Archivio Aprile 2005
28 aprile
MESSICO
La
marcia trionfale di Lopez Obrador
GIANNI PROIETTIS
Con più di un milione di
partecipanti, che hanno sfilato domenica mattina dal museo di antropologia alla
piazza dello Zocalo, la «marcia del silenzio» a favore del sindaco della
capitale, Andrés Manuel Lopez Obrador (Amlo), è passata in poche ore dalle
cronache alla storia. E lo ha consacrato come il candidato naturale della
sinistra alle prossime elezioni presidenziali del 2006, paladino di «un nuovo
progetto di nazione». Chi ha stretto i denti e deve stare cominciando a
preoccuparsi seriamente è il presidente Fox, che ha investito tutto - anche la
poca credibilità che gli rimaneva - per eliminare dalla scena politica il
popolare Amlo e ha ottenuto solo l'effetto opposto, trasformandolo in martire ed
eroe e avvicinandolo di un altro passo alla presidenza.
Quando Lopez Obrador fu eletto sindaco di Città del
Messico, nel 2000, si parlò di voto incrociato: la presidenza era andata a
Vicente Fox, candidato del Pan, il partito della destra cattolica, mentre il Prd,
di centro-sinistra, manteneva l'amministrazione della capitale. Si celebrò con
ottimismo la caduta del Pri, il partito-stato da 72 anni al potere.
Ma il «voto utile», che aveva convogliato verso Fox perfino
i suffragi di molta sinistra light, fu presto deluso da un presidente che
continuava a credersi in campagna, collezionando gaffes, scandali e
insuccessi. Anche il governo nordamericano, cui piaceva il passato cocacolero di
Fox, è rimasto scontento dai pochi risultati.
Al contrario, le azioni di Lopez Obrador, secondo sindaco
eletto della capitale, non hanno smesso di salire, generando incubi nell'establishment
messicano. Dopo essere stato nominato per 70 anni direttamente dal presidente
della repubblica, il sindaco della capitale ridiventava finalmente un
rappresentante legittimo della cittadinanza. E Amlo, in questi cinque anni, ci
ha saputo fare: opere pubbliche popolari, sussidi agli indigenti della terza
età, un nuovo stile di governo.
Ma da quando, più di un anno fa, Lopez Obrador, un vedovo
50enne con tre figli originario dello stato di Tabasco, è andato in testa a
tutte le inchieste sui presidenziabili - e non ha smesso di salire - si è fatto
sempre più pesante il fuoco incrociato del Pri e del Pan sulla sua
amministrazione. Un segretario delle finanze sorpreso da una candid camera
mentre si gioca milioni a Las Vegas, un alto esponente del Prd della capitale
filmato mentre riceve finanziamenti illegali per il partito dal faccendiere
argentino Carlos Ahumada e altri scandali di questo tipo - tutti editati in
video - hanno screditato il Prd ma non sono riusciti a intaccare la popolarità
di Amlo.
È allora che il presidente Fox, in combutta con
l'oligarchia politica e industriale patrocinata dall'ex presidente Carlos
Salinas, decide di sferrare l'attacco finale e sceglie la strada giudiziaria.
Per non aver rispettato una sentenza che ordinava al comune di sospendere la
costruzione di una strada su terreni privati, il sindaco si è visto coinvolto in
un processo il cui unico fine evidente è quello di impedirgli di partecipare
alle prossime elezioni.
Dominato dall'ossessione di eliminare il forte candidato
della sinistra - i presidenziabili del Pan e del Pri, filoamericani di provata
fede neoliberista, non hanno un quarto del carisma di Amlo - il presidente Fox
ha imboccato un vicolo cieco, mettendo a repentaglio la nascente democrazia e
polarizzando innecessariamente il paese.
Definita «colpo di stato preventivo», «frode elettorale
anticipata», la persecuzione legale contro Lopez Obrador è stata criticata
perfino dal clero messicano, dalla grande stampa, da funzionari statunitensi, ha
lasciato il governo Fox come un «re nudo» di fronte alla comunità internazionale
e ha attizzato un movimento per la difesa della democrazia, riattivando la
speranza di un'alternativa di sinistra. Proprio ora che il Prd era in crisi. Il
7 aprile scorso, 360 parlamentari del Pri e del Pan, votando la sospensione
dell'immunità a Amlo e dando luce verde al processo contro di lui, hanno siglato
una vergognosa conventio ad excludendum di spalle alla società. Non hanno
solo tolto l'immunità al sindaco, lo hanno addirittura, in un eccesso
legislativo, rimosso dalle sue funzioni, in spregio alla volontà degli elettori.
Il Prd ha presentato un ricorso alla Corte suprema proprio su questo punto. E la
questione è sub judice, anche se il potere giudiziario non brilla per la
sua autonomia.
Eppure, paradossalmente, la chiusura dei tre poteri sta
dando voce e muscoli alla società civile. La Coordinadora Nacional Ciudadana
en defensa del voto popular, diretta dalla scrittrice Elena Poniatowska,
dalla pubblicista Berta Maldonado e dai deputati Martí Bartes e Ortiz Pinchetti,
ha redatto un calendario di iniziative e ha già ottenuto la solidarietà della
Izquierda Unida spagnola, della gauche francese, del Pen Club riunitosi a
New York, di intellettuali di tutto il mondo, Eduardo Galeano e José Saramago
per primi. Le comunità messicane hanno manifestato in una ventina di paesi.
Molti, come gli zapatisti, non avrebbero votato per Lopez Obrador. Ma adesso...
L'opzione di sinistra saprà ridiventare maggioritaria, come
nel 1988? Domenica, dopo più di due ore di corteo, la folla non è riuscita a
entrare tutta nello Zocalo. Solo il subcomandante Marcos e i delegati
zapatisti, nel 2001, avevano richiamato una tale moltitudine. Centinaia di
organizzazioni politiche, sindacali, attivisti e cittadini, più di un milione di
persone hanno sfilato in ripudio del governo Fox e del suo maldestro attentato
all'incipiente democrazia. Andrés Manuel Lopez Obrador, l'oppositore che
tranquillizza la borsa e garantisce la stabilità contro i colpi di testa
presidenziali, ha preso la parola nello Zocalo per proporre un accordo
nazionale, per portare avanti una vera trasformazione del paese, per difendere
la democrazia.
LAVORO: ALLARME ILO, 2,2 MLN
MORTI L'ANNO PER INCIDENTI
Circa 2,2 milioni di
persone nel mondo muoiono ogni anno per incidenti o malattie causati dal
lavoro. E' l'ultimo dato allarmante dell'Ilo, l'organizzazione
internazionale del Lavoro con base a Ginevra, che in un rapporto preparato
in occasione della Giornata mondiale per la Salute e la sicurezza sul
lavoro, riporta un totale di incidenti correlati al lavoro nel mondo pari a
270 milioni l'anno a cui si aggiungono 160 milioni di vittime annuali di
malattie contratte sul posto di lavoro. Molti e incidenti sul lavoro sono
aumentati soprattutto nei paesi emergenti e in particolare in Cina dove
477.000 persone all'anno muoiono sul posto di lavoro e dopo tra il 1998 e il
2001 gli incidenti fatali sono saliti da 73.500 a 90.500 l'anno. Nei paesi
industrializzati le morti per lavoro viaggiano intorno 297.000 l'anno un
numero che viene superato dall'India che conta annualmente 302.00 vittime di
incidenti e malattie sul lavoro.
27 aprile
La guerra dell'Italia
contro Fatawu Lasisi
Sono passati nove mesi da quando la Cap Anamur, la nave
dell'omonima organizzazione non governativa tedesca, riuscì finalmente ad
approdare a Porto Empedocle dopo aver vagato per tre settimane e mezzo nel
Mediterraneo col suo carico di trentasette naufraghi. La spaventata fermezza del
governo italiano, l'indifferenza di quello tedesco, il consueto atteggiamento da
pesce in barile di quello maltese, chiarirono all'Europa e al mondo la distanza
siderale tra i principi delle convenzioni internazionali e la loro applicazione
concreta in Europa.
Sono passati nove mesi e di trentacinque di quei trentasette uomini non si sa
più nulla. Una decina di giorni dopo lo sbarco, furono rispediti negli Stati dai
quali - secondo il giudizio insindacabile di due esperti in "riconoscimento ad
occhio" della nazionalità - erano partiti: il Ghana (per trenta di loro) e la
Nigeria (per altri cinque). Dei due restanti, solo uno, un ragazzo nigeriano di
fede cristiana, ha ottenuto l'asilo. L'altro, Fatawu Lasisi, non ha ottenuto
niente: vive in Italia da clandestino e comincia ad intuire di non essere una
persona ma il simbolo del caso Cap Anamur. Il simbolo di una vergogna.
Ecco, è questo banalmente il problema: a Roma, ospite di un'associazione
umanitaria, esiste un ragazzo di 25 anni che, suo malgrado, è diventato un
simbolo. E c'è un governo, quello italiano, che ha avviato contro il simbolo una
battaglia legale che sta distruggendo l'uomo.
La battaglia cominciò, contro quasi tutti i naufraghi, subito dopo lo sbarco.
Con l'esclusione del nigeriano di fede cristiana e di un ragazzo che affermò
d'essere nato nella Sierra Leone, gli altri dissero di provenire dal Sudan,
regione del Darfour, dove è in corso una feroce guerra civile. Proprio per via
di questa guerra, è molto complicato negare ad un sudanese lo status di
rifugiato. Si trattava dunque di verificare se i naufraghi dicevano il vero. Fu
allora che comparvero gli esperti in "riconoscimento ad occhio": il console del
Ghana e quello della Nigeria. Parlarono per qualche minuto coi migranti, fecero
domande del tipo: "Chi è il presidente del Sudan?" (e a quanto pare ebbero anche
risposte corrette) e alla fine decisero che di sudanese non ce n'era nemmeno
uno. Sulla base di questo esame, l'Italia decise di espellere tutti.
Fatawu Lasisi, per motivi che non sono mai stati chiariti, non partì. Quando,
alla fine del luglio scorso, i suoi compagni furono caricati a forza sugli
aerei, restò a terra. Una dimenticanza? Un errore burocratico? Un aereo troppo
piccolo? Chissà. Certo è che fu in quel momento che Fatawu divenne, suo
malgrado, un simbolo.
Quando, il 28 luglio 2004 il tribunale di Roma si riunì per valutare i ricorsi
che tutti i naufraghi della Cap Anamur avevano presentato contro le espulsioni,
le stesse espulsioni erano state appena eseguite. Era venuta meno, dunque, la
ragione del contendere. Sarebbe finita così, con un'archiviazione, se la
presenza in Italia di Fatawu non avesse obbligato i giudici ad esaminare
l'intera vicenda per decidere sul suo caso. La decisione fu che, nella attesa
della conclusione degli accertamenti sulla vera nazionalità, Fatawu aveva
diritto di restare in Italia. Siccome la sua situazione era identica a quella
degli altri, in quel momento la magistratura italiana affermò che le espulsioni
erano state illegittime. Ecco la vergogna.
Fatawu ne è la rappresentazione vivente. Subito dopo la decisione del tribunale
ci fu un tentativo di trattenerlo nel Centro di Permanenza temporanea di Ponte
Galeria, a Roma, dove nel frattempo era stato recluso. I suoi legali, gli
avvocati Fabio Baglioni e Simona Sinopoli, dovettero minacciare una denuncia
penale contro i funzionari del ministero. Solo allora la decisione del giudice
fu messa in atto e Fatawu ebbe un permesso di soggiorno provvisorio. Ma l'onta
andava cancellata. Il ministero dell'Interno presentò un ricorso e questa volta
il tribunale lo accolse sulla base del fatto che Fatawu non riusciva a provare
d'essere sudanese.
L'onere della prova, a quanto pare, spetta a lui. Ed è noto come funziona bene
l'anagrafe nei paesi africani, in particolare quelli dove è in corso una guerra
civile.
L'accoglimento di quel ricorso è all'origine dell'attuale situazione. Il
permesso provvisorio è scaduto lo scorso 31 ottobre e non è stato rinnovato. Da
allora Fatawu è un clandestino. Questo benché sia stata già fissata, per il
prossimo giugno, l'udienza della causa sulla concessione dell'asilo politico. In
pratica potrebbe ripetersi, per il solo Fatawu, quello che è successo nel luglio
scorso agli altri suoi compagni di sventura: prima ti espello, poi ti dico che
avevi ragione. Nello specifico l'aver ragione significherebbe che Fatawu Lasisi,
nato in Sudan il 6 marzo del 1980, emigrato con la famiglia in Ghana all'età di
tre anni, figlio d'un leader musulmano moderato ucciso per il suo impegno
politico, ha diritto a non essere rimesso nelle mani dei suoi carnefici.
Strano, per cancellare una vergogna se ne compie un'altra. D'altra parte, come
disse all'epoca il ministro leghista Castelli, l'Italia non può correre il
rischio di apparire "il ventre molle dell'Europa".
23 aprile
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Il 25 aprile e il
fattore D |
di Piero Sansonetti |
Il 25 aprile -
idealmente - nacque la Repubblica, e
iniziò il cammino dell'Italia moderna.
Lunedì festeggiamo il sessantesimo. In
un clima, però, di polemiche infuocate.
E' una particolarità italiana, questa:
negli altri paesi la festa nazionale è
un giorno di celebrazioni, solenni,
patriottiche, spesso un po' o parecchio
retoriche: punto e basta. Pensate al 4
luglio in America o al 14 luglio in
Francia. Si fanno i fuochi di artificio,
qualche discorso, qualche ragionamento
sulle radici della democrazia americana
o francese. A nessun americano verrebbe
in mente di dire: "Però, stiamo attenti,
noi abbiamo il dovere di ricordare non
solo la rivoluzione americana ma anche i
soldati inglesi che caddero per
difendere la corona... ". E nessun
francese potrebbe mai pensare che il 14
luglio, oltre a commemorare la presa
della Bastiglia, bisognerebbe anche
rendere omaggio a Luigi XVI, a Maria
Antonietta e alla gloriosa monarchia che
fu abbattuta dai rivoluzionari francesi
quel giorno. Com'è che invece da noi,
ogni volta, si apre una polemica? In
realtà é da una decina d'anni che questo
avviene, prima non era quasi mai così.
Il motivo, se vogliamo dire le cose come
stanno, è abbastanza semplice: la destra
italiana non sente il 25 aprile come una
festa sua, non lo ha mai sentito, perchè
ritiene che in quella data una alleanza
tra l'esercito americano e i democratici
e i comunisti italiani sconfisse la
destra storica: cioè il fascismo,
Mussolini, la repubblica di Salò. E
quindi considera il 25 aprile una festa
politica e non nazionale, una festa di
parte, e fondamentalmente una festa di
sinistra. La questione è tutta qui. E si
ingigantisce in un momento, come quello
attuale, nel quale la destra è al
governo e quindi i suoi dirigenti, che
sono rappresentanti dello Stato, si
trovano in contrasto ideale con il 25
aprile e dunque con le solenni
celebrazioni nazionali, popolari o di
stato.
Ma se le cose stanno così - e chiunque
abbia un po' di buonsenso e di onestà
intellettuale lo capisce - cosa c'entra
la sinistra con tutto questo, e perché
tirarla in mezzo alle polemiche? Ieri
anche la Stampa, con un editoriale di
Lucia Annunziata, ha posto il problema
in questi termini. Ha scritto che la
sinistra e la destra si azzuffano sul 25
aprile perché ciascuno vuole
strumentalizzarlo a suoi fini politici.
Non è così. La sinistra vuole celebrare
una vittoria politica e storica del
popolo italiano, che contribuì in modo
determinante a far cadere il fascismo e
a scacciare l'esercito di occupazione
tedesco. Cosa c'è di strumentale? Il
fatto che la maggioranza dei partigiani
fosse comunista o socialista è una colpa
della sinistra?
Se vogliamo affrontare seriamente il
problema dobbiamo dire che in Italia è
aperta da dieci anni una questione molto
seria: la questione della destra. Il
fattore "D". La destra ha assunto - dopo
mezzo secolo di emarginazione - funzioni
di governo, ma che non ha ancora trovato
la forza politica e culturale per
affrontare il suo passato e per tagliare
nettamente con esso. Resta, più o meno
consapevolmente, più o meno
volontariamente, erede del fascismo, non
sa rinunciare a questa eredità. Sente la
lotta tra partigiani e fascisti come una
guerra civile dove ragioni e torti si
equilibravano, e in questo modo non
riesce a entrare a pieno titolo dentro
la storia nazionale di questa
Repubblica. Non vuole ammettere - non ci
riesce - che questa è una Repubblica
antifascista. E' un problema che
sicuramente non esiste né in Francia né
in America, perché la destra francese e
americana non è mai stata compromessa
col nazifascismo e anzi ha contribuito a
combatterlo.
Quanto prima la destra italiana riuscirà
a superare questo suo problema, tanto
più renderà limpida e facile la lotta
politica con la sinistra. E sarà più
forte. Finché non riuscirà a compiere
questo passo (a dire a voce alta: "viva
la resistenza antifascista") e
continuerà ogni volta a contrapporre
anticomunismo e antifascismo, resterà
"minorata", cioè non pienamente libera
politicamente. Il problema è loro, non è
della sinistra.
E per fare questo, la destra deve uscire
dal suo stereotipo. Cioè dall'idea che
si possano mettere sullo stesso piano
antifascismo e anticomunismo. No, non si
può. Perché? Per questa ragione: in
Italia il partito fascista ha soppresso
la libertà e portato il paese alla
rovina, e lo ha consegnato ai nazisti;
il partito comunista, viceversa, ha
avuto una parte enorme nella battaglia
che ha portato a riconquistare la
libertà, e poi a costruire, e a
difendere, per 50 anni, la democrazia
italiana e lo Stato di diritto. Non mi
pare che sia difficilissimo afferrare e
condividere questo concetto. |
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21 aprile
Il commento
Tramonto democristiano
di CURZIO MALTESE
BERLUSCONI ha scelto di morire democristiano. Pur di tirare a
campare ancora per qualche mese, abbrancato alla poltrona,
all'ultima e unica promessa mantenuta agli italiani: "Non vi
libererete facilmente di me". Perché già la penultima, "non mi
dimetterò mai", è andata a farsi benedire. L'uomo che solo lunedì
non si sarebbe "mai piegato ai riti politicanti", nello spazio d'un
mattino o due accetta di naufragare nel più grottesco dei
voltafaccia, nel puro teatrino della politica, in antiche paludi che
si chiamano dimissioni&rimpasto, rosa dei nomi, totoministri,
verifica, orrido governo bis o balneare.
Stavolta è suo il ruggito del coniglio. Berlusconi e non Follini
appare come il vecchio democristiano di ritorno. Più ancora che la
vendetta della prima repubblica sulla seconda, questa è la comica
finale del berlusconismo. Solo l'altro giorno il premier ha regalato
ai suoi falchi l'ultimo gesto titanico, le dimissioni negate con
tanto di minacce agli alleati, l'ennesimo salto nel cerchio di fuoco
destinato all'applauso della corte dei vari Ferrara e Fede. Appena
il tempo per il cambio scena e d'abito e Berlusconi da oggi è già lì
a distribuire sorrisi, pacche, barzellette e ministeri ai nemici
mortali dell'Udc. E allora a che cosa è servita la recita
incendiaria? Soltanto a ingigantire la vittoria e la figura del
nemico interno, Follini, e a ridurre a nani politici gli alleati più
fedeli, Bossi e anche Fini.
La verità è che l'ultimo Berlusconi sbaglia tutte le mosse, almeno
quanto le azzeccava il primo. È un contrappasso totale, quotidiano.
La puntata di Ballarò del dopo elezioni era l'esatto contrappasso
della discesa in campo del '93.
Il brontolio dimissionario con cui ieri al Senato Berlusconi ha
stracciato il "contratto con gli italiani" è la risposta del tempo
al radioso comizio d'insediamento nell'estate del 2001. Allora si
celebrava l'inizio di un ipotetico ventennio ("governeremo per molte
legislature"), ora se va bene si tratta d'arrivare al panettone. Da
neothatcheriano a vecchio doroteo in soli 1400 giorni.
Fra le due immagini passa il clamoroso fallimento del berlusconismo.
Non solo nei risultati concreti, deludenti oltre l'immaginabile, con
il peggior stallo economico dal dopoguerra, il declino incombente,
l'impoverimento dei ceti medi e le grandi opere ridotte a una
villona padronale e semiabusiva in Sardegna. Ancora più definitivo è
il fallimento ideologico, culturale, nel linguaggio e nella
rappresentazione del Paese.
L'idea arrogante di poter guidare la politica e la nazione come
un'azienda, l'altra di riuscire a manipolare all'infinito con le
televisioni un'opinione pubblica infantile. Alla prima seria rivolta
di un alleato o due, i più piccoli per giunta, il mantello
d'invulnerabilità del berlusconismo è scivolato a terra e il capo si
ritrova ora a inseguire un compromesso qualsiasi, arrangiandosi con
le povere risorse dell'eterno trasformismo.
Il marasma finale è evidente perfino nel linguaggio, nelle parole e
nei gesti del Berlusconi dimissionario. Lo show di 11 minuti durante
il quale il premier ha alternato scuse di fatto a minacce virtuali,
la tardiva ammissione di sconfitta e la sicumera delle future
immancabili vittorie, una concreta retromarcia di fronte alle
divisioni nella maggioranza e la chimerica fuga in avanti verso il
partito unico della destra, l'ossequio formale al Quirinale e il
disprezzo per la Costituzione. Un guazzabuglio da stato confusionale
che le fide Rai e Mediaset, con pietoso servilismo, si sono ben
guardate dal mandare in diretta. Lo show s'è chiuso poi nel
paradosso d'una maggioranza che applaude con entusiasmo le
dimissioni del suo premier mentre l'opposizione medita in silenzio.
Su queste basi di partenza c'è da domandarsi a che cosa serva
prolungare l'agonia d'un anno con un Berlusconi bis.
Tutto lascia prevedere un anno orribile, gravido di vendette,
dispetti, regolamenti di conti. Fallito l'ultimo, Berlusconi
cercherà altri colpi di scena. Com'è nella sua natura, tornerà a
fare la voce del padrone appena sarà caduta in prescrizione anche la
minaccia del voto anticipato. I centristi possono rispondere con
altre crisi e crisette. Già ieri hanno fatto una piccola prova
generale facendo mancare la maggioranza a un decreto governativo.
Una specie di Vietnam parlamentare attende
un'Italia già stremata e impaurita dalla crisi. Le elezioni
anticipate rappresentavano almeno una soluzione decente, forse
l'ultimo dei tanti treni persi dal paese nei dieci anni buttati per
inseguire uno strano sogno.
20
aprile
Marla, pacifista, uccisa a Baghdad
Body count
Dall'aprile del 2003 si batteva per contare e risarcire le vittime civili della
guerra. Sabato è stata uccisa da un'auto-bomba
MARINELLA CORREGGIA
PPoche ore prima della sua
morte, Marla Ruzicka ha mandato negli Stati uniti la foto di una bambina
irachena, unica superstite di una famiglia colpita da un missile Usa nel 2003:
era una delle tantissime vittime che ha incontrato in questi anni, da quando
arrivò a Baghdad 26enne, nei primi giorni dell'occupazione, con pochi soldi
raccolti presso familiari e amici. Il suo obiettivo era aiutare a identificare
le vittime civili della guerra, per ottenere risarcimenti e cure per i feriti. E
così ha fatto, con ostinazione. Fino a sabato pomeriggio, quando è stata uccisa
da un'auto-bomba. L'attacco suicida era probabilmente diretto a un convoglio di
contractors: Marla e un collaboratore iracheno viaggiava in auto troppo vicino a
quel convoglio, sulla strada dell'aereoporto. Entrambi sono morti. In quei
primissimi giorni dell'occupazione di Baghdad il gruppo Iraq Peace Team,
attivisti di vari paesi che avevano trascorso le settimane di guerra in dolorosi
tour per gli ospedali a contare feriti e amputati, aveva guardato con diffidenza
quella ragazza americana, quando lei chiese aiuto e collaborazione. Ci sembrava
troppo public relations woman,
instancabilmente impegnata in incontri e perfino cene di lavoro. Soprattutto
urtava il fatto che chiedesse aiuto ai militari Usa per evacuare via elicottero
in Kuwait i feriti civili gravi.
Non sapevamo dei suoi trascorsi di attivista negli Stati
uniti (aveva lavorato per Global Exchange, gruppo di sinistra di San Francisco)
e sbagliavamo a essere diffidenti. Civic, o «Campagna per le vittime innocenti
nei conflitti», l'organizzazione fondata da Marla, già in Afghanistan nel 2002
si era assunta il compito di fare il body count per avanzare richieste di
indennizzo e aiuto agli Stati uniti. Marla voleva che almeno qualche danno fosse
risarcito e che i feriti fossero evacuati per cure urgenti, e a questo scopo la
collaborazione con la logistica degli occupanti era nei fatti necessaria. In
Iraq capì che i comandi militari avevano la libertà e le risorse necessarie per
assistere velocemente le vittime; così cercò contatti con loro e con l'autorità
di occupazione. Per questo fu accusata di fare da foglia di fico all'intervento
bellico, ambiguità di tutto l'umanitario.
Ma questa instancabile ragazza americana fin da subito
utilizzò l'appoggio offertole dal senatore democratico americano Patrick Leahy
per mettere in piedi un serio censimento dei morti, dei feriti e dei danni
materiali causati dal conflitto: i «danni collaterali». Un conto impressionante,
che era in sé una denuncia della guerra. Lei e alcuni ricercatori iracheni
girarono come trottole in tutto il paese tirando su un team con oltre cento
investigatori.
Anche grazie a Marla sono stati approvati stanziamenti per
risarcire gli afghani (7,5 milioni di dollari) e gli iracheni (10 milioni, usati
per fornire assistenza medica, offrire prestiti, ricostruire case e scuole).
Cifre infinitamente inferiori ai tragici danni inflitti dalla guerra e
dall'occupazione; ma il lavoro va avanti e Marla ha svolto l'unica attività
socio-umanitaria non medica che gli iracheni non potessero condurre da soli:
presentare il conto dei danni agli americani e battere cassa.
In quell'aprile 2003, Marla pensava di poter concludere
almeno il lavoro di ricerca in pochi mesi. Nessuno immaginava che tante vittime
dell'occupazione si sarebbero aggiunte a quelle della guerra. Così ha continuato
fino all'altro giorno a fare la spola fra Stati uniti (dove perorava le
richieste di risarcimento) e Iraq (dove aiutava a organizzare le ricerche).
Adesso, con Faiz il direttore iracheno di Civic, è andata a raggiungere la lunga
lista delle vittime civili.
Paesi baschi e ingarbugliati
Il voto di
domenica ha cambiato i termini del problema. Battuta l'opzione indipendentista
ALBERTO D'ARGENZIO
Tempo variabile sui
Paesi baschi. Dietro ai numeri, le elezioni di domenica costituiscono una
bocciatura per il lehendakari
Juan José Ibarretxe ed il suo piano
soberanista:
fare dei Paesi baschi uno stato liberamente associato alla Spagna. Se questo era
una specie di referendum sul Plan
Ibarretxe, il referendum è chiaramente
perso. La sconfitta non fa altro che dimostrare che il progetto del
lehendakari
era nato vecchio, legato ai tempi del muro contro muro lanciato dal premier
conservatore Aznar ancora nel 2001. Adesso si riparte da un progetto sconfitto e
da una situazione piena di dubbi e incertezze. I partiti
soberanisti
non legati al nazionalismo abertzale
(radicale) - Partido nacionalista vasco,
Eusko Alkartasuna,
Ezker Batua
(il
ramo basco di Izquierda
unida) e Aralar
- sommano 33 seggi. I partiti definiti costituzionalisti - socialisti e
popolari
- altri 33. Un pareggio tecnico rotto dai nove seggi raggranellati con sorpresa
dal Partido comunista de las tierras
vascas, Ehak, formazione che ha
raccolto l'eredità politica dell'illegalizzata
Batasuna.
Le urne ci regalano un garbuglio che rispecchia una società divisa e da cui si
può uscire in due maniere, o puntando a radicalizzare il progetto nazionalista o
cercando il dialogo. In gioco c'è, ed è forse la prima volta, la pace. Della
pace ha parlato ieri Arnald Otegi, leader di
Batasuna,
e parla continuamente il premier saocialista José Luis Rodriguez Zapatero. Le
voci fuori dai palazzi parlano anche di un'attività frenetica tra
Batasuna
ed il Psoe, di riunioni clandestine (una ci sarebbe stata anche ieri), per
sbloccare la situazione e creare un tavolo di dialogo.
Tornando al parlamento basco e guardando ai voti la
coalizione tra Pnv ed Ea vince le elezioni, confermandosi prima forza nella
regione, ma perde il 4% dei voti e 4 seggi e si allontana dal governo. La
coalizione perde per due ragioni: il voto nazionalista moderato si è mobilitato
assai meno che nelle elezioni precedenti del 2001 (la partecipazione è scesa dal
78,9% al 69,6%, che è comunque una cifra di due punti superiore alla media dei
sette comizi regionali precedenti) che si svolsero all'insegna dell'attacco
centralista di Aznar, ed il voto nazionalista radicale, ben lungi dal disertare
le urne, è confluito in massa sul Pctv-Ehak
Dopo l'illegalizzazione di Batasuna del 2003 solo
Ehak è riuscita a superare l'esame della magistratura spagnola passando così dal
più completo anonimato ad un trionfo impressionante: il 12,4% dei voti con 9
seggi, due in più di quanto fece Batasuna nel 2001 (peraltro il suo
minimo storico). Pesca un seggio anche Aralar, formazione indipendentista
nata da una scissione di Batasuna e da un processo di ridefinizione della
lotta basca: Aralar condanna la violenza dell'Eta e dintorni, Batasuna
non l'ha mai fatto. Tiene Eb-Iu - al governo nella scorsa legislatura con Pnv ed
Ea - che conferma i suoi tre seggi, uno per provincia.
Sul versante dei partiti costituzionalisti si assiste ad un
previsto travaso di voti: cresce il Pse, variante basca del Psoe di Zapatero, e
cade il Partido popular. Patxi Lopez, candidato del Pse, rccoglie il
22,7% dei voti, il 4% in più che equivale a 18 seggi (+5), numeri che sfiorano
il massimo storico. Maria San Gil, capolista del Pp, prende una bastonata
scendendo dal 23,1% al 17,3% e perdendo 4 seggi.
I numeri dicono che se Ibarretxe raccoglie intorno a sé Iu
ed Aralar potrà comunque diventare presidente per la terza volta anche
senza i voti di Ehak. Per essere eletti lehendakari ci vuole la
maggioranza assoluta, 38 voti du 75, ma solo al primo suffragio, al secondo
basta la maggioranza semplice. Pure eletto sarebbe comunque un presidente
debolissimo non in grado di governare se non con il compromesso continuo con il
radicalismo basco oppure con i socialisti. In pratica c'è un presidente ma non
si risolve il problema di fondo: sapere in che direzione ci si muove. Difficile
intanto ipotizzare - ma nulla si può escludere - un governo già con dentro Ehak
(di cui andrà valutato il livello di dipendenza da Batasuna) o il Pse. I
costi sono infatti al momento assai alti: pattando con i comunisti della terra
basca partirebbe una fuga in avanti poco apprezzata dalla base del Pnv, mentre
mettersi a governare con i socialisti non sarebbe facilmente giustificabile - da
entrambi le parti - in questa prima fase della legislatura (a meno che Ibarretxe
non si faccia da parte).
In questo stallo potrebbe crearsi una situazione a due
livelli: da un lato un parlamento per amministrare e dall'altro la creazione di
un tavolo con tutte le forze politiche per parlare di pace. Il dialogo senza
preclusioni veniva caldeggiato ieri sia da Otegi che da Pepe Blanco, segretario
di organizzazione del Psoe e ombra di Zapatero. A dire di apertamente no è solo
il Pp, una posizione sorda e pesante visto che potrebbe spingere il Psoe a fare
marcia indietro per non venire accusato di disarticolare lo Stato spagnolo.
Al momento sono comunque solo congetture. La settimana
prossima inizia il tempo delle consultazioni con Ibarretxe che incontrerà tutti
i partiti dello spettro politico basco per concludere la girandola a Madrid con
Zapatero.
19 aprile
IL COMMENTO
L'agonia
di un'alleanza
di EZIO MAURO
L'UOMO che ha resuscitato la destra
italiana, portandola dal nulla al governo, oggi la tiene prigioniera
del suo destino, che non è politico e tantomeno istituzionale, ma
solo privato e personale. A quel destino di comando e di
invulnerabilità, quasi di predestinazione, Berlusconi sta
sacrificando tutto, scuotendo le colonne che reggono il tempio della
Casa delle libertà.
La prova è un colpo di teatro che in realtà è un colpo di mano sulla
strada che lo portava al Quirinale, dove Fini e Follini erano certi
che si sarebbe dimesso, mantenendo la parola data agli alleati poche
ore prima. Invece Silvio Berlusconi ha detto al Presidente della
Repubblica che non intende dimettersi perché ha conservato la
fiducia dell'Udc, pur avendo perso i suoi quattro ministri: dunque
la sua maggioranza è numericamente intatta, anche se politicamente a
pezzi.
Di fronte a questo quadro, Ciampi ha rinviato il premier alle Camere
"senza indugio" per certificare se Berlusconi ha ancora un futuro, o
se le urne sono la strada maestra per la fine di quell'avventura.
Formalmente, il premier può fingere di non sentire l'obbligo di
dimettersi. Politicamente non può evitare di prendere atto che un
intero partito si sfila dal suo governo, con Fini sempre più ridotto
a far la foglia d'insalata, insapore, nel sandwich nordista
Bossi-Berlusconi.
Invece di seguire la ragione che consigliava un Berlusconi-bis, il
premier ha seguito ancora una volta l'istinto, truffando i suoi
alleati ma soprattutto truffando se stesso con la finzione esoterica
che esista ancora la Casa delle libertà e il suo leader. Va in
scena, con più cupezza, un deja vu e oggi come nel '94 il
Cavaliere dimostra di essere una formidabile macchina elettorale ma
un pessimo uomo politico, perché sfascia la sua alleanza.
Avevamo avvertito
che l'agonia politica del berlusconismo sarebbe stata terribile
perché il Cavaliere non accetta le sconfitte e per evitarle è pronto
a tutto, compreso il peggio. Oggi, in anticipo, siamo davanti a un
concentrato di quel peggio. Con il premier che pur di durare un
giorno in più si gioca il futuro dell'intera destra.
14 aprile
Game over
ROBERTA CARLINI
Joaquim Almunia è solo l'ultimo dei problemi di Berlusconi e
la contestazione della Commissione europea sui conti pubblici italiani è quasi
un solletico per il premier rispetto ai fendenti menati dai suoi stessi alleati
in parlamento e dagli ex alleati in Confindustria. Pure, nella crisi aperta
dall'estate scorsa nella maggioranza di governo e precipitata con il voto delle
regionali, il richiamo del mite commissario europeo pesa come un macigno: non
tanto per i suoi risvolti immediati (che pure ci saranno, a partire dai mercati
finanziari), quanto per l'ipoteca che viene messa sulla legge finanziaria per
l'anno prossimo, alla quale l'attuale (ex) maggioranza affida tutte le residue
speranze di composizione della crisi interna e rimonta elettorale. Il
commissario Almunia - e con lui, nello stesso giorno, la Corte dei conti
italiana - certifica una realtà ampiamente nota: i conti pubblici italiani sono
fuori controllo, il rapporto tra il deficit e il prodotto interno lordo sale ben
oltre le formulette di Maastricht. Qui da noi non c'era nessuno che non l'avesse
intuito sin dai primi condoni e trucchi contabili. La crisi economica,
nell'aggravare la situazione, ha avuto almeno un risvolto benefico per il
governo Berlusconi: quello di essere un «male comune», che non è diventato mezzo
gaudio ma almeno ha messo altri paesi (in primis Francia e Germania) nella
stessa situazione e ha reso evidente la «stupidità» di quelle formulette. Così,
i parametri di Maastricht si sono allentati, i giudizi finali sono diventati
meno stringenti, i governi hanno ripreso un qualche ruolo, c'è un margine di
trattativa e mediazione anche nelle stanze di Bruxelles. Ma questo, portato a
Roma, non vuol dire licenza di fare qualsiasi cosa. In particolare, non vuol
dire che il governo Berlusconi-Fini-Follini-Bossi per rincorrere tutti e quattro
i rispettivi elettorati possa scassinare i conti pubblici nella finanziaria per
il prossimo anno.
E' sulla finanziaria per il 2006 che pesa infatti l'ultimo avvertimento europeo,
che parla di uno sforamento dei tetti di deficit a bocce ferme. Per effetto del
venir meno di una tantum e condoni, l'anno prossimo già andremmo ampiamente in
rosso. A questa tendenza già in atto, a seguire la «soluzione» della crisi che
si va profilando nelle stanze del palazzo, andrebbero aggiunti i miliardi (di
euro) necessari per tagliare le imposte sul reddito come vuole Berlusconi, i
miliardi necessari per dare soldi al sud e agli statali come chiedono Fini e
Follini, i miliardi necessari per abolire l'Irap come pretende la Lega. Non c'è
bisogno di essere economisti esperti per capire che le risorse non bastano per
tutti, e che neanche Pomicino potrebbe gestire una legge finanziaria così
concepita.
Se ne è accorto anche il ministro dell'Economia Siniscalco, che, strattonato da
più parti (in modo anche brusco dai quotidiani «forti», Corsera e Sole
24 Ore), ieri ha dichiarato il «game over» sulla finanza creativa, da lui
stesso finora gestita e organizzata alla grande, con o senza Tremonti. Non solo:
Siniscalco si è anche dichiarato contrario a «finanziarie elettorali»,
accreditando un suo ruolo di supertecnico che da ottobre in poi starà a guardia
delle casse di stato. Nelle stesse ore, negli uffici politici degli ex alleati
di Berlusconi si metteva a punto la lista delle spese considerate
imprescindibili per rilanciare l'esecutivo.
Difficile immaginare cosa produrrà questo mix sull'autunno, sulla finanziaria e
sul paese. Ma un piccolo anticipo l'abbiamo già avuto, nel decreto solennemente
battezzato «per la competitività»: di fronte a una crisi economica e industriale
senza precedenti, il governo ha servito un fritto misto fatto di lotta ai
cinesi, aiuti al turismo, autocertificazioni, un po' di strade, un briciolo di
ricerca e sviluppo. Il fritto misto poi è stato sommerso dagli emendamenti della
stessa maggioranza - in parte provenienti dagli stessi ministri - appena è
arrivato in parlamento. E se questo succede per un modestissimo decreto, la
finanziaria - e ancor prima il Dpef, che va presentato entro l'estate - appare
sempre più una missione impossibile per questa maggioranza. Ci sarebbe di che
dichiarare un «game over» più generale: se non l'avessero già fatto gli elettori
il 3 e il 4 aprile.
12 aprile
Il retroscena.
C'è forte preoccupazione anche tra i banchieri
E la Confcommercio, che puntò sul Cavaliere: pensi alle famiglie
Così svanisce il "patto di Parma"
poteri forti in fuga dal premier
Sorpresa in ambienti vicino a Banca d'Italia
Il voto farebbe saltare il decreto competitività
di ROBERTO MANIA
Luca di Montezemolo
ROMA - Nel 2001 la Confindustria aveva scommesso su
Berlusconi. Ora, quattro anni dopo, chiede le elezioni anticipate se
non ci sarà un governo capace di governare. È l'ultimo strappo
quello consumato ieri tra il presidente degli industriali, Luca
Cordero di Montezemolo, e il leader del centrodestra. E dalla loro
parte gli industriali trovano già i commercianti e i sindacati,
pezzi di quei "poteri forti" o di quello "Stato parallelo", per
dirla con il premier, che ogni giorno fanno i conti con la crisi
dell'industria, con la perdita di competitività e di posti di
lavoro. È l'emergenza economica il collante di questo nuovo
schieramento. La stessa emergenza che preoccupa il sistema delle
banche impegnato in una sfida senza precedenti a contenere l'assolto
dei gruppi stranieri.
Montezemolo ha dovuto utilizzare tutto il pomeriggio di ieri per
spiegare, anche ai suoi colleghi industriali, che con la
"dichiarazione di Legnano" non intendeva affatto far precipitare la
Confindustria nell'arena della lotta politica. "Dietro le mie
affermazioni - ha ripetuto - non c'è assolutamente nulla. Noi non
siamo e non vogliamo passare come quelli che spingono per le
elezioni anticipate o che si schierano con una parte. Di certo c'è
che non possiamo reggere con un governo di galleggiamento. La
difficile situazione economica non lo permette". Ma la novità,
concordata il giorno prima con il fedelissimo Maurizio Beretta,
direttore generale di Viale dell'Astronomia, non è sfuggita a
nessuno: aver pronunciato per primo - tra i rappresentanti dei
"poteri forti" - la parola "elezioni". Cosa che non aveva fatto
nemmeno Guglielmo Epifani, leader della Cgil. Montezemolo lo ha
fatto e non, come il leader di Forza Italia, per sfidare i suoi vice
Gianfranco Fini e Marco Follini, bensì "nell'interesse del Paese".
In sintonia, però, proprio con Fini e Follini.
Alla vigilia del voto Montezemolo aveva rimproverato al presidente
dell'Assolombarda, Michele Perini, di essersi schierato con Forza
Italia, raccomandando a tutti i vertici degli industriali di restare
fuori dalla contesa. La mossa di ieri - nelle sue intenzioni - è
coerente con questa "neutralità" tra i due poli.
Montezemolo ha deciso di imprimere un'accelerazione dopo le cautele
con cui aveva commentato l'esito delle regionali. In un primo tempo,
infatti, il presidente della Confindustria e della Fiat (il più
grande gruppo industriale del Paese, come sottolineavano ieri le
agenzie di stampa internazionali) si era limitato a parlare di
priorità dell'economia e della centralità delle imprese nella
successiva azione di governo. Tutto in linea con quanto fino ad
allora sostenuto, in particolare all'assemblea della piccola
industria a Bari, un paio di settimane prima del voto. Ma lo scontro
nella Casa delle libertà e le dimensioni del terremoto elettorale
hanno fatto maturare nel sistema delle imprese la richiesta di una
svolta: o le elezioni o un "governo che governi". Così, ormai, la
pensano anche i commercianti che al centrodestra il voto, nel 2001,
non l'avevano certo negato. La crisi sta tagliando le gambe anche a
loro. "Sarebbe indispensabile - ripete da giorni il presidente
Sergio Billé - che la coalizione di governo facesse uno sforzo per
"sintonizzarsi" sulla lunghezza d'onda di famiglie e imprese. Di
discorsi ondivaghi ne abbiamo abbastanza".
L'uscita di Montezemolo è stata quasi una liberazione per i
sindacalisti, che di elezioni ancora non avevano parlato. Da ieri lo
fanno anche loro. La Cisl di Savino Pezzotta, che nel 2001 divise
esattamente a metà i suoi consensi tra centrosinistra e
centrodestra, non ragiona diversamente dalla Confindustria. "Non
compete a noi - spiegava in serata Pezzotta - indicare la strada
delle elezioni. Ma se non si va al voto anticipato i problemi sono
questi: Mezzogiorno, competitività delle imprese, riduzione del
costo del lavoro e tutela dei redditi da lavoro pensione e da
pensione. O si affrontano questi nodi o si va alle elezioni ma senza
programmi elettorali demagogici. Non si può più nascondere la
verità. Montezemolo ha detto cose di buon senso perché siamo proprio
in emergenza. Ed è peggio del '92. Ma almeno, allora, avevamo
davanti la sfida dell'euro". In alternativa al voto anticipato
Pezzotta arriva a ipotizzare un accordo bipartisan per uscire dalla
crisi.
Di elezioni, ovviamente, non si parla dalle parti
di Via Nazionale, sede della Banca d'Italia. Dopo le dimissioni
dell'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, i rapporti tra
Palazzo Chigi e il governatore sono tornati corretti. Il tentativo
di difendere l'italianità del sistema del credito li ha ancor più
avvicinati. Resta il fatto che la certezza nell'azione di politica
economica è sempre stata considerata una priorità da parte del
governatore Antonio Fazio. E ieri, negli ambienti della banca
centrale, in molti sono stati colti di sorpresa dalla dichiarazione
del presidente della Confindustria. Perché un eventuale ricorso alla
urne rinvierà tutto, a cominciare dal pacchetto sulla competitività:
cioè quel primo passo che era stato riconosciuto sia da Fazio sia da
Montezemolo, ma forse è arrivato fuori tempo massimo.
Secondo il
sindacato, nel tesserino di riconoscimento
c'è uno strumento per controllare gli spostamenti dei lavoratori
"Microchip spia per dipendenti"
la Cgil denuncia Mediaset
di LUCA FAZZO
Gli studi Mediaset
a Cologno Monzese
MILANO - Appena venti giorni fa il Garante per la privacy
aveva messo in guardia contro l'utilizzo degli strumenti per
controllare a distanza i lavoratori. E ora si scopre che ad
impiegare i microchip nascosti nei tesserini di riconoscimento è
l'azienda fondata dal presidente del Consiglio. Ieri mattina
Mediaset e tre società controllate dalla holding del Biscione (Videotime,
Rti e la Elettronica Industriale) sono state denunciate dalla Cgil
per comportamento antisindacale al Tribunale del Lavoro di Milano.
I vertici di Mediaset sono accusati di avere inserito nei nuovi
badge con banda magnetica distribuiti alla fine del 2004 ai circa
2.500 dipendenti, un microcircuito Rfid ("Radio Frequency
Identification"). È un chip di ultima generazione che viene
utilizzato in genere per i controlli sugli spostamenti delle merci e
degli oggetti (è un Rfid, per esempio, a far funzionare il Telepass
ai caselli autostradali) ma che il gruppo del Biscione applica
invece alle persone: in questo modo, secondo il sindacato, Mediaset
potrebbe seguire in diretta e archiviare in banca dati tutti gli
spostamenti dei suoi dipendenti sul luogo di lavoro. Una specie di
Grande Fratello aziendale in grado di pedinare passo per passo ogni
lavoratore.
Ieri, alla notizia della denuncia, Mediaset manifesta "stupore".
"Per due volte - spiegano i portavoce di Cologno Monzese - abbiamo
rassicurato a voce e per iscritto i sindacati sull'utilizzo di
queste tecnologie. Si tratta semplicemente di un chip che agevola
gli spostamenti interni. Noi lo chiamiamo chip di prossimità: le
porte si aprono da sole all'avvicinarsi del dipendente senza bisogno
di strisciare la tessera, le sbarre dei parcheggi si alzano da sole.
Ammesso, e non concesso, che queste tecnologie consentano un
controllo a distanza, Mediaset non è interessata a utilizzarlo. Ci
risulta peraltro che in numerose altre aziende questa tecnologia
venga impiegata senza problemi".
Ma i rappresentanti della Cgil in Mediaset, evidentemente, non si
sono convinti della totale inoffensività del nuovo marchingegno
elettronico. Ed è scattata la denuncia contro l'azienda per
violazione dell'articolo 28 della legge 300 del 1970, lo Statuto dei
Lavoratori. La legge vieta espressamente i controlli a distanza
dell'attività lavorativa mediante impianti audiovisivi ed altre
apparecchiature; ed è proprio questa norma, secondo i sindacalisti,
ad essere violata dall'introduzione del nuovo tesserino.
"Il badge introdotto lo scorso anno e consegnato a ciascun
dipendente, che è tenuto a tenerlo con sé negli spazi aziendali,
consente un controllo a distanza dell'attività dei lavoratori", si
legge nella denuncia firmata dagli avvocati Mario Fezzi, Stefano
Chiusolo e Maurizio Borali. E ancora: "Un badge contenente il chip
Rfid consente al datore di lavoro di ricostruire i movimenti di ogni
dipendente nell'arco dell'intera giornata lavorativa. In tal modo
sarà possibile sapere quanto tempo ogni dipendente è rimasto alla
propria postazione lavorativa, quanto tempo è stato in bagno o in
mensa o alla macchinetta del caffè, quali e quanti colleghi di
lavoro siano entrati in contatto con lui, quanto a lungo si sia
intrattenuto nei locali sindacali, se abbia o meno partecipato alle
assemblee sindacali, eccetera".
Per spazzare via i dubbi sulle reali finalità dell'innovazione,
sostengono gli avvocati del sindacato, sarebbe bastato che Mediaset
rendesse noto l'elenco delle antenne piazzate all'interno degli
uffici e dei reparti che rilevano la "presenza" del lavoratore
dotato dei nuovi tesserini. Ma i vertici dell'azienda - secondo
quanto si legge nella denuncia - hanno sempre rifiutato di fornire
questo elenco.
Nelle gallerie
sotto la città la polizia municipale dà la caccia
alla nuova mala di pusher magrebini di 14 anni
Come topi nel ventre di Torino
le baby gang invadono le fogne
Ragazzi senza più paura di nulla, disperati e aggressivi
Vivono e forse muoiono là sotto
di MAURIZIO CROSETTI
TORINO - Si entra qui, in questa specie di bocca di caverna
sotto il parco del Valentino. Qui, dove le fogne si gettano nel Po,
gli spacciatori bambini si infilano nell'intestino della città. Età
media, quattordici anni. Altezza media del cunicolo, un metro e
sessanta. Altezza dell'acqua, uno e venti. Larghezza del tubo di
scarico all'uscita sotto il tombino, un chilometro e mezzo più
avanti: settanta centimetri. Puzza, buio, paura. Escrementi, piscio,
hashish, urla. Scappare. Catturarli.
E' successo tre giorni fa, in pieno pomeriggio: gli uomini della
polizia municipale intercettano i baby spacciatori, li rincorrono,
quelli vanno verso il fiume - si tufferanno? cosa diavolo hanno in
mente? - e poi spariscono. Nella fogna. E i vigili dietro, carponi.
"All'inizio si passa abbastanza bene, c'è una specie di cascatella,
poi il condotto diventa più ripido" racconta uno di loro, M., una
vita in borghese e in incognito, berrettino di lana nero sugli
occhi, basso di statura, tarchiato. "Siamo stati lì dentro quasi due
ore, loro erano una decina, bisognava capire dove fossero, è un
labirinto incredibile, è tutto scuro, avevamo le torce elettriche ma
anche loro le avevano, sono attrezzati, ci sono buchi nelle pareti
dove tengono la droga e le pile, mica improvvisano".
Come topi, tutti, gli spacciatori e i poliziotti. Sopra, la città
dei cantieri olimpici, dei fragori di ruspe e betoniere. Sotto,
loro. Insieme ai cani dell'unità cinofila K9. "Sono riemersi qui,
nello scavo del metrò davanti alla stazione di Porta Nuova". La
scena è da vecchio fumetto di Topolino, o da bizzarro film d'azione.
Il coperchio rotondo di un tombino che si solleva da solo, dieci
giovani marocchini che ne sbucano come tappi di champagne o minatori
stremati, dopo l'ultimo tratto di arrampicata, i poliziotti dietro,
gli operai con le pale in mano e neanche una parola in bocca, solo
stupore. "Ne abbiamo presi tre, rincorrendoli dietro la Sinagoga
verso San Salvario, il quartiere nero di Torino, gli altri sono
scappati". La solita scena, i pusher che non hanno documenti e
dichiarano dieci, dodici anni, sono sempre gli stessi, minorenni sì
ma non così piccoli. Però nelle fogne non erano mai scesi.
Hanno le mappe in testa, sanno bene
dove infilarsi. Dal Valentino c'è un sentiero sterrato, pieno di
immondizie e sterpi, sotto alberi invernali scheletrici. Un posto da
paura anche in pieno giorno, terra di delinquenti, zona franca (e
accidenti com'è minaccioso il cartello del Comune che intima:
"Vietato il gioco del pallone"), ma ormai anche il centro storico
oltre il corso Vittorio Emanuele è in ostaggio agli spacciatori
africani, via San Massimo, via Mazzini, via dei Mille, qui polizia e
carabinieri non riescono a fare nulla, non ci sono quasi mai.
Arresi. La caverna è lì sotto, accanto a un imbarcadero. Si entra
passando sotto una specie di arco naturale, poi la volta della
fognatura s'abbassa di colpo e allora bisogna chinarsi. "Due ore
nell'acqua sporca che arrivava a mezza gamba e anche più su, a un
certo punto la sfioravo con la faccia" racconta il poliziotto. "Mi
sentirò la puzza addosso per giorni, qui non bastano venti docce".
L'intestino di Torino non è un luogo di fughe improvvise, è un
territorio organizzato dalle bande. Queste erano le gallerie di
Pietro Micca, il kamizake contro i francesi, e delle carrozze del
Re, oggi è un incrocio di strade nere per lo spaccio di droga, per
sparire e riapparire altrove sotto una grata divelta o un tombino.
C'è chi ci vive, come i quindici bambini e ragazzi magrebini trovati
negli scantinati della casa che fu di Gramsci, in piazza Carlina,
cuore barocco torinese.
Succede sotto il centro storico, sotto il parco più importante della
città, sotto la stazione di Porta Nuova e San Salvario ma anche
sotto Porta Palazzo, la zona del mercato, dove i "napuli" di Mimì
Metallurgico sono stati sostituiti dagli africani, dagli islamici
con le moschee nei palazzi decrepiti e i loro negozi, le bancarelle
del tè verde e delle spezie, le macellerie soprattutto. Qui, in via
Noè, è stato appena scoperto un nodo di gallerie che collegavano un
phone center con il cortile di una casa popolare di ringhiera, dallo
spacciatore al consumatore senza mai uscire alla luce. Come non
uscivano certi clienti del phone center, così gli agenti del
commissariato Dora Vanchiglia hanno pensato che non potevano essere
spariti nel nulla. Nel nulla no, nella pancia della città invece sì.
"Io guadagno anche trecento euro al giorno e non penso proprio di
tornare a casa, in Marocco, è un posto troppo brutto" racconta Nabil,
spacciatore di tredici anni che ne dichiara sei e indossa solo
scarpe da ginnastica firmate. Come lui, altri cinquanta ragazzini
fanno i corrieri della droga, nelle strade e in piazza Vittorio
Veneto, e adesso nelle fogne, l'ultima novità dello spaccio. Poi ci
sono i bambini rumeni che invece borseggiano e scippano, ci sono le
piccole prostitute, i mendicanti ai semafori, un mondo sommerso che
sa di sottosuolo anche quando non entra e non esce dai tombini.
"Nell'arco di un anno intercettiamo circa quattrocento minori"
spiega Laura Marzin, responsabile dell'Ufficio minori stranieri del
Comune. "Non si può fare molto a parte esserci, offrire l'esempio di
un adulto positivo, ma questi sono ragazzi senza più paura di nulla,
disperati, aggressivi".
Come i bambini di Bucarest, vivono e scappano e
spacciano e si bucano e qualche volta muoiono lì sotto, con poca
aria e ancora meno voglia di respirarla, dove un tubo di scarico è
largo mezzo metro ma sempre più di qualunque futuro, molto di più.