Archivio settembre 2004
28 SETTEMBRE
Giustizia
firmata
ANDREA FABOZZI
Molto prima di
diventare il più grande amico di George W. Bush e il meno cauto difensore della
guerra preventiva, Silvio Berlusconi era in fondo un imprenditore che alla
politica chiedeva una cosa semplice: tenere lontani i giudici dai suoi affari.
Bene o male c'è riuscito. Nel frattempo è diventato uno statista e ci
costringe a trattarlo come tale, guardando al panorama delle opere sue: dai
disastri in politica estera alle ingiustizie in politica economica agli svarioni
in storia patria. La questione giustizia torna però inesorabile, e annuncia un
finale di legislatura all'insegna delle vecchie battaglie. Per chiudere lo
scontro con la magistratura lo statista, da lontano, ha dato mandato ai suoi di
«blindare» (la parole è questa) la riforma dell'ordinamento giudiziario.
L'ordine non è piaciuto al Quirinale. L'Italia non è una monarchia come la
Thailandia, dove c'è un premier gemello di Berlusconi - ha in mano le tv, è
nei guai con la giustizia, vuol comprare una squadra di calcio, è venuto la
settimana scorsa a Roma a far visita al Cavaliere. Quindi può solo confidare
nel presidente della Repubblica. In Thailandia pare (le notizie non circolano
granché da quelle parti) che il re abbia gelato il premier definendolo un bel
giorno «una vergogna per la democrazia». Il presidente della Repubblica
italiana invece vuole rimandare alle camere la riforma dell'ordinamento
giudiziario. Anche qui bisogna aggiungere «pare», non perché i mass media
siano a livello thailandese, ma perché le intenzioni del Colle, si sa, devono
restare coperte. L'ultima volta che «pareva» così, però, finì con la
mancata controfirma alla legge Gasparri. E se c'è una cosa che al presidente
del consiglio italiano sta a cuore quanto la (in)giustizia è certo la
televisione.
Coincidenza: il presidente della camera Casini ha avvertito proprio ieri il
centrodestra che le prerogative del capo dello stato vanno tutelate anche nella
riforma delle istituzioni del professor Calderoli. Previsione: se Ciampi si
mette di traverso sulla giustizia troverà buoni alleati nei centristi della
maggioranza, che già stanno cercando di emendare i più maldestri errori della
riforma.
Che il nuovo ordinamento giudiziario non sia affatto una riforma epocale ma un
testo pieno di svarioni a questo punto lo dicono anche i suoi sostenitori. Ma
non vogliono perdere tempo e promettono un disegno di legge successivo per
correggerli. Che faccia a cornate con la Costituzione lo ammette addirittura il
ministro Castelli, che infatti annuncia di voler mettere mano a tutto il Titolo
IV della Carta per adeguarlo all'aria che tira. E poi confida divertendosi: «Forse
ho trovato anch'io un punto a rischio di incostituzionalità, ma non dico qual
è». Forse lo troverà Ciampi (c'è solo l'imbarazzo della scelta). E forse si
aprirà di nuovo il fronte interno, e Berlusconi dovrà tornare in trincea. Per
provare a chiudere il suo conto con le toghe, per difendere i suoi interessi
personali. Come ai tempi della Cirami e del falso in bilancio. E sarà più
facile dimenticarsi di quello statista che non è.
23 settembre
Il
buio
GABRIELE POLO
Speriamo che non sia
vero. Solo questo riusciamo a dire in questa notte d'incubo. Speriamo che
l'annuncio dell'assassinio di Simona Pari e Simona Torretta si riveli
altrettanto infondata di quelle altre notizie, di segno opposto, che davano per
prossima - forse con troppa leggerezza - una loro liberazione. Speriamo che
almeno per una volta i servizi segreti italiani abbiano ragione nel dire che
quel messaggio è poco credibile. Restiamo aggrappati a questa speranza,
vogliamo pensare che la virtualità di quel mezzo - il web, un prodigio
dell'occidente che i terroristi hanno rivoltato nella sua ossessione -
presupponga l'nfondatezza di una rivendicazione piombataci addosso nel cuore
della notte. Ci aggrappiamo persino all'ipotesi che il silenzio sulla sorte
degli altri due volontari iracheni rapiti con le italiane non sia uno sfregio
per ostaggi di «serie b» - cioè nemmeno degni di nota - ma rappresenti una
conferma alla nostra speranza.
Ci stavamo interrogando sulla sorte dell'inglese rapito insieme ai due americani
appena assassinati - sulla sua supplica a Blair, sul suo volto implorante e
terrorizzato - quando è arrivato l'annuncio della presunta esecuzione di Simona
e Simona. In una continuità fatta di orribili soprassalti, in cui gli orrori si
susseguono quasi a volerci far rassegnare. Per toglierci le ragioni che ci
avevano spinti a batterci contro la guerra, a dire che il terrorismo si
sconfigge con la politica e la solidarietà, ad affermare la necessità di
continuare a stare lì, vicino al popolo iracheno, nostro fratello nella
tragedia. Ragioni che rimangono intatte, ma che verrebbero annichilite nella
loro forza, indebolite nella ricerca della verità, nello sforzo di capire perché
siamo caduti in questo incubo, nel cercare di distinguere per non essere
impotenti spettatori.
Restiamo aggrappati a quella speranza, vogliamo
farlo. Sarà anche semplicistico, ma è così. Perché sono in gioco delle vite,
perché non vogliamo cadere nel buio della rinuncia cui ci vogliono cacciare gli
assassini.
20 settembre
Epifani scettico sull'operazione anti-carovita
![]() |
Guglielmo Epifani |
Scusi, perché?
"Perché sono 40 mesi che chiediamo al governo di contenere i prezzi e ci
ha sempre risposto picche. Ora mette in campo una proposta abborracciata che
esclude una parte significativa della distribuzione e dei consumatori. Così,
promette qualcosa che non accadrà. I prezzi, peraltro, sono già aumentati ed
è difficile immaginare che salgano ancora visto il calo dei consumi. Aggiungo
che i prodotti interessati non vanno oltre il 15 per cento".
Resta il fatto che il governo riconosce che esiste un problema di difesa
del potere d'acquisto degli stipendi. Esattamente come dite voi sindacalisti.
"Da un lato il governo dà finalmente ragione a noi che avevamo sollevato
il problema e, in generale, a tutti gli italiani che da tempo fanno i conti
con l'aumento dei prezzi. Ma dall'altro non affronta la questione seriamente.
Al contrario lo fa con un'operazione assolutamente parziale e inefficace.
Perché, ad esempio, non si fa nulla sul lato delle accise che gravano sul
prezzo dei prodotti petroliferi? Sulle prossime bollette faremo tutti i conti
con l'impennata estiva del prezzo del petrolio. C'è, poi, un'altra
questione".
Quale?
"Quella dei salari. Anche qui si raccontano delle favole che non
esistono. Ed è la dimostrazione delle contraddizioni tra ciò che si annuncia
e ciò che si fa davvero. E le scelte vere sono un tasso di inflazione
programmata all'1,6 per cento; nessuna iniziativa per la chiusura dei
contratti aperti, a cominciare da quello del trasporto pubblico locale;
l'assenza di politiche per lo sviluppo mentre lo stesso Siniscalco ammette che
cresciamo meno degli altri in Europa. E ancora: una riforma fiscale a
vantaggio dei ceti medi e alti. In questo quadro mi domando come si può
pensare di far aumentare i salari reali. Sono solo illusioni".
Eppure, anche la Confindustria e i sindacati, hanno sprecato la possibilità,
con un patto, di suggerire alcune proposte al governo per rilanciare lo
sviluppo. Lei a luglio ha abbandonato quel tavolo.
"Abbiamo perso tutti un'occasione. Anziché partire dalla coda, cioè
dagli assetti contrattuali, si doveva essere capaci di individuare gli
obiettivi condivisi per sostenere lo sviluppo. Avremmo dovuto dire quali
politiche fiscali per incentivare la crescita, quali misure per sostenere la
ricerca e l'innovazione, quali azioni per il Mezzogiorno, quali priorità,
infine, sul terreno delle infrastrutture. Così avremmo fatto la cosa giusta.
Invece si è lasciato il campo alla politica degli annunci e della
propaganda".
Un'occasione persa e non più recuperabile? La Cgil non vuole discutere di
riforma dei contratti?
"Bisogna recuperare il rapporto con la Confindustria. Io sto cercando di
farlo. Però, continua a non convincermi l'idea di mettere al centro la
questione della politica contrattuale. Lo considero un tema importante, sia
chiaro. Ma non è risolutivo in questa situazione. E questo non vuol dire che
non voglio discutere di assetti contrattuali. Io dico sì al dialogo. Il mio
non è un no, ma un sì. In un ordine, però, in cui le priorità sono le
altre".
Intanto, insieme a Cisl e Uil avete portato in porto la difficile vertenza
per l'Alitalia.
"È stata la conferma della serietà e del senso di responsabilità di
tutti i sindacati. Ma non possiamo ancora essere soddisfatti: siamo a metà
strada, manca ancora l'intervento del governo. La vertenza si chiude a Palazzo
Chigi. Aspettiamo una convocazione. Perché dal governo, che è azionista di
maggioranza, devono arrivare le garanzie sul futuro assetto societario della
compagnia. E dall'azienda attendiamo un piano vero di rilancio".
Lei paventava un rivolta dei lavoratori che, per fortuna, non c'è stata.
"Abbiamo deciso di governare questa vicenda in maniera intelligente. Ma
è evidente che se il governo e l'azienda non faranno la loro parte, rischia
di saltare in aria tutto. Ora sfidiamo il governo e l'Alitalia, richiamandoli
al loro senso di responsabilità. I lavoratori hanno fatto la loro parte in
termini di incremento delle prestazioni e di una riduzione molto pesante degli
organici".
Poi riempirete le piazze contro la Finanziaria...
"Se la manovra sarà quella che noi immaginiamo, cioè una stangata, è
evidente che il sindacato non potrà stare fermo. Tanto più che la
maggioranza sta approvando una riforma costituzionale federalista che renderà
più debole il sistema-Paese stesso, aumentando i costi ed accentuando le
diseguaglianza. Le iniziative e le forme della mobilitazione le decideremo
insieme alla Cisl e alla Uil".
17 settembre
La
riforma assoluta
GIANNI FERRARA
Stanno sconvolgendo
la Costituzione italiana. Ne stanno distorcendo le istituzioni, incrinando i
fondamenti, rovesciando gli obiettivi. Non so se se ne avverte la gravità, se
si comprende che, con tale sconvolgimento, si svuoterà la democrazia italiana,
sarà frantumato il legame di solidarietà che fa dell'Italia una nazione,
saranno compressi i diritti sociali e sterilizzati quelli politici. Ci si può
chiedere: che cosa hanno a che fare, il federalismo e il premierato, la
ristrutturazione dello stato e la forma governo con i diritti costituzionalmente
garantiti delle donne e degli uomini di questo Paese? Non si tratta di parti
diverse della Costituzione, di questioni ben distinte? Sono questioni distinte,
certo, ma collegate e molto intimamente. I diritti, tutti i diritti, c'entrano
con il tipo di stato e la forma di governo. Gli apparati (e lo stato è un
apparato formato da tanti apparati) non sono mai neutri, sono conformati
minutamente e complessivamente a finalizzazioni specifiche, vincolanti,
imperiose. Cambiarli radicalmente, significa vincolarli ad altri obiettivi,
funzionalizzarli ad altri scopi. La Costituzione italiana fu voluta e costruita
per fini netti, chiari, univoci: la libertà e la dignità umana, l'eguaglianza
sostanziale, la rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della
persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica economica e sociale del Paese. È del tutto evidente
che questa complessiva finalizzazione non è compatibile con una frammentazione
istituzionale volta alla frantumazione di ogni vincolo sociale e dell'unità
nazionale. Non è cioè compatibile il leghismo camuffato da federalismo.
Camuffato perché il federalismo è tensione all'unità, laddove quello che si
propone è il ripiego della secessione, cioè la secessione possibile. Quella
ottenuta mediante un federalismo competitivo e fiscale, competitivo tra ineguali
con una fiscalità garantista delle regioni agiate e delle classi agiate. Poiché
i diritti costano e quelli sociali, comportando prestazioni a favore delle
persone, presentano un costo di immediata evidenza per la finanza pubblica.
Ebbene, una fiscalità impiantata sugli interessi delle regioni agiate, non è
certo quella che può assicurare prestazioni uguali, quali dovrebbero essere
quelle assicurate a tutti i cittadini italiani, in attuazione credibile del
principio di eguaglianza.
Il federalismo proposto è volto a comprimere i diritti sociali. Così come il
premierato è costruito in modo da sterilizzare i diritti politici, soprattutto
quello fondamentale della democrazia moderna, il diritto alla rappresentanza. Lo
sterilizza configurando un senato come problematica aggregazione di delegazioni
regionali di incerte stabilità e svuotando la rappresentanza parlamentare della
camera dei deputati. Trasforma infatti l'elezione della camera in elezione dei
primo ministro e dei suoi supporters, obbligati a eseguirne gli ordini
traducendoli in atti legislativi, in leggi che perderanno la loro credibile
validità democratica perché approvate senza un concorso reale delle minoranze.
L'obbligo all'ubbidienza dei deputati al primo ministro deriverebbe fatalmente:
a) dalla eliminazione della fiducia da conferire all'atto della costituzione del
governo; b) dal potere di scioglimento che è previsto come sostanzialmente
attribuito al premier (non modificherebbe la sostanza del rapporto tra
maggioranza e primo ministro, la possibilità che la maggioranza risponda al
potere di scioglimento del primo ministro votando una mozione di fiducia che
contenga la designazione di un diverso premier perché non è ipotizzabile che
questi non disponga di una frazione, anche minima, di deputati che impedisca
alla maggioranza di sostituirlo, votando per un altro deputato alla carica di
primo ministro); c) dal voto bloccato sui progetti di legge che il governo può
chiedere per stroncare non soltanto un ostruzionismo divenuto ormai impossibile,
ma anche qualche resistenza dei deputati eventualmente riottosi della sua
maggioranza. Questa inedita forma di governo viene gabbata per premierato, ma
non ha nulla a che fare con quello vigente nella patria del parlamentarismo,
l'Inghilterra. Giustamente si è obiettato che nella versione che viene
proposta, lo si dovrebbe denominare come premierato assoluto, stante il sistema
politico italiano che non è bipartitico. Ma appunto perciò va definito per
quello che è: una monocrazia. L'opposto esatto del costituzionalismo e della
democrazia. Due ragioni ineccepibili per rifiutarlo e combatterlo.
14 settembre
Sette
giorni
VALENTINO
PARLATO
Enzo Baldoni è stato ucciso in totale solitudine. Ora
è passata una settimana dal sequestro delle nostre due giovani concittadine,
Simona Torretta e Simona Pari (che sulla stampa, per risparmiare spazio, sono
diventate le due Simone) e non sappiamo nulla, neppure se sono vive. Tutto
questo accade in Italia, che non è l'ultima potenza del mondo e che,
attualmente, ha un governo che vorrebbe essere forte e rispettato. Stiamo ai
fatti: che cosa ha fatto il governo Berlusconi di fronte al sequestro delle
nostre due concittadine, pur con la forza del sostegno delle opposizioni?
La sua prima iniziativa è stata quella di mandare
Margherita Boniver a parlare con le donne dei vari paesi arabi vicini, neppure
con le donne dell'Iraq e in quei paesi, purtroppo, le donne pesano poco. Nessun
risultato: zero via zero.
La seconda iniziativa del ministro Frattini è stata quella
di convocare gli ambasciatori dei paesi del Medio Oriente (che contano assai
poco) per chiedere aiuto. Nessun risultato neppure un video, che ci dicesse che
Simona Torretta e Simona Pari sono ancora vive.
La terza iniziativa è stata quella di ricevere con qualche
solennità il presidente del governo fantoccio dell'Iraq, cosa che dovrebbe
mandare sulle furie gli eventuali sequestratori. Va notato che Parigi ha detto
al signor Al Yawar di non farsi vedere e questo, credo, con l'intento di
rabbonire i sequestratori. E vale aggiungere che ha anche raccomandato al
parlamento europeo di non riceverlo.
La quarta iniziativa, ieri o l'altro ieri, è stata quella
di mandare (con estremo ritardo) il ministro Frattini in Medio Oriente, ma non a
Baghdad (correrebbe forse qualche pericolo) ma nel Kuwait, Qatar e Abu Dhabi,
paesi che figurarsi se si spingono ad ammettere che hanno qualche canale di
comunicazione con i cattivi sequestratori.
La verità, può pensare qualche maligno, che quello che
conta in Italia per il governo italiano è solo il gioco interno, delle giovani
donne non importa nulla.
Dato per acquisito, anche per tutti noi, che i sequestratori
sono cattivi, se vogliamo salvare queste due nostre concittadine è con i «cattivi»
che bisogna prendere contatto e trattare. Se vogliamo salvarle - visto che siamo
disposti a trattare con Bush, bisogna trattare anche con quelli di Al Qaeda. Che
non sarebbe affatto un atto di capitolazione, ma di realismo e se mi è
consentito di egemonia: si tratta necessariamente con il delinquente e si domina
il delinquente, lo si induce a cedere. Si può obiettare che questa via di
trattativa con i «cattivi» deve essere aperta dai servizi, ma i servizi senza
un affidamento dei poteri politici, di governo, non possono concludere nulla. E'
storia antica e nota. E su questo terreno perché non chiedere aiuto anche
all'ambasciatore Negroponte?
Che cosa concludere? Che questo governo è quello che è e
da lui ci si può aspettare ben poco. Ma le opposizioni, che hanno più poteri
di questo giornale, e che, generosamente, gli hanno dato un credito importante
non possono tacere e aspettare. Aspettare che cosa? Dobbiamo agire per salvarle.
Ps. Resta la questione del ritiro delle truppe italiane, ma,
a questo punto, si dovrebbe porre il problema del ritiro di tutte le truppe.
Concludere sul manifesto con una citazione di Giulio Andreotti, forse non
va bene, ma egualmente mi consento di farlo: «Dove è finito l'esercito di
Saddam Hussein, se non aveva l'esercito oltre a non avere le armi di distruzione
di massa, beh allora è stato tutto un equivoco terribile perché era uno che
non poteva mettere paura a nessuno...». E allora?
10 settembre
IL COMMENTO
ANCORA una volta, alla vigilia dell'anniversario dell'11 settembre, al Qaeda
fa sentire la sua voce. L'anno scorso fu il "video della montagna" a
immortalare Osama bin Laden e Ayman Al Zawahiri mentre camminavano tra le
rocce del Waziristan. Un messaggio che voleva tranquillizzare i sostenitori,
mostrando la sopravvivenza fisica della leadership storica
dell'organizzazione, braccata da due anni dalle forze speciali americane.
Nel messaggio audio che accompagnava il video l'ideologo egiziano, dopo aver
promesso all'Occidente una risposta "epocale" nel caso di una
"nuova aggressione" contro i musulmani, esortava i mujahiddin a
seppellire gli americani "nel cimitero dell'Iraq". Questa volta la
vera mente di Al Qaeda cerca di galvanizzare la comunità del fronte jihadista.
Ripreso nella ritrovata iconografia qaedista, Zawahiri - turbante bianco e
fucile al suo fianco - comunica a seguaci e simpatizzanti che gli Stati Uniti
sono "sull'orlo della sconfitta". In Iraq come in Afghanistan.
L'ideologo egiziano offre della situazione sul campo una valutazione politica
e militare. Gli americani, dice, si trovano fra due fuochi: "Se ci
resteranno, sanguineranno fino alla morte; se si ritireranno avranno perduto
tutto". Una affermazione non inaspettata nell'analisi del leader
jihadista. Per il quale una guerra asimmetrica non potrà mai essere vinta con
una risposta convenzionale. Fu Zawahiri a prendere atto delle sconfitte delle
forze jihadiste a livello nazionale e teorizzare la necessità di portare lo
scontro sul piano globale, de-territorializzando la guerra e rendendola
extrastatale.
Secondo Zawahiri la guerriglia logorerà gli
americani: nell'Afghanistan tornato in parte sotto il controllo dei Taleban e
dei suoi alleati; e nell'Iraq messo sotto tiro dalla nuova internazionale
islamista affluita nella terra dell'antico Califfato. Una guerra che potrebbe
durare anni e che l'America forse non potrà reggere, sotto il peso
schiacciante dei suoi costi umani e di una vocazione imperiale che potrebbe
vacillare. In quel caso, afferma Zawahiri, l'America avrà subìto una
sconfitta storica. Destinata a mutare, come già quella sovietica alle pendici
dell'Hindu Kush, gli equilibri geopolitici mondiali.
Il messaggio dell'ideologo egiziano cade in un momento in cui la sua analisi
è una sensazione diffusa. In Afghanistan il controllo di intere province
sfugge agli americani. Così come in Iraq, dove da tempo i generali ammettono
che la "guerra leggera" di Rumsfeld non permette di imbrigliare la
guerriglia. Il video di Zawahiri incita i mujahiddin a non mollare proprio ora
che il quadro strategico è mutato. Ma la nuova apparizione del leader
jihadista, invecchiato e provato dalla dura clandestinità, solleva anche
nuovi interrogativi sulla sorte di Bin Laden, del quale non si ha più prova
certa della sua sopravvivenza dopo l'offerta di tregua all'Europa della
primavera scorsa.
Inoltre, il messaggio di Zawahiri registra le posizioni all'interno della
gerarchia jihadista. Il numero due di Al Qaeda mette sullo stesso piano la
jihad in Afghanistan e Iraq. E' una risposta indiretta al ruolo assunto in
campo radicale da Abu Mussab al Zarkawi, leader di Tawhid wal Jihad che da
sempre ritiene, contrariamente a Zawahiri, che sia fondamentale sottrarre ai
"crociati" e ai loro alleati musulmani "apostati" il
maggior numero di paesi della Casa dell'Islam prima di portare l'offensiva
definitiva contro l'America. La guerra in Iraq è stata l'occasione per
rilanciare la sua linea e i risultati sembrano, drammaticamente, dargli
ragione.
Gli americani sanguinano davvero nelle città del Triangolo sunnita. E a
Falluja e Samarra, Tawhid wal Jihad ha proclamato l'emirato. L'Iraq è
diventato l'Afghanistan della nuova generazione jihadista. Raccogliendo la
sfida irachena Zarkawi ha sfidato la leadership storica di Al Qaeda, mostrando
come il Nemico vada affrontato apertamente. Sul campo di battaglia e non solo
con il terrore nei cieli o con gli shahid. È sul campo di battaglia che si
conquista la leadership del movimento jihadista.
Zawahiri al contrario è parso in passato assai scettico sugli esiti di uno
scontro che si gioca su un terreno tradizionalmente favorevole alle forze
occidentali. Per i leader storici qaedisti l'esportazione del terrorismo
sembra l'unica arma capace di indebolire la morsa occidentale sul mondo
islamico. Da qui la necessità di nuove azioni su larga scala. In America ma
anche in un'Europa che ha lasciato cadere l'offerta di tregua.
Un nuovo attacco terroristico in grande stile in Occidente avrebbe
necessariamente, tra gli altri effetti, quello di ridimensionare il peso del
teatro iracheno e, almeno temporaneamente, quello della linea Zarkawi. Ma
l'evolversi della "campagna di Mesopotamia" e la sua nuova centralità
ri-gerarchizza, di fatto, i criteri di selezione nella successione a Bin Laden.
Così Zawahiri parla anche alla galassia jihadista, annunciando che sotto il
suo comando parte dell'Afghanistan è tornato sotto mani amiche. Una sfida
nella sfida, quella dei due comandanti del terrore, che l'Occidente guarda
incerto e attonito.
8 settembre
Due
come noi
TOMMASO DI FRANCESCO
E'come se avessero
rapito uno di noi. E' la prima affermazione che ci viene in mente. Ma la cosa è
molto più grave. Con il rapimento di Simona Pari e Simona Torretta, viene messa
in discussione la possibilità di una missione umanitaria davvero al di sopra
delle parti, com'è stata la presenza in Iraq di «Un Ponte per...», l'unica
Ong che abbia mantenuto costantemente la sua presenza nel paese martoriato dalle
guerre e dalle sanzioni. Dopo le Nazioni unite, dopo i media indipendenti, dopo
la tragica fine di Baldoni e il rapimento dei giornalisti francesi, il messaggio
è per tutte le organizzazioni umanitarie. E per noi. Le logiche
dell'occupazione militare e del terrore vogliono colpire proprio nel mezzo chi
sostiene in Iraq una società civile che non vuole scegliere tra la
sottomissione ad un quisling nelle mani delle multinazionali del petrolio o
rinunciare alla libertà sotto un regime integralista. Chi può impunemente
pensare di colpire una tale realtà, senza avere la volontà di procurare un
danno esplicito al popolo iracheno allo stremo? Ferendo anche direttamente quel
movimento mondiale contro la guerra che George W, Bush e la coalizione dei
volenterosi - tra cui l'Italia di Berlusconi - hanno voluto a tutti i costi
scatenare aprendo così le porte dell'inferno?
E' davvero vergognoso che ora da parte di rappresentanti delle istituzioni e del
governo italiano, lo stesso che la guerra ha voluto, si canti la sirena del «siamo
tutti sulla stessa barca», quindi basta con ogni «comprensione per la
resistenza» perché «ormai non si salva più nessuno». Eppure è chiaro che
chiunque sia stato a presentarsi armato, con «atteggiamento iper-professionale»
nel pieno centro della capitale irachena a rapire le due italiane e i due
cooperanti iracheni - dichiarando «siamo del governo», secondo una prima
ricostruzione, o «siamo islamici» secondo le altre versioni -, abbia voluto
colpire proprio l'ambiguità rappresentata dal ruolo italiano in Iraq.
Guardatevi attorno, il bagno di sangue non è finito, le truppe occidentali sono
ancora occupanti, la guerra dichiarata conclusa un anno e mezzo fa da Bush è
ancora tutta da combattere, i marines morti sono arrivati ieri a quota mille, a
decine di migliaia gli iracheni uccisi, ogni giorno è battaglia. Mentre le
Nazioni unite sono fuori dal paese che brucia. L'Italia, paese occupante, tiene
le sue truppe a presidiare, spesso con mano feroce, ormai soltanto la periferia
di Nassiriya, nell'area petrolifera che interessa all'Eni, ma con quale
interesse per gli iracheni è facile immaginare. Che ci stiamo a fare, se non i
bersagli o i cecchini ?
E' vero invece che il lavoro sporco degli occupanti militari ha talmente fatto
degenerare la situazione che ormai in Iraq è quasi impossibile essere
considerati amici o nemici, distinguere tra chi aiuta gli iracheni e chi li
sfrutta, tra uomini e donne, tra chi ha voluto la guerra e chi, fallendo -
questo è il punto - ha cercato in ogni modo d'impedirla lavorando per la
crescita di una società civile irachena antagonista sia alle logiche
integraliste sia all'attuale regime della Cia di Allawi e agli interessi dei
paesi occupanti. Così ogni presenza viene vissuta come occasione di scambio
violento. O, peggio, di provocazione come potrebbe essere per i rapiti francesi
e in questo caso.
Tutto precipita in Iraq, di ora in ora. Gli unici a non accorgersene stanno
rintanati nelle stanze del governo italiano che sul legame subalterno con
l'Amministrazione Bush ha scommesso passato, presente e futuro.
Non c'è bisogno ora di una riedizione dell'unità nazionale, né che
l'opposizione di sinistra chiuda gli occhi sull'infamia che ci viene raccontata:
che le truppe italiane resteranno in Iraq finché ce lo chiederà il governo
fantoccio.
Il rapimento delle ragazze di un «Ponte per...» che in Iraq hanno gestito
l'unica «presenza» davvero legittima, dimostra ancora una volta che tutti gli
eserciti occupanti devono andarsene immediatamente. E che deve tornare in campo
quella potenza mondiale che vede la barbarie nella normalità della guerra, e
che è consapevole che la lotta per la pace è strettamente legata al rifiuto di
ogni dimensione terrorista. Per dire semplicemente: liberatele subito.
7 settembre
Un mondo
di paura
GABRIELE
POLO
La politica della paura
governa il mondo. Fanno paura i terroristi di Beslan, le fosche intenzioni di
Putin, i ricatti dei sequestratori iracheni, le guerre preventive americane.
Forme diverse per spaventare - o illudere di difendere dallo spavento - distinte
tra loro per tecnica e forma, unite nell'uso emotivo dell'istinto di
sopravvivenza: di fronte a cui ci si piega a tutto. Chi sequestra e uccide
centinaia di bambini non vuole raccogliere consenso alla propria «causa»,
pensa solo che spaventando il nemico la sua follia avrà effetto. Chi distrugge
una «provincia» che si proclama indipendente non vuole convincere i suoi
abitanti ma semplicemente trasformarli in sudditi schiavizzati dal timore delle
armi. Come, altrove nel mondo, chi viola l'habeas corpus di un individuo
o il diritto internazionale: per dimostrare che conta solo la forza, sovrana
assoluta perché arbitraria. E' il ritorno al premoderno, al «signore» che
tutto può perché tutti spaventa. A tanto è ridotta la scena internazionale,
ha ragione solo chi vince e vince chi ha più forza, chi terrorizza di più,
cancellando cause e motivi: chi ha spianato Grozny e perché i ceceni sembrano
essere i paria della «grande madre» Russia? Chi li ha trasformati in strumenti
di morte e usati ovunque come tali? Quali interessi muovono la secessione
caucasica? Non importa, conta solo l'effetto della dinamite e delle immagini che
fanno il giro del mondo. Conta solo la paura e l'uso che se ne fa. E il discorso
potrebbe valere per tante altre parti del mondo, persino - in altre forme - per
i nostri timori quotidiani, quelli dei «barbari invasori», del lavoro
instabile, dell'incerta assistenza alle nostre fragili esistenze. Siamo
diventati tutti oggetti nelle mani di potenti (o «contropotenti») che si
vogliono gruppi dirigenti (o vorrebbero diventarlo) senza averne lo spessore,
per i quali l'unico consenso che conta è quello degli impauriti?
E' lì che muore la politica dell'occidente democratico,
nel pubblico che diventa spettatore e smette di chiedersi il perché,
d'interrogarsi e dire. Fino a ieri nel fiducioso spettacolo dei trionfi del
capitalismo, oggi nell'annichilente conta dei massacri. Ci è ancora permesso -
come atto di difesa - di ritrarci (ma ancora per quanto?), di accendere una
candela o esporre una bandiera arcobaleno: manifestare la nostra distanza. Forse
non basta, perché rischiamo di diventare strumento di una nuova rimozione,
quella delle cause delle nostre paure. Di quanto abbiamo fatto pagare agli altri
i costi delle nostre democrazie che per questa via si sono progressivamente
indebolite, di come abbiamo costruito le élite che quelle democrazie stanno
distruggendo facendo dello stato di emergenza una filosofia di governo. Gli
orrori ceceni o mediorientali, l'11 settembre di New York o l'11 marzo di
Madrid, gli attori dei massacri, non sono alieni piombati sulla terra
all'improvviso e senza ragioni: chiamano in causa noi, il nostro modello di
vita, la nostra concezione del mondo, non solo perché poi ci ricadono addosso.
Mettono in discussione le radici della nostra libertà, di chi pensandosi più
forte si è poco curato delle libertà altrui, finendo per mettere a repentaglio
le proprie. Ed è forse questa la cosa che fa più paura.
Volano via cinquemila posti
Il
direttore delle risorse umane, Massimo Chieli, ha presentato ieri sera ai
sindacati il piano Cimoli. Confermati i tagli annunciati. Il piano è stato
presentato come un prendere o lasciare, unica via per salvare la compagnia di
bandiera nei prossimi quattro anni. Il management Alitalia non ha altre idee per
affrontare la competizione internazionale e la concorrenza delle low cost
BRUNO PERINI
Alla fine di una giornata
turbolenta, stracolma di voci contrastanti sul destino della compagnia di
bandiera, ieri pomeriggio le autorità di Borsa hanno deciso di sospendere la
quotazione delle azioni Alitalia fino a nuovo ordine. Ieri i titoli della
compagnia di bandiera hanno chiuso in rialzo del 4,17% con volumi decisamente
superiori rispetto a quelli della vigilia e delle medie stagionali ma questo non
significa che lo spetto del fallimento si sia allontanato. Anzi, secondo qualche
gnomo di piazza Affari l'improvvisa impennata di ieri, alimentata dalla
speculazione, sarebbe dovuta al fatto che gli operatori sperano in uno
sgretolamento degli attuali assetti azionari e in una privatizzazione forzata
che porterebbe i prezzi dei titoli verso l'alto. Una rispolverata dell'ipotesi
Tremonti che prevedeva la nascita di una nuova società nelle mani dei privati
con conseguente aumento di capitale e snellimento della compagnia. Non è un
caso che proprio ieri un esponente confindustriale abbia rispolverato il
problema. «Se l'Alitalia non è in grado di `credere' in un processo di
rilancio che implichi il taglio di spese e sprechi, ben vengano nuove compagnie
aeree», ha dichiarato il presidente di Assolombarda e di Museimpresa, Michele
Perini, a margine della conferenza di presentazione del protocollo di intesa
siglato oggi con il Ministero della Pubblica istruzione e Federturismo. «Non
possiamo permetterci il lusso di perdere 150 milioni di turisti cinesi»,
dirottati sempre più verso gli scali di Parigi e Francoforte. Come esempio
Perini ha citato «la linea Milano-Shangai che dava sempre il tutto esaurito ma
su cui Alitalia era addirittura in perdita». Al di là delle ipotesi che
usciranno dalla trattativa, sul campo restano le cifre del disastro, sia in
termini di competitività sia in termini finanziari. L'allarme rosso lampeggia
già da parecchi mesi e i dati di bilancio relativi al 2003 segnalano come il
carburante finanziario si stia davvero esaurendo. L'Alitalia perde 1,2 milioni
di euro al giorno e secondo studi a tutti noti, non fa più utili dal 1998.
L'anno passato l'esercizio si è chiuso con una perdita di 511 milioni di euro,
più del doppio rispetto al rosso registrato nel 2002. A loro volta i ricavi
sono scesi del 9% attestandosi a 4 miliardi e 385 milioni di euro. Il quadro
finanziario negativo è completato dal Margine Operativo Lordo, ossia la
differenza tra i ricavi e costi della produzione, che risulta negativo per 52
milioni di euro e dall'indebitamento netto salito in un anno di 229 milioni
raggiungendo il 1 miliardo e 440 milioni di euro. Sul fronte occupazionale il
numero degli addetti della compagnia è sceso a 20.653 unità, 641 in meno sul
2002. Questa disastrosa situazione economico-finanziaria si è aggravata anche
grazie alla insipiente politica del governo Berlusconi, azionista di controllo
della compagnia attraverso il Tesoro. Invece di affrontare subito la difficile
crisi dell'Alitalia, quando ancora c'erano le condizioni per un risanamento
finanziario, il governo, come nel caso della gestione di altri centri di potere,
ha affrontato il disastro dell'Alitalia con una logica spartitoria affiancata da
proposte tampone che hanno avuto come unico risultato quello di fare arrabbiare
la comunità europea.
2 settembre
Le
colpe dei padri
ASTRIT
DAKLI
«Abbiamo scoperchiato il vaso di Pandora. Questa guerra
durerà cent'anni, e ci ammazzeranno tutti». Così un vecchio amico russo, che
nella storia del suo paese aveva molte radici, diceva dieci anni fa, mentre la
prima guerra cecena divampava feroce - e allora era ancora una vera guerra di
resistenza, che cercava di risparmiare i civili, almeno da parte dei
guerriglieri. Noi ci indignavamo per la violenza imperiale che Eltsin e i suoi
generali corrotti stavano scatenando contro un minuscolo popolo caucasico: e lui
aveva paura per il grande popolo russo. Non aveva torto. Anche se il conto dei
morti è ancora enormemente sbilanciato, e quella profezia non si avvererà mai
alla lettera, è chiaro che l'impero russo ha perso la guerra - e che non
riuscirà nemmeno a ritirarsi in buon ordine dentro i propri confini, come si
addice agli sconfitti, per il semplice motivo che di confini non ne ha. Uno
stato multietnico che fa la guerra a una delle sue proprie etnie si condanna
alla guerra civile senza fine - precisamente quello che sta accadendo.
Si dirà: che cosa c'entrano i bambini osseti di Beslan con
la guerra fra russi e ceceni? Ma in un paese complesso e multiplo come quello
che sta sotto il tallone di Vladimir Putin, tutto si tiene, tutto «c'entra».
Gli osseti cristiani sono da molto tempo in guerra strisciante - questione di
terre e di case rivendicate da entrambi, grazie al buon lavoro del compagno
Stalin - con gli ingusci, che sono parenti stretti dei ceceni e sempre più
coinvolti nella guerra cecena, grazie alla grossolanità razzista del Cremino e
dei suoi generali. Inoltre la Russia di Putin è ai ferri corti, quasi in
guerra, con la Georgia «americana» del presidente Mikhail Saakashvili proprio
a causa degli osseti - quelli del sud, che vogliono staccarsi dalla Georgia e
unificarsi con i «fratelli» del nord, sotto bandiera russa. Mosca li fomenta,
anche per colpire Tbilisi, che a sua volta aiuta i guerriglieri ceceni. Ed ecco
che il cerchio si chiude, anche quei bambini «c'entrano»; un po' di orrore in
Ossetia fa gioco a molti e serve a mostrare a tutti i numerosi popoli
dell'impero quanto sia pericoloso servire Putin.
Quanto all'atrocità del prendersela con i bambini, del fare
a pezzi gente innocente presa a caso su un aereo o davanti a una stazione di
metropolitana, non c'è che dire: russi e americani hanno fatto a gara, nei
decenni passati, per ridar vita al mostro del fanatismo fondamentalista islamico
- in Afghanistan, in Iran e poi via via dovunque possibile. Lo hanno alimentato,
hanno spinto la gente a praticarlo per disperazione, hanno cercato di servirsene
come di un utile strumento. E ora?
Ora Putin ha quasi certamente ragione quando dice che ci
sono rapporti strettissimi fra al Qaeda e i guerriglieri ceceni (o almeno una
parte consistente di essi). Ma questo non lo aiuterà a venirne a capo, così
come non gli basterà aumentare la pressione militare, o far eleggere uno dopo
l'altro dei presidenti-fantoccio destinati ad essere uccisi, o ancora il tacito
consenso europeo o americano o dell'Onu (ammesso che qualcuno glielo voglia
dare) intorno alla repressione più feroce.
La Russia ormai il male ce l'ha in corpo, e deve curare se
stessa per sconfiggerlo. Più democrazia, più libertà civili, più rispetto
dei diritti: è l'unica strada per estirpare il cancro del terrorismo islamico,
così come si dovrebbe fare in Europa e in America - mentre si fa esattamente il
contrario e ci si avvia sulla stessa strada.
E d'altra parte è evidente come anche la logica dei
fanatici che ormai sembrano comandare nelle file cecene sia senza sbocchi:
possono ottenere - e otterranno - la messa fuori gioco di chi pensa ancora di
poter trattare una via d'uscita pacifica; ma non otterranno di certo un futuro
di pace per le genti del Caucaso. Potrebbero invece ottenere - e sarebbe davvero
la catastrofe per tutti - la nascita di un mostro finora assente, il fanatismo
fondamentalista cristiano. In Russia, certo, ma anche da noi.
Convention,
duemila arresti a Manhattan
Un muro
umano di cinquemila senza lavoro ha aspettato ieri George W. Bush alla
convention repubblicana di New York. La polizia non è rimasta a guardare. Nella
tarda mattinata newyorkese, la sera in Italia, gli arrestati erano arrivati
ormai a quota duemila. Arresti collettivi, con buona pace delle rassicurazioni
del sindaco Bloomberg. Scontri a Union square, alla Public library e ovunque si
riuscisse ad arrivare in prossimità del Madison square garden, che qualcuno ha
ribattezzato «Fort Bush». Intanto per protesta contro le retate compariva una
gabbia, ribattezzata «la Guantanamo sull'Hudson. Ma ai manifestanti è riuscito
il colpo grosso. Mentre dal podio parlava il capo dello staff della Casa Bianca,
alcuni ragazzi hanno mostrato magliette con scritte come «Bush uccide».
L'imponente servizio di sicurezza, beffato, si è immediatamente scatenato nella
caccia al dimostrante. Ma le polemiche in casa repubblicana non mancano: sarà
aperta un'inchiesta