«Per non finire all'inferno»
Trasformare le Nazioni
unite
....segue
L'idea del progetto onusiano era stata,
inizialmente, di Franklin Delano Roosevelt. Alla sua morte, tredici giorni prima
della conferenza di San Francisco, Harry Truman dovette farsene carico. In
confronto a lui, George W. Bush è un grande viaggiatore: prima di allora, Truman
era stato in Europa una sola volta, per combattere durante la prima guerra
mondiale. Cionondimeno egli capì l'importanza dell'impegno americano a favore
delle Nazioni unite: «L'America - egli disse - non può andare avanti rimanendo
con sufficienza dietro una linea Maginot mentale (1)».
La posta in gioco era troppo grande: «In un mondo privo di un dispositivo del
genere, saremmo per sempre alla mercé della paura della distruzione. Era
importante per noi assumere l'impegno, nonostante le imperfezioni di questo
inizio (2)». Le imperfezioni del sistema onusiano
furono palesi fin dalla fondazione.
L'organizzazione poggiava su evidenti contraddizioni. In primo luogo, la sua
creazione era necessaria perché non si poteva contare su stati avidi e bellicosi
per evitare la guerra, rispettare i diritti dei loro cittadini o alleviare le
sofferenze dei popoli insediati fuori dalle loro frontiere. Eppure, è a questi
stessi stati egoisti che l'organizzazione affidava la messa in opera dei
principi delle Nazioni unite.
In secondo luogo, così come la Costituzione americana aveva reso omaggio
all'uguaglianza pur legittimando la schiavitù, così la Carta delle Nazioni unite
proclamava il diritto all'autodeterminazione e incoraggiava la decolonizzazione,
mentre numerosi stati membri erano restii ad abbandonare le loro colonie (la
decolonizzazione portò il numero di paesi membri da 51, l'anno di nascita
dell'organizzazione, a 117 vent'anni dopo; attualmente conta 191 membri). Terzo
punto, le Nazioni unite concedevano lo stesso voto alle dittature e alle
democrazie, mentre la Carta si schierava invitando gli stati membri al rispetto
dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
Quarto punto, come ogni organizzazione, l'Onu dipendeva da una direzione che
deteneva l'autorità, ma il potere fu dato a un comitato, il Consiglio di
sicurezza, in preda a liti interne e dominato da cinque membri permanenti dagli
interessi e dai sistemi politici largamente divergenti.
Figura di punta dell'organizzazione, il Segretario generale fu nominato per
svolgere esclusivamente le funzioni di «direttore amministrativo generale». Egli
era al servizio degli stati, come si desumeva perfettamente dal nome dato al suo
ufficio: una «segreteria». Infine, quinto punto, la fondazione dell'Onu poggiava
sull'idea che le aggressioni transfrontaliere, principale causa della prima
guerra mondiale, costituivano la più grave minaccia occorsa all'umanità: la
storia avrebbe dimostrato che le minacce più serie potevano venire da Stati che
violano i diritti dei propri cittadini, all'interno delle loro frontiere, o da
terroristi che non si curano delle frontiere. L'Onu è stata derisa fin dalla sua
istituzione, ma mai aveva conosciuto un anno nero come il 2004, definato dal suo
segretario generale Kofi Annan come «annus horribilis». A dire il vero, è nel
2003 che è iniziata per l'organizzazione la caduta brutale, quando gli Stati
uniti, il membro più potente, hanno investito, assieme con il Regno unito, un
Consiglio di sicurezza diviso, per ottenere che fosse dichiarata la guerra
contro l'Iraq.
Dopo la guerra e il relativo successo americano, certi europei contrari al
conflitto cercarono un terreno di accordo con gli americani. Vittoria per gli
Stati uniti, il Consiglio di sicurezza votò una risoluzione che riconosceva
l'occupazione americana dell'Iraq; vittoria per l'Europa, questo stesso
Consiglio intimò a Kofi Annan di inviare una missione politica dell'Onu in Iraq,
per accelerare il passaggio dei poteri agli iracheni. Il Segretario generale non
si è praticamente mai sentito in grado di opporre un rifiuto al Consiglio di
sicurezza. E, in questo caso, era così ossessionato dal fatto che gli americani
accusavano le Nazioni unite di perdere la loro «pertinenza» che si precipitò a
venire in loro aiuto. In realtà fece di più, offrendo «ciò che l'Onu aveva di
meglio», nella persona del suo amico di vecchia data, Sergio Vieira de Mello, il
diplomatico e costruttore di nazioni più esperto dell'organizzazione.
Undici settimane dopo il suo arrivo in Iraq dove doveva cercare di portare a
termine il suo mandato paradossale (come poter allo stesso tempo aiutare e
smantellare una occupazione?), de Mello e altre ventun persone trovarono la
morte in un attentato-suicida. Le cose andarono peggio nel 2004. Si scoprì che i
soldati della pace inviati dal Marocco, dall'Africa del sud, dal Nepal, dal
Pakistan, dalla Tunisia e dall'Uruguay avevano usato violenza contro ragazze in
Congo e in Liberia. Alcuni funzionari delle Nazioni unite responsabili del
programma petrolio in cambio di cibo (oil for food), destinato a garantire
l'alimentazione degli iracheni alla fine degli anni novanta, e che ammontava a
65 miliardi di dollari, furono accusati di avere incassato tangenti. La
Commissione delle Nazioni unite per i diritti umani, presieduta nel 2004 dalla
Libia, elesse di nuovo il Sudan con un mandato triennale nel 2004, nel bel mezzo
di una campagna di massacri etnici che aveva già fatto decine di migliaia di
vittime nel paese. All'inizio del 2005, mentre l'organizzazione toccava il
fondo, l'amministrazione Bush annunciò che il prossimo ambasciatore americano
presso l'Onu sarebbe stato John Bolton, un uomo che non riconosce l'esistenza
del diritto internazionale e che ha dichiarato che se le Nazioni unite
«perdessero dieci piani, ciò non cambierebbe assolutamente nulla». Nessuno
mostrò di essere sorpreso quando, il 29 maggio scorso, durante una conferenza
stampa, un giornalista chiese al Segretario generale se pensava che fosse giunta
l'ora di dare le dimissioni. Kofi Annan ha sempre scherzato con le iniziali
della sua funzione, «Sg», che egli traduce con «Scape Goat - capro espiatorio».
Tuttavia, contrariamente a quanto ci si aspettava da lui, ha risposto: «Non se
ne parla neppure»! E ha promesso invece di avviare una serie di riforme in
occasione delle celebrazioni del sessantesimo anniversario dell'Onu, a
settembre.
La «riforma delle Nazioni unite» è oggetto di un dibattito che,
complessivamente, non ha portato a nulla di utile, da quando esiste
l'organizzazione.
Ma mai l'argomento è stato affrontato con tanta disperazione come oggi. In una
organizzazione dove i posti sono difficili da strappare, ma impossibili da
perdere, vari responsabili chiave, altolocati, nella cerchia del Segretario
generale, sono stati silurati. Il Segretario generale ha raccomandato di
sciogliere la Commissione dei diritti umani, imbarazzante per il suo facile
accesso, e di sostituirla con un consiglio ristretto dove siederebbero gli stati
veramente rispettosi di questi diritti. La Germania, il Giappone, il Brasile e
l'India hanno costituito un blocco per ottenere di entrare come membri
permanenti in un Consiglio di sicurezza allargato. Alcuni paesi africani si sono
anch'essi messi in coda (3). È negli Stati uniti
che una riforma delle Nazioni unite viene richiesta da più voci e con più forza
e autocompiacimento. I motivi dei presunti «riformatori» sono vari. Il capofila
della maggioranza alla Camera dei rappresentanti, Tom DeLay, i cui attacchi
contro il sistema onusiano non sono di ieri, si aspetta da una riforma che
restringa l'autonomia dell'organizzazione, «una tra le maggiori difese al mondo
della tirannia e del terrore». Henry Hyde, collega di Delay, ha recentemente
presentato un progetto di legge, votato dalla Camera dei rappresentanti il 17
giugno, che prevede una riduzione del 50% delle sovvenzioni americane se
l'organizzazione non accetterà, nel 2007, almeno 32 delle 46 condizioni imposte
da Washington.
L'amministrazione Bush si oppone, giustamente, a questo progetto di legge che,
dice, «svaluterebbe» l'influenza degli Stati uniti all'Onu, nel momento in cui
essi ne hanno maggior bisogno e, ancora più importante forse per un governo che
pratica la concentrazione dei poteri, perché interferirebbe con l'autorità del
presidente in materia di politica estera. Prendendo le distanze da Delay e Hyde,
il governo americano ha pubblicamente appoggiato l'appello lanciato da Kofi
Annan per sopprimere la Commissione dei diritti umani e rimaneggiare le modalità
di gestione e amministrazione dell'organizzazione. Ha chiesto la costituzione di
un «comitato di democrazie» e l'adozione di una convenzione sulla lotta al
terrorismo. I dirigenti americani chiedono che questi cambiamenti siano attuati
prima che l'Assemblea generale si impegni in un dibattito sull'allargamento del
Consiglio di sicurezza. «Non vogliamo che tutto lo spazio sia occupato» da un
dibattito sul Consiglio di sicurezza, dice il sottosegretario di stato, Nicholas
Burns. Il governo americano appoggia la proposta tesa a concedere un seggio
permanente (ma non un diritto di veto) al Giappone, secondo grande donatore
dell'organizzazione, nonché a un altro paese. Parimenti, Washington sostiene
l'idea di aggiungere «due o tre» seggi non permanenti.
Un aumento più spettacolare di nuovi membri non sarebbe «facilmente digeribile»
e appesantirebbe ulteriormente questo organo decisionale.
Il Consiglio di sicurezza finirebbe addirittura per rassomigliare al poco
gestibile Consiglio dei 26 della Nato. Tuttavia, il presidente Bush è rimasto
vago sulle probabilità delle candidature del Brasile, della Germania e
dell'India: «Noi non ci opponiamo alla richiesta di alcun paese di far parte del
Consiglio di sicurezza», ha detto il 27 giugno, non a caso, subito dopo che
aveva incontrato il cancelliere tedesco Gerhard Schröder. Tra i responsabili
dell'Onu a New York, l'idea è accolta favorevolmente.
Come potrebbe andare diversamente, visto che l'organizzazione soffre di cattiva
fama nel paese stesso dove ha sede? Ciononostante, i più anziani, tra i
funzionari più rodati del palazzo di vetro, si dicono scettici circa la portata
di questa riforma, poiché i problemi che colpiscono l'Onu sono molto spesso il
risultato di incrinature che risalgono alla sua istituzione nel 1945 e di
politiche deliberate da parte dei paesi membri più potenti dell'organizzazione.
«Far ricadere sulle Nazioni unite la responsabilità» del genocidio nel Ruanda, o
del programma di armi nucleari in Iran, dice spesso Richard Holbrooke,
ex-ambasciatore americano presso l'Onu, «è come rendere responsabile il Madison
Square Garden quando i New York Knicks (4)
giocano male». Le Nazioni unite sono prima di tutto... un palazzo.
Per restaurarlo, bisogna riformare il comportamento e le priorità degli stati
che esso ospita. Prendiamo due esempi noti della «crisi» che scuote
l'organizzazione: il mantenimento della pace e la cattiva gestione. Prima dello
scandalo del programma oil for food, niente aveva macchiato di sangue la
bandiera onusiana più dei massacri nel Ruanda e a Srebrenica - carneficina
perpetrata negli anni 1994-1995 in presenza delle forze Onu incaricate del
mantenimento della pace. Mentre dirigeva il dipartimento delle operazioni di
mantenimento della pace, a New York, Kofi Annan fu avvertito dell'imminenza
degli stermini da Romeo Dallaire, suo generale sul campo nel Ruanda.
Imperdonabilmente, Kofi Annan non trasmise questo allarme al Consiglio di
sicurezza. Ma chi porta la più alta responsabilità per aver lasciato che il
genocidio fosse compiuto? Kofi Annan, che ritenne che l'allarme avrebbe spinto
gli stati membri a non fare nulla o a fuggire dal Ruanda (previsione che si
avverò durante il genocidio, quando le potenze occidentali si accontentarono di
ritirare i caschi blu)? Oppure William Clinton che, temendo il coinvolgimento
delle forze americane in questo pantano, chiese l'evacuazione dei caschi blu
mentre i massacri erano già ampiamente iniziati? O ancora François Mitterrand,
che aveva contribuito ad armare e a istruire gli autori del genocidio e i cui
soldati furono paracadutati perché portassero aiuto ai principali autori del
genocidio durante gli ultimi giorni della tragedia? È cambiato qualcosa? Certo.
Le nazioni occidentali hanno tenuto conto delle «lezioni degli anni '90». Ma non
assicurandosi che il mantenimento della pace si svolgesse correttamente. Ne
hanno tenuto conto evitando puramente e semplicemente di impegnarsi al
mantenimento della pace.
Le forze armate dei paesi occidentali che servono sotto la bandiera delle
Nazioni unite sono diventate rarissime eccezioni. I paesi che forniscono i
contingenti più grossi sono oggi il Bangladesh, l'India, il Pakistan, l'Etiopia
e il Ghana. Le operazioni militari riuscite dell'ultimo decennio - intervento
Nato nel Kosovo nel 1999, operazione australiana di salvataggio di Timor
orientale nel 1999 e missione britannica nella Sierra Leone nel 2000 - non sono
state condotte dalle Nazioni unite ma da «coalizioni volontarie»: Invece di
rafforzare strutture collettive che consentano di svolgere essenziali compiti
umanitari e di mantenimento della pace, i paesi ricchi hanno deciso di fare da
sé o di restare a casa.
Sono i paesi poveri che si ritrovano incastrati per gestire i casi più duri,
come oggi il Congo e il Darfur. Ma, a proposito del mantenimento della pace, è
difficile parlare dell'Onu, come fa Bolton, definendola una «sovrastruttura
burocratica e mastodontica in preda alla ruggine». In realtà, l'organizzazione
non dispone di un organico sufficiente per gestire i caschi blu che manda sul
campo. Dopo i disastri degli anni 90, il Segretario generale si è impegnato a
non perdere mai il controllo della situazione. Eppure ha lasciato che il
Consiglio di sicurezza autorizzi l'invio di 18 nuove missioni (oggi, 16 sono
ancora sul campo). Ma, a causa dei tagli nel bilancio, i 66.000 soldati della
pace sono sostenuti nella sede Onu soltanto da circa 500 funzionari (vedi
riquadro a pag. 12).
Nessuno stato membro occidentale si sognerebbe di mandare i propri soldati in
zone pericolose con un così scarso appoggio nelle retroguardie.
Ma quando i soldati vengono dai paesi in via di sviluppo, le grandi potenze non
si preoccupano. Le parole di Kevin Kennedy, uno dei maghi incaricati delle
operazioni nella sede di New York, riassumono perfettamente la situazione: «I
luoghi dove l'Onu viene solitamente inviata non valgono niente. Ciò non
giustifica né l'incompetenza né la pigrizia, ma non valgono niente.
E se valessero qualcosa, gli stati membri se ne occuperebbero personalmente».
Se l'Onu si reca soprattutto nei luoghi che tutti i paesi cercano di evitare, e
se dispone di risorse ridicolmente basse, allora perché stupirsi che la sua
percentuale di successi non sia molto alta? Che dire poi dell'altro grande
bersaglio di questo vento di riforme: la gestione, di una inefficacia
tristemente celebre. Ronald Reagan ha detto un giorno che accettare una
sovvenzione del governo americano - con tutti i vincoli che ciò implica - è come
sposare una donna per poi accorgersi che l'intera sua famiglia trasloca a casa
vostra prima della luna di miele. Le condizioni imposte dagli stati membri come
contropartita delle loro sovvenzioni all'Onu sono ancora più disperanti. Essi
insistono perché ogni dollaro versato sia oggetto di una contabilità minuziosa,
vale a dire che i responsabili ad alti livelli, incaricati delle missioni più
pericolose, passano spesso più tempo a seguire le scartoffie che a riflettere su
come impedire la progressione dell'aids, organizzare elezioni o garantire la
sicurezza nelle città. Quando poi si tratta delle decisioni riguardanti i
funzionari, gli stati membri cercano a ogni costo di sistemare i propri
concittadini, a prescindere dalle loro competenze per il posto da occupare. Come
ci ha detto recentemente Kofi Annan, «noi non raccogliamo gli elementi migliori.
I governi tendono a mandarci la gente che non sanno come sistemare». Tuttavia
sarebbe troppo semplice considerare gli stati membri come responsabili dell'annus
horribilis o affidare il fardello della riforma ai paesi membri dell'Onu. Dopo
tutto, le poche volte in cui la segreteria delle Nazioni unite ha chiamato le
persone migliori, raramente è stata in grado di conservarle. Quando Sergio
Vieira de Mello è stato ucciso in un attentato a Baghdad, nel 2003, Kofi Annan,
visibilmente sconvolto, ha detto: «Non avevo che lui». Nel rendere a un
funzionario coraggioso e brillante il dovuto omaggio, il Segretario generale se
la prendeva anche, involontariamente, con l'organizzazione che dirige. Quando ha
avuto bisogno di un esperto, Kofi Annan avrebbe dovuto potersi rivolgere a
qualcun altro e non a de Mello o all'ex ministro algerino degli esteri, Lakhdar
Brahimi, oggi settantunenne. L'Onu divora i suoi giovani. Se i suoi dirigenti
non estirperanno la cultura disfattista vigente, che induce i funzionari a
sentirsi non attori ma unicamente oggetto delle macchinazioni dei paesi membri,
la qualità dei funzionari continuerà a soffrirne. È altamente improbabile che i
paesi riuniti in seno alle Nazioni unite cambino politica in un prossimo futuro.
È quindi altamente improbabile che le contraddizioni inerenti all'organizzazione
siano facilmente superate. Ma, se è vero che non si è ancora riusciti a
convincere gli stati più potenti che un'Onu forte servirà i loro interessi,
tutti i membri ammetteranno che una organizzazione macchiata dagli scandali
allontana gli stati membri e le agenzie onusiane dalle sfide umanitarie, di gran
lunga più pressanti, che si annunciano.
Così, a sessant'anni dalla creazione del sistema onusiano, la sua segreteria
deve fare ordine all'interno della sua amministrazione: reclutare, tenere e far
crescere giovani talenti; fare pressione affinché siano nominati inviati e
responsabili di primo ordine, sulla base dei loro meriti piuttosto che della
loro cittadinanza; non esitare a rendere pubblici i tentativi di manipolazione,
di microgestione e di sotto-finanziamento dei suoi programmi. Se esiste una
riforma che la segreteria delle Nazioni unite può portare a termine da sé, essa
consiste nel rifiutare che la bandiera onusiana serva a mascherare i disaccordi
e l'indifferenza dei paesi membri.
note:
* Docente alla John F. Kennedy School of Government dell'università di Harvard;
autrice di Voci dall'inferno. L'America e l'era del genocidio, Baldini Castoldi
Dalai, 2003, che le è valso il premio Pulitzer.
(1) Stephen Schlesinger, Act of
Creation, Westview Press, Boulder (Colorado), 2003, p. 7.
(2) Idem, p. 8.
(3) Si legga Delphine Lecoutre,
«L'Africa e la riforma delle Nazioni unite», Le Monde diplomatique/il manifesto,
luglio 2005.
(4) Squadra di pallacanestro che gioca
nel campionato Nba e di casa al Madison Square Garden. Knicks è la contrazione
di Knickerboxer, pantaloni portati dai coloni olandesi nel XV secolo.