Archivio marzo 2005
24 marzo
IL COMMENTO
Le garanzie cancellate
di ANDREA MANZELLA
Non c'è stata dunque tregua nella corsa per sradicare la nostra
Costituzione dai suoi principi originari. L'estrema difesa sembra
ormai affidata al referendum impeditivo. Tutte le previsioni dicono
che in quel referendum prevarrà la grande maggioranza moderata degli
italiani: di centro, di sinistra e anche di destra. E che sarà
battuto l'estremismo di chi predica e pratica ogni giorno, da
quattro anni, un bipolarismo feroce: nelle leggi, nelle nomine,
nell'informazione, nella immagine esterna del Paese. Il clima di
divisione nazionale, appunto, cristallizzato nel disegno
governativo.
Maestri giuristi ci spiegano anche che questo progetto comunque non
funzionerà. I maldestri meccanici che vi hanno lavorato hanno
avvitato bulloni a casaccio. Ne è uscito fuori un macchinario che
sembra privo di logica motrice. Ma il punto non è in tutto questo.
Il punto, che peserà come una zavorra nella storia della Repubblica,
è che con questo progetto si è rotto il bene più prezioso che ci
univa dal 1946: la pace costituzionale degli italiani. È un bene che
aveva resistito allo scontro tra laici e cattolici, tra liberali e
comunisti e persino alla guerra civile fredda che per trent'anni,
dal 1946 al 1976, aveva opposto pro-atlantici a pro-sovietici. Ora
si è dimostrato che è sufficiente un calcolo elettorale a breve, una
baratteria di coalizione, la voglia di agitare un successo
parlamentare, sia pure di corta durata, per potere spezzare senza
scrupoli quel segno storico della nostra unità.
E, allora, non basterà vincere un referendum. Esso non potrà essere
una misura di conservazione. Dovrà essere piuttosto la riscoperta e
la rifondazione dei principi e degli equilibri della Costituzione.
Una battaglia, in questo senso costituente, per una ricostruzione
della specifica identità istituzionale italiana nel grande movimento
costituzionale europeo.
La riconquista della pace costituzionale significherà innanzitutto
la ricomposizione delle garanzie violate. Dopo le rotture, ci sarà
da ristabilire le garanzie per i tre grandi principi di base:
l'equilibrio democratico tra maggioranze e minoranze; l'equilibrio
parlamentare tra poteri e contropoteri del governo; l'equilibrio
nazionale tra unità e pluralismo territoriale.
Risultano, infatti, fiaccate, in primo luogo, le garanzie
democratiche. La stessa contestata procedura seguita in modo
convulso per cambiare 53 articoli della Costituzione, con fortissima
limitazione dei diritti dell'opposizione, dimostra, per sé sola, che
in questo Paese il governo ormai può tutto. E può di più quando,
come nel caso della revisione costituzionale, sono tecnicamente
fuori gioco sia il Presidente della Repubblica sia, forse, la Corte
costituzionale.
Manomettere, come fa il progetto, queste garanzie si traduce
immediatamente in un attacco alla zona dei diritti fondamentali. Si
è così costruita una passerella di aggressione che va dalla parte
organizzativa della Costituzione alla parte, apparentemente illesa,
dei diritti dei cittadini. La prima tradizionale tutela dei diritti
è affidata alla ordinaria legge parlamentare. Ma questa ora non è
più una difesa.
Questo degrado di sicurezza costituzionale avviene
contemporaneamente al rigetto di tutte le proposte dell'opposizione
che cercavano di adeguare le garanzie della Costituzione al nuovo
sistema elettorale maggioritario. Erano proposte che non ponevano
minimamente a rischio la stabilità dei governi e le condizioni di
governabilità. Il loro rifiuto è reso più cupo dal pesante contorno
di leggi che minano le pre-condizioni della democrazia:
stabilizzando il monopolio governativo dell'informazione televisiva,
legittimando il conflitto di interessi, insidiando l'indipendenza
della magistratura.
Sono in giuoco, poi, le garanzie per il regime parlamentare. C'è già
ora il disprezzo di un primo ministro che rifiuta di andare in
parlamento non solo per rispondere ad un cortese question time di
importazione, ma perfino sull'indecifrabile destino di tremila
soldati italiani, trascinati in un teatro di guerra. Il progetto
consolida e legittima questa retrocessione del parlamento.
Una sovranità elettorale assoluta cancella ogni autonomia delle
Assemblee rappresentative. Il rapporto a due parlamento-governo che
è la vita stessa del principio parlamentare è bruciato fin dal
giorno delle elezioni. La legge elettorale, si dice, deve "favorire
la formazione di una maggioranza collegata al candidato alla carica
di primo ministro". Con voti bloccati, questioni di fiducia,
minaccia di scioglimento la stessa maggioranza parlamentare non ha
alcuna possibilità di confronto e men che meno di controllo
sull'operato del governo.
Quanto all'opposizione, i suoi voti sono considerati
costituzionalmente appestati e non le si concede neppure il rimedio
tipico delle democrazie maggioritarie: il ricorso preventivo al
tribunale costituzionale almeno nei casi di sospetti abusi nel
procedimento legislativo.
Nessun temperamento dunque all'attuale situazione di prevaricazione
governativa. Vi è semmai il suo aggravarsi: con uno squilibrio ancor
più forte a favore di una figura di primo ministro che assorbe in sé
praticamente anche la rappresentanza parlamentare, cancellandone la
differente identità.
È compromessa, infine, la garanzia dell'unità territoriale della
Repubblica. Compromessa dall'inserimento della clausola di
"esclusività" nelle competenze legislative delle regioni. Una
"esclusività" che non tocca solo i grandi sistemi unitari nazionali
- la scuola, la sanità - ma si estende indefinitamente anche "ad
ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione
dello Stato". Ora, questa "esclusività" - che è il punto di
inconciliabile frattura tra il regionalismo di tutti (e non solo del
centro-sinistra) e quello della Lega - è una aberrazione sia per
l'ordinamento italiano sia per l'ordinamento europeo. Nell'uno e
nell'altro è in contrasto, infatti, con il fondamentale principio di
sussidiarietà. Un principio - imperniato sulle intese fra i
differenti livelli di governo - che rende mobili e flessibili le
competenze.
La competenza esclusiva, se ha un senso, creerà invece un sistema di
rigide gabbie legislative nel territorio della Repubblica, di
compartimenti impermeabili a principi comuni, di vere e proprie
dighe alla stessa legislazione comunitaria e prevedibili ostacoli
alla circolazione delle imprese e dei servizi. D'altronde la logica
della frammentazione e del separatismo lascia le sue impronte
digitali. Là dove consente che per cinque anni tutte le tentazioni
alla diaspora del localismo italiano trovino sfogo. Sia attraverso
una sospensione delle garanzie attuali della Costituzione. Sia
stabilendo che ai referendum di amputazione territoriale partecipino
solo "i cittadini residenti nei comuni o nelle province di cui si
propone il distacco dalla regione"...
Per tutte queste ragioni il referendum non potrà esaurisi in un
semplice "no". Con esso si devono ridefinire le condizioni e i
principi repubblicani per un coabitare mite in Costituzione.
Nel 1946 quando cominciò la Costituente, il fascismo era
definitivamente morto. Eppure si creò una Costituzione antifascista:
per cercare di evitare, sbagliando magari qualcosa in senso opposto,
gli eccessi di potere di quel regime trascorso. Forse è troppo
pretendere che si ponga ora mano a regole costituzionali che mettano
fine all'attuale esorbitante accumulo di poteri pubblici e privati
proprio del berlusconismo. Ma è certamente impossibile accettare,
dopo questa esperienza, meccanismi che concedano al berlusconismo
(non ancora morto) o a qualunque altro estremismo populista, una
patente costituzionale per prevaricare di più. Ogni politica
costituzionale deve partire dall'esistente e non dalle teorie. E
l'esistente è questo. Non c'è Westminster né la Bbc.
Ecco perché, alla fine, questo referendum avrà
logicamente una forte influenza sulle elezioni politiche del 2006.
Quale che sarà la data del suo svolgimento, esso consentirà ai
cittadini di valutare l'intera posta in giuoco e di riappropriarsi
di valori costituzionali che si sono fatti lontani. E che, come ogni
cosa lontana, rischiano di essere perduti per sempre.
«Ingiustizia è fatta»
Kater I Rades, le
associazioni criticano la sentenza
ANTONIO MASSARI
BRINDISI
Irrisoria la pena, irrisorio il risarcimento. La sentenza emessa il 19 marzo
sull'affondamento della Kater I Rades non ha fatto giustizia: questo è il
pensiero di molti, tra gli attivisti delle associazioni che da anni seguono
la vicenda dell'affondamento della Kater I Rades, la nave carica di
immigrati albanesi speronata otto anni fa, nel mare di Brindisi, dalla
motovedetta italiana Sibilla. Era il 28 marzo 1997: morirono annegate 86
persone. In tanti sono rimasti perplessi dalle stesse modalità del
tribunale, che ha emesso la sentenza in sordina, in un sabato con pochi
riflettori. Sabato 26 marzo, intanto, alle 17,30 molti si presenteranno sul
lungomare per commemorare con un lancio di fiori tutti gli immigrati morti
in mare. Seguirà un corteo, fino al centro cittadino, dove si terrà una
mostra con dibattito. «In questa sentenza», dice Alessia Montuori,
dell'associazione Senza confine, «l'unico dato positivo è il riconoscimento
della colpevolezza dello Stato, che in Italia non è affatto scontata,
sopratutto perché, in questo caso, si tratta della Marina militare. Tutto il
resto è inadeguato, a cominciare dalla pena: tre anni al comandante italiano
e quattro a quello albanese. La ripartizione del risarcimento obbliga il
comandante albanese al pagamento del 40 per cento, ma non sappiamo se
davvero riusciranno a punirlo e se mai pagherà. Riguardo le cifre, poi,
280mila euro mi sembrano davvero pochi. La vita di un uomo non ha prezzo,
certo, ma al di là della retorica mi chiedo davvero quanto valga la vita di
un albanese. E non dimentichiamo che c'è un altro drammatico naufragio che
attende ancora giustizia:quello del Natale 1996, a Siracusa, che coinvolse
283 persone».
Altrettanto duro il commento dell'Osservatorio sui
Balcani di Brindisi: «Si tratta di una strage di Stato che si conclude,
purtroppo, con una sentenza scontata». Molti i punti ancora da chiarire,
secondo Antonio Camuso: «In questi cinque anni le accuse degli ammiragli
responsabili dell'operazione sono state stralciate dal processo. I
responsabili politici del governo Prodi non sono mai stati portati sul banco
degli imputati: lo Stato ne è uscito assolto, restano solo le esigue
condanne ricadute sui due comandanti. Ma le nostre domande non hanno
risposta: chi aveva autorizzato un blocco navale in acque internazionali
dove è libera la circolazione? Perché si doveva impedire a tutti i costi
l'arrivo di un centinaio di uomini, donne e bambini che fuggivano da una
Albania in piena rivolta civile? Quali ordini erano stati impartiti ai
comandanti italiani? Vogliamo un tribunale internazionale, come lo vogliono
gli albanesi superstiti, perché non s'è trattato di un incidente. E' stato
un atto di barbarie, condotto in violazione dei diritti umani sanciti dall'Onu
e dalla nostra Costituzione».
Donne
e Sud, ritorno al passato
«Un fallimento, torna la
dipendenza economica». L'allarme di Chiara Saraceno
R.
C.
«E'
un fallimento». Chiara Saraceno, sociologa, è stata tra le prime a lanciare
l'allarme quando già nei mesi scorsi dai dati dell'Istat andava emergendo il
fenomeno dell'abbandono del mercato del lavoro da parte delle giovani donne
del Mezzogiorno. Adesso, con i dati Istat che certificano il fenomeno di un
«effetto-scoraggiamento» che sta diventando una vera e propria fuga, dice:
«E' un fallimento della speranza dell'autonomia economica per tante donne,
drammatico nel Mezzogiorno». E si meraviglia del fatto che «nella sinistra
anche estrema ancora non si prenda atto di questa emergenza». E' davvero una
fuga delle donne dal mercato del lavoro? Cosa sta succedendo?
Se non è una fuga, certo è un forte rallentamento della
presenza femminile, dopo anni e anni di crescita. E' successo che le donne
del Mezzogiorno, nonostante siano mediamente più istruite e qualificate di
prima, hanno smesso di cercare lavoro. La tendenza si è interrotta e poi
invertita perché il lavoro non si trova e dunque arriva lo scoraggiamento.
Basta guardare i dati: tra le ragazze che hanno tra i 15 e i 24 anni del Sud
e che sono sul mercato del lavoro, le disoccupate sono il 44,6%. Quasi la
metà. La stessa percentuale per le ragazze del Nord è al 17,7%, per quelle
del centro del 25,9, per i maschi del sud della stessa età è del 32%. Sono
numeri che scoraggiano. Come quelli sulla disoccupazione di lunga durata,
che per le donne del Mezzogiorno è pari a 7 volte quella delle donne del
Nord-est.
E' solo economica la spiegazione di questo fenomeno?
Un fatto certo è che non smettono di cercare lavoro
perché «fanno le signore». Quest'aumento delle inattive si verifica nelle
stesse zone in cui più alta è la povertà, dunque non si spiega con una
riduzione del bisogno di lavorare. Per anni l'offerta di lavoro femminile è
aumentata, poi tutta questa pressione non ha trovato sbocco e dunque c'è un
ritorno all'indietro. Mentre il contesto culturale e familiare può
contribuire, in senso opposto a quello che di solito si pensa: nel
Mezzogiorno è anche più difficile la conciliazione tra lavoro retribuito e
lavoro domestico. Da un lato, ci sono meno servizi sociali - il che dà anche
meno occupazione femminile. Dall'altro, la «famiglia allargata», comincia a
essere un peso in più: mentre nel Nord est è una grande risorsa per le donne
che lavorano, nel mezzogiorno si sta configurando sempre meno come un aiuto
e sempre più come un altro lavoro da svolgere, soprattutto nella cura degli
anziani.
Come si concilia tutto questo con la riduzione del
tasso di disoccupazione, che fa cantare vittoria al governo?
La disoccupazione all'8% sembrerebbe un buon risultato,
senonché la disoccupazione è scesa proprio perché è sceso il tasso di
attività quasi ovunque. A livello nazionale sale il tasso di occupazione, ma
è un fenomeno solo demografico, non stabile. Nel Mezzogiorno poi è tutto un
segno meno. Il Sud si allontana sempre di più dall'Italia, mentre l'Italia è
sempre più lontana dagli obiettivi europei di Lisbona in termini di tasso di
occupazione, maschile e femminile. Per le donne del Sud ricomincia a
crescere la dipendenza economica, in un contesto di sovraccarico di lavoro
familiare: un quadro preoccupante, un allarme che si fatica a far suonare,
anche a sinistra.
22 marzo
C'era una volta l'acqua
che adesso non c'è più
di UMBERTO ECO
"SI POTREBBE cominciare così". Lo Scrittore lesse la prima frase che
aveva scritto sul computer. Non era molto, né sapeva come andare
avanti. Gli avevano chiesto un breve racconto sull'acqua. Non un
romanzo, o una saga in molti volumi, impresa a cui si sarebbe
accinto con lena ed energia; e nemmeno un saggio, in cui avrebbe
potuto spaziare sulla presenza dell'acqua nelle grandi cosmogonie,
da Talete ai Dogon, tanto per dire. Ma un racconto, una storia
breve. Che non era nelle sue corde.
Cosa doveva rispondere? "Non mi è venuta l'ispirazione?". Ci avrebbe
fatto la figura di un prefetto a riposo, Poeta a Proprie Spese, di
quelli che credono al Demone.
Avrebbe potuto inventare una storia di fantascienza. Il bambino fa
una domanda al papà mentre viaggiano sulla Grande Autostrada Po, che
attraversa tutta l'Altura Padana.
Ha letto il termine "acqua" su un vecchio libro, e chiede che cosa
voglia dire, mentre inghiotte la sua pillola giornaliera di H2O
Synt2.
"Eh, l'acqua, l'acqua", gli dice il papà perplesso. "È una cosa che
non c'è più su questa terra. Vedi, per esempio qui, sull'autostrada
Po, non si andava in macchina, ma c'era l'acqua, come dire, una cosa
bagnata, con dentro delle bestie senza zampe e senza ali, e che se
ci cadevi dentro rischiavi di morire.
E quando scenderemo tra due ore alla Valle Tirreno, anche lì non
c'erano tutti quei grattacieli, quei casinò, quei Luna Park e quei
Fast Food per miglia e miglia. C'era tutta acqua. Vedi laggiù quei
contadini che spargono sugli ombù e sulle palme quella polvere di
H2O Synt4? Ecco, allora invece sulle piante cadeva l'acqua. "Ma come
faceva l'acqua a cadere", chiede il bambino, "se stava in basso,
nelle autostrade e nelle valli?" "Difficile da immaginare", dice il
papà, "ma l'acqua cadeva anche dal cielo".
Il cielo adesso ti sembra tutto nero, ma allora era azzurro e pieno
di una specie di lana bianca, che a un certo punto si disfaceva e
cadeva giù l'acqua sotto forma di gocce. "Gocce?" "Si, palline,
perline, quasi come quelle che si formano sulla tua pelle al mattino
quando per pulirti ti nebulizzi con H2O Synt15. Solo che erano
bagnate". "Io non so cosa voglia dire bagnato, ma certo un mondo con
questa cosa che dici tu doveva essere bruttissimo", esclama il
bambino.
E infatti come fare a spiegare a un bambino che cosa siano la
pioggia, le cascate del Niagara, la Garganta do Diablo di Iguazùl,
l'arcobaleno, il temporale, il mare, la neve e le sorgenti, se
l'acqua non l'ha mai vista? E se le cose stanno così, non si può
scrivere neppure questa storia, perché più di così il bambino non
può capire e il padre non può dire.
Salvo che a quel certo punto lo Scrittore si è ricordato che al
mondo, non quello della fantascienza ma quello della scienza, in
certe zone, esistono bambini quasi così, che conoscono solo deserti
solcati da crepe secche e vene di sale, e l'acqua non la vedono
quasi mai, e quando arriva è razionata in certi contenitori - e
naturalmente non ci sono neppure le pillole di H2O Synt.
E si è chiesto se davvero la storia di una possibile scomparsa
dell'acqua sia una storia solo di fantascienza.
Ecco, si è detto allora, potrei raccontare la storia di come sia
difficile raccontare questa storia.
Si è seduto al computer e ha iniziato a digitare: "Si potrebbe
cominciare così".
In occasione della giornata mondiale dell'acqua, ha voluto offrire
questo breve racconto ad Amref - Fondazione Africana per la Medicina
e la Ricerca - per sostenerne i progetti idrici in Africa orientale
e l'impegno in Italia in favore del messaggio "acqua è vita".
17 marzo
COMMENTO
Tra
propaganda
e alleanza
di EZIO MAURO
L'avventurismo berlusconiano ha disegnato ieri una giornata
esemplare, con il governo allo sbando da mattina a sera nel triangolo
Roma-Washington-Londra, Bush e Blair costretti a correggere il premier italiano,
il ministro degli Esteri che corre ai ripari avvertendo che non cambia nulla, il
Capo dello Stato colto di sorpresa durante una visita di Stato in Gran Bretagna.
Per una volta, la politica degli annunci del Cavaliere - che
in Italia non paga mai dazio, nella sua dissociazione dalla realtà - si è
scontrata contro la logica dell'alleanza, che ha messo a nudo la piccola
furbizia berlusconiana: massima propaganda in pubblico, con l'annuncio
televisivo del ritiro a settembre, massima lealtà in privato, con una telefonata
di rassicurazione a Bush: "Voleva per prima cosa che io sapessi che non c'è
nulla di cambiato nella sua politica", ha rivelato il presidente americano.
Fuori dall'Italia, il doppio binario non regge. Negli altri Paesi, infatti, la
politica estera si decide nella responsabilità delle sedi istituzionali - i
governi e i parlamenti - e non nella scorciatoia irresponsabile di Porta a Porta.
Solo da noi, mentre il ministro della Difesa siede
inconsapevole alla Camera dove si vota il rifinanziamento della missione, e il
ministro degli Esteri incontra ignaro Blair a Londra, il premier può permettersi
di ammiccare come un crooner verso le telecamere annunciando una svolta
personale sulla questione della presenza militare italiana a Nassiriya.
La politica estera è un'altra cosa: e in guerra ancor più.
Persino nell'epoca berlusconiana, va sottratta alla doppia tentazione in cui si
muove il Cavaliere, l'ideologia e la propaganda. Entrambe a buon mercato,
naturalmente, all'ingrosso, governate non dai valori o dall'interesse nazionale
ed europeo, ma dalla convenienza populista del leader e peggio ancora, dalla
furbizia.
L'importante è recitare la parte di miglior
alleato di Bush finché serve. E quando incombono le elezioni regionali
annunciare, da solo, che "la missione è compiuta". L'annuncio comporta
conseguenze? Nella scaletta televisiva non era previsto, tutto doveva finire con
un bell'applauso. Per poi ricominciare prima delle elezioni politiche, con la
scena del ritiro. In seconda serata, naturalmente, con un ponte aereo
preelettorale e qualche tuta mimetica che sbarca felice in tivù, magari baciando
la scena di Porta a Porta come il vero suolo patrio dell'Italia berlusconiana.
IL RETROSCENA. Il ministro degli Esteri era a Londra con Blair
E il presidente del Consiglio se la prende con la Cnn...
Fini
protesta con il Cavaliere
"Almeno potevi avvertirmi"
di CLAUDIO TITO
ROMA - "Ma cos'è questa
storia? Almeno mi potevi avvertire visto che stavo a Londra". La linea
telefonica di Palazzo Chigi ieri si è surriscaldata molto rapidamente.
Gianfranco Fini, in Inghilterra insieme al presidente della Repubblica Ciampi,
ha alzato la cornetta, ha chiamato il premier e tutto di un fiato non gli ha
nascosto nemmeno una delle tante perplessità sull'uscita fatta a "Porta a porta".
Non solo il vicepremier non era stato avvertito, ma si trovava proprio a fianco
di Tony Blair mentre il Cavaliere annunciava una tappa fondamentale della
missione in Iraq e spiegava di averne discusso con il premier britannico. Dopo
le parole di Berlusconi, nessuno nella delegazione italiana riusciva a celare un
certo "imbarazzo". Quell'imbarazzo di cui poi il titolare della Farnesina si è
lamentato con una certa veemenza nella telefonata.
Il presidente del Consiglio ha dunque dovuto fronteggiare le
proteste dell'alleato "interno" ma le ha rapidamente derubricate sapendo di
poter contare sull'appoggio della Lega e sulla sostanziale condivisione dell'Udc.
Nello stesso tempo si è visto investire dall'ondata di reclami diplomatici
partita dalla Gran Bretagna e dalla Casa Bianca. Bush, infatti, lo ha contattato
costringendolo di fatto a correggere la linea. "Forse - ha ammesso ieri
pomeriggio il premier - quella data di settembre ha provocato qualche confusione...
io però ho ripetuto esattamente le stesse cose che milioni di volte hanno detto
sia Fini, sia Martino". Se davanti ai richiami di Washington e Londra, ha dovuto
fare buon viso a cattiva sorte, in privato continua a sostenere che "un exit
plan va comunque preparato".
Se non a settembre, di certo in autunno Berlusconi vorrebbe
avviare il ritiro dei soldati dall'Iraq. "In maniera concordata - puntualizza -
e se a settembre non fosse possibile, vuol dire che non sarà possibile. Ma di
certo non faremo come la Spagna. Siamo riusciti a cambiare la politica italiana,
sempre ballerina, e ora non ricambiamo". La paura di Palazzo Chigi è che
all'estero si possa dare l'immagine di una "Italietta" che cambia bandiera
quando conviene.
Nega poi che ci sia stato una incomprensione con Blair e
mette nel mirino la Cnn. A suo giudizio, infatti, sarebbe stata l'emittente
americana, notoriamente critica con Bush, a montare il caso, a provocare gli
articoli durissimi dei giornali Usa come quello del "New York Times" e quindi la
reazione della Casa Bianca. "Sono stati loro, quelli della Cnn, a ingigantire
tutto" dando ampio spazio alle sue dichiarazioni e soprattutto mettendole in
connessione con la vicenda Calipari-Sgrena.
Ma l'idea di far scattare il rientro "anche minimo" a "settembre
o in autunno", comunque rimane. "Io - diceva ieri a chiare lettere nel cortile
di Palazzo Grazioli - ho già tutti i numeri in testa. Ho già tutto pronto. Ma
non ve li posso dire". Il suo progetto dovrebbe muoversi "in parallelo e in
complementarietà" con l'addestramento delle forze dell'ordine irachene: "stiamo
lavorando in primo luogo con la Nato proprio per preparare gli agenti iracheni".
"La gente - ripete un po' a tutti - ci chiede il ritiro". Tant'è al ministero
della Difesa ha colto il segnale e un piano di disimpegno lo hanno già messo a
punto da febbraio.
16 marzo
Il 24% degli
adolescenti subisce offese e prepotenze
prima il fenomeno era diffuso solo alle elementari
Scuola, piccoli bulli crescono
alle superiori vittima uno su quattro
di MARIA STELLA CONTE
ROMA - Come può essere dura la vita a 16 anni se non si sta
dalla parte giusta. Se si finisce per essere lo zimbello della
classe. Quello che gli dai uno scappellotto sulla nuca ogni volta
che fai finta di andare a buttare la carta nel cestino; quello che
fammi un po' vedere che c'hai da mangiare? non mi piace e la merenda
vola giù dalla finestra; quello che vengoanchionotuno...
Aggressioni, prepotenze, estorsioni, umiliazioni che gli adulti -
presidi, insegnanti, bidelli - non vedono o fanno finta di non
vedere, perché alle superiori i ragazzi hanno l'aria di voler badare
a se stessi; alle superiori i ragazzi fanno muro; e sono capaci di
ritorsioni che allora è meglio starne fuori.
Forse è anche per questo miope timore collettivo che per anni nel
nostro Paese si è pensato che il bullismo si concentrasse quasi
esclusivamente nelle scuole elementari e medie: ora due studiosi,
Elena Buccoliero e Marco Maggi, sostengono che non è per niente
così: lo fanno in un primo volume di oltre 300 pagine - Bullismo,
Bullismi - Le prepotenze in adolescenza dall'analisi dei casi agli
strumenti di intervento - da oggi nelle librerie per la Franco
Angeli.
E in un secondo, di prossima uscita, nel quale tra l'altro verranno
esaminati i dati di sei ricerche svolte con lo stesso metodo di
indagine a Cuneo, Lodi, Bergamo, Ferrara, Piacenza, Messina per un
totale di 3.244 studenti di scuola media superiore. Risultato: il 24
per cento - circa un ragazzo su quattro - dice di aver avuto a che
fare con prevaricazioni, offese o aggressioni di qualche genere.
Che il problema esista - spiegano i ricercatori - lo conferma la
quasi totalità degli intervistati: il 15 per cento dichiara di
subire soprusi; il 9 di vestire i panni di vittima in alcuni casi e
di "carnefice" in altri; l'11 si riconosce tout court nel ruolo di
bullo; il 46 per cento afferma invece di non essere coinvolto
direttamente dal fenomeno ma di esserne stato testimone e solo un 19
di non aver mai assistito o vissuto atti di bullismo.
Il bullo è una sorta di "mutante" che si occulta e modifica a
seconda che frequenti un liceo, un istituto tecnico o le scuole
professionali, diventando nel passaggio da un corso di studi
all'altro, sempre più visibile e aggressivo. Ovunque sia, comunque,
nel codice rosso delle angherie troviamo al primo posto le
aggressioni verbali, che sembrano poca cosa, ma non è vero perché il
tormentone quotidiano, l'essere ogni santo giorno preso di mira
perché sei grasso, perché puzzi, perché sei un asino, perché sei un
secchione, perché ce l'hai piccolo, perché sei tettona, può
distruggerti l'esistenza; seguono le offese e gli insulti che sono
la versione trash dei primi; e arriviamo agli scherzi pesanti,
quelli che fanno rabbia fino alle lacrime, subiti dal 30 per cento
delle vittime: il diario fatto a pezzi, la pipì nelle scarpe da
ginnastica, il lancio dalla finestra di libri e quaderni; fino alle
minacce, alle aggressioni e ai piccoli furti che sì, sono una
minoranza ma non si possono più neppure chiamare scherzi.
A questo punto, uno pensa che sia la strada, e più precisamente il
tragitto tra scuola e casa, lo spazio meno protetto, quello nel
quale le vittime vengono prese di mira dai bulli. Invece no. E non
sono neppure i bagni di scuola. O i corridoi o gli spogliatoi. Il
luogo del delitto per eccellenza è la classe. Solo che, spiegano i
ricercatori, i grandi - bidelli e insegnati - spesso non sono
presenti quando occorre, e in ogni caso, tra chi non se ne accorge e
chi fa finta di niente, raramente ci si può contare.
Per la verità, c'è un 23 per cento che testimonia l'intervento degli
adulti, ma in generale quelli degli studenti e dei professori
appaiono troppo spesso "mondi paralleli nei quali ciascuno ha già
abbastanza preoccupazioni per interagire veramente con l'altro". A
confermare i dati di queste sei ricerche, c'è anche una "Indagine
sul disagio giovanile nelle scuole secondarie superiori della
Lombardia" realizzata dallo Iard nel 2001 per l'Ufficio scolastico
Regionale su un campione di 2.566 studenti e coordinata da Crisitina
Margheri.
Ostilità e diffidenza - scrivono i ricercatori -
più che amicizia e condivisione sembrano caratterizzare i rapporti
tra compagni di scuola: il 50,6 per cento del campione lombardo ha
dichiarato di aver incontrato colleghi di scuola che si sono
rifiutati di aiutarli, e il 53,5 di essere stato vittima di offese,
il 16 di scherzi pesanti, il 6 di minacce o ricatti. Un mondo più
che parallelo sovrapposto a quello degli adulti, nel quale essere
amici è bello. Ma essere forti e vincenti, costi quel che costi, è
meglio.
15 marzo
Mangiati dalla paura
L'analisi del Censis mostra un paese sicuro di un
aumento dei prezzi nell'immediato futuro. Cambiano persino le abitudini
alimentari, costrette al compromesso tra qualità dei prodotti e reddito. Le
uniche spese che aumentano sono quelle incomprimibili: sanità, istruzione,
trasporti e casa. Pochi sperano di incrementare il reddito quest'anno
FRANCESCO PICCIONI
Le indagini socio-statistiche sui comportamenti degli
italiani hanno un destino abbastanza segnato: ci dicono, quasi sempre, quello
che sappiamo già. Ognuno di noi, infatti, è solito «rivedersi» in questo o
quell'altro «modello di consumo», con tanto di varianti che ciascuno è solito
pensare abbastanza «individuali». Insomma, leggendo questi dati ognuno potrebbe
scoprire - con un piccolo brivido per la schiena - che la sua «libertà» non va
molto più in là delle possibilità offerte dallo scaffale del supermercato diviso
per il contenuto del portafoglio. Così, «scopriamo» - leggendo le anticipazioni
dell'indagine Censis-Confcommercio dal titolo «Scenari, simboli e luoghi del
consumo: Italia, Francia, Spagna, Inghilterra e Germania a confronto» - che ben
il 96,3% di noi «teme per il futuro nuove spinte inflazionistiche». L'attesa per
altri aumenti generalizzati dei prezzi è conseguente alle pessime esperienze
maturate negli ultimi tre anni (in cui il passaggio all'euro è stato utilizzato
come occasione per dare il via ad aumenti poco e male registrati dalle
statistiche ufficiali), e trova concordi gli abitanti dei cinque paesi citati.
Certo che, però, l'Italia sta in ogni caso messa peggio dei suoi vicini.
Ad esempio, il costo di molti prodotti di largo consumo è cresciuto secondo il
95% dei nostri connazionali, mentre gli spagnoli che hanno registrato la stessa
impressione sono l'83%, vicino all'81,6 dei tedeschi e all'80,1 dei francesi; ma
parecchio lontani, tutti, dal 57,5% degli inglesi (che possono però vantare, in
termini assoluti, i prezzi più alti d'Europa). Ma anche nel campo delle tariffe
i servizi italiani battono tutta la «concorrenza»: secondo il 92,6% degli
intervistati, infatti, hanno preso anche questi l'ascensore verso il cielo.
Che non si tratti solamente di «sensazioni», però, lo provano altri dati. Ben il
61,7% - quasi i due terzi della popolazione - afferma di aver modificato le
proprie abitudini alimentari, con un «contenimento delle spese» e un'«accentuata
mediazione tra prezzo e qualità dei prodotti». In parole povere, si fa spesa
guardando ai banchi delle «offerte», scegliendo - si fa per dire - un prodotto
di qualità notoriamente minore ma alla portata delle proprie tasche. In Francia
si comporta allo stesso modo solo il 12,6% degli intervistati, mentre nella
carissima Inghilterra fanno «gli italiani risparmiosi» oltre il 27%. La qualità
della vita - la salute, ci spiegano ogni giorno le varie Marie Antoniette che
governano la comunicazione mediatica, «dipende in via principale dagli stili di
vita e dalla corretta alimentazione» - ovviamente decade, predisponendo tutti a
vari tipi di malattie. Tant'è vero che tutti prevedono di spendere di più, nel
2005, soltanto per le «spese incomprimibili»: ovvero affitto (o mutuo), sanità,
utenze domestiche, istruzione, trasporti (privati e pubblici).
A soffrire della contrazione generalizzata dei consumi saranno inevitabilmente
le spese «edonistiche» come il benessere personale (cosmetici, fitness, ecc), la
cultura (!), il tempo libero e i viaggi. E questo a dispetto del fatto che in
tanti, da anni, hanno preso abitudini tipiche di un «viver bene», come
l'acquisto di frutta proveniente da agricoltura biologica (43%), prodotti
cosmetici naturali in erboristerie (41%, anche se saltuariamente), prodotti
alimentari naturali (24,8%) e cibi etnici (21%).
I «luoghi del consumo» più frequentati sono ovviamente super e ipermercati, in
grado di praticare politiche di prezzo - specie sui prodotti alimentari - in
alcuni casi vantaggiosa per l'acquirente. Dal lato delle «entrate», invece,
regna un pessimismo se possibile ancora più grande. Ma sono ancora molto
utilizzati i negozi «di vicinato» e i mercati rionali, che hanno sia una
rilevante funzione di coesione sociale, sia - specie nei mercatini settimanali
di abbigliamento usato e oggettistica varia - fasce di prezzo abbordabili per le
tasche meno capienti.
Dal lato delle «entrate», se possibile, il pessimismo dilaga ancor più che sul
fronte delle «uscite». Solo il 7,9% degli italiani prevede che quest'anno
disporrà di un reddito superiore al 2004; al contrario, ne è convinto il 50% dei
francesi, il 51,8% dei tedeschi (ma con fortissime differenze tra Est e Ovest),
il 32m5% in Inghilterra e il 30% degli spagnoli. A conferma della capacità di
«ammortizzare» gli effetti negativi offerta dalla tradizionale «arte di
arrangiarsi», però, sono più alte all'estero anche le percentuali di chi pensa
di veder peggiorare la propria posizione reddituale (addirittura il 33% in
Germania, soprattutto nei länder orientali).
Interessante - per capire come le diverse classi sociali «vedano» in modo
differente la fase attuale - è notare che solo il 3,5% di chi dispone di un
reddito mensile fino a 1.000 euro pensa di «migliorare» in futuro; mentre ne è
persuaso (al 22,5% appena, però) soprattutto chi guadagna oltre 3.100 euro al
mese. Insomma: per la maggioranza, se va bene, sarà un anno di redditi
«stazionari» a fronte di prezzi comunque in ascesa.
In apparente controtendenza è stato reso noto ieri anche un'analisi della
Coldiretti sulla base di dati Ismea-Ac Nielsen, secondo cui dopo anni di
progressiva riduzione dei consumi, «il vino è tornato sulle tavole degli
italiani». Quasi 8 milioni di bottiglie in più rispetto all'anno precedente, con
un coinvolgimento che interessa ben tre famiglie su quattro. Le vendite sono
state floride sia per i vini doc (il 42% del totale, con un incremento di ben 5
punti) che per i vini da tavola (58%); la parte del leone, e non poteva essere
altrimenti in un paese di buongustai, la fanno i vini rossi (56%). A favorire
l'incremento dei consumi, viene fatto giustamente notare, ha concorso anche la
stabilità dei prezzi (+2,3%, assolutamente in linea con l'inflazione). Ma non si
può non pensare che gli italiani, costretti a «stringere» la cinghia su tutti i
bisogni principali, abbiano finito per ripiegare sul più antico (e in fondo
economico) dei piaceri. Chissà se «per mandarla giù» o «per dimenticare».
Protesta su due
sponde
Doppia manifestazione, a Reggio e Messina, contro
il Ponte sullo Stretto
In piazza contro la mafia e contro una «grande opera» che nessuno sembra ormai
volere, sono scesi studenti, ambientalisti, sindaci ed esponenti politici della
maggioranza e dell'opposizione
ANGELO MASTRANDREA
INVIATO A MESSINA
Sarà per quella infelice frase del ministro Lunardi che
guarda caso è anche il più strenue sostenitore del Ponte: «Con la mafia bisogna
convivere». Sarà per quelle due inchieste, datate rispettivamente 11 e 28
febbraio, che hanno svelato gli appetiti attorno ad una «grande opera» ancora
nemmeno in progettazione. Sarà per quel sistema che vedrà un «general
conctractor» vincitore della gara e poi tanti subappalti a trattativa privata
che si prestano ad ogni tentativo di infiltrazione. Fatto sta che dopo «Ponte»,
ieri, alle due manifestazioni di Reggio Calabria e Messina la parola più
pronunciata era mafia. Lo hanno fatto gli studenti che sul versante calabrese
agitavano uno striscione e dicevano: «Noi giovani siamo contro la mafia». E lo
ha fatto il presidente nazionale di Lega Ambiente Roberto Della Seta, quando dal
palco di Villa Quasimodo a Messina ha denunciato proprio il «rischio di una
miriade di subappalti senza nessun controllo, sia dal punto di vista delle
garanzie per lavoratori, che della trasparenza delle imprese». E' per questo che
il simbolo delle manifestazioni di questi giorni - che hanno toccato anche posti
come Gioia Tauro - è una enorme «gallina dalle uova d'oro». Simbolo di un'opera
che, spiega il professor Alberto Ziparo, «tutti, anche i più strenui
sostenitori, sanno bene che non si farà». Ma che nel frattempo continua a far
sborsare fior di milioni di euro per studi di fattibilità e consulenze, «senza
che sia stato nominato un general conctractor o che siano pronti i progetti».
Nel frattempo la mobilitazione non si ferma. Non erano mai state unite come
ieri, le due sponde dello Stretto, nel difendere insieme i laghetti di Ganzirri
e la spiaggia di Cannitello che i mega-piloni spazzeranno via. E senza pensare
ognuna alla propria metà del Ponte. E mai come ieri si è avuta la sensazione che
la «grande opera» comincia a non esser più tale nella testa della gente e non
solo in quella di un pugno di volonterosi attivisti.
Ora contro il Ponte sono davvero in tanti. C'è l'intero centro sinistra anche se
in piazza a Messina si è visto solo il diessino Claudio Fava mentre il candidato
alla presidenza della regione Agazio Loiero ha detto sì ma senza strombazzare
troppo in giro la sua adesione. C'è Fabio Granata, che è di An e soprattutto è
assessore regionale ai trasporti, ma anche lui preferisce non farsi vedere. Ma
il vero motore, oltre alle associazioni ambientaliste, sono i tanti comitati
locali sorti su questioni ambientali, da quello contro le trivellazioni
petrolifere autorizzate dalla regione nella Val di Noto a quelli del «triangolo
della morte» Augusta-Melilli-Priolo, o ancora i cittadini del quartiere Gallico,
Reggio Calabria, che da un anno bloccano la costruzione di una discarica. Accade
anche che a Reggio Calabria ci sia un coordinamento Scilla-Cariddi e sull'altra
sponda un suo alter ego Cariddi-Scilla. La palma dei più agguerriti va invece ai
38 sindaci della costa siciliana che ancora ieri erano in piazza dopo aver
bloccato - solo il giorno precedente - i binari della stazione di Rometta Marea.
Stazione che - tre anni fa - fu scenario di un incidente nel quale persero la
vita otto persone. «Il governo - denunciano Lega Ambiente, Wwf e Italia Nostra -
ci disse che il raddoppio della linea Palerno-Messina rappresentava una
priorità». E invece? «I cittadini siciliani sono costretti a viaggiare su treni
con una velocità commerciale di 24 km/oraria, con solo metà delle tratte
elettrificate e solo 105 km su 1400 a doppio binario». Con il risultato che per
andare da Palermo a Siracusa, 260 Km, si impiegano quasi sei ore, e da Trapani a
Siracusa, 360 Km, ben nove ore e mezza. Da qui la denuncia degli ambientalisti
contro quella che chiamano «tassa sulla ferrovia», 100miliardi di euro dalle
Ferrovie dello stato alla società Stretto di Messina. E le polemiche con
l'amministratore delegato di quest'ultima Ciucci e con il comune di Messina,
irritato dall'inevitabile risonanza mediatica delle manifestazioni contro il
Ponte di questi giorni.
E a causa delle quali, attacca il segretario del Wwf Gaetano Benedetto,
«l'Italia diverrà più povera. Dal punto di vista economico, poiché i circa
6miliardi di euro di finanziamenti destinata alla realizzazione dell'opera
vengono da società pubbliche o comunque saranno raccolte dai privati grazie
all'emissione di obbligazioni garantite dallo stato. E dal punto di vista
ambientale perché il Ponte e le opere connesse, con sette anni di cantiere e
decine di discariche e cave, devasteranno un habitat unico nel Mediterraneo per
la ricchezza della bio diversità». Inoltre, per Benedetto «il Ponte è un'opera
che nasce e resterà sempre in perdita economica». Il segretario di Italia Nostra
Gaia Pallottino punta invece il dito sulla questione occupazionale: «Con il
Ponte andrebbero persi 1234 posti tra gli addetti al traghettamento», dunque
«meglio rilanciare il trasporto marittimo».
10 marzo
IL COMMENTO
Il trionfo dell'ambiguità
di CURZIO MALTESE
IL GOVERNO Berlusconi è riuscito a rovesciare una crisi in potenza
rovinosa in un successo d'immagine, fra gli applausi
dell'opposizione e le adoranti genuflessioni dei telegiornali ("Berlusconi
mette d'accordo tutti", l'incredibile Tg1) grazie a una strategia
ovvia ma efficace. Ha rimosso dal caso Sgrena l'elemento centrale e
più pericoloso: il riscatto. E' la parola chiave dell'intera
vicenda, il nocciolo del conflitto fra americani e italiani, la
spiegazione della salvezza di Giuliana Sgrena e forse della morte di
Nicola Calipari. Ma Berlusconi è riuscito a non nominarla mai una
volta nel suo discorso al Senato, neppure per negare o per replicare
agli interrogativi di Andreotti e Amato che cercavano invano di
richiamarne l'attenzione sul cuore del problema.
E' giusto o sbagliato pagare la liberazione degli ostaggi,
finanziando la guerriglia irachena e sfidando le ire dell'alleato?
E' un dubbio che lacera, divide, chiede scelte dure. Già Andreotti e
Amato, che ormai sono d'accordo perfino sulla fecondazione, sul tema
dei riscatti hanno indicato due risposte diverse.
La risposta giusta, per Berlusconi, è stato dunque non porsi la
domanda. Il premier si è limitato a rilanciare l'invito a non andare
in Iraq. Chiaro avvertimento che i riscatti non verranno più pagati.
Per chi vuol intendere.
"Massima chiarezza", come ha scolpito il titolista del Tg2? Al
contrario, il massimo dell'ambiguità. Per i parametri nazionali è
questo il marchio dello statista. D'altra parte Berlusconi in un
certo senso ha davvero messo d'accordo tutti. Per un motivo o per
l'altro a nessuno conviene affrontare la questione dei riscatti.
Non conviene agli americani, furibondi per la montagna di dollari
finiti nelle tasche delle bande ma attenti a non attirare sospetti
sulle possibili cause alternative dell'"incidente" al check point.
Non conviene naturalmente al governo italiano, fedele alleato ma
spinto dall'opinione pubblica a trattare per la vita degli ostaggi,
a differenza di quanto hanno sempre fatto gli inglesi. Non conviene
neppure ai terroristi che rischiano intorno al caso Sgrena di
perdere una delle più floride forme di finanziamento, e infatti si
sono precipitati a smentire.
Insomma non è un caso che nelle opposte versioni fornite da
americani, italiani e iracheni vi sia un solo punto comune, la
negazione del riscatto. Infine non conviene aggredire il nodo dei
riscatti neppure all'opposizione, che sull'Iraq è già abbastanza
divisa senza bisogno di alimentare con un altro tema l'indomito
dibattito interno.
Una volta eliminato dal tavolo della discussione il problema
centrale, tutto si può risolvere nel solito trionfo di retorica e
luoghi comuni da informazione televisiva. Su queste basi di partenza
è difficile che la commissione d'inchiesta si trasformi in qualcosa
di diverso da un risarcimento simbolico o che giunga a conclusioni
più profonde della "tragica fatalità".
Ma il verdetto della commissione arriverà in ogni caso fra molti
mesi e qualche elezione. C'è tempo di studiare un compromesso
onorevole fra buoni alleati. Il governo italiano smetterà di pagare
milioni di dollari alle bande irachene. Il comando Usa correggerà la
storia dell'auto impazzita che forza il posto di blocco. Tanto
assurda da meritarsi d'essere sbugiardata da Berlusconi, sommo
paradosso. Tutto questo lavoro di ricucitura avverrà, come si dice,
"nel massimo riserbo", "lontano dai riflettori". Ora, nel momento di
massima visibilità, con gli occhi del mondo addosso, c'era bisogno
di uscire con dignità da una tragedia con troppi misteri.
Meglio ancora se con il consenso dei media, nel caso italiano
comunque scontato, e con la comprensione dell'opposizione, che non è
mancata.
Un'operazione d'immagine riuscita perché voluta da tutti, con buone
ragioni, per evitare l'esplosione di una crisi senza sbocchi. Certo
i problemi non si risolvono col nascondere le parole sotto i
titoli-slogan dei telegiornali.
Domani, fra una settimana o un mese un altro
italiano verrà rapito davanti a una moschea o a un mercato e non ci
sarà più un Nicola Calipari a liberarlo.
Il fuoco è
nemico
LUCIANA
CASTELLINA
Ma insomma: quel
fuoco detto amico che ha ammazzato Nicola Calipari e che ha, con il
proiettile che ha attraversato il suo corpo, ferito Giuliana, era un
«agguato» o uno spiacevole «incidente»? La domanda ci arriva
pressante da insidiosi avversari ma anche da amici sinceri che
vogliono capire. Il perché di quanto è accaduto in quella manciata
di minuti di venerdì sera lungo la strada che porta all'aereoporto
di Baghdad non lo sapremo probabilmente mai con esattezza. Fra
l'altro perché quando di mezzo ci sono i militari americani, che, a
differenza dei comuni mortali, sono esentati dalla giurisdizione del
paese in cui si trovano e affidati al privilegiatissimo foro delle
loro forze armate, raramente si arriva a un processo vero, fondato
su indagini e prove. Il Cermis e i venti morti della funivia
falciata dagli allegri piloti Usa insegnano. Vorremmo comunque tutti
sperare che non ci sia stato un preciso ordine di sparare rilasciato
dai comandi americani: sarebbe così grave da far temere per la
civile convivenza.
Ma fra il crimine deliberato e l'incidente ci
sono una gamma di altre possibili opzioni (compresi gli ostacoli che
gli americani frappongono al riscatto degli ostaggi). Il termine
«incidente» fa infatti pensare a un fortuito infortunio, una assurda
casualità, un evento inaspettato e non aspettabile, un «chissà come
è potuto accadere». Così non è in questo caso; e questo già lo
sappiamo. Sull'auto che trasportava Giuliana e i due agenti del
Sismi - già oltre i check point, ad andatura moderata, segnalata
alle autorità Usa - i militari americani hanno sparato perché in
Iraq sparano - per colpire chi è a bordo e non alle ruote - come
facessero il tiro al piattello. Per la suprema arroganza di
occupanti, per il disprezzo della vita umana che sempre accompagna
le legioni imperiali. E' questo atteggiamento ad essere deliberato
ed è la cifra - centinaia ma forse migliaia - di altri disgraziati
sconosciuti, per lo più iracheni, che sono stati ammazzati nello
stesso modo, a impedire di definire quanto è accaduto «un
incidente».
Non si tratta di una causalità, bensì di una
norma. Si dirà che i giovani soldatini americani hanno paura, e a
ragione, di ogni cosa che si muove. Li capiamo: si trovano ad
operare in un paese che gli avevano detto che andavano a liberare e
invece scoprono che si tratta di un paese che gli è così ostile da
far loro temere anche delle ombre. Ma è proprio questa occupazione
che espone tanti giovani americani alla morte - e centomila volte di
più i loro coetanei iracheni - a non essere un incidente, ma un atto
deliberato: un «agguato» all'umanità. Per il quale non ci sono
scusanti. E un solo rimedio: farla cessare.
E a noi italiani impone di ritirare la nostra
spedizione militare, perché, oltretutto, la nostra presenza ha
l'aggravante di non contare niente. Il modo come è stato ammazzato
Nicola Calipari, non é deliberato, ma è almeno spensierato, prova
che veniamo addirittura sbeffeggiati. Ieri c'era tanta gente al
funerale di Nicola, chiamato ormai per nome anche da chi mai avrebbe
pensato di farlo con un uomo dei servizi segreti; tanta commozione
di popolo, sincera e non retorica: perché quell'uomo aveva
sacrificato la vita per salvarne un'altra, e cioè non per una
«patria» astratta, o peggio ambigua, ma per un essere umano
appartenente alla propria collettività storica e geografica, che è
poi la forma concreta e reale della nazione. Calipari ha fatto anche
di più che salvare una vita. L'impegno a liberare una giornalista è
stato anche un impegno a proteggere i giornalisti non embedded,
senza la cui sacrosanta «imprudenza» resteremo privi persino di una
briciola di verità.
La
Moldavia resta «comunista»
Il
voto nel «paese più povero d'Europa» conferma lo status quo
Ambiguità L'assalto dell'opposizione non
scuote il Pc di Voronin che ha giocato d'anticipo voltando la faccia
a Mosca per volgersi all'Ue
LUCIA SGUEGLIA*
La Moldavia non
è pronta per una rivoluzione di velluto. Ben altre le priorità e i
problemi, al momento attuale, per la piccola repubblica ex-sovietica
incastrata tra Romania e Ucraina che oggi vanta il triste primato di
«paese più povero d'Europa», sebbene le cifre nascondano più d'una
contraddizione. La rivoluzione oggi non fa comodo a nessuno. Questo
sembra essere il responso emerso dal voto di domenica scorsa, per il
nuovo parlamento moldavo. Ha retto bene (46%), pur perdendo terreno
come previsto, il Partito comunista del presidente Vladimir Voronin.
Non è bastato a scuoterlo l'assalto del blocco centrista «Moldova
Democratica» (Bmd) guidato dal sindaco di Chisinau, Serafim Urechean,
che nelle settimane precedenti il voto aveva tappezzato le strade
della capitale di manifesti arancioni che lo ritraevano mentre
stringeva la mano a Viktor Yushchenko. Né quello, più a destra, dei
Cristiano Democratici che sono saliti dal 4 al 9%. E' stata una
campagna elettorale forse troppo ambigua per gli elettori moldavi,
quella portata avanti dalle forze d'opposizione: liberal-democratici
a parole, ma supportati da Mosca nei fatti. Voronin, per
sconfiggerli, ha giocato d'anticipo: eletto nel 2001 alla guida del
paese con la promessa di rafforzare i legami con la Russia e
l'imposizione del russo come seconda lingua ufficiale, dopo qualche
tempo si è reso protagonista di un formidabile voltafaccia nei
confronti di Mosca. Più realista del re, il presidente di lingua
russa che viene dall'establishment sovietico si è d'un colpo
trasformato in alfiere della necessità di integrarsi nella Ue,
spiazzando i suoi avversari politici.
Contraddizioni e paradossi sono pane quotidiano
per un paese che da Mosca ancora dipende fortemente per i
rifornimenti energetici e per gli indispensabili investimenti
commerciali, ma che non gradisce più l'interferenza russa nei propri
affari interni.
Al centro della rottura con Mosca c'è una
piccola lingua di terra al di là del fiume Dniestr, che taglia
verticalmente il paese: la Repubblica autonoma di Transnistria,
proclamatasi indipendente da Chisinau nel 1992 dopo una sanguinosa
guerra civile, e tutt'oggi non riconosciuta internazionalmente. Con
l'appoggio del Cremlino (che vi mantiene le proprie truppe con
funzioni di peacekeeping) e sotto la guida dal padre-padrone Igor
Smirnov, l'anomalia del piccolo stato-fantasma filorusso (ma non a
maggioranza russofona) è cresciuta negli anni dandosi una bandiera,
visti, targhe e timbri propri. Oggi prospera sotto il manto di
simbologie sovietiche d'antan (un inno all'Urss che qui ancora vive)
grazie a traffici illeciti d'ogni tipo, armi in testa. Agevolati
dalla frontiera-colabrodo con l'Ucraina a est, che il governo di
Tiraspol controlla direttamente. Una situazione che ha attirato
sulla piccola Moldavia gli occhi di tutto il mondo, in prima linea
quelli degli Usa, interessati insieme alla Nato al contenimento
della Russia nell'area e che finora hanno contribuito al
mantenimento dello status quo. Ora, con i mutamenti avvenuti a Kiev
(Yanukovich mostrava simpatia per Tiraspol), qualcosa potrebbe forse
sbloccarsi.
In più di dieci anni la tensione determinata
dall'affaire Transnistria ha così determinato il progressivo
allontanamento da Mosca di Chisinau. La situazione è peggiorata nel
luglio 2004, quando Tiraspol ha preso di mira le scuole moldave
presenti in Transnistria con la minaccia di chiuderle: ree di
adottare una lingua e un curriculum di studi non allineato con i
programmi dello stato separatista, che prevedono l'obbligo del
cirillico. Una crisi tutt'oggi non risolta, nota come «la guerra
delle scuole». Il clima è poi tornato a farsi rovente a poche
settimane dalle elezioni, scandito da reciproche scaramucce e
minacce tra Mosca e Chisinau. Quest'ultima ha rifiutato di ammettere
osservatori russi e bielorussi al voto di domenica, espellendo 100
cittadini russi nella notte di sabato con l'accusa di «spionaggio».
Un no chiaro all'interferenza di Mosca. Che da parte sua, tramite un
pronunciamento ufficiale della Duma, ha risposto minacciando
Chisinau di sanzioni commerciali e revoca dei visti gratuiti per la
Russia.
8 marzo
Famiglie sempre più
in crisi
In un anno l'indebitamento medio è cresciuto quasi
del 15%
La media è intorno al 15%, ma ci sono picchi che superano il
20%. Stiamo parlando dell'incremento dei debiti delle famiglie del 2004 rispetto
all'anno precedente. Lo dice uno studio della Cgia, la confederazione generale
degli artigiani di Mestre, che ha messo a confronto i dati dell'indebitamento
delle famiglie nelle varie città con quelli dell'anno precedente. Lo studio è
aggiornato al 30 settembre del 2004, ultimi dati disponibili. I picchi massimi
si raggiungono in città come Crotone che registra un aumento dell'indebitamento
del 20,78%, a Caserta con il 20,60% e a Napoli con un incremento del 20,05%. I
dati raccolti dalla Cgil coprono tutto il territorio nazionale e descrivono con
una certa verisimiglianza quel fenomeno legato alle difficoltà economica, alla
diminuziuone delle occasioni di lavoro e in generale al rallentamento evidente
di tutte le attività produttive. Rallenta l'economia e scarseggiano i soldi e in
generale le risorse finanziarie. Sia le imprese, sia le famiglie sono costrette
a indebitarsi più di quello che accadeva negli anni passati. Se si vanno ad
analizzare i dati per città, si possono scoprire elementi interessanti. Il primo
elemento riguarda le cifre assolute dell'indebitamento. La cifra media che i
nuclei famigliari devono restituire alle banche è di 11.837,81 euro. Ovviamente
le cifre variano da città a città e non c'è solo il sud in grande affanno. A
Bolzano, per esempio, la cifra dell'indebitamento medio si attesta sui 17.842,89
euro, 17.791,02 a Milano e 16.509,68 a Rimini.
Nord e sud, a proposito di indebitamento, si mescolano nella stessa sorte o
almeno in una sorte molto simile. Ai primi tre posti delle città che si sono
indebitate di più nel 2004 rispetto al 2003 ci sono tre realtà del sud, Crotone,
Caserta e Napoli. Ma al quarto posto già troviamo una città del nord, vale a
dire Padova, con un indebitamento medio famigliare che è cresciuto del 19,76%.
Al quinto posto c'è la provincia di Pesaro e Urbino con un 19,69%. Anche altre
città del nord sono piazzate molòto bene nella classifica degli indebitati. C'è
per esempio Varese, ma ci sono anche Lecco e Genova.
Se si vanno a confrontate le cifre assolute dell'indebitamento delle famiglie
italiane, scopriamo che Roma è piazzata molto bene in classifica con 16.428,66
euro di indebitamento medio per famiglia, subito dopo Bolzano, Milano e Rimini.
Al contrario, alla base della graduatoria, come città con meno indebitamento ci
sono le famiglie di Vibo Valentia. Per loro si registra infatti il record più
basso con una cifra meglie di 5.011,63 euro.
«Senz'altro - spiega il segretario della Cgia di Mestre, Bortolussi - l'aumento
dell'indebitamento medio delle famiglie è da imputare alla situazione di
difficoltà economica».
Cortei e mimose al made in
Italy
Fermi aghi e forbici I lavoratori tessili e
calzaturieri preparano lo sciopero nazionale dell'8 marzo: «Chiediamo regole,
innovazione e ammortizzatori». Le imprese contro
ANTONIO SCIOTTO
Un otto marzo che parla di globalizzazione, quello di quest'anno:
in tutta Italia scenderanno in piazza i lavoratori - e soprattutto le
lavoratrici, largamente preponderanti nel settore - di abbigliamento, pelli e
calzature. In profonda crisi, specialmente avvertita negli ultimi due anni,
chiedono garanzie e regole contro la delocalizzazione delle produzioni.
Principali «imputati» paesi come Cina e Romania, dove vengono sempre più
appaltati pezzi di fabbricazione di magliette o scarpe da ginnastica a scapito
delle nostre aziende, ma i veri destinatari delle proteste sono le imprese e il
governo, ai quali viene chiesto un particolare sforzo in un periodo di
emergenza. Pochi dati parlano per tutti, e sono stati diffusi ieri da Valeria
Fedeli, segretario generale della Filtea Cgil: «Nell'intero sistema Moda -
spiega - lavorano circa 850 mila persone in Italia, prevalentemente donne. Ma 56
mila posti di lavoro sono stati persi solo negli ultimi due anni. E a rischio
per il 2005 ce ne sono altri 90 mila». «È uno sciopero simbolico, fatto l'8
marzo, festa della donna, per un settore in cui la maggioranza degli addetti
sono appunto donne - aggiunge il responsabile Cgil - Lavoratrici orgogliose del
proprio ruolo, delle propria capacità e competenza. Ma con il pesante rischio di
perdita del posto, con una preoccupante prospettiva di non trovarne altri».
All'annuncio dello sciopero ieri ha risposto - negativamente - il mondo delle
imprese, che pure nei giorni scorsi aveva lanciato l'allarme tessile insieme ai
sindacati e aveva aderito alla raccolta di 100 mila firme per chiedere il
sostegno del settore: «Pur comprendendo che l'iniziativa è motivata anche dalla
difesa dei posti di lavoro messi in pericolo dalla forte e non sempre leale
concorrenza internazionale, ribadisco che gli imprenditori non condividono la
scelta dello sciopero e lo considerano come uno strumento improprio per la
soluzione di questi problemi», spiega Roberto Calimani, presidente del Crital
(consiglio relazioni industriali tessile-abbigliamento-moda). «La motivazione
dello sciopero in "sostegno al made in Italy" - prosegue - se pure tende a
comprimerne la valenza dialettica, non ci esime dall'obbligo di esprimere una
forte censura per il disagio che emerge da comportamenti non coerenti con i
percorsi comuni da anni perseguiti». «Questo sciopero - ha concluso Calimani -
danneggia le imprese e rischia di pregiudicare l'esito del difficile percorso
unitario, facendoci apparire divisi di fronte al governo italiano e alla Ue».
Quanto alla piattaforma dello sciopero, secondo Cgil, Cisl e Uil «occorre un
rilancio competitivo che rinnovi i punti di forza della moda italiana:
innovazione, qualità, ricerca, creatività, competenza professionale». Servono
inoltre «l'etichettatura obbligatoria di origine dei prodotti, la tracciabilità
dei processi produttivi. E sono necessarie la lotta alla contraffazione e alle
frodi, oltre a regole - diritti e tutele - chiare e condivise per le produzioni
e gli scambi internazionali». I sindacati chiedono infine «strumenti di accesso
al credito e finanziari, riduzione dei costi del lavoro e difesa dei livelli
retributivi, sostegno alla ricerca e all'innovazione tecnologica, incentivi e
sviluppo della formazione continua, la creazione di un sistema efficace di
ammortizzatori sociali».
Ieri sono stati diffusi i dati dell'Abruzzo: negli ultimi anni, 2.522 lavoratori
in mobilità su 25 mila addetti complessivi, e nel 2004 ben 290.245 ore di cassa
integrazione nel settore tessile e 673.130 ore in quello del vestiario,
abbigliamento e arredamento. Ma manifestazioni si stanno preparando nei
principali distretti tessili e calzaturieri italiani; i tre segretari generali
di Cgil, Cisl e Uil parleranno a Biella, Prato e Como.
3 marzo
Paghi 500mila euro e sei un boss di Forza Italia
Marcella Ciarnelli
Fare la “ola” seduto al fianco
di Silvio Berlusconi ad una partita del Milan o dividere con il
presidente del Consiglio un piatto di pennette tricolore cucinate dal
fido cuoco Michele oppure partecipare ad incontri privati sempre con il
leader incontrastato costerà cinquecentomila euro. Proprio un miliardo
delle vecchie lire tanto care al premier che non riesce a nascondere la
sua difficoltà a far di conto con la moneta europea. La clamorosa cifra
è quella che dovrà essere disposto a spendere un imprenditore che
venisse colto dall’irresistibile desiderio di sostenere economicamente
Forza Italia.
In cambio del salasso, oltre
alle visioni sopra descritte, avrà diritto anche ad incontrare i
dirigenti nazionali del partito e i ministri azzurri, ad avere un
accesso riservato nelle manifestazioni ed anche una sala personale nella
sede del partito. È questo il massimo dell’esborso previsto da un
progetto che ha avuto l’ok del premier che ha trovato un modo per non
essere sempre e solo lui a dover mettere le mani nel portafoglio.
L’iniziativa per ora sarà sperimentata in Lombardia ma, negli intenti di
chi lo ha elaborato, è destinato ad espandersi in tutt’Italia a macchia
d’olio, in modo da poter affrontare le elezioni dell’anno prossimo con
le casse ben ricolme.
I cinquecentomila euro sono la
meta per pochi. Per gli imprenditori più taccagni sono state previste
adesioni che vanno dai centomila euro a salire, su, su, fino a
trecentomila. Dietro la categoria Paperoni è prevista anche la fascia
dei semplici tesserati. L’offerta è diversificata in tre possibilità:
tessera d’argento in cambio di mille euro, d’oro per tremila, di platino
per cinquemila. Il valore sarà a scalare, come la ricarica dei
telefonini. Berlusconi questi non lo vedranno neanche col cannocchiale.
Si dovranno accontentare, al massimo, di un panino con Sandro Bondi o di
una conversazione a quattr’occhi con la Gardini fino ad un accesso
riservato in un non meglio definito sito internet.
I vertici di Forza Italia si
augurano che gli «Amici azzurri» o, meglio, gli imprenditori di
collegio, secondo la logica tanto cara al presidente del Consiglio,
siano i più numerosi possibili. Quanti sono i consiglieri regionali che
vorrebbero essere più presenti nelle vita del partito e quanti
imprenditori sarebbero disposti a tutto pur di stare un passo indietro
al collega che ha conquistato Palazzo Chigi Pagare per esserci. Questa
la stringente logica mercantile che poco ha davvero a che fare con la
politica che pure viene evocata dai promotori dell’iniziativa quando
parlano della necessità di «recuperare lo spirito del ‘94 coinvolgendo
la base per dare nuovo slancio al movimento». Data l’entità delle cifre
proposte più che di base sarebbe il caso di parlare di altezza.
La ricca proposta che
evidentemente non tiene in alcun conto la situazione economica della
maggior parte degli italiani (ma il premier va dicendo che tutto va
bene) è stata elaborata da Paolo Romani, coordinatore di Forza Italia in
Lombardia, con la collaborazione di Luciano Vadacca, consigliere
comunale di Basiglio nonché manager d’azienda. Una volta sperimentata in
terra lombarda sarà esportata nelle altre regioni «con criteri diversi
naturalmente perché la Basilicata ha esigenze diverse dalla Lombardia».
Fosse solo perché la partita con il Milan non può essere giocata data
l’assenza di una squadra della regione in serie A.
«Vogliamo recuperare lo spirito
del ‘94 e dare nuova vita a quella spinta propulsiva che animò Forza
Italia quando nacque» spiega ancora Romani che illustra con dovizia di
particolari l’operazione di «found raising», cioè di raccolta fondi «per
le prossime campagne elettorali nella maniera più virtuosa possibile».
«Puntiamo a coinvolgere la base del partito mantenendo un filo diretto
con i vertici. Vogliamo conquistare consensi e ridare voce alla gente,
non solo agli iscritti, agli eletti e ai militanti ma a tutti coloro che
si riconoscono nei nostri ideali» aggiunge il Vadacca. Ci vuole poco.
Basta pagare. |
La vittoria di un giorno e l’interesse italiano in Europa
Dario Di Vico
Antonio Fazio ha vinto. Il patto
stipulato con il capo del governo Silvio Berlusconi nell’ormai famoso
pranzo del 14 gennaio a Palazzo Chigi ha retto alla prova dell’aula di
Montecitorio. Nella nuova legge per il risparmio non sarà introdotto il
mandato a termine per il governatore e i controlli antitrust resteranno
- praticamente unico caso in Europa - in capo a Via Nazionale. Meglio di
così per il partito «fazista» non poteva andare, i falchi hanno prevalso
nettamente sulle timide colombe e ogni ipotesi di mediazione sull’una
come sull’altra materia è stata forzosamente derubricata. Fazio non ha
preso nemmeno in considerazione l’idea di varare un’autoriforma dei
poteri del governatore ispirata ai dettami della Bce. Voleva conseguire
una vittoria sul campo e l’ha ottenuta anche a costo di un’ulteriore (e
nefasta) politicizzazione del confronto sulle competenze della banca
centrale. Ma si tratta della vittoria di un giorno, di un successo
effimero che non stabilizza il credito made in Italy. Anzi lo espone a
nuovi rischi. Negli ultimi tre lustri, seppur tra lacune, omissioni e
con gli inevitabili ritardi, la legislazione finanziaria ha fatto grandi
passi in avanti. E’ riuscita comunque a modernizzarsi. Basta pensare
alle norme sulla tutela della concorrenza, a quelle che regolano
l’attività delle Sim, ai testi unici sul credito e sulla finanza. Era
urgente dotarsi di una moderna e condivisa legge sul risparmio che
rispondesse alla necessità di europeizzare il sistema ma anche che
riaprisse un canale di comunicazione con l’opinione pubblica e i
risparmiatori. Di fronte a queste esigenze l’istituzione Banca d’Italia
si è arroccata a difesa delle sue prerogative anche quelle più
anacronistiche come il mandato a tempo indeterminato, mentre avrebbe
dovuto muoversi in direzione di una maggiore liberalizzazione e di una
rimozione dei conflitti di interesse esistenti. Non è stato così e per
il provvedimento che uscirà dalle Camere onestamente si fa fatica a
usare la parola riforma. Volendo essere benevoli si può solo dire che si
è trattato dell’ennesima occasione mancata.
Quella di Fazio è la vittoria d’un giorno perché non ha saputo e voluto
creare le condizioni di un ordinato ricambio al vertice della banca e
non ha posto le premesse di una politica flessibile e intelligente
capace di affrontare il nodo rappresentato dalle inevitabili fusioni
bancarie cross border. La difesa dell’interesse italiano in Europa passa
attraverso un nuovo giro di aggregazioni (che il governatore osteggia)
tra i nostri maggiori istituti creditizi e un dialogo aperto con la Ue
sui criteri, i tempi e le modalità dell’apertura delle frontiere. Il
muro contro muro con Bruxelles non ci aiuta, quando sarà lampante che
siamo l’anello debole della catena protezionistica forse sarà troppo
tardi per correre ai ripari. |
Dopo concorsi pilota, esami venduti e test
truccati, nel mirino
dei magistrati ci sono ora decine di casi di nepotismo
L'università affare di famiglia
A Bari mogli e figli in cattedra
di ATTILIO BOLZONI
BARI - La stanza numero 24 è
quella del professore Giovanni Tatarano, ordinario di Diritto
privato. Suo figlio Marco insegna lì accanto, nella stanza numero 4.
Sua figlia Maria Chiara riceve gli studenti proprio di fronte a
papà, nella stanza numero 12.
Tutta la famiglia in un corridoio. E non come quegli altri, che si
sono sparpagliati invece su quattro piani e sopra cinque cattedre.
Quegli altri che si chiamano Dell'Atti, tutti parenti, tutti
docenti.
Ma mai tanti e mai tanto esimi come i Massari, nove tra fratelli e
nipoti e cugini, probabilmente la tribù accademica più numerosa
d'Italia. Benvenuti all'Università di Bari, benvenuti nella città
dove in pochi intimi si spartiscono il sapere e il potere.
Buongiorno, dov'è la stanza del professore Girone? "Girone chi?",
risponde spazientito il vecchio custode di Economia e Commercio.
Girone Giovanni il Magnifico Rettore o Girone Raffaella che è sua
figlia?, Girone Gianluca che è suo figlio o Girone Sallustio Giulia
che è sua moglie? In ordine, stanza numero 3, stanza numero 26,
stanza numero 58, stanza numero 13. E aggiunge, sempre più
infastidito il custode: "Poi se vuole parlare con un altro parente
stretto dei Girone, ci sarebbe pure il dottore Francesco Campobasso,
associato di statistica, che è il marito della professoressa
Raffaella, quinto piano, stanza numero 19".
E' cominciato così il nostro viaggio in quel labirinto che è
l'Ateneo pugliese, concorsi pilotati, test truccati, esami comprati
e venduti, tentate estorsioni e una Parentopoli che è ormai al di là
del bene e del male. Lo scandalo sta dilagando. E a Bari, per la
prima volta la razza barona trema. Sussurri, voci, grida. Si sta
scoprendo un vero verminaio nell'Università dalle più antiche
tradizioni delle Puglie. Facoltà dopo facoltà, dipartimento dopo
dipartimento. E anche sotto la spinta di una valanga di anonimi.
Sono tanti i Corvi che volano nel cielo di Bari in queste settimane
di paura. Raccontano di tutto e di tutti, spiegano in lunghe lettere
(con tanto di allegati grafici e di alberi genealogici) come una
mezza dozzina di clan accademici hanno allungato le mani
sull'Università. "Arrivano ogni mattina sulle scrivanie dei
sostituti con la posta prioritaria", confessa il procuratore
aggiunto Marco Dinapoli, il magistrato che coordina le indagini
sulla pubblica amministrazione. Denunce di combine nelle commissioni
esaminatrici, nomi, cognomi, favori incrociati per piazzare di qua e
di là consanguinei o amanti, fidanzati e generi. Ci sono inchieste
aperte dappertutto. A Veterinaria e a Matematica, a Scienze delle
Comunicazioni, a Cardiologia, a Ginecologia, a Genetica, al
Politecnico. Ma è Economia e Commercio - dove il rettore Giovanni
Girone è ordinario di Statistica - che è il cuore della razza barona
barese, è in quell'edificio grigio a cinque piani il suq delle
cattedre.
Sono tutte qui le grandi famiglie accademiche, tutte super
rappresentate a cominciare da quella del Magnifico fino agli
illustrissimi Massari, tre fratelli - Giansiro, Lamberto e Lanfranco
- e poi un nugolo di figli ricercatori. Concorsi a regola d'arte,
carte naturalmente sempre a posto come vuole la legge. Tanto a
vincere sono soprattutto i parenti. Il preside della facoltà si
chiama Carlo Cecchi e allarga sconsolato le braccia: "A me i
professori me li regalano le commissioni aggiudicatrici dei
concorsi: cosa posso fare io? Io non sono mai stato nelle
commissioni di esami".
Senza vergogna e senza pudore una dozzina di clan accademici, anno
dopo anno, si sono impadroniti dell'Ateneo. "E' come se ci fosse
stata una competizione tra alcuni professori a chi riusciva a
collocare più membri del proprio gruppo familiare", commenta Nicola
Colaianni, ex magistrato di Cassazione, il docente di Diritto
pubblico nominato dal senato accademico a presiedere una commissione
d'inchiesta sui buchi neri dell'ateneo. La sua relazione finale
l'altro ieri è finita dritta dritta alla procura della Repubblica.
Ci sono i clan ad Economia e Commercio e ci sono quelli al
Policlinico, altro girone infernale della cultura universitaria
pugliese. Clan e ancora clan, lo scambio di promesse per un posto di
ricercatore o di associato, i figli e i nipoti tutti specializzandi,
sempre gli stessi nomi che occupano le stesse cattedre: i Ponzio a
Lingue, i Foti al Politecnico e via via tutti gli altri. Fino alle
grandi famiglie dei "professori" del Policlinico. Quasi tutti hanno
trovato un dottorato di ricerca o un incarico nella stessa clinica
del padre o dello zio o del cugino. A Psichiatria. A Ortopedia. A
Neurochirurgia. A Endocrinologia. A Chirurgia generale. Un elenco
infinito. Con il 40 per cento circa dei figli dei primari nella
stessa facoltà dei padri e, molto spesso, nella stessa struttura
operativa. Con l'età dei "fortunati" parenti a volte molto sospetta,
mediamente dieci anni più bassa di quella dei loro colleghi senza
blasone.
Privilegi di casta e anche qualcosa di più. Come quell'holding che
gestiva concorsi con il trucco a Cardiologia, il fondatore della
scuola barese Paolo Rizzon arrestato per associazione a delinquere
"finalizzata al falso e alla corruzione", secondo i giudici un
componente di rango di una sorta di Cupola che "dirigeva" gli affari
della cardiologia. E non solo in Puglia. O come il primario di
Ginecologia e ostetricia Sergio Schonauer, indagato per avere votato
una commissione che avrebbe dovuto giudicare suo figlio Luca per un
posto di ricercatore nella sua stessa clinica. E' la prepotente
"normalità" di questa Bari universitaria che si sente impunita, è
l'intrigo alla luce del sole, l'omertà delle complicità estese.
Rettore, ma cos'è questa sua Università, una sola
grande famiglia? Prima Giovanni Girone travolge con la sua mole un
gruppo di giornalisti e si fa sfuggire un magnifico "vaff...", poi
si scusa, minaccia la solita querela a chiunque parli o scriva dei
suoi e degli altri parenti cattedratici, finalmente si placa e ci fa
entrare nella sua stanza. Alle sue spalle due grandi foto, una di
Padre Pio e l'altra di Aldo Moro. E alla fine Girone sospira: "I
nomi non c'entrano, i concorsi o sono corretti o non sono corretti.
E nel caso di mia moglie e dei miei figli è stato tutto
regolarissimo: quel che conta è soltanto la produzione scientifica".
Così parla il Magnifico rettore dell'Università di Bari, l'ateneo
delle grandi tribù.