto posto già troviamo una città del nord, vale a dire Padova, con un indebitamento medio famigliare che è cresciuto del 19,76%. Al quinto posto c'è la provincia di Pesaro e Urbino con un 19,69%. Anche altre città del nord sono piazzate molòto bene nella classifica degli indebitati. C'è per esempio Varese, ma ci sono anche Lecco e Genova.

Se si vanno a confrontate le cifre assolute dell'indebitamento delle famiglie italiane, scopriamo che Roma è piazzata molto bene in classifica con 16.428,66 euro di indebitamento medio per famiglia, subito dopo Bolzano, Milano e Rimini. Al contrario, alla base della graduatoria, come città con meno indebitamento ci sono le famiglie di Vibo Valentia. Per loro si registra infatti il record più basso con una cifra meglie di 5.011,63 euro.

«Senz'altro - spiega il segretario della Cgia di Mestre, Bortolussi - l'aumento dell'indebitamento medio delle famiglie è da imputare alla situazione di difficoltà economica».



Cortei e mimose al made in Italy
Fermi aghi e forbici I lavoratori tessili e calzaturieri preparano lo sciopero nazionale dell'8 marzo: «Chiediamo regole, innovazione e ammortizzatori». Le imprese contro
ANTONIO SCIOTTO
Un otto marzo che parla di globalizzazione, quello di quest'anno: in tutta Italia scenderanno in piazza i lavoratori - e soprattutto le lavoratrici, largamente preponderanti nel settore - di abbigliamento, pelli e calzature. In profonda crisi, specialmente avvertita negli ultimi due anni, chiedono garanzie e regole contro la delocalizzazione delle produzioni. Principali «imputati» paesi come Cina e Romania, dove vengono sempre più appaltati pezzi di fabbricazione di magliette o scarpe da ginnastica a scapito delle nostre aziende, ma i veri destinatari delle proteste sono le imprese e il governo, ai quali viene chiesto un particolare sforzo in un periodo di emergenza. Pochi dati parlano per tutti, e sono stati diffusi ieri da Valeria Fedeli, segretario generale della Filtea Cgil: «Nell'intero sistema Moda - spiega - lavorano circa 850 mila persone in Italia, prevalentemente donne. Ma 56 mila posti di lavoro sono stati persi solo negli ultimi due anni. E a rischio per il 2005 ce ne sono altri 90 mila». «È uno sciopero simbolico, fatto l'8 marzo, festa della donna, per un settore in cui la maggioranza degli addetti sono appunto donne - aggiunge il responsabile Cgil - Lavoratrici orgogliose del proprio ruolo, delle propria capacità e competenza. Ma con il pesante rischio di perdita del posto, con una preoccupante prospettiva di non trovarne altri». All'annuncio dello sciopero ieri ha risposto - negativamente - il mondo delle imprese, che pure nei giorni scorsi aveva lanciato l'allarme tessile insieme ai sindacati e aveva aderito alla raccolta di 100 mila firme per chiedere il sostegno del settore: «Pur comprendendo che l'iniziativa è motivata anche dalla difesa dei posti di lavoro messi in pericolo dalla forte e non sempre leale concorrenza internazionale, ribadisco che gli imprenditori non condividono la scelta dello sciopero e lo considerano come uno strumento improprio per la soluzione di questi problemi», spiega Roberto Calimani, presidente del Crital (consiglio relazioni industriali tessile-abbigliamento-moda). «La motivazione dello sciopero in "sostegno al made in Italy" - prosegue - se pure tende a comprimerne la valenza dialettica, non ci esime dall'obbligo di esprimere una forte censura per il disagio che emerge da comportamenti non coerenti con i percorsi comuni da anni perseguiti». «Questo sciopero - ha concluso Calimani - danneggia le imprese e rischia di pregiudicare l'esito del difficile percorso unitario, facendoci apparire divisi di fronte al governo italiano e alla Ue».

Quanto alla piattaforma dello sciopero, secondo Cgil, Cisl e Uil «occorre un rilancio competitivo che rinnovi i punti di forza della moda italiana: innovazione, qualità, ricerca, creatività, competenza professionale». Servono inoltre «l'etichettatura obbligatoria di origine dei prodotti, la tracciabilità dei processi produttivi. E sono necessarie la lotta alla contraffazione e alle frodi, oltre a regole - diritti e tutele - chiare e condivise per le produzioni e gli scambi internazionali». I sindacati chiedono infine «strumenti di accesso al credito e finanziari, riduzione dei costi del lavoro e difesa dei livelli retributivi, sostegno alla ricerca e all'innovazione tecnologica, incentivi e sviluppo della formazione continua, la creazione di un sistema efficace di ammortizzatori sociali».

Ieri sono stati diffusi i dati dell'Abruzzo: negli ultimi anni, 2.522 lavoratori in mobilità su 25 mila addetti complessivi, e nel 2004 ben 290.245 ore di cassa integrazione nel settore tessile e 673.130 ore in quello del vestiario, abbigliamento e arredamento. Ma manifestazioni si stanno preparando nei principali distretti tessili e calzaturieri italiani; i tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil parleranno a Biella, Prato e Como.


3 marzo

Paghi 500mila euro e sei un boss di Forza Italia
Marcella Ciarnelli

Fare la “ola” seduto al fianco di Silvio Berlusconi ad una partita del Milan o dividere con il presidente del Consiglio un piatto di pennette tricolore cucinate dal fido cuoco Michele oppure partecipare ad incontri privati sempre con il leader incontrastato costerà cinquecentomila euro. Proprio un miliardo delle vecchie lire tanto care al premier che non riesce a nascondere la sua difficoltà a far di conto con la moneta europea. La clamorosa cifra è quella che dovrà essere disposto a spendere un imprenditore che venisse colto dall’irresistibile desiderio di sostenere economicamente Forza Italia.

In cambio del salasso, oltre alle visioni sopra descritte, avrà diritto anche ad incontrare i dirigenti nazionali del partito e i ministri azzurri, ad avere un accesso riservato nelle manifestazioni ed anche una sala personale nella sede del partito. È questo il massimo dell’esborso previsto da un progetto che ha avuto l’ok del premier che ha trovato un modo per non essere sempre e solo lui a dover mettere le mani nel portafoglio. L’iniziativa per ora sarà sperimentata in Lombardia ma, negli intenti di chi lo ha elaborato, è destinato ad espandersi in tutt’Italia a macchia d’olio, in modo da poter affrontare le elezioni dell’anno prossimo con le casse ben ricolme.

I cinquecentomila euro sono la meta per pochi. Per gli imprenditori più taccagni sono state previste adesioni che vanno dai centomila euro a salire, su, su, fino a trecentomila. Dietro la categoria Paperoni è prevista anche la fascia dei semplici tesserati. L’offerta è diversificata in tre possibilità: tessera d’argento in cambio di mille euro, d’oro per tremila, di platino per cinquemila. Il valore sarà a scalare, come la ricarica dei telefonini. Berlusconi questi non lo vedranno neanche col cannocchiale. Si dovranno accontentare, al massimo, di un panino con Sandro Bondi o di una conversazione a quattr’occhi con la Gardini fino ad un accesso riservato in un non meglio definito sito internet.

I vertici di Forza Italia si augurano che gli «Amici azzurri» o, meglio, gli imprenditori di collegio, secondo la logica tanto cara al presidente del Consiglio, siano i più numerosi possibili. Quanti sono i consiglieri regionali che vorrebbero essere più presenti nelle vita del partito e quanti imprenditori sarebbero disposti a tutto pur di stare un passo indietro al collega che ha conquistato Palazzo Chigi Pagare per esserci. Questa la stringente logica mercantile che poco ha davvero a che fare con la politica che pure viene evocata dai promotori dell’iniziativa quando parlano della necessità di «recuperare lo spirito del ‘94 coinvolgendo la base per dare nuovo slancio al movimento». Data l’entità delle cifre proposte più che di base sarebbe il caso di parlare di altezza.

La ricca proposta che evidentemente non tiene in alcun conto la situazione economica della maggior parte degli italiani (ma il premier va dicendo che tutto va bene) è stata elaborata da Paolo Romani, coordinatore di Forza Italia in Lombardia, con la collaborazione di Luciano Vadacca, consigliere comunale di Basiglio nonché manager d’azienda. Una volta sperimentata in terra lombarda sarà esportata nelle altre regioni «con criteri diversi naturalmente perché la Basilicata ha esigenze diverse dalla Lombardia». Fosse solo perché la partita con il Milan non può essere giocata data l’assenza di una squadra della regione in serie A.

«Vogliamo recuperare lo spirito del ‘94 e dare nuova vita a quella spinta propulsiva che animò Forza Italia quando nacque» spiega ancora Romani che illustra con dovizia di particolari l’operazione di «found raising», cioè di raccolta fondi «per le prossime campagne elettorali nella maniera più virtuosa possibile». «Puntiamo a coinvolgere la base del partito mantenendo un filo diretto con i vertici. Vogliamo conquistare consensi e ridare voce alla gente, non solo agli iscritti, agli eletti e ai militanti ma a tutti coloro che si riconoscono nei nostri ideali» aggiunge il Vadacca. Ci vuole poco. Basta pagare.

 

La vittoria di un giorno e l’interesse italiano in Europa
Dario Di Vico

Antonio Fazio ha vinto. Il patto stipulato con il capo del governo Silvio Berlusconi nell’ormai famoso pranzo del 14 gennaio a Palazzo Chigi ha retto alla prova dell’aula di Montecitorio. Nella nuova legge per il risparmio non sarà introdotto il mandato a termine per il governatore e i controlli antitrust resteranno - praticamente unico caso in Europa - in capo a Via Nazionale. Meglio di così per il partito «fazista» non poteva andare, i falchi hanno prevalso nettamente sulle timide colombe e ogni ipotesi di mediazione sull’una come sull’altra materia è stata forzosamente derubricata. Fazio non ha preso nemmeno in considerazione l’idea di varare un’autoriforma dei poteri del governatore ispirata ai dettami della Bce. Voleva conseguire una vittoria sul campo e l’ha ottenuta anche a costo di un’ulteriore (e nefasta) politicizzazione del confronto sulle competenze della banca centrale. Ma si tratta della vittoria di un giorno, di un successo effimero che non stabilizza il credito made in Italy. Anzi lo espone a nuovi rischi. Negli ultimi tre lustri, seppur tra lacune, omissioni e con gli inevitabili ritardi, la legislazione finanziaria ha fatto grandi passi in avanti. E’ riuscita comunque a modernizzarsi. Basta pensare alle norme sulla tutela della concorrenza, a quelle che regolano l’attività delle Sim, ai testi unici sul credito e sulla finanza. Era urgente dotarsi di una moderna e condivisa legge sul risparmio che rispondesse alla necessità di europeizzare il sistema ma anche che riaprisse un canale di comunicazione con l’opinione pubblica e i risparmiatori. Di fronte a queste esigenze l’istituzione Banca d’Italia si è arroccata a difesa delle sue prerogative anche quelle più anacronistiche come il mandato a tempo indeterminato, mentre avrebbe dovuto muoversi in direzione di una maggiore liberalizzazione e di una rimozione dei conflitti di interesse esistenti. Non è stato così e per il provvedimento che uscirà dalle Camere onestamente si fa fatica a usare la parola riforma. Volendo essere benevoli si può solo dire che si è trattato dell’ennesima occasione mancata.
Quella di Fazio è la vittoria d’un giorno perché non ha saputo e voluto creare le condizioni di un ordinato ricambio al vertice della banca e non ha posto le premesse di una politica flessibile e intelligente capace di affrontare il nodo rappresentato dalle inevitabili fusioni bancarie cross border. La difesa dell’interesse italiano in Europa passa attraverso un nuovo giro di aggregazioni (che il governatore osteggia) tra i nostri maggiori istituti creditizi e un dialogo aperto con la Ue sui criteri, i tempi e le modalità dell’apertura delle frontiere. Il muro contro muro con Bruxelles non ci aiuta, quando sarà lampante che siamo l’anello debole della catena protezionistica forse sarà troppo tardi per correre ai ripari.

 

Dopo concorsi pilota, esami venduti e test truccati, nel mirino
dei magistrati ci sono ora decine di casi di nepotismo
L'università affare di famiglia
A Bari mogli e figli in cattedra

di ATTILIO BOLZONI

BARI - La stanza numero 24 è quella del professore Giovanni Tatarano, ordinario di Diritto privato. Suo figlio Marco insegna lì accanto, nella stanza numero 4. Sua figlia Maria Chiara riceve gli studenti proprio di fronte a papà, nella stanza numero 12.
Tutta la famiglia in un corridoio. E non come quegli altri, che si sono sparpagliati invece su quattro piani e sopra cinque cattedre. Quegli altri che si chiamano Dell'Atti, tutti parenti, tutti docenti.

Ma mai tanti e mai tanto esimi come i Massari, nove tra fratelli e nipoti e cugini, probabilmente la tribù accademica più numerosa d'Italia. Benvenuti all'Università di Bari, benvenuti nella città dove in pochi intimi si spartiscono il sapere e il potere.
Buongiorno, dov'è la stanza del professore Girone? "Girone chi?", risponde spazientito il vecchio custode di Economia e Commercio. Girone Giovanni il Magnifico Rettore o Girone Raffaella che è sua figlia?, Girone Gianluca che è suo figlio o Girone Sallustio Giulia che è sua moglie? In ordine, stanza numero 3, stanza numero 26, stanza numero 58, stanza numero 13. E aggiunge, sempre più infastidito il custode: "Poi se vuole parlare con un altro parente stretto dei Girone, ci sarebbe pure il dottore Francesco Campobasso, associato di statistica, che è il marito della professoressa Raffaella, quinto piano, stanza numero 19".

E' cominciato così il nostro viaggio in quel labirinto che è l'Ateneo pugliese, concorsi pilotati, test truccati, esami comprati e venduti, tentate estorsioni e una Parentopoli che è ormai al di là del bene e del male. Lo scandalo sta dilagando. E a Bari, per la prima volta la razza barona trema. Sussurri, voci, grida. Si sta scoprendo un vero verminaio nell'Università dalle più antiche tradizioni delle Puglie. Facoltà dopo facoltà, dipartimento dopo dipartimento. E anche sotto la spinta di una valanga di anonimi.

Sono tanti i Corvi che volano nel cielo di Bari in queste settimane di paura. Raccontano di tutto e di tutti, spiegano in lunghe lettere (con tanto di allegati grafici e di alberi genealogici) come una mezza dozzina di clan accademici hanno allungato le mani sull'Università. "Arrivano ogni mattina sulle scrivanie dei sostituti con la posta prioritaria", confessa il procuratore aggiunto Marco Dinapoli, il magistrato che coordina le indagini sulla pubblica amministrazione. Denunce di combine nelle commissioni esaminatrici, nomi, cognomi, favori incrociati per piazzare di qua e di là consanguinei o amanti, fidanzati e generi. Ci sono inchieste aperte dappertutto. A Veterinaria e a Matematica, a Scienze delle Comunicazioni, a Cardiologia, a Ginecologia, a Genetica, al Politecnico. Ma è Economia e Commercio - dove il rettore Giovanni Girone è ordinario di Statistica - che è il cuore della razza barona barese, è in quell'edificio grigio a cinque piani il suq delle cattedre.

Sono tutte qui le grandi famiglie accademiche, tutte super rappresentate a cominciare da quella del Magnifico fino agli illustrissimi Massari, tre fratelli - Giansiro, Lamberto e Lanfranco - e poi un nugolo di figli ricercatori. Concorsi a regola d'arte, carte naturalmente sempre a posto come vuole la legge. Tanto a vincere sono soprattutto i parenti. Il preside della facoltà si chiama Carlo Cecchi e allarga sconsolato le braccia: "A me i professori me li regalano le commissioni aggiudicatrici dei concorsi: cosa posso fare io? Io non sono mai stato nelle commissioni di esami".

Senza vergogna e senza pudore una dozzina di clan accademici, anno dopo anno, si sono impadroniti dell'Ateneo. "E' come se ci fosse stata una competizione tra alcuni professori a chi riusciva a collocare più membri del proprio gruppo familiare", commenta Nicola Colaianni, ex magistrato di Cassazione, il docente di Diritto pubblico nominato dal senato accademico a presiedere una commissione d'inchiesta sui buchi neri dell'ateneo. La sua relazione finale l'altro ieri è finita dritta dritta alla procura della Repubblica.

Ci sono i clan ad Economia e Commercio e ci sono quelli al Policlinico, altro girone infernale della cultura universitaria pugliese. Clan e ancora clan, lo scambio di promesse per un posto di ricercatore o di associato, i figli e i nipoti tutti specializzandi, sempre gli stessi nomi che occupano le stesse cattedre: i Ponzio a Lingue, i Foti al Politecnico e via via tutti gli altri. Fino alle grandi famiglie dei "professori" del Policlinico. Quasi tutti hanno trovato un dottorato di ricerca o un incarico nella stessa clinica del padre o dello zio o del cugino. A Psichiatria. A Ortopedia. A Neurochirurgia. A Endocrinologia. A Chirurgia generale. Un elenco infinito. Con il 40 per cento circa dei figli dei primari nella stessa facoltà dei padri e, molto spesso, nella stessa struttura operativa. Con l'età dei "fortunati" parenti a volte molto sospetta, mediamente dieci anni più bassa di quella dei loro colleghi senza blasone.
Privilegi di casta e anche qualcosa di più. Come quell'holding che gestiva concorsi con il trucco a Cardiologia, il fondatore della scuola barese Paolo Rizzon arrestato per associazione a delinquere "finalizzata al falso e alla corruzione", secondo i giudici un componente di rango di una sorta di Cupola che "dirigeva" gli affari della cardiologia. E non solo in Puglia. O come il primario di Ginecologia e ostetricia Sergio Schonauer, indagato per avere votato una commissione che avrebbe dovuto giudicare suo figlio Luca per un posto di ricercatore nella sua stessa clinica. E' la prepotente "normalità" di questa Bari universitaria che si sente impunita, è l'intrigo alla luce del sole, l'omertà delle complicità estese.

Rettore, ma cos'è questa sua Università, una sola grande famiglia? Prima Giovanni Girone travolge con la sua mole un gruppo di giornalisti e si fa sfuggire un magnifico "vaff...", poi si scusa, minaccia la solita querela a chiunque parli o scriva dei suoi e degli altri parenti cattedratici, finalmente si placa e ci fa entrare nella sua stanza. Alle sue spalle due grandi foto, una di Padre Pio e l'altra di Aldo Moro. E alla fine Girone sospira: "I nomi non c'entrano, i concorsi o sono corretti o non sono corretti. E nel caso di mia moglie e dei miei figli è stato tutto regolarissimo: quel che conta è soltanto la produzione scientifica". Così parla il Magnifico rettore dell'Università di Bari, l'ateneo delle grandi tribù.