Archivio Agosto 2004

 

31 agosto

Per questo
GABRIELE POLO
Guerra e civiltà sono parole inconciliabili: quando l'occidente ha rimosso questa lezione (e lo ha fatto spesso nella sua storia) ha provocato la propria e l'altrui rovina. Di solito lo ha fatto per spirito imperiale, o per paura. In entrambi i casi ha distrutto le sue libertà, quelle che gli antichi consideravano le basi della civiltà. Quando qualcuno (uno stato come una setta) si appella a valori assoluti per esigerli con la forza impone una chiamata alle armi che non ammette defezioni. Lo fa chi dice di esportare la democrazia a mano armata, lo fanno quelli che vogliono imporre il velo a una donna. E' questa la guerra che entra nel profondo delle nostre vite.

Siamo obbligati a scegliere tra un Iraq (un medio-oriente o persino di più) sotto occupazione americana e un paese «liberato» a colpi di terrore? Non è così, non fosse altro perché il terrore colpisce e continua a colpire nonostante l'occupazione. Dobbiamo accettare l'indiscutibilità di una legge, tra il difendere la sovranità laica di uno stato contro il ricatto terrorizzante e asserire - per questa via - la superiorità della nostra parte del mondo? Non dobbiamo, preferiremmo che le ragazze musulmane delle banlieue parigine decidessero in libertà (dalle famiglie, dai maschi in guerra, dallo stato in cui vivono) se portare quel velo.

La tragica parodia dello «scontro di civiltà» non risparmia nessuno: chi non è obnubilato dagli integralismi o corrotto dagli interessi ascolta il richiamo delle sirene che intonano l'inno del «male minore», quel «meno peggio» che sta diventando una filosofia di vita per la sinistra europea. E' meno peggio il tank o il kamikaze? Abu Ghraib o i decapitatori? L'imposizione del volto scoperto o del velo? E' così che si rinuncia: non ai sogni di un altro mondo ma perfino alla propria autonomia, si finisce arruolati. E' la fine della libertà, della critica razionale, della ricerca di un'alternativa. E si prepara la propria fine. Seguendo un simile buon senso l'Internazionale socialista, un secolo fa, decise che il colonialismo europeo in Africa era cosa buona e giusta: portava la civiltà, che - ovviamente - avrebbe fatto nascere anche lì il movimento operaio. Qualche anno dopo l'Internazionale si dissolveva nell'appoggio al massacro della prima guerra mondiale.

Non ci stiamo. Di fronte alla barbarie di mondi impauriti che per sopravvivere o per perpetuare privilegi si chiudono nelle appartenenze scegliamo la diserzione, l'esodo. L'andare altrove non è una fuga, è una ricerca. Abbiamo imparato da tempo che il nemico del nostro avversario non è per forza un nostro amico, ma anche che il fine (nemmeno la democrazia, il comunismo o la felicità) non giustifica i mezzi che snaturano quel fine. Meglio sottrarsi al gioco delle semplificazioni e continuare a cercare le radici del male per dare voce ai mondi più scossi dai bagliori accecanti degli orrori. Mondi che esistono anche dove la legge della forza sembra cancellare tutto. Per questo vogliamo il ritiro delle truppe dall'Iraq, precondizione per la fine della guerra, per questo facciamo questo giornale, che seguendo la logica del male minore non sarebbe nemmeno nato: per essere in questo mondo senza esserne divorati. 

Bush a caccia dei voti
nella trincea di Manhattan
VITTORIO ZUCCONI

NEW YORK - Due popoli alieni che per quattro giorni accettano diffidenti di coabitare sullo stesso pianeta come un tempo le famiglie sovietiche dividevano lo stesso appartamento odiandosi, Republicans e Newyorkers vivono da separati in casa quel teatrino dell'assurdo chiamato "Convention", cordialmente detestandosi ed evitandosi. Se non avete i mille dollari (carte di credito accettate) necessari per entrare nel party organizzato da Newsweek al "Four Seasons Hotel" o non volete andare alla chiesa di Saint Mark nella Bowery per partecipare al "Vomitorium" dei nauseati da Bush e vomitare gratis, la Convention è un'estranea di passaggio.

Da quando i congressi dei partiti americani sono stati svuotati di ogni contenuto politico reale e di ogni suspense, le Convention piombano ogni quattro anni su città innocenti e indifferenti come astronavi intergalattiche scaricando esploratori che non vedono l'ora di andarsene, tra indigeni che non vedono l'ora che se ne vadano.

New York, dice il direttore della sezione locale dello Fbi, l'italo americano Damuro, ha "la tredicesima forza armata del mondo", se fosse una nazione autonoma, e si vede. La città che ha subito il grande martirio dell'11 settembre, ora deve vivere il piccolo martirio di un'occupazione militare.

Come già Boston un mese addietro, così New York conosce il tormento della rigida divisione di casta che colpisce queste città sopra le quali, come Genova ricorda, si abbatte la maledizione del grande evento voluto per prestigio e poi subito per danni. Vive la feroce discriminazione tra chi ha "l'accreditamento" e chi non ce l'ha. Con un aggravante. Che il Madison Square Garden è piantato nel cuore di Manhattan, sopra il principale snodo ferroviario, stazione e crocevia del traffico di auto e di pendolari e non può essere sigillato e chiuso come furono le linee del metrò sotto il palazzetto dei democratici a Boston. I treni a lunga percorrenza che arrivano alla stazione sotto il Garden sono fermati a Newark, l'ultima fermata prima di New York. I passeggeri identificati uno per uno. I loro bagagli ispezionati. E al minimo dubbio arrestati, come è stato arrestato e trascinato il mio vicino di viaggio, sul rapido "Acela" numero 2222 alle ore 19 e 30 di domenica proveniente da Washington, perché la targhetta sulla sua valigia portava il nome della moglie, diverso dal suo nella patente.

Il Garden occupato dai Bush Boys sta nel cuore di Manhattan come una cisti dolorosa ma benigna, perché destinata a scomparire spontaneamente fra quattro giorni, irritante perché l'incistamento dei 10 isolati che lo circondano è garantito da chilometri di transenne d'acciaio, da muraglie di jersey di cemento, da scavatrici e schiacciasassi giganti strategicamente piazzati per bloccare le strade e fermare ogni autobomba, in una incruenta, ma esemplare metafora di quella "zona verde" a Bagdad fortificata per proteggere le gli occupanti e i loro collaboratori locali. Persino gli intrepidi e ruvidi tassinari di Manhattan, preoccupati dall'abbondanza fra loro di nomi come Mohammad, Khaled o Hassam, tendono a tenersene alla larga, nella giusta convinzione che dieci dollari di corsa non valgano dieci giorni in un lager del servizio immigrazione, per controllare documenti, origini e amicizie.

Nessuno sa con precisione quanto vasto sia l'esercito di occupazione nella "Bagdad sull'Hudson", perché la cifra è segreta, ma l'esercito di uomini e donne armate calati su Manhattan per proteggere George Bush dalla propria nazione, deve superare tranquillamente i centomila militi e avvicinare la forza del contingente d'occupazione in Iraq (128 mila).

I treni dei commuter, dei pendolari, sono semivuoti, come vuoti sono i rapidi da Boston e da Washington, occupati esclusivamente dal popolo della tesserina magica, reporter e groupies della politica con l'accreditamento, che permetterà di fare la spola fra i due mondi, quello vero della città e quello artificiale del Congresso. Universi che non si parlano e non si ascoltano. Fuori le centoventimila persone (secondo la polizia) e trecentomila secondo i giornali, che ancora brulicano per la città e si radunano a Central Park, stempiando ancor di più il sindaco Bloomberg che aveva speso 18 milioni di dollari per ricoprire di zolle d'erba fresca il grande prato centrale.

Dentro i trentamila annoiati fino alle lacrime da discorsi riscaldati al microonde, che nuotano nell'aria azzurrina e liquida da acquario tipica di gli studi televisivi, per fare il loro dovere di comparse al grido di "Four more years", ancora quattro anni per Georgie.
L'apartheid fra la città fuori dalla "zona verde" creata nella Bagdad sull'Hudson e l'entusiasmo plastificato della cittadella aliena dentro il Garden non è soltanto figlia dell'ansia o dei giusti timori di polizie che devono essere, per contratto, paranoiche. E' la rappresentazione di una realtà evidente, e non solo qui, alla sagra repubblicana di San Giorgio Re. Tra una Convention e la città martirizzata non ci può essere alcun rapporto perché i congressi non parlano alla città, parlano sopra la sua testa, si rivolgono al solo pubblico che conti, quello della televisione, per il quale queste sagre della banalità sono sceneggiate. Di una New York, che non voterebbe per Bush neppure se corresse da solo, al burattinaio elettorale di "W", Karl Rove non potrebbe importar di meno. E' stata scelta cinicamente per essere quello che a Hollywood si chiama il "backdrop", lo sfondo, lo scenario, nella speranza che l'associazione tra Bush e il cratere, tra lui e la guerra al terrore scuota le network tv nazionali, che dedicheranno soltanto tre ore di diretta alla Convention come fecero a Boston.

Non si possono biasimare i Newyorkers se ignorano i Republicans, se i topolini del quotidiano, dei treni, del traffico strangolato, delle marce autoreferenziali al seguito dei vecchi e nuovi idoli e degli eterni perdenti come Michael Moore e Jessie Jackson (798 aspiranti Moore hanno chiesto alla polizia il permesso di girare scene della Convention, sognando Cannes), guardino all'elefante repubblicano con distaccato fastidio. Come gli inservienti del circo, anche essi sanno che saranno costretti a seguirlo con il secchio, per raccoglierne i depositi.


29  agosto

Si parla in un villaggio cinese, ha 2.500 anni, rischia di morire
Sono poesie e lamenti per la vita da schiave dopo le nozze
La lingua segreta delle donne
per sfuggire ai maschi padroni
FEDERICO RAMPINI

 

PECHINO - Vicino al villaggio cinese di Shanjianxu, nella regione meridionale dello Hunan, il tempio della Montagna Fiorita è dedicato a due sorelle morte più di mille anni fa. Da secoli le contadine venerano i loro spiriti portando al tempio rotoli di carta di riso in cui confidano i loro segreti e formulano dei desideri; non di rado quello di suicidarsi. Quelle preghiere nessun uomo è mai riuscito a leggerle, perché nessun maschio può capire la lingua in cui sono scritte. Non sono in cinese ma in Nushu, forse l'unica lingua al mondo creata da donne per comunicare solo fra loro.

Una leggenda vuole che il Nushu abbia duemilacinquecento anni e che discenda dalle scritte che gli oracoli incidevano sugli ossi; un'altra mitologia racconta di una ragazza che fu data in sposa all'imperatore, e una volta prigioniera della corte imperiale inventò una scrittura segreta per comunicare con le sue amiche.

Messa fuori legge dal partito comunista negli anni 50, la Lingua delle Donne è stata riscoperta e studiata dalle linguiste cinesi Zhao Liming e Gong Zhebing, dalle giapponesi Toshiyuki Obata e Orie Endo. La rarità linguistica è anche una finestra sulla condizione femminile in Asia. Come spiega la professoressa Zhao, "la prima ragione per la nascita di questa lingua fu il fatto che le donne vivevano nell'analfabetismo forzato, non potevano andare a scuola e nessuno insegnava loro lo Hanzi, la scrittura cinese".

L'altra ragione è la pratica dei matrimoni combinati, per cui le nozze erano un passaggio tragico nella vita delle donne: strappate alle proprie mamme e sorelle e alle amicizie d'infanzia, finivano sotto l'autorità della famiglia del marito, spesso in stato di semi-schiavitù e sottoposte alle vessazioni delle suocere. Ma le donne della provincia di Jiang Jong nello Hunan trovarono una consolazione.
Non conoscendo l'alfabeto degli uomini inventarono una scrittura originale per tramandarsi le canzoni della nostalgia, per confidare alle amiche i loro pensieri più intimi e le sofferenze. Furono aiutate dall'esistenza di una solidarietà femminile speciale: in questa regione esisteva l'antico costume dello Jiebai Zimei, il "giuramento di sorellanza", che fin dall'adolescenza creava legami perfino più forti del sangue (è stata affacciata da studiosi occidentali l'ipotesi che lo Jiebai Zimei potesse nascondere affetti lesbici; Zhao Liming lo esclude categoricamente ma questo è scontato perché nella Cina di oggi l'omosessualità è ancora un tabù).

"Quando una giovane donna veniva data in sposa - racconta Orie Endo - sua madre, le sorelle e le amiche giurate componevano dei canti apposta per esprimere il dolore della separazione imminente. Ma una volta che la ragazza partiva per il villaggio del marito le loro voci non potevano più viaggiare. È così che nacque una scrittura per mantenere vivo il legame tra le donne, una scrittura che non poteva essere il cinese, visto che lo Hanzi veniva insegnato solo agli uomini. Alla giovane sposa le parenti e le amiche regalavano dopo le nozze un San Chao Shu, il libro del cuore in cui scrivevano i loro auguri di felicità; molte pagine venivano lasciate bianche perché la sposa potesse confidarvi negli anni seguenti i suoi pensieri e le sue sofferenze".

Così nella notte dei tempi fu creato questo alfabeto Nushu, con 1.500 caratteri che traducono suoni del dialetto locale in sillabe. Sono caratteri scorrevoli e aggraziati, diversi e più semplici degli ideogrammi mandarini che invece all'origine rappresentano dei concetti. Ma sono rimasti per secoli incomprensibili e impenetrabili per i maschi. Composizioni in questo alfabeto sono state ritrovate anche ricamate sui ventagli e sui vestiti della zona.

Un altro aspetto raro della scrittura Nushu è che si esprime quasi esclusivamente in versi, perché la sua origine orale sono i canti delle donne che lavoravano in casa insieme a filare, cucire vestiti, confezionare scarpe.

In quei versi scritti per le amiche lontane sono consegnate le testimonianze di una condizione femminile senza speranza. "Le mie cognate mi disprezzano / Da mangiare ho solo un po' di crusca / Con dell'acqua per farne una minestra / Mi costringono a fare tutto il lavoro domestico / Ma il mio stomaco è vuoto". "Mio marito scommette al gioco / Mi dimentica per andare alle bische / Ne ho abbastanza di soffrire / Quando mi picchia e non posso fuggire / Ho cercato di impiccarmi / Ma gli zii mi hanno riportato in vita".

Nei diari femminili in Nushu decifrati dalle linguiste c'è autocommiserazione e disprezzo di sé stesse. Chi scrive spesso si indica alla terza persona come "questa donna dal destino spregevole, essere inutile, nata dalla parte sbagliata". Nascere donna è la dannazione di un karma negativo in una vita precedente.

Al tempio delle due sorelle sulla Montagna Fiorita vicino a Shanjiangxu, tra gli odori dell'incenso che brucia, il canto che una contadina ha lasciato su un rotolo di carta di riso si traduce così: "Sorelle defunte, ascoltate questa mia preghiera Questa povera ragazza vi scrive nella Lingua delle Donne Anime sorelle abbiate pietà di me. Vorrei seguirvi dove siete Se solo mi accettate Voglio seguirvi fino alle sorgenti gialle dell'aldilà Di questo mondo non mi attira più niente Vi scongiuro trasformatemi in uomo Non voglio più avere il nome di donna".

Il Nushu cominciò ad essere scoperto e studiato negli anni 50 ma quasi subito venne vietato dal partito comunista, forse perché la sua sopravvivenza smentiva le versioni ufficiali sull'avvenuta emancipazione della donna cinese. Una delle ultime autrici a usare la Lingua delle Donne, He Yanxin, è nata nel 1940: la sua autobiografia - dieci pagine fitte di 2.828 caratteri Nushu scritti sul quaderno di scuola del figlio - descrive le sofferenze di un matrimonio imposto d'autorità dalla famiglia, una consuetudine teoricamente soppressa nella Cina socialista di Mao Zedong.

Tuttora i demografi misurano il peso dei pregiudizi sessisti e l'arretratezza della condizione femminile in Cina dal triste fenomeno statistico delle "bambine scomparse": in base alle normali tendenze procreative del genere umano - per cui in media alla nascita ci sono 106 maschi per 100 femmine - tra il 1980 e il 2000 in Cina sarebbero dovute nascere 13 milioni di bambine in più di quelle che sono nate. Le "bambine scomparse" nei censimenti demografici, sono state vittime di veri e propri infanticidi di massa oppure - in epoca più recente e grazie ai progressi della medicina - sono il risultato di una selezione pre-natale del sesso: quando l'ecografia rivela che il feto è femminile, si opta per l'aborto.

Su scala nazionale questi aborti mirati a seconda del sesso del nascituro producono l'enorme squilibrio delle nascite rivelato dai censimenti. Il pregiudizio contro le bambine si attenua nelle grandi città come Pechino e Shanghai. Resta forte nei villaggi come Shanjianxu nonostante la politica di controllo della natalità - la regola del figlio unico - sia stata ammorbidita proprio a favore dei contadini.

Oggi la Lingua delle Donne non è più fuorilegge. Anzi, a Shanjianxu e nei villaggi vicini come Pumei vogliono cercare di trasformare il Nushu in un'attrazione turistica e hanno cominciato a insegnarlo nelle scuole. Ma Orie Endo teme che la sua estinzione sia comunque vicina. A parte le studiose venute da lontano, nello Hunan le donne veramente capaci di leggerlo e scriverlo, oltre che di parlarlo, sono rimaste solo in tre: Yang Huanyi di 94 anni, He Yanxin e He Jinhua di 64. Dopo di loro forse l'unica lingua femminile del mondo sarà relegata in un museo.


27 agosto

Senza pace
MARIUCCIA CIOTTA
Silenzio adesso. Enzo Baldoni, l'italiano simpatico, il viaggiatore spericolato, il pacifista è morto. Ucciso in mezzo a un mare d'inchiostro versato da chi lo ha usato per attaccare i suoi compagni, la gente che come lui è contro la guerra. Lo hanno fatto diventare una caricatura, il rovescio comico di Fabrizio Quattrocchi, tanto per dire che non ci sono ostaggi «buoni» o «cattivi». Che tutti gli italiani sono uguali. Ora sì. Ma Enzo Baldoni ha sacrificato la sua vita per aiutare le vittime di una selvaggia crociata integralista contro integralisti, di un conflitto che ha moltiplicato il terrore. Era lì armato soltanto della sua fantasia, creatore di interferenze estetico-politiche, capace di far sorridere i bambini all'ospedale, di riconsegnare i caduti senza nome alla grande platea della pietà, di immettere su Internet la flagranza della morte che non è fatta di numeri, ma di persone. Omaggio a Enzo Baldoni, vittima due volte, della barbarie di militanti di un Iraq che nelle loro mani non sarà mai pacificato, e di coloro lo ha indicato come «amico» dei suoi assassini. Non era un italiano come gli altri, aveva più coraggio di noi che ce ne stiamo qui a parlare della sua fine straziante e di chi ha irriso il suo magnifico slancio, di chi non vede mentre lui ha visto che cos'è la guerra.

Perché siamo in Iraq - ostaggi tutti di un mezzo presidente dalla tortura facile - ora lo sappiamo. E sappiamo anche perché dobbiamo andarcene. L'ultimatum è scaduto sulla linea della fermezza. Non è troppo tardi per farlo, si dirà. E invece sì, è troppo tardi perché Enzo non c'è più e non ci resta che la sua rondinella liquida a volare sulle macerie di un mondo più triste, più buio e sconfitto.

26 agosto

CAUCASO
Le mille grane di Putin
LUCIA SGUEGLIA*
Viene dalle spiagge di Sochi, sulle rive del mar Nero, là dove l'estremo lembo meridionale della Russia s'incunea tra Georgia e Cecenia, l'ultimo incubo di una stagione caldissima per Vladimir Putin. Ieri sera, mentre uno dei due Tupolev piombava dal cielo guastando le vacanze all'ex funzionario del Kgb, la paura è tornata a sfiorare anche i cittadini dell'ex impero, da tempo abituati a temere il peggio di fronte ad ogni esplosione o incidente che capiti tra Mosca e Vladivostok. Del resto, a preoccupare Putin in vista delle elezioni indette da Mosca domenica prossima in Cecenia con l'obiettivo di riportare la stabilità nella piccola regione separatista, c'era già stata la violenta notte di sabato. Quando, in uno scontro tra ribelli e forze filorusse (militari e polizia) intorno alla capitale Grozny, sarebbero morte più di 70 persone. Secondo Mosca, ben 250 combattenti indipendentisti avrebbero dato l'assalto alla città in poche ore; peccato che la notizia sia arrivata alla stampa solo martedì. Così ieri sera la prima chiamata da Sochi è stata per l'Fsb, i servizi segreti russi che ultimamente il presidente aveva allertato anche per guidare azioni armate vere e proprie (condotte dai federali) contro i sospetti ribelli. In particolare nelle inaccessibili gole del Pankisi, zona di confine tra Georgia e Cecenia dove si sospetta si annidino i guerriglieri separatisti più accaniti (e, secondo Mosca, anche alcuni esponenti di al Qaeda) e si svolgano traffici d'ogni tipo. Proprio questa zona è stata teatro mesi fa di uno spettacolare inseguimento, con tanto di elicotteri, tra federali fiancheggiati dagli uomini del Fsb e i presunti terroristi ceceni, lasciando sul campo decine di morti da entrambe le parti (ancora in numero imprecisato). E proprio qui, ai confini meridionali dell'impero, si combatte ora una battaglia che ultimamente scotta forse più di quella cecena per Mosca: quella tra il nuovo governo filo-Usa della Georgia, e le sue (molte) regioni separatiste fedeli a Mosca.

L'ultima di queste scaramucce armate a media intensità - dopo la cacciata a maggio del leader d'Adjaria Aslan Abashidze, che ha segnato una sconfitta per Putin -, viene proprio dalle terre georgiane ai confini con la Cecenia: l'Ossezia del Sud, che dal 1992, dopo essersi autoproclamata indipendente, lotta per staccarsi da Tbilisi accusando il governo centrale di persecuzione a sfondo etnico. Oggi il presidente georgiano Mikhail Saakashvili minaccia di chiamare in causa la comunità internazionale contro Mosca, accusata di sobillare i secessionisti.

Anche se l'ipotesi del sabotaggio o dirottamento per i due Tupolev è per ora scartata, la situazione dalle parti di Grozny non è certo tranquilla. Anche stavolta, come in coincidenza di ogni importante appuntamento elettorale in Cecenia, il grido di Samil Basaev, il leggendario comandante del Battaglione dei martiri per la libertà che dal 2003 il Dipartimento di stato americano ha messo sulla lista dei gruppi terroristi (dando il via all'alleanza Mosca-Washington in nome della lotta al terrorismo mondiale) è tornato a farsi sentire. Dichiarando dal sito Kavkazcenter, vicino alla guerriglia islamico-secessionista, che chiunque esca vincitore dalle urne domenica sarà un uomo morto. Ma oggi il rischio maggiore è che le turbolenze caucasiche sconfinino al di là dei limiti finora imposti da una guerra feroce e senza scrupoli che da dieci anni paralizza la Cecenia. E che si allarghi, ad esempio, fino ad includere il vicino Daghestan, postazione di partenza prediletta in passato per le incursioni degli uomini di Basaev. O l'Inguscezia, dove le migliaia di profughi costretti alla fuga dalla Cecenia nel corso di due guerre sanguinose sono mal tollerati da una popolazione poverissima. A Grozny, comunque, anche se il sangue continua a scorrere quasi quotidianamente, non sembra soffino per ora venti di cambiamento e tutti sono pronti a giurare che il prossimo presidente sarà Alu Alkhanov, il candidato gradito a Mosca.



Scoppia il nuovo caso del ticket sui farmaci
Siniscalco si irrita per le anticipazioni stampa. Sirchia nega tutto. Morgan Stanley: il vero rischio del federalismo
PAOLO ANDRUCCIOLI

La manovra economica per il 2005 batterà i recordi storici (forse anche quella di Amato) e sarà il nuovo banco di prova non solo del ministro Siniscalco, ma di tutto il governo Berlusconi. In ballo - oltre all'impegno dell'Italia di rispettare i parametri di Maastricht - ci sono anche altre due questioni esplosive: la necessità impellente di trovare i soldi (24 miliardi di euro, più i costi della riforma fiscale) e l'obbligo di cambiare in corsa tutto il sistema dei conti pubblici nazionali nel caso in cui andasse in porto la riforma federalista, che trasferisce le finanze a livello locale. La delicatezza della situazione spiega il grande caos e il nervosismo che regnano di nuovo dentro il palazzo. Il neoministro Domenico Siniscalco non nasconde infatti la sua irritazione per le anticipazioni che sono circolate in questi giorni. Perfino il ticket unico sui medicinali (che era contenuto in un documento riservato di undici pagine scritto a fine luglio), viene ora smentito dal dicastero di via XX settembre, dove ieri si sono recati i due sottosegretari all'economia, Giuseppe Vegas e Gianluigi Magri e poi anche il ministro della sanità, Girolamo Sirchia, che ha incontrato Siniscalco insieme al ragioniere generale dello Stato, Vittorio Grilli. Secondo fonti del ministero della sanità, Sirchia avrebbe smentito categoricamente l'ipotesi che il governo stia lavorando all'introduzione di un ticket unico nazionale sui farmaci. Una mezza smentita era arrivata già nella mattinata di ieri dal ministero dell'economia. «Il ministro dell'economia - si legge in un comunicato - vorrebbe sapere chi sono le fonti del Tesoro che da giorni producono le idee più stravaganti in materia di politica economica». Nel pomeriggio, però, incontrando i sottosegretari Vegas e Magri, lo stesso ministro Siniscalco avrebbe impostato il discorso preliminare sui risparmi di spesa partendo proprio dai tagli nei settori della sanità, degli enti locali, del pubblico impiego e dell'acquisto di beni servizi.

Nonostante le smentite ufficiali, l'ipotesi di un ticket unico di 50 centesimi sulle ricette farmaceutiche continua a circolare e produce anche scontri più o meno espliciti all'interno della maggioranza. Il ticket sui farmaci viene spinto dallo staff economico di palazzo Chigi che aveva calcolato in circa 800 milioni di euro la possibile entrata per lo Stato. E' anche ovvio però che in questo settore, oltre i conti, assumono importanza gli effetti politici in termini di crollo di popolarità. Siniscalco non ama presentarsi con il ticket. E in ogni caso il ticket, come ha dichiarato ieri Roberto Polillo della Cgil, «sarebbe solo un espediente per fare cassa subito».

Il ministro preferisce piuttosto presentarsi come il futuro artefice della più grande operazione di privatizzazioni e dismissioni che sia mai stata fatta in Italia. Siniscalco vorrebbe anche ricalcare le orme del suo collega inglese, Gordon Brown, che ha cambiato il sistema di previsione della spesa pubblica (mettendo dei tetti preventivi ai vari ministri) e ha osato intaccare il lavoro nel pubblico impiego. Intervistato dal Financial Times, Siniscalco ha detto che le privatizzazioni saranno autentiche e che il governo non si limiterà a parcheggiare le partecipazioni nella Cassa depositi e prestiti. La Cassa potrebbe però essere «la dimora appropriata per le partecipazioni in industrie strategiche come le Poste. L'intenzione del governo è dunque quella di accelerare il programma di privatizzazioni (sono in corso vari gruppi di lavoro) attraverso cartolarizzazioni di crediti, vendite di immobili e ulteriori cessioni di quote in aziende pubbliche.

Se tutto questo non bastasse, c'è da tenere in considerazione anche gli effetti del federalismo. La riforma potrebbe trasformarsi infatti in un vero e proprio terremoto per le finanze pubbliche. Lo mette in evidenza anche l'economista della banca d'affari Morgan Stanley, Vincenzo Guzzo, intervistato ieri dall'agenzia AdnKronos. La finanziaria e il federalismo, sostiene Guzzo, potrebbero piegare ulteriormente l'Italia. In particolare sul federalismo, Guzzo dice che la riforma va valutata molto attentamente. «Mi pare - dice l'economista - che la politica italiana non abbia valutato le conseguenze effettive della legge. Trasferire così tanti poteri dall'oggi al domani è quasi impensabile.

25 agosto

A tutta manetta
ANDREA COLOMBO
I politici italiani, in stragrande maggioranza, fanno tutti un doppio lavoro: all'attività politica affiancano quella di guardie carcerarie in pectore. Quando grava nell'aria l'olezzo di galera, le pur lievi differenze tra i due poli scompaiono per trasformarsi in identità completa. E' stato così ai tempi non lontani della sciagurata campagna contro l'«emergenza microcriminalità», e poi di nuovo in occasione delle manovre congiunte atte a vanificare l'«indultino». E' ancora così in quest'estate del 2004, con le forze maggiori di destra e di sinistra che si coalizzano per esorcizzare ogni proposta di amnistia. «Non basterebbe a risolvere il problema delle prigioni», ripetono concordi diessini e berluscones, nazionalalleati, leghisti e margheritini. In effetti servirebbe solo a rendere meno insopportabili le condizioni in cui versano alcune decine di migliaia di detenuti. Faccenda secondaria.

Il copione si ripete quando dai detenuti stipati nelle patrie galere si passa al latitante Cesare Battisti. Il ministro della giustizia accusa la sinistra europea «di difendere assassini e latitanti». I rappresentanti italiani della stessa sinistra passano al contrattacco e addossano al guardasigilli leghista la responsabilità di essersi fatto scappare il serial killer. Se la Lega avesse vistato il mandato europeo, il turpe Battisti starebbe già dietro le meritate sbarre. Nobile competizione.

Sarebbe il caso di fare chiarezza. Il fatto strano, nella vicenda che riguarda l'ex leader dei Pac, non è la fuga del medesimo, comprensibile per chiunque e giustificata dal diritto elementare a evitare la galera se appena possibile. E' la determinazione degna di miglior causa con la quale il governo italiano persegue l'obiettivo di incarcerare un signore che ha rotto ogni ponte con il suo passato e che non rappresenta da decenni alcun pericolo per l'ordine pubblico, né italiano né francese. Un uomo la cui biografia «criminale» andrebbe inscritta, interpretata e giudicata nel quadro di una fase storica lontana e passata. Superata per tutti tranne che per i politici italiani.

Neppure le argomentazioni del ministro degli interni Pisanu, pur di tutt'altro livello rispetto agli sbraiti del collega guardiasigilli, valgono a controbilanciare la palese necessità di chiudere anche nelle aule di tribunale un capitolo che nella storia del paese è chiuso da un'eternità. Il rischio di una nuova ondata terroristica, che potrebbe risultare incoraggiata dal'«impunità» di Battisti, è, se non inesistente, certo inattuale. Lo dimostra il recente pentimento della neo brigatista Cinzia Banelli, che sta ai pentimenti degli `80 come la ripetizione in farsa alla tragedia originale. La deposizione di Antonio Savasta, nel 1982, portò a un paio di migliaia di denunce. In quella della «compagna So», non c'è una sola denuncia nuova.

Non si tratta di reticenza: è solo che il «nuovo terrorismo», fatti salvi i lutti e le tragedie che ha prodotto e può ancora produrre, è una faccenda più che marginale, limitata a pochi singoli individui. Per dargli qualche spessore occorre scomodare l'anarco-insurrezionalismo, poco più di una leggenda metropolitana.

Sarebbe già qualcosa se la ferocia con cui il nostro governo e la nostra opposizione inseguono un manipolo di persone che non rappresenta più alcun pericolo si spiegasse con una semplice, ancorché selvaggia, sete di vendetta. Ma il ministro padano non è un giustiziere della notte. E' un cacciatore di teste che insegue la preda sperando di incassare in cambio, al posto della taglia, un gruzzolo di voti sonanti.

Purtroppo non sono migliori né più nobili le motivazioni di quei partiti d'opposizione che lo inseguono e di fatto lo spalleggiano, anch'essi a caccia di voti forcaioli. Pardon: moderati.


 Luoghi
Aerei americani hanno bombardato il cimitero di Najaf. Lo stato maggiore ha subito precisato che si è trattato di un errore. La tempestiva precisazione è stata apprezzata dagli abitanti del luogo.

Il primo «no» per Central Park
Ieri il giudice distrettuale William Pauley ha respinto la richiesta dei dimostranti arabo-americani di manifestare nel parco alla Convention repubblicana. In attesa della Corte Suprema che deve pronunciarsi sul ricorso dei pacifisti contro il sindaco di New York che ha negato Central Park
FRANCO PANTARELLI
NEW YORK
A ridosso della convention repubblicana, le misure di sicurezza sono già pronte a scattare e sono asfissianti - chiusura al traffico di una vasta zona attorno al Madison Square Garden che renderà la città invivibile; linee di autobus ridotte o deviate per l'immaginabile gioia dei loro utenti; posti di blocco «a sorpresa» in vari altri punti della città; la Penn Station, che si trova proprio sotto al Madison Square Garden e su cui convergono i treni dei pendolari del New Jersey e del Long Island più varie linee della metropolitana, pronta a «scoppiare» e un'infinità di altre restrizioni - ma ancora nessuno sa dove avrà luogo la grande manifestazione con cui i pacifisti intendono dare il «benvenuto» ai repubblicani. Domenica, vigilia dell'apertura dei lavori, è attesa una immensa marcia di almeno 250.000 persone. La disputa in corso fra il sindaco Michael Bloomberg e la Upj (United for Peace and Justice, l'organizzazione che coordina i tanti gruppi e gruppetti che parteciperanno), infatti, non è ancora risolta. Per ieri era prevista la decisione del giudice della Corte Suprema dello Stato, Jacqueline Silberman, sulla denuncia che la Upj ha presentato contro la decisione di Bloomberg di negare il Central Park ai manifestanti e un po' tutti erano come appesi a quel suo pronunciamento. Proprio durante l'attesa, era arrivata la notizia che nel frattempo un giudice distrettuale, William Pauley, aveva accolto gli argomenti del sindaco e negato il parco per un'altra manifestazione - indetta dagli arabi-americani - fissata per venerdì. Non necessariamente una «linea», quella fissata dal giudice Pauley, anche perché la signora Silberman, in quanto «custode» della Costituzione dello Stato di New York, si suppone sia più sensibile al Primo Emendamento (quello che stabilisce il diritto a manifestare il proprio pensiero). Ma il «no» agli arabi-americani con cui si era aperta la giornata un bel po' di patema lo aveva diffuso. Così si aspettava e intanto continuavano le schermaglie fra i due campi, quello del sindaco e quello dell'Upj, ognuno con i propri problemi «interni». La lista di quelli di Bloomberg, il cui argomento ufficiale è il suo «amore per il Central Park» (quando era «solo» uno dei più ricchi abitanti di New York lo esprimeva attraverso generose donazioni per la manutenzione, adesso che è sindaco non vuole vedere la sua erba distrutta da mezzo milione di piedi), è piuttosto lunga e il suo gesto di offrire sconti nei teatri e nei ristoranti ai manifestanti «bravi» non è certo servito ad accorciarla.

C'è il rischio di apparire «un altro Rudolph Giuliani», il suo predecessore diventato materia di studio nelle facoltà di giurisprudenza perché durante la sua amministrazione ha affrontato in tribunale una dozzina di cause riguardanti il Primo Emendamento e le ha perse tutte; c'è il problema che il prossimo anno Bloomberg (repubblicano in una città prevalentemente democratica) dovrà chiedere la rielezione; c'è la disputa sindacale in corso per il rinnovo del contratto dei poliziotti della città, i quali è da settimane che tallonano il sindaco dovunque vada e lo perseguitano con le loro proteste. E e poi c'è il fatto che la sua speranza di proiettare nel Paese l'immagine di una New York che ha «recuperato in pieno» per i turisti e non solo rischia di finire travolta da scene simili a quelle del febbraio dell'anno scorso, quando la manifestazione contro la guerra in Iraq degenerò in scontri con feriti e arresti di massa. Ma anche dall'altra parte, quella della Upj, la lista dei problemi è lunga. Il primo è che i suoi responsabili prima hanno accettato la controproposta di Bloomberg - quella di andare a manifestare nell'estremo Ovest di Manhattan, sulla grande strada che costeggia il fiume Hudson, praticamente la zona più desolata di Manhattan - e poi, in seguito alle proteste della «base», si sono rimangiati l'accordo stipulato e hanno ripreso a insistere per il Central Park. Adesso, perciò, nella malaugurata ipotesi che il giudice Silberman desse ragione al sindaco, non si sarebbe saputo più dove andare.

L'altro giorno, a una riunione della Upj, un organizzatore di Chicago ha chiesto brutalmente: «Ma se alla fine il Central Park verrà vietato, che diavolo (eufemismo) di piano alternativo abbiamo?». E la risposta è stata che di fatto quel piano non c'è. «Mi dispiace di non avere una risposta più congrua - ha detto Leslie Cagan, del coordinamento - ma questa è la situazione». Al che vari gruppi hanno preso a teorizzare che «il divieto di manifestare non è il divieto di passeggiare», implicando che loro andranno lo stesso al Central Park « e li voglio vedere - diceva qualcuno - i poliziotti che cercano di distinguere i manifestanti tra le migliaia di normali visitatori domenicali del parco». Non fa una grinza, ma significa anche buona possibilità di scontri. E i repubblicani non aspettano altro, pronti come sono a incolpare i democratici di qualunque cosa. Per loro, infatti, i possibili attacchi terroristici, le manifestazioni contro la guerra e il desiderio di mettere John Kerry alla Casa Bianca al posto di Bush sono la stessa cosa. Che non è vero lo sanno benissimo, naturalmente, ma sanno anche che qualcuno disposto a crederci (e a ricordarsene al momento di votare) si trova sempre. 

24 agosto

Sinistra in vacanza
ROSSANA ROSSANDA
Pereat mundus, fiant vacationes. Sembra lo slogan delle sinistre. Nel governo ne succedono di tutte, Forza Italia impazza contro la Udc, la Udc contro la Lega, Calderoli contro tutti, Castelli contro la sinistra, ma l'opposizione tace, salvo per unirsi al coro di chi non si darà pace finché il Battisti Cesare, colpevole negli anni `70 e da trent'anni tranquillo cittadino in Francia, non sarà stato consegnato alle patrie galere, notoriamente vaste, fresche e sottopopolate. E pazienza se l'opposizione si prendesse qualche riposo dopo averci fatto conoscere le intenzioni sulle quali chiederà al popolo il voto per sostituire l'attuale governo, del quale esige le dimissioni un giorno sì e un giorno no. Dopo le elezioni europee, c'è una probabilità che quelle legislative avvengano nel 2005, cioè domani. Quali guasti intende sanare dei molti fatti dal Cavaliere? Il conflitto d'interesse? Le misure giudiziarie ad personam? La progettata riforma della magistratura? Le legge Maroni sulla flessibilità del lavoro? La Bossi-Fini? La riforma Moratti? Qualcuno ha ventilato che molte di esse avrebbero alle radici delle buone ragioni. D'altra parte non si rimedierà con semplici misure legislative a disposizione che hanno già modificato la costituzione materiale e formale del paese. Fra tre settimane darà alla Camera una devolution, cui ha aperto le porte la modifica del capitolo 5 votata a spron battuto dal centrosinistra.

Il governo ci lascia un deficit di migliaia di miliardi di euro, che intende coprire detraendoli dalla spesa sociale e vendendo beni pubblici. La sinistra invece che ne farà? Ripreleverà dai grossi redditi, dai patrimoni comprese rendite finanziarie? Sarebbe logico ma andrebbe detto. Inoltre una grande industria italiana non c'è più, Montezemolo invita a «ricostruirla assieme» ma con quali mezzi, priorità e garanzie per il lavoro non glielo chiede nessuno. Non l'opposizione, una cui inviata all'estero fa sapere che buona parte dell'Ulivo lo considera un premier ideale. Non solo i governi europei hanno nominato una commissione in confronto alla quale la Confindustria è un seminario di socialdemocrazia. Qualcuno protesta? E con quali ragionevoli alleanze si propone ragionevolmente di modificare il patto di stabilità?

Infine ma non per ultimo, in queste settimane l'offensiva americana contro l'Iraq è diventata selvaggia e investendo Najaf si è messa contro oltre che i sunniti gli sciiti. Mentre i nostri a Nassirya sono nella zona di fuoco. Che si aspetta per fare una pressione per il ritiro delle truppe, anche a prescindere dal povero Baldoni? Che si aspetti la vittoria di Kerry, il quale non cambierà né molto né subito?

Urge scegliere il che cosa e il come. Un programma non è una lista di buone intenzioni è una tabella di marcia cui si risponde. Ha da essere chiara, fattibile e impegnativa.

Non ce l'hanno ancora né la sinistra moderata né quella radicale. Ambedue ci intrattengono su questioni di metodo: fare o no le primarie per eleggere il leader del centro-sinistra, che è definito da un pezzo? E a che punto è la coalizione, e se è a buon punto prelude o no a una maggioranza di governo? L'Unità non si espone, tanto più che il Congresso dei Ds sarà tutto un fair play. Su Liberazione è invece in corso un dibattito acerbo se si debba andare ad una maggioranza come propone Bertinotti oppure no e chi dovrebbe decidere: la maggioranza del partito, tutto il partito, maggioranza e minoranza o partito e movimenti? E si sprecano accuse reciproche di cedimento o settarismo.

Può darsi che il caldo ci renda nervosi. E che con l'ebbrezza di settembre escano invece le idee chiare dalla sinistra. Nel solleone di agosto abbiamo visto soltanto che la borghesia ha gratificato la memoria del suo De Gasperi mentre la sinistra ha riseppellito l'ex suo Togliatti senza lasciare per un giorno la villeggiatura e mettere sul suo sepolcro un fiore né di ricordo né di elogio né di perdono.


 Dopo 24 anni di assistenza indipendente alla popolazione MSF lascia l’Afganistan in seguito all’uccisione dei suoi 5 operatori e le continue minacce generate dalla confusione dei ruoli tra umanitari e militari
Morte, minacce e insicurezza ci costringono a lasciare l’Afganistan.

Dopo 24 anni di assistenza alla popolazione afgana nel pieno rispetto del mandato umanitario che vincola a indipendenza, imparzialità e neutralità, Medici Senza Frontiere ha dovuto lasciare il paese.
Il clima che si è creato in Afganistan a partire dall’intervento armato della coalizione guidata dagli USA ha portato ad un costante ridimensionamento dello spazio umanitario impedendo ai nostri volontari di svolgere un’azione efficace e chiara. Ne siamo tristi e tutti stiamo vivendo con amarezza questa decisione pur dovuta. La morte dei nostri 5 colleghi all’inizio di giugno, crudelmente assassinati da ignoti, la mancata persecuzione dei responsabili da parte del governo afgano che ha raccolto prove credibili sui mandanti, altre minacce rivolte a MSF dopo l’attentato, ci costringono a rivedere i nostri piani d’intervento per non fare da bersaglio in un paese dove le operazioni "umanitarie" dei militari hanno confuso i ruoli e le responsabilità delle azioni condotte.
Grazie a tutti coloro che in tutti questi anni hanno seguito e sostenuto il nostro intervento in quel paese.

http://www.medicisenzafrontiere.it/ 

5 agosto

Lavoro sporco
ANDREA COLOMBO
Buttata giù da quattro signori di dubbia saggezza tra una passeggiata montana e un grappino, la riforma istituzionale è arrivata dopo 12 mesi tondi al vaglio di deputati preoccupati soprattutto di raggiungere le agognate spiagge, incalzati dalla fretta. Se la sono cavata presto. Ieri, nel vuoto di un'aula deserta, sono bastate poche ore per dichiarare incardinata e avviata una riforma che straccia la Carta del 48, la riscrive per metà nel testo e per intero, capovolgendola, nello spirito. Per l'agosto è prevista una nuova limatura, sempre rigorosamente extraparlamentare. C'è chi spera che la nuova gita serva a introdurre sensibili miglioramenti, ma solo perché la speranza è sempre l'ultima a morire.

Poi, in settembre, riprenderà la corsa. A rotta di collo. Urlando sempre, e quando necessario adoperando più contundenti argomenti, i leghisti hanno imposto a un parlamento del resto poco incline a resistere tempi da maratona. E anche così si sono lamentati.

Forse la riforma arriverà in porto e riuscirà a incassare la doppia approvazione delle camere entro la fine della legislatura. Forse invece no. Variabili e incognite sono troppe per azzardare previsioni. Il percorso è accidentato, non perché l'opposizione sia riuscita a mettere in piedi uno straccio di resistenza degna del nome, ma per le numerose rivalità insanabili tra i riformatori, per gli appetiti inconciliabili che rischiano di farli crollare da un momento all'altro.

Quel che in compenso si può prevedere con certezza è che, se la sferza leghista riuscirà a far correre gli alleati fino al traguardo, nessuno oserà più mettere mano al parto di Lorenzago, comunque vadano le prossime elezioni. Non lo farà una destra eventualmente confermata nelle urne, ed è ovvio. Non lo farà neppure un'opposizione miracolata dagli errori dei rivali, e questo è meno facile capirlo senza chiamare in causa categorie patologiche che poco hanno a che vedere con la politica, fosse pure la più spregiudicata.

Rutelli, concorde con il più quotato consigliere di D'Alema, ha tranquillizzato ieri i suoi elettori. Un eventuale futuro governo di centrosinistra non cancellerà le riforme di Berlusconi. L'Ulivo, è vero, le ha giustamente definite con termini apocalittici, ma quello era per scherzo. Facezie che ci si possono permettere quando si sta all'opposizione, ma che è opportuno dimenticare appena invertiti i ruoli.

La riforma delle pensioni griderà pure vendetta, ma in politica far fare il lavoro sporco agli avversari è il gioco più antico del mondo. La legge Biagi andrà anche criticata con parole di fuoco, ma vuoi mettere il vantaggio di ritrovarsi la flessibilità già bell'e fatta? La scuola secondo Moratti fa accapponare la pelle (e la Cgil ha ripetuto ieri che va abrogata in blocco), ma in fondo non è che quella di Luigi Berlinguer fosse molto diversa. Identiche considerazioni varrebbero ove si trattasse di vanificare il duro lavoro riformatore del governo Berlusconi.

Non è molto interessante sapere quali tortuosi ragionamenti abbiano consigliato a Rutelli di esporsi in questo modo, se miri a danneggiare gli amici diessini o se, in coppia con un esperto in materia quale Franco Marini, stia cercando di fare le scarpe al molto osannato e poco amato Prodi. L'importante è che l'ex candidato dell'Ulivo ha dato voce a una tendenza che nel centrosinistra è da sempre robustissima e solitamente trionfante. E che gli elettori hanno giù punito più volte. Inutilmente. 


3 agosto 

INTERVISTA
Bertinotti: «Se serve mi candido»
Il leader di Rifondazione conferma la sua disponibilità per le primarie. E sul programma: «Concordo con Epifani»
Alternativa «Quel che manca al centrosinistra è un impianto generale di politica economica-sociale»

MICAELA BONGI
Il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, bacchetta il centrosinistra. Si parla di «programma condiviso», è la sua critica, ma «sotto questo profilo siamo ancora all'anno zero». E avanza alcune proposte: il ripristino dell'imposta di successione per i grandi patrimoni, una revisione delle aliquote sulle rendite finanziarie, una leggera, leggerissima patrimoniale.

Per i Ds e la Margherita dire che il centrosinistra sul programma è ancora fermo è ingeneroso. Cosa ne pensi?

Va da sé che non siamo all'anno zero perché le opposizioni su alcuni punti come lavoro e ambiente sono andate avanti. E la costruzione di un programma non è solo quella che fai nei luoghi predisposti alla bisogna, ma la costruzione materiale: Scanzano e Melfi consentono di dire che non siamo all'anno zero. Ma la questione posta da Epifani è di altra natura: di fronte alla crisi irreversibile del sistema politico berlusconiano, che affonda le radici nella crisi del blocco sociale e economico che lo ha alimentato, c'è una immaturità oggettiva che andrebbe colmata. Il problema non è solo definire il programma, ma definire la relazione fra il programma e un sistema di forze politiche, culturali, sociali. Tutti riconoscono l'importanza di un'operazione politica, che sia chiami convention programmatica o assemblea. Ma manca la volontà, l'energia politica che dà la soluzione del problema. Non è un j'accuse, ma la replica di lesa maestà è sbagliata. Andrebbe riconosciuto il problema e cercata la soluzione.

La convocazione della convention programmatica a settembre?

Entro settembre andrebbe convocata la prima assemblea, e parlo di assemblea perché bisogna dare il senso di un coinvolgimento largo. Anche su questo punto, nei colloqui che ho avuto mi sono speso sentito dire che un'assemblea di questo tipo deve comprendere anche esperienze di governo locale e esperienze di movimento. Quindi non vedo contrasti. Ma si torna sempre allo stesso punto: non accade. Aggiungo che la sollecitazione di Epifani andrebbe a maggior ragione accolta se si ritiene che noi andiamo a una acutizzazione della crisi. Il governo si accinge a misure di politica economica che si fondano sul motto «morto il re viva il re», cioè morte le politiche neoliberiste viva le politiche neoliberiste. Il fatto che la compagine governativa sia allo sbando aggrava la situazione come dimostra la fiducia su una questione pesante come l'attacco alla previdenza pubblica. Di fronte alla crisi del sistema politico berlusconiano il rischio che tu possa essere sotterrato dalle loro macerie è molto forte e quindi bisogna immediatamente pensare a una nuova edificazione, non si può più rinviare.

Proprio sulle pensioni il centrosinistra è tornato recentemente a dividersi.

Eistevano già le divisioni e anche per questo c'è bisogno di forti discussioni su un impianto comune. Insisto, su un impianto, non sulla definizione di un po' di punti programmatici come se fosse un elenco telefonico, ma una discussione su un impianto generale di politica economica e sociale. Il discorso di Epifani comincia a accendere una luce: serve una vera e sistematica aggressione alle rendite.

Anche la proposta di elezioni primarie per la leadership del centrosinistra ha fatto discutere.

Ci sono primarie che mi piacciono. Penso che andrebbero fatte primarie programmatiche, ad esempio sulla legge 30 o appunto sulle pensioni.

E la proposta di Prodi? Tu hai ipotizzato una tua candidatura...

Noi abbiamo detto che non facevamo questione alcuna su Prodi, per noi andava bene, la questione era chiusa. Se tuttavia vengono proposte le primarie, allora è indispensabile che non ci sia il candidato unico, ma almeno due.

E tu saresti davvero pronto?

Assolutamente sì. Seriamente. O la discussione sulla leadership non si fa - è per noi il candidato c'è già - oppure se si va alle primarie...

La tua candidatura sembra aver messo in difficoltà i Ds.

Io sono tranquillissimo, in ogni caso. Ma ripeto, se vengono proposte le primarie servono almeno due candidati.

Dalla sinistra interna a Rifondazione ti hanno criticato: si paventa un Prodi-Bertinotti sul modello Kerry-Edwards...

All'interno di Rifondazione c'è un dibattito politico molto acceso al quale sono abituato e non mi sottraggo. Anche dopo il risultato elettorale c'è stato dibattito. Ci sentiamo più forti anche per il risultato elettorale, non è detto che non si possa avere una linea radicale e al tempo di unità. La grande crescita del movimento ha contribuito a innovare la cultura politica.

Nel centrosinistra è tornata a far discutere anche la guerra, dopo quanto hanno detto Fassino e Rutelli a Boston.

La guerra continuerà a essere centrale. In Italia c'è stata un'aggregazione di forze che ha portato alla richiesta del ritiro delle truppe anche quando non era l'opzione prevalente. Si tratta di successi importanti. Penso che ci siano buone chances per mantenere questa posizione anche se ciò determina forti disagi nelle forze riformiste.

Dunque, tu proponi l'assemblea programmatica. Prodi sarà disponibile?

Ho tutte le ragioni per pensare di sì.