Archivio settembre 2004

 

28 SETTEMBRE

Giustizia firmata
ANDREA FABOZZI
Molto prima di diventare il più grande amico di George W. Bush e il meno cauto difensore della guerra preventiva, Silvio Berlusconi era in fondo un imprenditore che alla politica chiedeva una cosa semplice: tenere lontani i giudici dai suoi affari. Bene o male c'è riuscito. Nel frattempo è diventato uno statista e ci costringe a trattarlo come tale, guardando al panorama delle opere sue: dai disastri in politica estera alle ingiustizie in politica economica agli svarioni in storia patria. La questione giustizia torna però inesorabile, e annuncia un finale di legislatura all'insegna delle vecchie battaglie. Per chiudere lo scontro con la magistratura lo statista, da lontano, ha dato mandato ai suoi di «blindare» (la parole è questa) la riforma dell'ordinamento giudiziario. L'ordine non è piaciuto al Quirinale. L'Italia non è una monarchia come la Thailandia, dove c'è un premier gemello di Berlusconi - ha in mano le tv, è nei guai con la giustizia, vuol comprare una squadra di calcio, è venuto la settimana scorsa a Roma a far visita al Cavaliere. Quindi può solo confidare nel presidente della Repubblica. In Thailandia pare (le notizie non circolano granché da quelle parti) che il re abbia gelato il premier definendolo un bel giorno «una vergogna per la democrazia». Il presidente della Repubblica italiana invece vuole rimandare alle camere la riforma dell'ordinamento giudiziario. Anche qui bisogna aggiungere «pare», non perché i mass media siano a livello thailandese, ma perché le intenzioni del Colle, si sa, devono restare coperte. L'ultima volta che «pareva» così, però, finì con la mancata controfirma alla legge Gasparri. E se c'è una cosa che al presidente del consiglio italiano sta a cuore quanto la (in)giustizia è certo la televisione.

Coincidenza: il presidente della camera Casini ha avvertito proprio ieri il centrodestra che le prerogative del capo dello stato vanno tutelate anche nella riforma delle istituzioni del professor Calderoli. Previsione: se Ciampi si mette di traverso sulla giustizia troverà buoni alleati nei centristi della maggioranza, che già stanno cercando di emendare i più maldestri errori della riforma.

Che il nuovo ordinamento giudiziario non sia affatto una riforma epocale ma un testo pieno di svarioni a questo punto lo dicono anche i suoi sostenitori. Ma non vogliono perdere tempo e promettono un disegno di legge successivo per correggerli. Che faccia a cornate con la Costituzione lo ammette addirittura il ministro Castelli, che infatti annuncia di voler mettere mano a tutto il Titolo IV della Carta per adeguarlo all'aria che tira. E poi confida divertendosi: «Forse ho trovato anch'io un punto a rischio di incostituzionalità, ma non dico qual è». Forse lo troverà Ciampi (c'è solo l'imbarazzo della scelta). E forse si aprirà di nuovo il fronte interno, e Berlusconi dovrà tornare in trincea. Per provare a chiudere il suo conto con le toghe, per difendere i suoi interessi personali. Come ai tempi della Cirami e del falso in bilancio. E sarà più facile dimenticarsi di quello statista che non è.

23 settembre 

Il buio
GABRIELE POLO
Speriamo che non sia vero. Solo questo riusciamo a dire in questa notte d'incubo. Speriamo che l'annuncio dell'assassinio di Simona Pari e Simona Torretta si riveli altrettanto infondata di quelle altre notizie, di segno opposto, che davano per prossima - forse con troppa leggerezza - una loro liberazione. Speriamo che almeno per una volta i servizi segreti italiani abbiano ragione nel dire che quel messaggio è poco credibile. Restiamo aggrappati a questa speranza, vogliamo pensare che la virtualità di quel mezzo - il web, un prodigio dell'occidente che i terroristi hanno rivoltato nella sua ossessione - presupponga l'nfondatezza di una rivendicazione piombataci addosso nel cuore della notte. Ci aggrappiamo persino all'ipotesi che il silenzio sulla sorte degli altri due volontari iracheni rapiti con le italiane non sia uno sfregio per ostaggi di «serie b» - cioè nemmeno degni di nota - ma rappresenti una conferma alla nostra speranza.

Ci stavamo interrogando sulla sorte dell'inglese rapito insieme ai due americani appena assassinati - sulla sua supplica a Blair, sul suo volto implorante e terrorizzato - quando è arrivato l'annuncio della presunta esecuzione di Simona e Simona. In una continuità fatta di orribili soprassalti, in cui gli orrori si susseguono quasi a volerci far rassegnare. Per toglierci le ragioni che ci avevano spinti a batterci contro la guerra, a dire che il terrorismo si sconfigge con la politica e la solidarietà, ad affermare la necessità di continuare a stare lì, vicino al popolo iracheno, nostro fratello nella tragedia. Ragioni che rimangono intatte, ma che verrebbero annichilite nella loro forza, indebolite nella ricerca della verità, nello sforzo di capire perché siamo caduti in questo incubo, nel cercare di distinguere per non essere impotenti spettatori.

Restiamo aggrappati a quella speranza, vogliamo farlo. Sarà anche semplicistico, ma è così. Perché sono in gioco delle vite, perché non vogliamo cadere nel buio della rinuncia cui ci vogliono cacciare gli assassini.

20 settembre

Epifani scettico sull'operazione anti-carovita
"La Finanziaria sarà durissima"
"Questo governo racconta favole
e prepara la stangata d'autunno"

"Misura pasticciata, i prezzi sono già aumentati
difficile che salgano ancora, visto il calo dei consumi"
di ROBERTO MANIA
Guglielmo Epifani
ROMA - Propaganda. L'operazione del governo per contrastare il carovita non è nulla di più, per il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani. "È l'avvio - dice - della campagna mediatica d'autunno". La realtà è un'altra. È quella di una Finanziaria da 30 miliardi di euro che inciderà - davvero, ma in termini negativi - sulle condizioni di vita dei lavoratori a reddito fisso e dei pensionati. E ancora: la realtà è quella di un "pesantissimo crollo" della produzione industriale di fronte al quale c'è "il solito" immobilismo del governo. Come nel caso dell'Alitalia: l'intesa di ieri sul piano di ristrutturazione è la prima tappa di un tragitto che può concludersi solo con l'intervento dell'esecutivo a garanzia dei futuri assetti societari della compagnia e delle prospettive dei lavoratori che hanno accettato i sacrifici per evitare il fallimento dell'azienda. "Altrimenti salterà tutto in aria", avverte il leader sindacale che auspica anche una ripresa del dialogo con la Confindustria purché al centro - in questa fase - non ci sia il tema dei contratti. Le priorità sono altre: per esempio la bassa crescita dell'economia.

Epifani, il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, annuncia le sue mosse per aumentare il potere d'acquisto dei lavoratori. Perché il sindacato non è soddisfatto?
"Siamo di fronte all'avvio della campagna d'autunno del governo. È una campagna di immagine; è la rappresentazione di una situazione che non corrisponde per nulla al vero. Intanto Berlusconi dice che quella che sta arrivando sarà una legge Finanziaria "per dare" e non di tagli. Non dice la verità perché il governo dovrà reperire 30 miliardi di euro per - come dice - mantenere il deficit sotto il 3 per cento e per realizzare una parte della riforma fiscale. Da qualche parte i soldi dovrà trovarli ma ancora non ha detto come e dove. In secondo luogo sostiene che i prezzi si fermeranno. È incredibile!"

Scusi, perché?
"Perché sono 40 mesi che chiediamo al governo di contenere i prezzi e ci ha sempre risposto picche. Ora mette in campo una proposta abborracciata che esclude una parte significativa della distribuzione e dei consumatori. Così, promette qualcosa che non accadrà. I prezzi, peraltro, sono già aumentati ed è difficile immaginare che salgano ancora visto il calo dei consumi. Aggiungo che i prodotti interessati non vanno oltre il 15 per cento".

Resta il fatto che il governo riconosce che esiste un problema di difesa del potere d'acquisto degli stipendi. Esattamente come dite voi sindacalisti.
"Da un lato il governo dà finalmente ragione a noi che avevamo sollevato il problema e, in generale, a tutti gli italiani che da tempo fanno i conti con l'aumento dei prezzi. Ma dall'altro non affronta la questione seriamente. Al contrario lo fa con un'operazione assolutamente parziale e inefficace. Perché, ad esempio, non si fa nulla sul lato delle accise che gravano sul prezzo dei prodotti petroliferi? Sulle prossime bollette faremo tutti i conti con l'impennata estiva del prezzo del petrolio. C'è, poi, un'altra questione".

Quale?
"Quella dei salari. Anche qui si raccontano delle favole che non esistono. Ed è la dimostrazione delle contraddizioni tra ciò che si annuncia e ciò che si fa davvero. E le scelte vere sono un tasso di inflazione programmata all'1,6 per cento; nessuna iniziativa per la chiusura dei contratti aperti, a cominciare da quello del trasporto pubblico locale; l'assenza di politiche per lo sviluppo mentre lo stesso Siniscalco ammette che cresciamo meno degli altri in Europa. E ancora: una riforma fiscale a vantaggio dei ceti medi e alti. In questo quadro mi domando come si può pensare di far aumentare i salari reali. Sono solo illusioni".

Eppure, anche la Confindustria e i sindacati, hanno sprecato la possibilità, con un patto, di suggerire alcune proposte al governo per rilanciare lo sviluppo. Lei a luglio ha abbandonato quel tavolo.
"Abbiamo perso tutti un'occasione. Anziché partire dalla coda, cioè dagli assetti contrattuali, si doveva essere capaci di individuare gli obiettivi condivisi per sostenere lo sviluppo. Avremmo dovuto dire quali politiche fiscali per incentivare la crescita, quali misure per sostenere la ricerca e l'innovazione, quali azioni per il Mezzogiorno, quali priorità, infine, sul terreno delle infrastrutture. Così avremmo fatto la cosa giusta. Invece si è lasciato il campo alla politica degli annunci e della propaganda".

Un'occasione persa e non più recuperabile? La Cgil non vuole discutere di riforma dei contratti?
"Bisogna recuperare il rapporto con la Confindustria. Io sto cercando di farlo. Però, continua a non convincermi l'idea di mettere al centro la questione della politica contrattuale. Lo considero un tema importante, sia chiaro. Ma non è risolutivo in questa situazione. E questo non vuol dire che non voglio discutere di assetti contrattuali. Io dico sì al dialogo. Il mio non è un no, ma un sì. In un ordine, però, in cui le priorità sono le altre".

Intanto, insieme a Cisl e Uil avete portato in porto la difficile vertenza per l'Alitalia.
"È stata la conferma della serietà e del senso di responsabilità di tutti i sindacati. Ma non possiamo ancora essere soddisfatti: siamo a metà strada, manca ancora l'intervento del governo. La vertenza si chiude a Palazzo Chigi. Aspettiamo una convocazione. Perché dal governo, che è azionista di maggioranza, devono arrivare le garanzie sul futuro assetto societario della compagnia. E dall'azienda attendiamo un piano vero di rilancio".

Lei paventava un rivolta dei lavoratori che, per fortuna, non c'è stata.
"Abbiamo deciso di governare questa vicenda in maniera intelligente. Ma è evidente che se il governo e l'azienda non faranno la loro parte, rischia di saltare in aria tutto. Ora sfidiamo il governo e l'Alitalia, richiamandoli al loro senso di responsabilità. I lavoratori hanno fatto la loro parte in termini di incremento delle prestazioni e di una riduzione molto pesante degli organici".

Poi riempirete le piazze contro la Finanziaria...
"Se la manovra sarà quella che noi immaginiamo, cioè una stangata, è evidente che il sindacato non potrà stare fermo. Tanto più che la maggioranza sta approvando una riforma costituzionale federalista che renderà più debole il sistema-Paese stesso, aumentando i costi ed accentuando le diseguaglianza. Le iniziative e le forme della mobilitazione le decideremo insieme alla Cisl e alla Uil".

17 settembre

La riforma assoluta
GIANNI FERRARA
Stanno sconvolgendo la Costituzione italiana. Ne stanno distorcendo le istituzioni, incrinando i fondamenti, rovesciando gli obiettivi. Non so se se ne avverte la gravità, se si comprende che, con tale sconvolgimento, si svuoterà la democrazia italiana, sarà frantumato il legame di solidarietà che fa dell'Italia una nazione, saranno compressi i diritti sociali e sterilizzati quelli politici. Ci si può chiedere: che cosa hanno a che fare, il federalismo e il premierato, la ristrutturazione dello stato e la forma governo con i diritti costituzionalmente garantiti delle donne e degli uomini di questo Paese? Non si tratta di parti diverse della Costituzione, di questioni ben distinte? Sono questioni distinte, certo, ma collegate e molto intimamente. I diritti, tutti i diritti, c'entrano con il tipo di stato e la forma di governo. Gli apparati (e lo stato è un apparato formato da tanti apparati) non sono mai neutri, sono conformati minutamente e complessivamente a finalizzazioni specifiche, vincolanti, imperiose. Cambiarli radicalmente, significa vincolarli ad altri obiettivi, funzionalizzarli ad altri scopi. La Costituzione italiana fu voluta e costruita per fini netti, chiari, univoci: la libertà e la dignità umana, l'eguaglianza sostanziale, la rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica economica e sociale del Paese. È del tutto evidente che questa complessiva finalizzazione non è compatibile con una frammentazione istituzionale volta alla frantumazione di ogni vincolo sociale e dell'unità nazionale. Non è cioè compatibile il leghismo camuffato da federalismo. Camuffato perché il federalismo è tensione all'unità, laddove quello che si propone è il ripiego della secessione, cioè la secessione possibile. Quella ottenuta mediante un federalismo competitivo e fiscale, competitivo tra ineguali con una fiscalità garantista delle regioni agiate e delle classi agiate. Poiché i diritti costano e quelli sociali, comportando prestazioni a favore delle persone, presentano un costo di immediata evidenza per la finanza pubblica. Ebbene, una fiscalità impiantata sugli interessi delle regioni agiate, non è certo quella che può assicurare prestazioni uguali, quali dovrebbero essere quelle assicurate a tutti i cittadini italiani, in attuazione credibile del principio di eguaglianza.

Il federalismo proposto è volto a comprimere i diritti sociali. Così come il premierato è costruito in modo da sterilizzare i diritti politici, soprattutto quello fondamentale della democrazia moderna, il diritto alla rappresentanza. Lo sterilizza configurando un senato come problematica aggregazione di delegazioni regionali di incerte stabilità e svuotando la rappresentanza parlamentare della camera dei deputati. Trasforma infatti l'elezione della camera in elezione dei primo ministro e dei suoi supporters, obbligati a eseguirne gli ordini traducendoli in atti legislativi, in leggi che perderanno la loro credibile validità democratica perché approvate senza un concorso reale delle minoranze.

L'obbligo all'ubbidienza dei deputati al primo ministro deriverebbe fatalmente: a) dalla eliminazione della fiducia da conferire all'atto della costituzione del governo; b) dal potere di scioglimento che è previsto come sostanzialmente attribuito al premier (non modificherebbe la sostanza del rapporto tra maggioranza e primo ministro, la possibilità che la maggioranza risponda al potere di scioglimento del primo ministro votando una mozione di fiducia che contenga la designazione di un diverso premier perché non è ipotizzabile che questi non disponga di una frazione, anche minima, di deputati che impedisca alla maggioranza di sostituirlo, votando per un altro deputato alla carica di primo ministro); c) dal voto bloccato sui progetti di legge che il governo può chiedere per stroncare non soltanto un ostruzionismo divenuto ormai impossibile, ma anche qualche resistenza dei deputati eventualmente riottosi della sua maggioranza. Questa inedita forma di governo viene gabbata per premierato, ma non ha nulla a che fare con quello vigente nella patria del parlamentarismo, l'Inghilterra. Giustamente si è obiettato che nella versione che viene proposta, lo si dovrebbe denominare come premierato assoluto, stante il sistema politico italiano che non è bipartitico. Ma appunto perciò va definito per quello che è: una monocrazia. L'opposto esatto del costituzionalismo e della democrazia. Due ragioni ineccepibili per rifiutarlo e combatterlo.



14 settembre

Sette giorni
VALENTINO PARLATO
Enzo Baldoni è stato ucciso in totale solitudine. Ora è passata una settimana dal sequestro delle nostre due giovani concittadine, Simona Torretta e Simona Pari (che sulla stampa, per risparmiare spazio, sono diventate le due Simone) e non sappiamo nulla, neppure se sono vive. Tutto questo accade in Italia, che non è l'ultima potenza del mondo e che, attualmente, ha un governo che vorrebbe essere forte e rispettato. Stiamo ai fatti: che cosa ha fatto il governo Berlusconi di fronte al sequestro delle nostre due concittadine, pur con la forza del sostegno delle opposizioni?

La sua prima iniziativa è stata quella di mandare Margherita Boniver a parlare con le donne dei vari paesi arabi vicini, neppure con le donne dell'Iraq e in quei paesi, purtroppo, le donne pesano poco. Nessun risultato: zero via zero.

La seconda iniziativa del ministro Frattini è stata quella di convocare gli ambasciatori dei paesi del Medio Oriente (che contano assai poco) per chiedere aiuto. Nessun risultato neppure un video, che ci dicesse che Simona Torretta e Simona Pari sono ancora vive.

La terza iniziativa è stata quella di ricevere con qualche solennità il presidente del governo fantoccio dell'Iraq, cosa che dovrebbe mandare sulle furie gli eventuali sequestratori. Va notato che Parigi ha detto al signor Al Yawar di non farsi vedere e questo, credo, con l'intento di rabbonire i sequestratori. E vale aggiungere che ha anche raccomandato al parlamento europeo di non riceverlo.

La quarta iniziativa, ieri o l'altro ieri, è stata quella di mandare (con estremo ritardo) il ministro Frattini in Medio Oriente, ma non a Baghdad (correrebbe forse qualche pericolo) ma nel Kuwait, Qatar e Abu Dhabi, paesi che figurarsi se si spingono ad ammettere che hanno qualche canale di comunicazione con i cattivi sequestratori.

La verità, può pensare qualche maligno, che quello che conta in Italia per il governo italiano è solo il gioco interno, delle giovani donne non importa nulla.

Dato per acquisito, anche per tutti noi, che i sequestratori sono cattivi, se vogliamo salvare queste due nostre concittadine è con i «cattivi» che bisogna prendere contatto e trattare. Se vogliamo salvarle - visto che siamo disposti a trattare con Bush, bisogna trattare anche con quelli di Al Qaeda. Che non sarebbe affatto un atto di capitolazione, ma di realismo e se mi è consentito di egemonia: si tratta necessariamente con il delinquente e si domina il delinquente, lo si induce a cedere. Si può obiettare che questa via di trattativa con i «cattivi» deve essere aperta dai servizi, ma i servizi senza un affidamento dei poteri politici, di governo, non possono concludere nulla. E' storia antica e nota. E su questo terreno perché non chiedere aiuto anche all'ambasciatore Negroponte?

Che cosa concludere? Che questo governo è quello che è e da lui ci si può aspettare ben poco. Ma le opposizioni, che hanno più poteri di questo giornale, e che, generosamente, gli hanno dato un credito importante non possono tacere e aspettare. Aspettare che cosa? Dobbiamo agire per salvarle.

Ps. Resta la questione del ritiro delle truppe italiane, ma, a questo punto, si dovrebbe porre il problema del ritiro di tutte le truppe. Concludere sul manifesto con una citazione di Giulio Andreotti, forse non va bene, ma egualmente mi consento di farlo: «Dove è finito l'esercito di Saddam Hussein, se non aveva l'esercito oltre a non avere le armi di distruzione di massa, beh allora è stato tutto un equivoco terribile perché era uno che non poteva mettere paura a nessuno...». E allora?


10 settembre

IL COMMENTO
I comandanti
del terrore
di RENZO GUOLO

ANCORA una volta, alla vigilia dell'anniversario dell'11 settembre, al Qaeda fa sentire la sua voce. L'anno scorso fu il "video della montagna" a immortalare Osama bin Laden e Ayman Al Zawahiri mentre camminavano tra le rocce del Waziristan. Un messaggio che voleva tranquillizzare i sostenitori, mostrando la sopravvivenza fisica della leadership storica dell'organizzazione, braccata da due anni dalle forze speciali americane.

Nel messaggio audio che accompagnava il video l'ideologo egiziano, dopo aver promesso all'Occidente una risposta "epocale" nel caso di una "nuova aggressione" contro i musulmani, esortava i mujahiddin a seppellire gli americani "nel cimitero dell'Iraq". Questa volta la vera mente di Al Qaeda cerca di galvanizzare la comunità del fronte jihadista.

Ripreso nella ritrovata iconografia qaedista, Zawahiri - turbante bianco e fucile al suo fianco - comunica a seguaci e simpatizzanti che gli Stati Uniti sono "sull'orlo della sconfitta". In Iraq come in Afghanistan. L'ideologo egiziano offre della situazione sul campo una valutazione politica e militare. Gli americani, dice, si trovano fra due fuochi: "Se ci resteranno, sanguineranno fino alla morte; se si ritireranno avranno perduto tutto". Una affermazione non inaspettata nell'analisi del leader jihadista. Per il quale una guerra asimmetrica non potrà mai essere vinta con una risposta convenzionale. Fu Zawahiri a prendere atto delle sconfitte delle forze jihadiste a livello nazionale e teorizzare la necessità di portare lo scontro sul piano globale, de-territorializzando la guerra e rendendola extrastatale.

Secondo Zawahiri la guerriglia logorerà gli americani: nell'Afghanistan tornato in parte sotto il controllo dei Taleban e dei suoi alleati; e nell'Iraq messo sotto tiro dalla nuova internazionale islamista affluita nella terra dell'antico Califfato. Una guerra che potrebbe durare anni e che l'America forse non potrà reggere, sotto il peso schiacciante dei suoi costi umani e di una vocazione imperiale che potrebbe vacillare. In quel caso, afferma Zawahiri, l'America avrà subìto una sconfitta storica. Destinata a mutare, come già quella sovietica alle pendici dell'Hindu Kush, gli equilibri geopolitici mondiali.

Il messaggio dell'ideologo egiziano cade in un momento in cui la sua analisi è una sensazione diffusa. In Afghanistan il controllo di intere province sfugge agli americani. Così come in Iraq, dove da tempo i generali ammettono che la "guerra leggera" di Rumsfeld non permette di imbrigliare la guerriglia. Il video di Zawahiri incita i mujahiddin a non mollare proprio ora che il quadro strategico è mutato. Ma la nuova apparizione del leader jihadista, invecchiato e provato dalla dura clandestinità, solleva anche nuovi interrogativi sulla sorte di Bin Laden, del quale non si ha più prova certa della sua sopravvivenza dopo l'offerta di tregua all'Europa della primavera scorsa.

Inoltre, il messaggio di Zawahiri registra le posizioni all'interno della gerarchia jihadista. Il numero due di Al Qaeda mette sullo stesso piano la jihad in Afghanistan e Iraq. E' una risposta indiretta al ruolo assunto in campo radicale da Abu Mussab al Zarkawi, leader di Tawhid wal Jihad che da sempre ritiene, contrariamente a Zawahiri, che sia fondamentale sottrarre ai "crociati" e ai loro alleati musulmani "apostati" il maggior numero di paesi della Casa dell'Islam prima di portare l'offensiva definitiva contro l'America. La guerra in Iraq è stata l'occasione per rilanciare la sua linea e i risultati sembrano, drammaticamente, dargli ragione.

Gli americani sanguinano davvero nelle città del Triangolo sunnita. E a Falluja e Samarra, Tawhid wal Jihad ha proclamato l'emirato. L'Iraq è diventato l'Afghanistan della nuova generazione jihadista. Raccogliendo la sfida irachena Zarkawi ha sfidato la leadership storica di Al Qaeda, mostrando come il Nemico vada affrontato apertamente. Sul campo di battaglia e non solo con il terrore nei cieli o con gli shahid. È sul campo di battaglia che si conquista la leadership del movimento jihadista.

Zawahiri al contrario è parso in passato assai scettico sugli esiti di uno scontro che si gioca su un terreno tradizionalmente favorevole alle forze occidentali. Per i leader storici qaedisti l'esportazione del terrorismo sembra l'unica arma capace di indebolire la morsa occidentale sul mondo islamico. Da qui la necessità di nuove azioni su larga scala. In America ma anche in un'Europa che ha lasciato cadere l'offerta di tregua.

Un nuovo attacco terroristico in grande stile in Occidente avrebbe necessariamente, tra gli altri effetti, quello di ridimensionare il peso del teatro iracheno e, almeno temporaneamente, quello della linea Zarkawi. Ma l'evolversi della "campagna di Mesopotamia" e la sua nuova centralità ri-gerarchizza, di fatto, i criteri di selezione nella successione a Bin Laden. Così Zawahiri parla anche alla galassia jihadista, annunciando che sotto il suo comando parte dell'Afghanistan è tornato sotto mani amiche. Una sfida nella sfida, quella dei due comandanti del terrore, che l'Occidente guarda incerto e attonito.

8 settembre

Due come noi
TOMMASO DI FRANCESCO
E'come se avessero rapito uno di noi. E' la prima affermazione che ci viene in mente. Ma la cosa è molto più grave. Con il rapimento di Simona Pari e Simona Torretta, viene messa in discussione la possibilità di una missione umanitaria davvero al di sopra delle parti, com'è stata la presenza in Iraq di «Un Ponte per...», l'unica Ong che abbia mantenuto costantemente la sua presenza nel paese martoriato dalle guerre e dalle sanzioni. Dopo le Nazioni unite, dopo i media indipendenti, dopo la tragica fine di Baldoni e il rapimento dei giornalisti francesi, il messaggio è per tutte le organizzazioni umanitarie. E per noi. Le logiche dell'occupazione militare e del terrore vogliono colpire proprio nel mezzo chi sostiene in Iraq una società civile che non vuole scegliere tra la sottomissione ad un quisling nelle mani delle multinazionali del petrolio o rinunciare alla libertà sotto un regime integralista. Chi può impunemente pensare di colpire una tale realtà, senza avere la volontà di procurare un danno esplicito al popolo iracheno allo stremo? Ferendo anche direttamente quel movimento mondiale contro la guerra che George W, Bush e la coalizione dei volenterosi - tra cui l'Italia di Berlusconi - hanno voluto a tutti i costi scatenare aprendo così le porte dell'inferno?

E' davvero vergognoso che ora da parte di rappresentanti delle istituzioni e del governo italiano, lo stesso che la guerra ha voluto, si canti la sirena del «siamo tutti sulla stessa barca», quindi basta con ogni «comprensione per la resistenza» perché «ormai non si salva più nessuno». Eppure è chiaro che chiunque sia stato a presentarsi armato, con «atteggiamento iper-professionale» nel pieno centro della capitale irachena a rapire le due italiane e i due cooperanti iracheni - dichiarando «siamo del governo», secondo una prima ricostruzione, o «siamo islamici» secondo le altre versioni -, abbia voluto colpire proprio l'ambiguità rappresentata dal ruolo italiano in Iraq.

Guardatevi attorno, il bagno di sangue non è finito, le truppe occidentali sono ancora occupanti, la guerra dichiarata conclusa un anno e mezzo fa da Bush è ancora tutta da combattere, i marines morti sono arrivati ieri a quota mille, a decine di migliaia gli iracheni uccisi, ogni giorno è battaglia. Mentre le Nazioni unite sono fuori dal paese che brucia. L'Italia, paese occupante, tiene le sue truppe a presidiare, spesso con mano feroce, ormai soltanto la periferia di Nassiriya, nell'area petrolifera che interessa all'Eni, ma con quale interesse per gli iracheni è facile immaginare. Che ci stiamo a fare, se non i bersagli o i cecchini ?

E' vero invece che il lavoro sporco degli occupanti militari ha talmente fatto degenerare la situazione che ormai in Iraq è quasi impossibile essere considerati amici o nemici, distinguere tra chi aiuta gli iracheni e chi li sfrutta, tra uomini e donne, tra chi ha voluto la guerra e chi, fallendo - questo è il punto - ha cercato in ogni modo d'impedirla lavorando per la crescita di una società civile irachena antagonista sia alle logiche integraliste sia all'attuale regime della Cia di Allawi e agli interessi dei paesi occupanti. Così ogni presenza viene vissuta come occasione di scambio violento. O, peggio, di provocazione come potrebbe essere per i rapiti francesi e in questo caso.

Tutto precipita in Iraq, di ora in ora. Gli unici a non accorgersene stanno rintanati nelle stanze del governo italiano che sul legame subalterno con l'Amministrazione Bush ha scommesso passato, presente e futuro.

Non c'è bisogno ora di una riedizione dell'unità nazionale, né che l'opposizione di sinistra chiuda gli occhi sull'infamia che ci viene raccontata: che le truppe italiane resteranno in Iraq finché ce lo chiederà il governo fantoccio.

Il rapimento delle ragazze di un «Ponte per...» che in Iraq hanno gestito l'unica «presenza» davvero legittima, dimostra ancora una volta che tutti gli eserciti occupanti devono andarsene immediatamente. E che deve tornare in campo quella potenza mondiale che vede la barbarie nella normalità della guerra, e che è consapevole che la lotta per la pace è strettamente legata al rifiuto di ogni dimensione terrorista. Per dire semplicemente: liberatele subito.

7 settembre

Un mondo di paura
GABRIELE POLO
La politica della paura governa il mondo. Fanno paura i terroristi di Beslan, le fosche intenzioni di Putin, i ricatti dei sequestratori iracheni, le guerre preventive americane. Forme diverse per spaventare - o illudere di difendere dallo spavento - distinte tra loro per tecnica e forma, unite nell'uso emotivo dell'istinto di sopravvivenza: di fronte a cui ci si piega a tutto. Chi sequestra e uccide centinaia di bambini non vuole raccogliere consenso alla propria «causa», pensa solo che spaventando il nemico la sua follia avrà effetto. Chi distrugge una «provincia» che si proclama indipendente non vuole convincere i suoi abitanti ma semplicemente trasformarli in sudditi schiavizzati dal timore delle armi. Come, altrove nel mondo, chi viola l'habeas corpus di un individuo o il diritto internazionale: per dimostrare che conta solo la forza, sovrana assoluta perché arbitraria. E' il ritorno al premoderno, al «signore» che tutto può perché tutti spaventa. A tanto è ridotta la scena internazionale, ha ragione solo chi vince e vince chi ha più forza, chi terrorizza di più, cancellando cause e motivi: chi ha spianato Grozny e perché i ceceni sembrano essere i paria della «grande madre» Russia? Chi li ha trasformati in strumenti di morte e usati ovunque come tali? Quali interessi muovono la secessione caucasica? Non importa, conta solo l'effetto della dinamite e delle immagini che fanno il giro del mondo. Conta solo la paura e l'uso che se ne fa. E il discorso potrebbe valere per tante altre parti del mondo, persino - in altre forme - per i nostri timori quotidiani, quelli dei «barbari invasori», del lavoro instabile, dell'incerta assistenza alle nostre fragili esistenze. Siamo diventati tutti oggetti nelle mani di potenti (o «contropotenti») che si vogliono gruppi dirigenti (o vorrebbero diventarlo) senza averne lo spessore, per i quali l'unico consenso che conta è quello degli impauriti?

E' lì che muore la politica dell'occidente democratico, nel pubblico che diventa spettatore e smette di chiedersi il perché, d'interrogarsi e dire. Fino a ieri nel fiducioso spettacolo dei trionfi del capitalismo, oggi nell'annichilente conta dei massacri. Ci è ancora permesso - come atto di difesa - di ritrarci (ma ancora per quanto?), di accendere una candela o esporre una bandiera arcobaleno: manifestare la nostra distanza. Forse non basta, perché rischiamo di diventare strumento di una nuova rimozione, quella delle cause delle nostre paure. Di quanto abbiamo fatto pagare agli altri i costi delle nostre democrazie che per questa via si sono progressivamente indebolite, di come abbiamo costruito le élite che quelle democrazie stanno distruggendo facendo dello stato di emergenza una filosofia di governo. Gli orrori ceceni o mediorientali, l'11 settembre di New York o l'11 marzo di Madrid, gli attori dei massacri, non sono alieni piombati sulla terra all'improvviso e senza ragioni: chiamano in causa noi, il nostro modello di vita, la nostra concezione del mondo, non solo perché poi ci ricadono addosso. Mettono in discussione le radici della nostra libertà, di chi pensandosi più forte si è poco curato delle libertà altrui, finendo per mettere a repentaglio le proprie. Ed è forse questa la cosa che fa più paura.


Volano via cinquemila posti
Il direttore delle risorse umane, Massimo Chieli, ha presentato ieri sera ai sindacati il piano Cimoli. Confermati i tagli annunciati. Il piano è stato presentato come un prendere o lasciare, unica via per salvare la compagnia di bandiera nei prossimi quattro anni. Il management Alitalia non ha altre idee per affrontare la competizione internazionale e la concorrenza delle low cost
BRUNO PERINI
Alla fine di una giornata turbolenta, stracolma di voci contrastanti sul destino della compagnia di bandiera, ieri pomeriggio le autorità di Borsa hanno deciso di sospendere la quotazione delle azioni Alitalia fino a nuovo ordine. Ieri i titoli della compagnia di bandiera hanno chiuso in rialzo del 4,17% con volumi decisamente superiori rispetto a quelli della vigilia e delle medie stagionali ma questo non significa che lo spetto del fallimento si sia allontanato. Anzi, secondo qualche gnomo di piazza Affari l'improvvisa impennata di ieri, alimentata dalla speculazione, sarebbe dovuta al fatto che gli operatori sperano in uno sgretolamento degli attuali assetti azionari e in una privatizzazione forzata che porterebbe i prezzi dei titoli verso l'alto. Una rispolverata dell'ipotesi Tremonti che prevedeva la nascita di una nuova società nelle mani dei privati con conseguente aumento di capitale e snellimento della compagnia. Non è un caso che proprio ieri un esponente confindustriale abbia rispolverato il problema. «Se l'Alitalia non è in grado di `credere' in un processo di rilancio che implichi il taglio di spese e sprechi, ben vengano nuove compagnie aeree», ha dichiarato il presidente di Assolombarda e di Museimpresa, Michele Perini, a margine della conferenza di presentazione del protocollo di intesa siglato oggi con il Ministero della Pubblica istruzione e Federturismo. «Non possiamo permetterci il lusso di perdere 150 milioni di turisti cinesi», dirottati sempre più verso gli scali di Parigi e Francoforte. Come esempio Perini ha citato «la linea Milano-Shangai che dava sempre il tutto esaurito ma su cui Alitalia era addirittura in perdita». Al di là delle ipotesi che usciranno dalla trattativa, sul campo restano le cifre del disastro, sia in termini di competitività sia in termini finanziari. L'allarme rosso lampeggia già da parecchi mesi e i dati di bilancio relativi al 2003 segnalano come il carburante finanziario si stia davvero esaurendo. L'Alitalia perde 1,2 milioni di euro al giorno e secondo studi a tutti noti, non fa più utili dal 1998. L'anno passato l'esercizio si è chiuso con una perdita di 511 milioni di euro, più del doppio rispetto al rosso registrato nel 2002. A loro volta i ricavi sono scesi del 9% attestandosi a 4 miliardi e 385 milioni di euro. Il quadro finanziario negativo è completato dal Margine Operativo Lordo, ossia la differenza tra i ricavi e costi della produzione, che risulta negativo per 52 milioni di euro e dall'indebitamento netto salito in un anno di 229 milioni raggiungendo il 1 miliardo e 440 milioni di euro. Sul fronte occupazionale il numero degli addetti della compagnia è sceso a 20.653 unità, 641 in meno sul 2002. Questa disastrosa situazione economico-finanziaria si è aggravata anche grazie alla insipiente politica del governo Berlusconi, azionista di controllo della compagnia attraverso il Tesoro. Invece di affrontare subito la difficile crisi dell'Alitalia, quando ancora c'erano le condizioni per un risanamento finanziario, il governo, come nel caso della gestione di altri centri di potere, ha affrontato il disastro dell'Alitalia con una logica spartitoria affiancata da proposte tampone che hanno avuto come unico risultato quello di fare arrabbiare la comunità europea.


2 settembre

Le colpe dei padri
ASTRIT DAKLI
«Abbiamo scoperchiato il vaso di Pandora. Questa guerra durerà cent'anni, e ci ammazzeranno tutti». Così un vecchio amico russo, che nella storia del suo paese aveva molte radici, diceva dieci anni fa, mentre la prima guerra cecena divampava feroce - e allora era ancora una vera guerra di resistenza, che cercava di risparmiare i civili, almeno da parte dei guerriglieri. Noi ci indignavamo per la violenza imperiale che Eltsin e i suoi generali corrotti stavano scatenando contro un minuscolo popolo caucasico: e lui aveva paura per il grande popolo russo. Non aveva torto. Anche se il conto dei morti è ancora enormemente sbilanciato, e quella profezia non si avvererà mai alla lettera, è chiaro che l'impero russo ha perso la guerra - e che non riuscirà nemmeno a ritirarsi in buon ordine dentro i propri confini, come si addice agli sconfitti, per il semplice motivo che di confini non ne ha. Uno stato multietnico che fa la guerra a una delle sue proprie etnie si condanna alla guerra civile senza fine - precisamente quello che sta accadendo.

Si dirà: che cosa c'entrano i bambini osseti di Beslan con la guerra fra russi e ceceni? Ma in un paese complesso e multiplo come quello che sta sotto il tallone di Vladimir Putin, tutto si tiene, tutto «c'entra». Gli osseti cristiani sono da molto tempo in guerra strisciante - questione di terre e di case rivendicate da entrambi, grazie al buon lavoro del compagno Stalin - con gli ingusci, che sono parenti stretti dei ceceni e sempre più coinvolti nella guerra cecena, grazie alla grossolanità razzista del Cremino e dei suoi generali. Inoltre la Russia di Putin è ai ferri corti, quasi in guerra, con la Georgia «americana» del presidente Mikhail Saakashvili proprio a causa degli osseti - quelli del sud, che vogliono staccarsi dalla Georgia e unificarsi con i «fratelli» del nord, sotto bandiera russa. Mosca li fomenta, anche per colpire Tbilisi, che a sua volta aiuta i guerriglieri ceceni. Ed ecco che il cerchio si chiude, anche quei bambini «c'entrano»; un po' di orrore in Ossetia fa gioco a molti e serve a mostrare a tutti i numerosi popoli dell'impero quanto sia pericoloso servire Putin.

Quanto all'atrocità del prendersela con i bambini, del fare a pezzi gente innocente presa a caso su un aereo o davanti a una stazione di metropolitana, non c'è che dire: russi e americani hanno fatto a gara, nei decenni passati, per ridar vita al mostro del fanatismo fondamentalista islamico - in Afghanistan, in Iran e poi via via dovunque possibile. Lo hanno alimentato, hanno spinto la gente a praticarlo per disperazione, hanno cercato di servirsene come di un utile strumento. E ora?

Ora Putin ha quasi certamente ragione quando dice che ci sono rapporti strettissimi fra al Qaeda e i guerriglieri ceceni (o almeno una parte consistente di essi). Ma questo non lo aiuterà a venirne a capo, così come non gli basterà aumentare la pressione militare, o far eleggere uno dopo l'altro dei presidenti-fantoccio destinati ad essere uccisi, o ancora il tacito consenso europeo o americano o dell'Onu (ammesso che qualcuno glielo voglia dare) intorno alla repressione più feroce.

La Russia ormai il male ce l'ha in corpo, e deve curare se stessa per sconfiggerlo. Più democrazia, più libertà civili, più rispetto dei diritti: è l'unica strada per estirpare il cancro del terrorismo islamico, così come si dovrebbe fare in Europa e in America - mentre si fa esattamente il contrario e ci si avvia sulla stessa strada.

E d'altra parte è evidente come anche la logica dei fanatici che ormai sembrano comandare nelle file cecene sia senza sbocchi: possono ottenere - e otterranno - la messa fuori gioco di chi pensa ancora di poter trattare una via d'uscita pacifica; ma non otterranno di certo un futuro di pace per le genti del Caucaso. Potrebbero invece ottenere - e sarebbe davvero la catastrofe per tutti - la nascita di un mostro finora assente, il fanatismo fondamentalista cristiano. In Russia, certo, ma anche da noi.




Convention, duemila arresti a Manhattan
Un muro umano di cinquemila senza lavoro ha aspettato ieri George W. Bush alla convention repubblicana di New York. La polizia non è rimasta a guardare. Nella tarda mattinata newyorkese, la sera in Italia, gli arrestati erano arrivati ormai a quota duemila. Arresti collettivi, con buona pace delle rassicurazioni del sindaco Bloomberg. Scontri a Union square, alla Public library e ovunque si riuscisse ad arrivare in prossimità del Madison square garden, che qualcuno ha ribattezzato «Fort Bush». Intanto per protesta contro le retate compariva una gabbia, ribattezzata «la Guantanamo sull'Hudson. Ma ai manifestanti è riuscito il colpo grosso. Mentre dal podio parlava il capo dello staff della Casa Bianca, alcuni ragazzi hanno mostrato magliette con scritte come «Bush uccide». L'imponente servizio di sicurezza, beffato, si è immediatamente scatenato nella caccia al dimostrante. Ma le polemiche in casa repubblicana non mancano: sarà aperta un'inchiesta