Archivio Aprile 2005

 

 

28 aprile

MESSICO
La marcia trionfale di Lopez Obrador
GIANNI PROIETTIS
Con più di un milione di partecipanti, che hanno sfilato domenica mattina dal museo di antropologia alla piazza dello Zocalo, la «marcia del silenzio» a favore del sindaco della capitale, Andrés Manuel Lopez Obrador (Amlo), è passata in poche ore dalle cronache alla storia. E lo ha consacrato come il candidato naturale della sinistra alle prossime elezioni presidenziali del 2006, paladino di «un nuovo progetto di nazione». Chi ha stretto i denti e deve stare cominciando a preoccuparsi seriamente è il presidente Fox, che ha investito tutto - anche la poca credibilità che gli rimaneva - per eliminare dalla scena politica il popolare Amlo e ha ottenuto solo l'effetto opposto, trasformandolo in martire ed eroe e avvicinandolo di un altro passo alla presidenza.

Quando Lopez Obrador fu eletto sindaco di Città del Messico, nel 2000, si parlò di voto incrociato: la presidenza era andata a Vicente Fox, candidato del Pan, il partito della destra cattolica, mentre il Prd, di centro-sinistra, manteneva l'amministrazione della capitale. Si celebrò con ottimismo la caduta del Pri, il partito-stato da 72 anni al potere.

Ma il «voto utile», che aveva convogliato verso Fox perfino i suffragi di molta sinistra light, fu presto deluso da un presidente che continuava a credersi in campagna, collezionando gaffes, scandali e insuccessi. Anche il governo nordamericano, cui piaceva il passato cocacolero di Fox, è rimasto scontento dai pochi risultati.

Al contrario, le azioni di Lopez Obrador, secondo sindaco eletto della capitale, non hanno smesso di salire, generando incubi nell'establishment messicano. Dopo essere stato nominato per 70 anni direttamente dal presidente della repubblica, il sindaco della capitale ridiventava finalmente un rappresentante legittimo della cittadinanza. E Amlo, in questi cinque anni, ci ha saputo fare: opere pubbliche popolari, sussidi agli indigenti della terza età, un nuovo stile di governo.

Ma da quando, più di un anno fa, Lopez Obrador, un vedovo 50enne con tre figli originario dello stato di Tabasco, è andato in testa a tutte le inchieste sui presidenziabili - e non ha smesso di salire - si è fatto sempre più pesante il fuoco incrociato del Pri e del Pan sulla sua amministrazione. Un segretario delle finanze sorpreso da una candid camera mentre si gioca milioni a Las Vegas, un alto esponente del Prd della capitale filmato mentre riceve finanziamenti illegali per il partito dal faccendiere argentino Carlos Ahumada e altri scandali di questo tipo - tutti editati in video - hanno screditato il Prd ma non sono riusciti a intaccare la popolarità di Amlo.

È allora che il presidente Fox, in combutta con l'oligarchia politica e industriale patrocinata dall'ex presidente Carlos Salinas, decide di sferrare l'attacco finale e sceglie la strada giudiziaria. Per non aver rispettato una sentenza che ordinava al comune di sospendere la costruzione di una strada su terreni privati, il sindaco si è visto coinvolto in un processo il cui unico fine evidente è quello di impedirgli di partecipare alle prossime elezioni.

Dominato dall'ossessione di eliminare il forte candidato della sinistra - i presidenziabili del Pan e del Pri, filoamericani di provata fede neoliberista, non hanno un quarto del carisma di Amlo - il presidente Fox ha imboccato un vicolo cieco, mettendo a repentaglio la nascente democrazia e polarizzando innecessariamente il paese.

Definita «colpo di stato preventivo», «frode elettorale anticipata», la persecuzione legale contro Lopez Obrador è stata criticata perfino dal clero messicano, dalla grande stampa, da funzionari statunitensi, ha lasciato il governo Fox come un «re nudo» di fronte alla comunità internazionale e ha attizzato un movimento per la difesa della democrazia, riattivando la speranza di un'alternativa di sinistra. Proprio ora che il Prd era in crisi. Il 7 aprile scorso, 360 parlamentari del Pri e del Pan, votando la sospensione dell'immunità a Amlo e dando luce verde al processo contro di lui, hanno siglato una vergognosa conventio ad excludendum di spalle alla società. Non hanno solo tolto l'immunità al sindaco, lo hanno addirittura, in un eccesso legislativo, rimosso dalle sue funzioni, in spregio alla volontà degli elettori. Il Prd ha presentato un ricorso alla Corte suprema proprio su questo punto. E la questione è sub judice, anche se il potere giudiziario non brilla per la sua autonomia.

Eppure, paradossalmente, la chiusura dei tre poteri sta dando voce e muscoli alla società civile. La Coordinadora Nacional Ciudadana en defensa del voto popular, diretta dalla scrittrice Elena Poniatowska, dalla pubblicista Berta Maldonado e dai deputati Martí Bartes e Ortiz Pinchetti, ha redatto un calendario di iniziative e ha già ottenuto la solidarietà della Izquierda Unida spagnola, della gauche francese, del Pen Club riunitosi a New York, di intellettuali di tutto il mondo, Eduardo Galeano e José Saramago per primi. Le comunità messicane hanno manifestato in una ventina di paesi. Molti, come gli zapatisti, non avrebbero votato per Lopez Obrador. Ma adesso...

L'opzione di sinistra saprà ridiventare maggioritaria, come nel 1988? Domenica, dopo più di due ore di corteo, la folla non è riuscita a entrare tutta nello Zocalo. Solo il subcomandante Marcos e i delegati zapatisti, nel 2001, avevano richiamato una tale moltitudine. Centinaia di organizzazioni politiche, sindacali, attivisti e cittadini, più di un milione di persone hanno sfilato in ripudio del governo Fox e del suo maldestro attentato all'incipiente democrazia. Andrés Manuel Lopez Obrador, l'oppositore che tranquillizza la borsa e garantisce la stabilità contro i colpi di testa presidenziali, ha preso la parola nello Zocalo per proporre un accordo nazionale, per portare avanti una vera trasformazione del paese, per difendere la democrazia.

 

LAVORO: ALLARME ILO, 2,2 MLN MORTI L'ANNO PER INCIDENTI

Circa 2,2 milioni di persone nel mondo muoiono ogni anno per incidenti o malattie causati dal lavoro. E' l'ultimo dato allarmante dell'Ilo, l'organizzazione internazionale del Lavoro con base a Ginevra, che in un rapporto preparato in occasione della Giornata mondiale per la Salute e la sicurezza sul lavoro, riporta un totale di incidenti correlati al lavoro nel mondo pari a 270 milioni l'anno a cui si aggiungono 160 milioni di vittime annuali di malattie contratte sul posto di lavoro. Molti e incidenti sul lavoro sono aumentati soprattutto nei paesi emergenti e in particolare in Cina dove 477.000 persone all'anno muoiono sul posto di lavoro e dopo tra il 1998 e il 2001 gli incidenti fatali sono saliti da 73.500 a 90.500 l'anno. Nei paesi industrializzati le morti per lavoro viaggiano intorno 297.000 l'anno un numero che viene superato dall'India che conta annualmente 302.00 vittime di incidenti e malattie sul lavoro.


27 aprile

La guerra dell'Italia
contro Fatawu Lasisi



Sono passati nove mesi da quando la Cap Anamur, la nave dell'omonima organizzazione non governativa tedesca, riuscì finalmente ad approdare a Porto Empedocle dopo aver vagato per tre settimane e mezzo nel Mediterraneo col suo carico di trentasette naufraghi. La spaventata fermezza del governo italiano, l'indifferenza di quello tedesco, il consueto atteggiamento da pesce in barile di quello maltese, chiarirono all'Europa e al mondo la distanza siderale tra i principi delle convenzioni internazionali e la loro applicazione concreta in Europa.

Sono passati nove mesi e di trentacinque di quei trentasette uomini non si sa più nulla. Una decina di giorni dopo lo sbarco, furono rispediti negli Stati dai quali - secondo il giudizio insindacabile di due esperti in "riconoscimento ad occhio" della nazionalità - erano partiti: il Ghana (per trenta di loro) e la Nigeria (per altri cinque). Dei due restanti, solo uno, un ragazzo nigeriano di fede cristiana, ha ottenuto l'asilo. L'altro, Fatawu Lasisi, non ha ottenuto niente: vive in Italia da clandestino e comincia ad intuire di non essere una persona ma il simbolo del caso Cap Anamur. Il simbolo di una vergogna.

Ecco, è questo banalmente il problema: a Roma, ospite di un'associazione umanitaria, esiste un ragazzo di 25 anni che, suo malgrado, è diventato un simbolo. E c'è un governo, quello italiano, che ha avviato contro il simbolo una battaglia legale che sta distruggendo l'uomo.

La battaglia cominciò, contro quasi tutti i naufraghi, subito dopo lo sbarco. Con l'esclusione del nigeriano di fede cristiana e di un ragazzo che affermò d'essere nato nella Sierra Leone, gli altri dissero di provenire dal Sudan, regione del Darfour, dove è in corso una feroce guerra civile. Proprio per via di questa guerra, è molto complicato negare ad un sudanese lo status di rifugiato. Si trattava dunque di verificare se i naufraghi dicevano il vero. Fu allora che comparvero gli esperti in "riconoscimento ad occhio": il console del Ghana e quello della Nigeria. Parlarono per qualche minuto coi migranti, fecero domande del tipo: "Chi è il presidente del Sudan?" (e a quanto pare ebbero anche risposte corrette) e alla fine decisero che di sudanese non ce n'era nemmeno uno. Sulla base di questo esame, l'Italia decise di espellere tutti.

Fatawu Lasisi, per motivi che non sono mai stati chiariti, non partì. Quando, alla fine del luglio scorso, i suoi compagni furono caricati a forza sugli aerei, restò a terra. Una dimenticanza? Un errore burocratico? Un aereo troppo piccolo? Chissà. Certo è che fu in quel momento che Fatawu divenne, suo malgrado, un simbolo.

Quando, il 28 luglio 2004 il tribunale di Roma si riunì per valutare i ricorsi che tutti i naufraghi della Cap Anamur avevano presentato contro le espulsioni, le stesse espulsioni erano state appena eseguite. Era venuta meno, dunque, la ragione del contendere. Sarebbe finita così, con un'archiviazione, se la presenza in Italia di Fatawu non avesse obbligato i giudici ad esaminare l'intera vicenda per decidere sul suo caso. La decisione fu che, nella attesa della conclusione degli accertamenti sulla vera nazionalità, Fatawu aveva diritto di restare in Italia. Siccome la sua situazione era identica a quella degli altri, in quel momento la magistratura italiana affermò che le espulsioni erano state illegittime. Ecco la vergogna.

Fatawu ne è la rappresentazione vivente. Subito dopo la decisione del tribunale ci fu un tentativo di trattenerlo nel Centro di Permanenza temporanea di Ponte Galeria, a Roma, dove nel frattempo era stato recluso. I suoi legali, gli avvocati Fabio Baglioni e Simona Sinopoli, dovettero minacciare una denuncia penale contro i funzionari del ministero. Solo allora la decisione del giudice fu messa in atto e Fatawu ebbe un permesso di soggiorno provvisorio. Ma l'onta andava cancellata. Il ministero dell'Interno presentò un ricorso e questa volta il tribunale lo accolse sulla base del fatto che Fatawu non riusciva a provare d'essere sudanese.

L'onere della prova, a quanto pare, spetta a lui. Ed è noto come funziona bene l'anagrafe nei paesi africani, in particolare quelli dove è in corso una guerra civile.

L'accoglimento di quel ricorso è all'origine dell'attuale situazione. Il permesso provvisorio è scaduto lo scorso 31 ottobre e non è stato rinnovato. Da allora Fatawu è un clandestino. Questo benché sia stata già fissata, per il prossimo giugno, l'udienza della causa sulla concessione dell'asilo politico. In pratica potrebbe ripetersi, per il solo Fatawu, quello che è successo nel luglio scorso agli altri suoi compagni di sventura: prima ti espello, poi ti dico che avevi ragione. Nello specifico l'aver ragione significherebbe che Fatawu Lasisi, nato in Sudan il 6 marzo del 1980, emigrato con la famiglia in Ghana all'età di tre anni, figlio d'un leader musulmano moderato ucciso per il suo impegno politico, ha diritto a non essere rimesso nelle mani dei suoi carnefici.

Strano, per cancellare una vergogna se ne compie un'altra. D'altra parte, come disse all'epoca il ministro leghista Castelli, l'Italia non può correre il rischio di apparire "il ventre molle dell'Europa".


 

23 aprile

 
 
Il 25 aprile e il fattore D
di Piero Sansonetti
Il 25 aprile - idealmente - nacque la Repubblica, e iniziò il cammino dell'Italia moderna. Lunedì festeggiamo il sessantesimo. In un clima, però, di polemiche infuocate. E' una particolarità italiana, questa: negli altri paesi la festa nazionale è un giorno di celebrazioni, solenni, patriottiche, spesso un po' o parecchio retoriche: punto e basta. Pensate al 4 luglio in America o al 14 luglio in Francia. Si fanno i fuochi di artificio, qualche discorso, qualche ragionamento sulle radici della democrazia americana o francese. A nessun americano verrebbe in mente di dire: "Però, stiamo attenti, noi abbiamo il dovere di ricordare non solo la rivoluzione americana ma anche i soldati inglesi che caddero per difendere la corona... ". E nessun francese potrebbe mai pensare che il 14 luglio, oltre a commemorare la presa della Bastiglia, bisognerebbe anche rendere omaggio a Luigi XVI, a Maria Antonietta e alla gloriosa monarchia che fu abbattuta dai rivoluzionari francesi quel giorno. Com'è che invece da noi, ogni volta, si apre una polemica? In realtà é da una decina d'anni che questo avviene, prima non era quasi mai così. Il motivo, se vogliamo dire le cose come stanno, è abbastanza semplice: la destra italiana non sente il 25 aprile come una festa sua, non lo ha mai sentito, perchè ritiene che in quella data una alleanza tra l'esercito americano e i democratici e i comunisti italiani sconfisse la destra storica: cioè il fascismo, Mussolini, la repubblica di Salò. E quindi considera il 25 aprile una festa politica e non nazionale, una festa di parte, e fondamentalmente una festa di sinistra. La questione è tutta qui. E si ingigantisce in un momento, come quello attuale, nel quale la destra è al governo e quindi i suoi dirigenti, che sono rappresentanti dello Stato, si trovano in contrasto ideale con il 25 aprile e dunque con le solenni celebrazioni nazionali, popolari o di stato.

Ma se le cose stanno così - e chiunque abbia un po' di buonsenso e di onestà intellettuale lo capisce - cosa c'entra la sinistra con tutto questo, e perché tirarla in mezzo alle polemiche? Ieri anche la Stampa, con un editoriale di Lucia Annunziata, ha posto il problema in questi termini. Ha scritto che la sinistra e la destra si azzuffano sul 25 aprile perché ciascuno vuole strumentalizzarlo a suoi fini politici. Non è così. La sinistra vuole celebrare una vittoria politica e storica del popolo italiano, che contribuì in modo determinante a far cadere il fascismo e a scacciare l'esercito di occupazione tedesco. Cosa c'è di strumentale? Il fatto che la maggioranza dei partigiani fosse comunista o socialista è una colpa della sinistra?

Se vogliamo affrontare seriamente il problema dobbiamo dire che in Italia è aperta da dieci anni una questione molto seria: la questione della destra. Il fattore "D". La destra ha assunto - dopo mezzo secolo di emarginazione - funzioni di governo, ma che non ha ancora trovato la forza politica e culturale per affrontare il suo passato e per tagliare nettamente con esso. Resta, più o meno consapevolmente, più o meno volontariamente, erede del fascismo, non sa rinunciare a questa eredità. Sente la lotta tra partigiani e fascisti come una guerra civile dove ragioni e torti si equilibravano, e in questo modo non riesce a entrare a pieno titolo dentro la storia nazionale di questa Repubblica. Non vuole ammettere - non ci riesce - che questa è una Repubblica antifascista. E' un problema che sicuramente non esiste né in Francia né in America, perché la destra francese e americana non è mai stata compromessa col nazifascismo e anzi ha contribuito a combatterlo.

Quanto prima la destra italiana riuscirà a superare questo suo problema, tanto più renderà limpida e facile la lotta politica con la sinistra. E sarà più forte. Finché non riuscirà a compiere questo passo (a dire a voce alta: "viva la resistenza antifascista") e continuerà ogni volta a contrapporre anticomunismo e antifascismo, resterà "minorata", cioè non pienamente libera politicamente. Il problema è loro, non è della sinistra.

E per fare questo, la destra deve uscire dal suo stereotipo. Cioè dall'idea che si possano mettere sullo stesso piano antifascismo e anticomunismo. No, non si può. Perché? Per questa ragione: in Italia il partito fascista ha soppresso la libertà e portato il paese alla rovina, e lo ha consegnato ai nazisti; il partito comunista, viceversa, ha avuto una parte enorme nella battaglia che ha portato a riconquistare la libertà, e poi a costruire, e a difendere, per 50 anni, la democrazia italiana e lo Stato di diritto. Non mi pare che sia difficilissimo afferrare e condividere questo concetto.

 

21 aprile

 
Il commento
Tramonto democristiano
di CURZIO MALTESE
 

BERLUSCONI ha scelto di morire democristiano. Pur di tirare a campare ancora per qualche mese, abbrancato alla poltrona, all'ultima e unica promessa mantenuta agli italiani: "Non vi libererete facilmente di me". Perché già la penultima, "non mi dimetterò mai", è andata a farsi benedire. L'uomo che solo lunedì non si sarebbe "mai piegato ai riti politicanti", nello spazio d'un mattino o due accetta di naufragare nel più grottesco dei voltafaccia, nel puro teatrino della politica, in antiche paludi che si chiamano dimissioni&rimpasto, rosa dei nomi, totoministri, verifica, orrido governo bis o balneare.

Stavolta è suo il ruggito del coniglio. Berlusconi e non Follini appare come il vecchio democristiano di ritorno. Più ancora che la vendetta della prima repubblica sulla seconda, questa è la comica finale del berlusconismo. Solo l'altro giorno il premier ha regalato ai suoi falchi l'ultimo gesto titanico, le dimissioni negate con tanto di minacce agli alleati, l'ennesimo salto nel cerchio di fuoco destinato all'applauso della corte dei vari Ferrara e Fede. Appena il tempo per il cambio scena e d'abito e Berlusconi da oggi è già lì a distribuire sorrisi, pacche, barzellette e ministeri ai nemici mortali dell'Udc. E allora a che cosa è servita la recita incendiaria? Soltanto a ingigantire la vittoria e la figura del nemico interno, Follini, e a ridurre a nani politici gli alleati più fedeli, Bossi e anche Fini.

La verità è che l'ultimo Berlusconi sbaglia tutte le mosse, almeno quanto le azzeccava il primo. È un contrappasso totale, quotidiano. La puntata di Ballarò del dopo elezioni era l'esatto contrappasso della discesa in campo del '93.

Il brontolio dimissionario con cui ieri al Senato Berlusconi ha stracciato il "contratto con gli italiani" è la risposta del tempo al radioso comizio d'insediamento nell'estate del 2001. Allora si celebrava l'inizio di un ipotetico ventennio ("governeremo per molte legislature"), ora se va bene si tratta d'arrivare al panettone. Da neothatcheriano a vecchio doroteo in soli 1400 giorni.

Fra le due immagini passa il clamoroso fallimento del berlusconismo. Non solo nei risultati concreti, deludenti oltre l'immaginabile, con il peggior stallo economico dal dopoguerra, il declino incombente, l'impoverimento dei ceti medi e le grandi opere ridotte a una villona padronale e semiabusiva in Sardegna. Ancora più definitivo è il fallimento ideologico, culturale, nel linguaggio e nella rappresentazione del Paese.

L'idea arrogante di poter guidare la politica e la nazione come un'azienda, l'altra di riuscire a manipolare all'infinito con le televisioni un'opinione pubblica infantile. Alla prima seria rivolta di un alleato o due, i più piccoli per giunta, il mantello d'invulnerabilità del berlusconismo è scivolato a terra e il capo si ritrova ora a inseguire un compromesso qualsiasi, arrangiandosi con le povere risorse dell'eterno trasformismo.

Il marasma finale è evidente perfino nel linguaggio, nelle parole e nei gesti del Berlusconi dimissionario. Lo show di 11 minuti durante il quale il premier ha alternato scuse di fatto a minacce virtuali, la tardiva ammissione di sconfitta e la sicumera delle future immancabili vittorie, una concreta retromarcia di fronte alle divisioni nella maggioranza e la chimerica fuga in avanti verso il partito unico della destra, l'ossequio formale al Quirinale e il disprezzo per la Costituzione. Un guazzabuglio da stato confusionale che le fide Rai e Mediaset, con pietoso servilismo, si sono ben guardate dal mandare in diretta. Lo show s'è chiuso poi nel paradosso d'una maggioranza che applaude con entusiasmo le dimissioni del suo premier mentre l'opposizione medita in silenzio.
Su queste basi di partenza c'è da domandarsi a che cosa serva prolungare l'agonia d'un anno con un Berlusconi bis.

Tutto lascia prevedere un anno orribile, gravido di vendette, dispetti, regolamenti di conti. Fallito l'ultimo, Berlusconi cercherà altri colpi di scena. Com'è nella sua natura, tornerà a fare la voce del padrone appena sarà caduta in prescrizione anche la minaccia del voto anticipato. I centristi possono rispondere con altre crisi e crisette. Già ieri hanno fatto una piccola prova generale facendo mancare la maggioranza a un decreto governativo.

Una specie di Vietnam parlamentare attende un'Italia già stremata e impaurita dalla crisi. Le elezioni anticipate rappresentavano almeno una soluzione decente, forse l'ultimo dei tanti treni persi dal paese nei dieci anni buttati per inseguire uno strano sogno.

 

 20 aprile

Marla, pacifista, uccisa a Baghdad
Body count Dall'aprile del 2003 si batteva per contare e risarcire le vittime civili della guerra. Sabato è stata uccisa da un'auto-bomba
MARINELLA CORREGGIA
PPoche ore prima della sua morte, Marla Ruzicka ha mandato negli Stati uniti la foto di una bambina irachena, unica superstite di una famiglia colpita da un missile Usa nel 2003: era una delle tantissime vittime che ha incontrato in questi anni, da quando arrivò a Baghdad 26enne, nei primi giorni dell'occupazione, con pochi soldi raccolti presso familiari e amici. Il suo obiettivo era aiutare a identificare le vittime civili della guerra, per ottenere risarcimenti e cure per i feriti. E così ha fatto, con ostinazione. Fino a sabato pomeriggio, quando è stata uccisa da un'auto-bomba. L'attacco suicida era probabilmente diretto a un convoglio di contractors: Marla e un collaboratore iracheno viaggiava in auto troppo vicino a quel convoglio, sulla strada dell'aereoporto. Entrambi sono morti. In quei primissimi giorni dell'occupazione di Baghdad il gruppo Iraq Peace Team, attivisti di vari paesi che avevano trascorso le settimane di guerra in dolorosi tour per gli ospedali a contare feriti e amputati, aveva guardato con diffidenza quella ragazza americana, quando lei chiese aiuto e collaborazione. Ci sembrava troppo public relations woman, instancabilmente impegnata in incontri e perfino cene di lavoro. Soprattutto urtava il fatto che chiedesse aiuto ai militari Usa per evacuare via elicottero in Kuwait i feriti civili gravi.

Non sapevamo dei suoi trascorsi di attivista negli Stati uniti (aveva lavorato per Global Exchange, gruppo di sinistra di San Francisco) e sbagliavamo a essere diffidenti. Civic, o «Campagna per le vittime innocenti nei conflitti», l'organizzazione fondata da Marla, già in Afghanistan nel 2002 si era assunta il compito di fare il body count per avanzare richieste di indennizzo e aiuto agli Stati uniti. Marla voleva che almeno qualche danno fosse risarcito e che i feriti fossero evacuati per cure urgenti, e a questo scopo la collaborazione con la logistica degli occupanti era nei fatti necessaria. In Iraq capì che i comandi militari avevano la libertà e le risorse necessarie per assistere velocemente le vittime; così cercò contatti con loro e con l'autorità di occupazione. Per questo fu accusata di fare da foglia di fico all'intervento bellico, ambiguità di tutto l'umanitario.

Ma questa instancabile ragazza americana fin da subito utilizzò l'appoggio offertole dal senatore democratico americano Patrick Leahy per mettere in piedi un serio censimento dei morti, dei feriti e dei danni materiali causati dal conflitto: i «danni collaterali». Un conto impressionante, che era in sé una denuncia della guerra. Lei e alcuni ricercatori iracheni girarono come trottole in tutto il paese tirando su un team con oltre cento investigatori.

Anche grazie a Marla sono stati approvati stanziamenti per risarcire gli afghani (7,5 milioni di dollari) e gli iracheni (10 milioni, usati per fornire assistenza medica, offrire prestiti, ricostruire case e scuole). Cifre infinitamente inferiori ai tragici danni inflitti dalla guerra e dall'occupazione; ma il lavoro va avanti e Marla ha svolto l'unica attività socio-umanitaria non medica che gli iracheni non potessero condurre da soli: presentare il conto dei danni agli americani e battere cassa.

In quell'aprile 2003, Marla pensava di poter concludere almeno il lavoro di ricerca in pochi mesi. Nessuno immaginava che tante vittime dell'occupazione si sarebbero aggiunte a quelle della guerra. Così ha continuato fino all'altro giorno a fare la spola fra Stati uniti (dove perorava le richieste di risarcimento) e Iraq (dove aiutava a organizzare le ricerche). Adesso, con Faiz il direttore iracheno di Civic, è andata a raggiungere la lunga lista delle vittime civili.


Paesi baschi e ingarbugliati
Il voto di domenica ha cambiato i termini del problema. Battuta l'opzione indipendentista
ALBERTO D'ARGENZIO
Tempo variabile sui Paesi baschi. Dietro ai numeri, le elezioni di domenica costituiscono una bocciatura per il lehendakari Juan José Ibarretxe ed il suo piano soberanista: fare dei Paesi baschi uno stato liberamente associato alla Spagna. Se questo era una specie di referendum sul Plan Ibarretxe, il referendum è chiaramente perso. La sconfitta non fa altro che dimostrare che il progetto del lehendakari era nato vecchio, legato ai tempi del muro contro muro lanciato dal premier conservatore Aznar ancora nel 2001. Adesso si riparte da un progetto sconfitto e da una situazione piena di dubbi e incertezze. I partiti soberanisti non legati al nazionalismo abertzale (radicale) - Partido nacionalista vasco, Eusko Alkartasuna, Ezker Batua (il ramo basco di Izquierda unida) e Aralar - sommano 33 seggi. I partiti definiti costituzionalisti - socialisti e popolari - altri 33. Un pareggio tecnico rotto dai nove seggi raggranellati con sorpresa dal Partido comunista de las tierras vascas, Ehak, formazione che ha raccolto l'eredità politica dell'illegalizzata Batasuna. Le urne ci regalano un garbuglio che rispecchia una società divisa e da cui si può uscire in due maniere, o puntando a radicalizzare il progetto nazionalista o cercando il dialogo. In gioco c'è, ed è forse la prima volta, la pace. Della pace ha parlato ieri Arnald Otegi, leader di Batasuna, e parla continuamente il premier saocialista José Luis Rodriguez Zapatero. Le voci fuori dai palazzi parlano anche di un'attività frenetica tra Batasuna ed il Psoe, di riunioni clandestine (una ci sarebbe stata anche ieri), per sbloccare la situazione e creare un tavolo di dialogo.

Tornando al parlamento basco e guardando ai voti la coalizione tra Pnv ed Ea vince le elezioni, confermandosi prima forza nella regione, ma perde il 4% dei voti e 4 seggi e si allontana dal governo. La coalizione perde per due ragioni: il voto nazionalista moderato si è mobilitato assai meno che nelle elezioni precedenti del 2001 (la partecipazione è scesa dal 78,9% al 69,6%, che è comunque una cifra di due punti superiore alla media dei sette comizi regionali precedenti) che si svolsero all'insegna dell'attacco centralista di Aznar, ed il voto nazionalista radicale, ben lungi dal disertare le urne, è confluito in massa sul Pctv-Ehak

Dopo l'illegalizzazione di Batasuna del 2003 solo Ehak è riuscita a superare l'esame della magistratura spagnola passando così dal più completo anonimato ad un trionfo impressionante: il 12,4% dei voti con 9 seggi, due in più di quanto fece Batasuna nel 2001 (peraltro il suo minimo storico). Pesca un seggio anche Aralar, formazione indipendentista nata da una scissione di Batasuna e da un processo di ridefinizione della lotta basca: Aralar condanna la violenza dell'Eta e dintorni, Batasuna non l'ha mai fatto. Tiene Eb-Iu - al governo nella scorsa legislatura con Pnv ed Ea - che conferma i suoi tre seggi, uno per provincia.

Sul versante dei partiti costituzionalisti si assiste ad un previsto travaso di voti: cresce il Pse, variante basca del Psoe di Zapatero, e cade il Partido popular. Patxi Lopez, candidato del Pse, rccoglie il 22,7% dei voti, il 4% in più che equivale a 18 seggi (+5), numeri che sfiorano il massimo storico. Maria San Gil, capolista del Pp, prende una bastonata scendendo dal 23,1% al 17,3% e perdendo 4 seggi.

I numeri dicono che se Ibarretxe raccoglie intorno a sé Iu ed Aralar potrà comunque diventare presidente per la terza volta anche senza i voti di Ehak. Per essere eletti lehendakari ci vuole la maggioranza assoluta, 38 voti du 75, ma solo al primo suffragio, al secondo basta la maggioranza semplice. Pure eletto sarebbe comunque un presidente debolissimo non in grado di governare se non con il compromesso continuo con il radicalismo basco oppure con i socialisti. In pratica c'è un presidente ma non si risolve il problema di fondo: sapere in che direzione ci si muove. Difficile intanto ipotizzare - ma nulla si può escludere - un governo già con dentro Ehak (di cui andrà valutato il livello di dipendenza da Batasuna) o il Pse. I costi sono infatti al momento assai alti: pattando con i comunisti della terra basca partirebbe una fuga in avanti poco apprezzata dalla base del Pnv, mentre mettersi a governare con i socialisti non sarebbe facilmente giustificabile - da entrambi le parti - in questa prima fase della legislatura (a meno che Ibarretxe non si faccia da parte).

In questo stallo potrebbe crearsi una situazione a due livelli: da un lato un parlamento per amministrare e dall'altro la creazione di un tavolo con tutte le forze politiche per parlare di pace. Il dialogo senza preclusioni veniva caldeggiato ieri sia da Otegi che da Pepe Blanco, segretario di organizzazione del Psoe e ombra di Zapatero. A dire di apertamente no è solo il Pp, una posizione sorda e pesante visto che potrebbe spingere il Psoe a fare marcia indietro per non venire accusato di disarticolare lo Stato spagnolo.

Al momento sono comunque solo congetture. La settimana prossima inizia il tempo delle consultazioni con Ibarretxe che incontrerà tutti i partiti dello spettro politico basco per concludere la girandola a Madrid con Zapatero.


 

19 aprile

IL COMMENTO
L'agonia
di un'alleanza

di EZIO MAURO

L'UOMO che ha resuscitato la destra italiana, portandola dal nulla al governo, oggi la tiene prigioniera del suo destino, che non è politico e tantomeno istituzionale, ma solo privato e personale. A quel destino di comando e di invulnerabilità, quasi di predestinazione, Berlusconi sta sacrificando tutto, scuotendo le colonne che reggono il tempio della Casa delle libertà.

La prova è un colpo di teatro che in realtà è un colpo di mano sulla strada che lo portava al Quirinale, dove Fini e Follini erano certi che si sarebbe dimesso, mantenendo la parola data agli alleati poche ore prima. Invece Silvio Berlusconi ha detto al Presidente della Repubblica che non intende dimettersi perché ha conservato la fiducia dell'Udc, pur avendo perso i suoi quattro ministri: dunque la sua maggioranza è numericamente intatta, anche se politicamente a pezzi.

Di fronte a questo quadro, Ciampi ha rinviato il premier alle Camere "senza indugio" per certificare se Berlusconi ha ancora un futuro, o se le urne sono la strada maestra per la fine di quell'avventura.

Formalmente, il premier può fingere di non sentire l'obbligo di dimettersi. Politicamente non può evitare di prendere atto che un intero partito si sfila dal suo governo, con Fini sempre più ridotto a far la foglia d'insalata, insapore, nel sandwich nordista Bossi-Berlusconi.

Invece di seguire la ragione che consigliava un Berlusconi-bis, il premier ha seguito ancora una volta l'istinto, truffando i suoi alleati ma soprattutto truffando se stesso con la finzione esoterica che esista ancora la Casa delle libertà e il suo leader. Va in scena, con più cupezza, un deja vu e oggi come nel '94 il Cavaliere dimostra di essere una formidabile macchina elettorale ma un pessimo uomo politico, perché sfascia la sua alleanza.

Avevamo avvertito che l'agonia politica del berlusconismo sarebbe stata terribile perché il Cavaliere non accetta le sconfitte e per evitarle è pronto a tutto, compreso il peggio. Oggi, in anticipo, siamo davanti a un concentrato di quel peggio. Con il premier che pur di durare un giorno in più si gioca il futuro dell'intera destra.

 

14 aprile

Game over
ROBERTA CARLINI
Joaquim Almunia è solo l'ultimo dei problemi di Berlusconi e la contestazione della Commissione europea sui conti pubblici italiani è quasi un solletico per il premier rispetto ai fendenti menati dai suoi stessi alleati in parlamento e dagli ex alleati in Confindustria. Pure, nella crisi aperta dall'estate scorsa nella maggioranza di governo e precipitata con il voto delle regionali, il richiamo del mite commissario europeo pesa come un macigno: non tanto per i suoi risvolti immediati (che pure ci saranno, a partire dai mercati finanziari), quanto per l'ipoteca che viene messa sulla legge finanziaria per l'anno prossimo, alla quale l'attuale (ex) maggioranza affida tutte le residue speranze di composizione della crisi interna e rimonta elettorale. Il commissario Almunia - e con lui, nello stesso giorno, la Corte dei conti italiana - certifica una realtà ampiamente nota: i conti pubblici italiani sono fuori controllo, il rapporto tra il deficit e il prodotto interno lordo sale ben oltre le formulette di Maastricht. Qui da noi non c'era nessuno che non l'avesse intuito sin dai primi condoni e trucchi contabili. La crisi economica, nell'aggravare la situazione, ha avuto almeno un risvolto benefico per il governo Berlusconi: quello di essere un «male comune», che non è diventato mezzo gaudio ma almeno ha messo altri paesi (in primis Francia e Germania) nella stessa situazione e ha reso evidente la «stupidità» di quelle formulette. Così, i parametri di Maastricht si sono allentati, i giudizi finali sono diventati meno stringenti, i governi hanno ripreso un qualche ruolo, c'è un margine di trattativa e mediazione anche nelle stanze di Bruxelles. Ma questo, portato a Roma, non vuol dire licenza di fare qualsiasi cosa. In particolare, non vuol dire che il governo Berlusconi-Fini-Follini-Bossi per rincorrere tutti e quattro i rispettivi elettorati possa scassinare i conti pubblici nella finanziaria per il prossimo anno.

E' sulla finanziaria per il 2006 che pesa infatti l'ultimo avvertimento europeo, che parla di uno sforamento dei tetti di deficit a bocce ferme. Per effetto del venir meno di una tantum e condoni, l'anno prossimo già andremmo ampiamente in rosso. A questa tendenza già in atto, a seguire la «soluzione» della crisi che si va profilando nelle stanze del palazzo, andrebbero aggiunti i miliardi (di euro) necessari per tagliare le imposte sul reddito come vuole Berlusconi, i miliardi necessari per dare soldi al sud e agli statali come chiedono Fini e Follini, i miliardi necessari per abolire l'Irap come pretende la Lega. Non c'è bisogno di essere economisti esperti per capire che le risorse non bastano per tutti, e che neanche Pomicino potrebbe gestire una legge finanziaria così concepita.

Se ne è accorto anche il ministro dell'Economia Siniscalco, che, strattonato da più parti (in modo anche brusco dai quotidiani «forti», Corsera e Sole 24 Ore), ieri ha dichiarato il «game over» sulla finanza creativa, da lui stesso finora gestita e organizzata alla grande, con o senza Tremonti. Non solo: Siniscalco si è anche dichiarato contrario a «finanziarie elettorali», accreditando un suo ruolo di supertecnico che da ottobre in poi starà a guardia delle casse di stato. Nelle stesse ore, negli uffici politici degli ex alleati di Berlusconi si metteva a punto la lista delle spese considerate imprescindibili per rilanciare l'esecutivo.

Difficile immaginare cosa produrrà questo mix sull'autunno, sulla finanziaria e sul paese. Ma un piccolo anticipo l'abbiamo già avuto, nel decreto solennemente battezzato «per la competitività»: di fronte a una crisi economica e industriale senza precedenti, il governo ha servito un fritto misto fatto di lotta ai cinesi, aiuti al turismo, autocertificazioni, un po' di strade, un briciolo di ricerca e sviluppo. Il fritto misto poi è stato sommerso dagli emendamenti della stessa maggioranza - in parte provenienti dagli stessi ministri - appena è arrivato in parlamento. E se questo succede per un modestissimo decreto, la finanziaria - e ancor prima il Dpef, che va presentato entro l'estate - appare sempre più una missione impossibile per questa maggioranza. Ci sarebbe di che dichiarare un «game over» più generale: se non l'avessero già fatto gli elettori il 3 e il 4 aprile.


 

12 aprile

Il retroscena. C'è forte preoccupazione anche tra i banchieri
E la Confcommercio, che puntò sul Cavaliere: pensi alle famiglie
Così svanisce il "patto di Parma"
poteri forti in fuga dal premier

Sorpresa in ambienti vicino a Banca d'Italia
Il voto farebbe saltare il decreto competitività
di ROBERTO MANIA
 


Luca di Montezemolo

ROMA - Nel 2001 la Confindustria aveva scommesso su Berlusconi. Ora, quattro anni dopo, chiede le elezioni anticipate se non ci sarà un governo capace di governare. È l'ultimo strappo quello consumato ieri tra il presidente degli industriali, Luca Cordero di Montezemolo, e il leader del centrodestra. E dalla loro parte gli industriali trovano già i commercianti e i sindacati, pezzi di quei "poteri forti" o di quello "Stato parallelo", per dirla con il premier, che ogni giorno fanno i conti con la crisi dell'industria, con la perdita di competitività e di posti di lavoro. È l'emergenza economica il collante di questo nuovo schieramento. La stessa emergenza che preoccupa il sistema delle banche impegnato in una sfida senza precedenti a contenere l'assolto dei gruppi stranieri.

Montezemolo ha dovuto utilizzare tutto il pomeriggio di ieri per spiegare, anche ai suoi colleghi industriali, che con la "dichiarazione di Legnano" non intendeva affatto far precipitare la Confindustria nell'arena della lotta politica. "Dietro le mie affermazioni - ha ripetuto - non c'è assolutamente nulla. Noi non siamo e non vogliamo passare come quelli che spingono per le elezioni anticipate o che si schierano con una parte. Di certo c'è che non possiamo reggere con un governo di galleggiamento. La difficile situazione economica non lo permette". Ma la novità, concordata il giorno prima con il fedelissimo Maurizio Beretta, direttore generale di Viale dell'Astronomia, non è sfuggita a nessuno: aver pronunciato per primo - tra i rappresentanti dei "poteri forti" - la parola "elezioni". Cosa che non aveva fatto nemmeno Guglielmo Epifani, leader della Cgil. Montezemolo lo ha fatto e non, come il leader di Forza Italia, per sfidare i suoi vice Gianfranco Fini e Marco Follini, bensì "nell'interesse del Paese". In sintonia, però, proprio con Fini e Follini.

Alla vigilia del voto Montezemolo aveva rimproverato al presidente dell'Assolombarda, Michele Perini, di essersi schierato con Forza Italia, raccomandando a tutti i vertici degli industriali di restare fuori dalla contesa. La mossa di ieri - nelle sue intenzioni - è coerente con questa "neutralità" tra i due poli.
Montezemolo ha deciso di imprimere un'accelerazione dopo le cautele con cui aveva commentato l'esito delle regionali. In un primo tempo, infatti, il presidente della Confindustria e della Fiat (il più grande gruppo industriale del Paese, come sottolineavano ieri le agenzie di stampa internazionali) si era limitato a parlare di priorità dell'economia e della centralità delle imprese nella successiva azione di governo. Tutto in linea con quanto fino ad allora sostenuto, in particolare all'assemblea della piccola industria a Bari, un paio di settimane prima del voto. Ma lo scontro nella Casa delle libertà e le dimensioni del terremoto elettorale hanno fatto maturare nel sistema delle imprese la richiesta di una svolta: o le elezioni o un "governo che governi". Così, ormai, la pensano anche i commercianti che al centrodestra il voto, nel 2001, non l'avevano certo negato. La crisi sta tagliando le gambe anche a loro. "Sarebbe indispensabile - ripete da giorni il presidente Sergio Billé - che la coalizione di governo facesse uno sforzo per "sintonizzarsi" sulla lunghezza d'onda di famiglie e imprese. Di discorsi ondivaghi ne abbiamo abbastanza".

L'uscita di Montezemolo è stata quasi una liberazione per i sindacalisti, che di elezioni ancora non avevano parlato. Da ieri lo fanno anche loro. La Cisl di Savino Pezzotta, che nel 2001 divise esattamente a metà i suoi consensi tra centrosinistra e centrodestra, non ragiona diversamente dalla Confindustria. "Non compete a noi - spiegava in serata Pezzotta - indicare la strada delle elezioni. Ma se non si va al voto anticipato i problemi sono questi: Mezzogiorno, competitività delle imprese, riduzione del costo del lavoro e tutela dei redditi da lavoro pensione e da pensione. O si affrontano questi nodi o si va alle elezioni ma senza programmi elettorali demagogici. Non si può più nascondere la verità. Montezemolo ha detto cose di buon senso perché siamo proprio in emergenza. Ed è peggio del '92. Ma almeno, allora, avevamo davanti la sfida dell'euro". In alternativa al voto anticipato Pezzotta arriva a ipotizzare un accordo bipartisan per uscire dalla crisi.

Di elezioni, ovviamente, non si parla dalle parti di Via Nazionale, sede della Banca d'Italia. Dopo le dimissioni dell'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, i rapporti tra Palazzo Chigi e il governatore sono tornati corretti. Il tentativo di difendere l'italianità del sistema del credito li ha ancor più avvicinati. Resta il fatto che la certezza nell'azione di politica economica è sempre stata considerata una priorità da parte del governatore Antonio Fazio. E ieri, negli ambienti della banca centrale, in molti sono stati colti di sorpresa dalla dichiarazione del presidente della Confindustria. Perché un eventuale ricorso alla urne rinvierà tutto, a cominciare dal pacchetto sulla competitività: cioè quel primo passo che era stato riconosciuto sia da Fazio sia da Montezemolo, ma forse è arrivato fuori tempo massimo.

 

Secondo il sindacato, nel tesserino di riconoscimento
c'è uno strumento per controllare gli spostamenti dei lavoratori
"Microchip spia per dipendenti"
la Cgil denuncia Mediaset

di LUCA FAZZO
 


Gli studi Mediaset
a Cologno Monzese

MILANO - Appena venti giorni fa il Garante per la privacy aveva messo in guardia contro l'utilizzo degli strumenti per controllare a distanza i lavoratori. E ora si scopre che ad impiegare i microchip nascosti nei tesserini di riconoscimento è l'azienda fondata dal presidente del Consiglio. Ieri mattina Mediaset e tre società controllate dalla holding del Biscione (Videotime, Rti e la Elettronica Industriale) sono state denunciate dalla Cgil per comportamento antisindacale al Tribunale del Lavoro di Milano.

I vertici di Mediaset sono accusati di avere inserito nei nuovi badge con banda magnetica distribuiti alla fine del 2004 ai circa 2.500 dipendenti, un microcircuito Rfid ("Radio Frequency Identification"). È un chip di ultima generazione che viene utilizzato in genere per i controlli sugli spostamenti delle merci e degli oggetti (è un Rfid, per esempio, a far funzionare il Telepass ai caselli autostradali) ma che il gruppo del Biscione applica invece alle persone: in questo modo, secondo il sindacato, Mediaset potrebbe seguire in diretta e archiviare in banca dati tutti gli spostamenti dei suoi dipendenti sul luogo di lavoro. Una specie di Grande Fratello aziendale in grado di pedinare passo per passo ogni lavoratore.

Ieri, alla notizia della denuncia, Mediaset manifesta "stupore". "Per due volte - spiegano i portavoce di Cologno Monzese - abbiamo rassicurato a voce e per iscritto i sindacati sull'utilizzo di queste tecnologie. Si tratta semplicemente di un chip che agevola gli spostamenti interni. Noi lo chiamiamo chip di prossimità: le porte si aprono da sole all'avvicinarsi del dipendente senza bisogno di strisciare la tessera, le sbarre dei parcheggi si alzano da sole. Ammesso, e non concesso, che queste tecnologie consentano un controllo a distanza, Mediaset non è interessata a utilizzarlo. Ci risulta peraltro che in numerose altre aziende questa tecnologia venga impiegata senza problemi".

Ma i rappresentanti della Cgil in Mediaset, evidentemente, non si sono convinti della totale inoffensività del nuovo marchingegno elettronico. Ed è scattata la denuncia contro l'azienda per violazione dell'articolo 28 della legge 300 del 1970, lo Statuto dei Lavoratori. La legge vieta espressamente i controlli a distanza dell'attività lavorativa mediante impianti audiovisivi ed altre apparecchiature; ed è proprio questa norma, secondo i sindacalisti, ad essere violata dall'introduzione del nuovo tesserino.

"Il badge introdotto lo scorso anno e consegnato a ciascun dipendente, che è tenuto a tenerlo con sé negli spazi aziendali, consente un controllo a distanza dell'attività dei lavoratori", si legge nella denuncia firmata dagli avvocati Mario Fezzi, Stefano Chiusolo e Maurizio Borali. E ancora: "Un badge contenente il chip Rfid consente al datore di lavoro di ricostruire i movimenti di ogni dipendente nell'arco dell'intera giornata lavorativa. In tal modo sarà possibile sapere quanto tempo ogni dipendente è rimasto alla propria postazione lavorativa, quanto tempo è stato in bagno o in mensa o alla macchinetta del caffè, quali e quanti colleghi di lavoro siano entrati in contatto con lui, quanto a lungo si sia intrattenuto nei locali sindacali, se abbia o meno partecipato alle assemblee sindacali, eccetera".

Per spazzare via i dubbi sulle reali finalità dell'innovazione, sostengono gli avvocati del sindacato, sarebbe bastato che Mediaset rendesse noto l'elenco delle antenne piazzate all'interno degli uffici e dei reparti che rilevano la "presenza" del lavoratore dotato dei nuovi tesserini. Ma i vertici dell'azienda - secondo quanto si legge nella denuncia - hanno sempre rifiutato di fornire questo elenco.

 

 

 

Nelle gallerie sotto la città la polizia municipale dà la caccia
alla nuova mala di pusher magrebini di 14 anni
Come topi nel ventre di Torino
le baby gang invadono le fogne

Ragazzi senza più paura di nulla, disperati e aggressivi
Vivono e forse muoiono là sotto
di MAURIZIO CROSETTI
 


TORINO - Si entra qui, in questa specie di bocca di caverna sotto il parco del Valentino. Qui, dove le fogne si gettano nel Po, gli spacciatori bambini si infilano nell'intestino della città. Età media, quattordici anni. Altezza media del cunicolo, un metro e sessanta. Altezza dell'acqua, uno e venti. Larghezza del tubo di scarico all'uscita sotto il tombino, un chilometro e mezzo più avanti: settanta centimetri. Puzza, buio, paura. Escrementi, piscio, hashish, urla. Scappare. Catturarli.

E' successo tre giorni fa, in pieno pomeriggio: gli uomini della polizia municipale intercettano i baby spacciatori, li rincorrono, quelli vanno verso il fiume - si tufferanno? cosa diavolo hanno in mente? - e poi spariscono. Nella fogna. E i vigili dietro, carponi. "All'inizio si passa abbastanza bene, c'è una specie di cascatella, poi il condotto diventa più ripido" racconta uno di loro, M., una vita in borghese e in incognito, berrettino di lana nero sugli occhi, basso di statura, tarchiato. "Siamo stati lì dentro quasi due ore, loro erano una decina, bisognava capire dove fossero, è un labirinto incredibile, è tutto scuro, avevamo le torce elettriche ma anche loro le avevano, sono attrezzati, ci sono buchi nelle pareti dove tengono la droga e le pile, mica improvvisano".

Come topi, tutti, gli spacciatori e i poliziotti. Sopra, la città dei cantieri olimpici, dei fragori di ruspe e betoniere. Sotto, loro. Insieme ai cani dell'unità cinofila K9. "Sono riemersi qui, nello scavo del metrò davanti alla stazione di Porta Nuova". La scena è da vecchio fumetto di Topolino, o da bizzarro film d'azione. Il coperchio rotondo di un tombino che si solleva da solo, dieci giovani marocchini che ne sbucano come tappi di champagne o minatori stremati, dopo l'ultimo tratto di arrampicata, i poliziotti dietro, gli operai con le pale in mano e neanche una parola in bocca, solo stupore. "Ne abbiamo presi tre, rincorrendoli dietro la Sinagoga verso San Salvario, il quartiere nero di Torino, gli altri sono scappati". La solita scena, i pusher che non hanno documenti e dichiarano dieci, dodici anni, sono sempre gli stessi, minorenni sì ma non così piccoli. Però nelle fogne non erano mai scesi.

Hanno le mappe in testa, sanno bene dove infilarsi. Dal Valentino c'è un sentiero sterrato, pieno di immondizie e sterpi, sotto alberi invernali scheletrici. Un posto da paura anche in pieno giorno, terra di delinquenti, zona franca (e accidenti com'è minaccioso il cartello del Comune che intima: "Vietato il gioco del pallone"), ma ormai anche il centro storico oltre il corso Vittorio Emanuele è in ostaggio agli spacciatori africani, via San Massimo, via Mazzini, via dei Mille, qui polizia e carabinieri non riescono a fare nulla, non ci sono quasi mai. Arresi. La caverna è lì sotto, accanto a un imbarcadero. Si entra passando sotto una specie di arco naturale, poi la volta della fognatura s'abbassa di colpo e allora bisogna chinarsi. "Due ore nell'acqua sporca che arrivava a mezza gamba e anche più su, a un certo punto la sfioravo con la faccia" racconta il poliziotto. "Mi sentirò la puzza addosso per giorni, qui non bastano venti docce".

L'intestino di Torino non è un luogo di fughe improvvise, è un territorio organizzato dalle bande. Queste erano le gallerie di Pietro Micca, il kamizake contro i francesi, e delle carrozze del Re, oggi è un incrocio di strade nere per lo spaccio di droga, per sparire e riapparire altrove sotto una grata divelta o un tombino. C'è chi ci vive, come i quindici bambini e ragazzi magrebini trovati negli scantinati della casa che fu di Gramsci, in piazza Carlina, cuore barocco torinese.

Succede sotto il centro storico, sotto il parco più importante della città, sotto la stazione di Porta Nuova e San Salvario ma anche sotto Porta Palazzo, la zona del mercato, dove i "napuli" di Mimì Metallurgico sono stati sostituiti dagli africani, dagli islamici con le moschee nei palazzi decrepiti e i loro negozi, le bancarelle del tè verde e delle spezie, le macellerie soprattutto. Qui, in via Noè, è stato appena scoperto un nodo di gallerie che collegavano un phone center con il cortile di una casa popolare di ringhiera, dallo spacciatore al consumatore senza mai uscire alla luce. Come non uscivano certi clienti del phone center, così gli agenti del commissariato Dora Vanchiglia hanno pensato che non potevano essere spariti nel nulla. Nel nulla no, nella pancia della città invece sì.

"Io guadagno anche trecento euro al giorno e non penso proprio di tornare a casa, in Marocco, è un posto troppo brutto" racconta Nabil, spacciatore di tredici anni che ne dichiara sei e indossa solo scarpe da ginnastica firmate. Come lui, altri cinquanta ragazzini fanno i corrieri della droga, nelle strade e in piazza Vittorio Veneto, e adesso nelle fogne, l'ultima novità dello spaccio. Poi ci sono i bambini rumeni che invece borseggiano e scippano, ci sono le piccole prostitute, i mendicanti ai semafori, un mondo sommerso che sa di sottosuolo anche quando non entra e non esce dai tombini. "Nell'arco di un anno intercettiamo circa quattrocento minori" spiega Laura Marzin, responsabile dell'Ufficio minori stranieri del Comune. "Non si può fare molto a parte esserci, offrire l'esempio di un adulto positivo, ma questi sono ragazzi senza più paura di nulla, disperati, aggressivi".

Come i bambini di Bucarest, vivono e scappano e spacciano e si bucano e qualche volta muoiono lì sotto, con poca aria e ancora meno voglia di respirarla, dove un tubo di scarico è largo mezzo metro ma sempre più di qualunque futuro, molto di più.