Archivio Agosto 2004
31 agosto
Per questo
GABRIELE POLO
Guerra e civiltà sono parole inconciliabili: quando
l'occidente ha rimosso questa lezione (e lo ha fatto spesso nella sua storia) ha
provocato la propria e l'altrui rovina. Di solito lo ha fatto per spirito
imperiale, o per paura. In entrambi i casi ha distrutto le sue libertà, quelle
che gli antichi consideravano le basi della civiltà. Quando qualcuno (uno stato
come una setta) si appella a valori assoluti per esigerli con la forza impone
una chiamata alle armi che non ammette defezioni. Lo fa chi dice di esportare la
democrazia a mano armata, lo fanno quelli che vogliono imporre il velo a una
donna. E' questa la guerra che entra nel profondo delle nostre vite.
Siamo obbligati a scegliere tra un Iraq (un medio-oriente o
persino di più) sotto occupazione americana e un paese «liberato» a colpi di
terrore? Non è così, non fosse altro perché il terrore colpisce e continua a
colpire nonostante l'occupazione. Dobbiamo accettare l'indiscutibilità di una
legge, tra il difendere la sovranità laica di uno stato contro il ricatto
terrorizzante e asserire - per questa via - la superiorità della nostra parte
del mondo? Non dobbiamo, preferiremmo che le ragazze musulmane delle banlieue
parigine decidessero in libertà (dalle famiglie, dai maschi in guerra, dallo
stato in cui vivono) se portare quel velo.
La tragica parodia dello «scontro di civiltà» non
risparmia nessuno: chi non è obnubilato dagli integralismi o corrotto dagli
interessi ascolta il richiamo delle sirene che intonano l'inno del «male minore»,
quel «meno peggio» che sta diventando una filosofia di vita per la sinistra
europea. E' meno peggio il tank o il kamikaze? Abu Ghraib o i decapitatori?
L'imposizione del volto scoperto o del velo? E' così che si rinuncia: non ai
sogni di un altro mondo ma perfino alla propria autonomia, si finisce arruolati.
E' la fine della libertà, della critica razionale, della ricerca di
un'alternativa. E si prepara la propria fine. Seguendo un simile buon senso
l'Internazionale socialista, un secolo fa, decise che il colonialismo europeo in
Africa era cosa buona e giusta: portava la civiltà, che - ovviamente - avrebbe
fatto nascere anche lì il movimento operaio. Qualche anno dopo l'Internazionale
si dissolveva nell'appoggio al massacro della prima guerra mondiale.
Non ci stiamo. Di fronte alla barbarie di mondi impauriti
che per sopravvivere o per perpetuare privilegi si chiudono nelle appartenenze
scegliamo la diserzione, l'esodo. L'andare altrove non è una fuga, è una
ricerca. Abbiamo imparato da tempo che il nemico del nostro avversario non è
per forza un nostro amico, ma anche che il fine (nemmeno la democrazia, il
comunismo o la felicità) non giustifica i mezzi che snaturano quel fine. Meglio
sottrarsi al gioco delle semplificazioni e continuare a cercare le radici del
male per dare voce ai mondi più scossi dai bagliori accecanti degli orrori.
Mondi che esistono anche dove la legge della forza sembra cancellare tutto. Per
questo vogliamo il ritiro delle truppe dall'Iraq, precondizione per la fine
della guerra, per questo facciamo questo giornale, che seguendo la logica del
male minore non sarebbe nemmeno nato: per essere in questo mondo senza esserne
divorati.
Bush
a caccia dei voti
nella trincea di Manhattan
VITTORIO ZUCCONI
NEW YORK - Due popoli alieni che per
quattro giorni accettano diffidenti di coabitare sullo stesso pianeta come un
tempo le famiglie sovietiche dividevano lo stesso appartamento odiandosi,
Republicans e Newyorkers vivono da separati in casa quel teatrino dell'assurdo
chiamato "Convention", cordialmente detestandosi ed evitandosi. Se non
avete i mille dollari (carte di credito accettate) necessari per entrare nel
party organizzato da Newsweek al "Four Seasons Hotel" o non volete
andare alla chiesa di Saint Mark nella Bowery per partecipare al "Vomitorium"
dei nauseati da Bush e vomitare gratis, la Convention è un'estranea di
passaggio.
Da quando i congressi dei partiti americani sono stati svuotati di ogni
contenuto politico reale e di ogni suspense, le Convention piombano ogni quattro
anni su città innocenti e indifferenti come astronavi intergalattiche
scaricando esploratori che non vedono l'ora di andarsene, tra indigeni che non
vedono l'ora che se ne vadano.
New York, dice il direttore della sezione locale dello Fbi, l'italo americano
Damuro, ha "la tredicesima forza armata del mondo", se fosse una
nazione autonoma, e si vede. La città che ha subito il grande martirio dell'11
settembre, ora deve vivere il piccolo martirio di un'occupazione militare.
Come già Boston un mese addietro, così New York conosce il tormento della
rigida divisione di casta che colpisce queste città sopra le quali, come Genova
ricorda, si abbatte la maledizione del grande evento voluto per prestigio e poi
subito per danni. Vive la feroce discriminazione tra chi ha
"l'accreditamento" e chi non ce l'ha. Con un aggravante. Che il
Madison Square Garden è piantato nel cuore di Manhattan, sopra il principale
snodo ferroviario, stazione e crocevia del traffico di auto e di pendolari e non
può essere sigillato e chiuso come furono le linee del metrò sotto il
palazzetto dei democratici a Boston. I treni a lunga percorrenza che arrivano
alla stazione sotto il Garden sono fermati a Newark, l'ultima fermata prima di
New York. I passeggeri identificati uno per uno. I loro bagagli ispezionati. E
al minimo dubbio arrestati, come è stato arrestato e trascinato il mio vicino
di viaggio, sul rapido "Acela" numero 2222 alle ore 19 e 30 di
domenica proveniente da Washington, perché la targhetta sulla sua valigia
portava il nome della moglie, diverso dal suo nella patente.
Il Garden occupato dai Bush Boys sta nel cuore di Manhattan come una cisti
dolorosa ma benigna, perché destinata a scomparire spontaneamente fra quattro
giorni, irritante perché l'incistamento dei 10 isolati che lo circondano è
garantito da chilometri di transenne d'acciaio, da muraglie di jersey di
cemento, da scavatrici e schiacciasassi giganti strategicamente piazzati per
bloccare le strade e fermare ogni autobomba, in una incruenta, ma esemplare
metafora di quella "zona verde" a Bagdad fortificata per proteggere le
gli occupanti e i loro collaboratori locali. Persino gli intrepidi e ruvidi
tassinari di Manhattan, preoccupati dall'abbondanza fra loro di nomi come
Mohammad, Khaled o Hassam, tendono a tenersene alla larga, nella giusta
convinzione che dieci dollari di corsa non valgano dieci giorni in un lager del
servizio immigrazione, per controllare documenti, origini e amicizie.
Nessuno sa con precisione quanto vasto sia l'esercito di occupazione nella
"Bagdad sull'Hudson", perché la cifra è segreta, ma l'esercito di
uomini e donne armate calati su Manhattan per proteggere George Bush dalla
propria nazione, deve superare tranquillamente i centomila militi e avvicinare
la forza del contingente d'occupazione in Iraq (128 mila).
I treni dei commuter, dei pendolari, sono semivuoti, come vuoti sono i rapidi da
Boston e da Washington, occupati esclusivamente dal popolo della tesserina
magica, reporter e groupies della politica con l'accreditamento, che permetterà
di fare la spola fra i due mondi, quello vero della città e quello artificiale
del Congresso. Universi che non si parlano e non si ascoltano. Fuori le
centoventimila persone (secondo la polizia) e trecentomila secondo i giornali,
che ancora brulicano per la città e si radunano a Central Park, stempiando
ancor di più il sindaco Bloomberg che aveva speso 18 milioni di dollari per
ricoprire di zolle d'erba fresca il grande prato centrale.
Dentro i trentamila annoiati fino alle lacrime da discorsi riscaldati al
microonde, che nuotano nell'aria azzurrina e liquida da acquario tipica di gli
studi televisivi, per fare il loro dovere di comparse al grido di "Four
more years", ancora quattro anni per Georgie.
L'apartheid fra la città fuori dalla "zona verde" creata nella Bagdad
sull'Hudson e l'entusiasmo plastificato della cittadella aliena dentro il Garden
non è soltanto figlia dell'ansia o dei giusti timori di polizie che devono
essere, per contratto, paranoiche. E' la rappresentazione di una realtà
evidente, e non solo qui, alla sagra repubblicana di San Giorgio Re. Tra una
Convention e la città martirizzata non ci può essere alcun rapporto perché i
congressi non parlano alla città, parlano sopra la sua testa, si rivolgono al
solo pubblico che conti, quello della televisione, per il quale queste sagre
della banalità sono sceneggiate. Di una New York, che non voterebbe per Bush
neppure se corresse da solo, al burattinaio elettorale di "W", Karl
Rove non potrebbe importar di meno. E' stata scelta cinicamente per essere
quello che a Hollywood si chiama il "backdrop", lo sfondo, lo
scenario, nella speranza che l'associazione tra Bush e il cratere, tra lui e la
guerra al terrore scuota le network tv nazionali, che dedicheranno soltanto tre
ore di diretta alla Convention come fecero a Boston.
Non si possono biasimare i Newyorkers se ignorano i Republicans, se i topolini
del quotidiano, dei treni, del traffico strangolato, delle marce
autoreferenziali al seguito dei vecchi e nuovi idoli e degli eterni perdenti
come Michael Moore e Jessie Jackson (798 aspiranti Moore hanno chiesto alla
polizia il permesso di girare scene della Convention, sognando Cannes), guardino
all'elefante repubblicano con distaccato fastidio. Come gli inservienti del
circo, anche essi sanno che saranno costretti a seguirlo con il secchio, per
raccoglierne i depositi.
29 agosto
Si parla in
un villaggio cinese, ha 2.500 anni, rischia di morire
Sono poesie e lamenti per la vita da schiave dopo le nozze
La
lingua segreta delle donne
per sfuggire ai maschi padroni
FEDERICO RAMPINI
|
|
PECHINO - Vicino al villaggio cinese di
Shanjianxu, nella regione meridionale dello Hunan, il tempio della Montagna
Fiorita è dedicato a due sorelle morte più di mille anni fa. Da secoli le
contadine venerano i loro spiriti portando al tempio rotoli di carta di riso in
cui confidano i loro segreti e formulano dei desideri; non di rado quello di
suicidarsi. Quelle preghiere nessun uomo è mai riuscito a leggerle, perché
nessun maschio può capire la lingua in cui sono scritte. Non sono in cinese ma
in Nushu, forse l'unica lingua al mondo creata da donne per comunicare solo fra
loro.
Una leggenda vuole che il Nushu abbia duemilacinquecento anni e che discenda
dalle scritte che gli oracoli incidevano sugli ossi; un'altra mitologia racconta
di una ragazza che fu data in sposa all'imperatore, e una volta prigioniera
della corte imperiale inventò una scrittura segreta per comunicare con le sue
amiche.
Messa fuori legge dal partito comunista negli anni 50, la Lingua delle Donne è
stata riscoperta e studiata dalle linguiste cinesi Zhao Liming e Gong Zhebing,
dalle giapponesi Toshiyuki Obata e Orie Endo. La rarità linguistica è anche
una finestra sulla condizione femminile in Asia. Come spiega la professoressa
Zhao, "la prima ragione per la nascita di questa lingua fu il fatto che le
donne vivevano nell'analfabetismo forzato, non potevano andare a scuola e
nessuno insegnava loro lo Hanzi, la scrittura cinese".
L'altra ragione è la pratica dei matrimoni combinati, per cui le nozze erano un
passaggio tragico nella vita delle donne: strappate alle proprie mamme e sorelle
e alle amicizie d'infanzia, finivano sotto l'autorità della famiglia del
marito, spesso in stato di semi-schiavitù e sottoposte alle vessazioni delle
suocere. Ma le donne della provincia di Jiang Jong nello Hunan trovarono una
consolazione.
Non conoscendo l'alfabeto degli uomini inventarono una scrittura originale per
tramandarsi le canzoni della nostalgia, per confidare alle amiche i loro
pensieri più intimi e le sofferenze. Furono aiutate dall'esistenza di una
solidarietà femminile speciale: in questa regione esisteva l'antico costume
dello Jiebai Zimei, il "giuramento di sorellanza", che fin
dall'adolescenza creava legami perfino più forti del sangue (è stata
affacciata da studiosi occidentali l'ipotesi che lo Jiebai Zimei potesse
nascondere affetti lesbici; Zhao Liming lo esclude categoricamente ma questo è
scontato perché nella Cina di oggi l'omosessualità è ancora un tabù).
"Quando una giovane donna veniva data in sposa - racconta Orie Endo - sua
madre, le sorelle e le amiche giurate componevano dei canti apposta per
esprimere il dolore della separazione imminente. Ma una volta che la ragazza
partiva per il villaggio del marito le loro voci non potevano più viaggiare. È
così che nacque una scrittura per mantenere vivo il legame tra le donne, una
scrittura che non poteva essere il cinese, visto che lo Hanzi veniva insegnato
solo agli uomini. Alla giovane sposa le parenti e le amiche regalavano dopo le
nozze un San Chao Shu, il libro del cuore in cui scrivevano i loro auguri di
felicità; molte pagine venivano lasciate bianche perché la sposa potesse
confidarvi negli anni seguenti i suoi pensieri e le sue sofferenze".
Così nella notte dei tempi fu creato questo alfabeto Nushu, con 1.500 caratteri
che traducono suoni del dialetto locale in sillabe. Sono caratteri scorrevoli e
aggraziati, diversi e più semplici degli ideogrammi mandarini che invece
all'origine rappresentano dei concetti. Ma sono rimasti per secoli
incomprensibili e impenetrabili per i maschi. Composizioni in questo alfabeto
sono state ritrovate anche ricamate sui ventagli e sui vestiti della zona.
Un altro aspetto raro della scrittura Nushu è che si esprime quasi
esclusivamente in versi, perché la sua origine orale sono i canti delle donne
che lavoravano in casa insieme a filare, cucire vestiti, confezionare scarpe.
In quei versi scritti per le amiche lontane sono consegnate le testimonianze di
una condizione femminile senza speranza. "Le mie cognate mi disprezzano /
Da mangiare ho solo un po' di crusca / Con dell'acqua per farne una minestra /
Mi costringono a fare tutto il lavoro domestico / Ma il mio stomaco è
vuoto". "Mio marito scommette al gioco / Mi dimentica per andare alle
bische / Ne ho abbastanza di soffrire / Quando mi picchia e non posso fuggire /
Ho cercato di impiccarmi / Ma gli zii mi hanno riportato in vita".
Nei diari femminili in Nushu decifrati dalle linguiste c'è autocommiserazione e
disprezzo di sé stesse. Chi scrive spesso si indica alla terza persona come
"questa donna dal destino spregevole, essere inutile, nata dalla parte
sbagliata". Nascere donna è la dannazione di un karma negativo in una vita
precedente.
Al tempio delle due sorelle sulla Montagna Fiorita vicino a Shanjiangxu, tra gli
odori dell'incenso che brucia, il canto che una contadina ha lasciato su un
rotolo di carta di riso si traduce così: "Sorelle defunte, ascoltate
questa mia preghiera Questa povera ragazza vi scrive nella Lingua delle Donne
Anime sorelle abbiate pietà di me. Vorrei seguirvi dove siete Se solo mi
accettate Voglio seguirvi fino alle sorgenti gialle dell'aldilà Di questo mondo
non mi attira più niente Vi scongiuro trasformatemi in uomo Non voglio più
avere il nome di donna".
Il Nushu cominciò ad essere scoperto e studiato negli anni 50 ma quasi subito
venne vietato dal partito comunista, forse perché la sua sopravvivenza smentiva
le versioni ufficiali sull'avvenuta emancipazione della donna cinese. Una delle
ultime autrici a usare la Lingua delle Donne, He Yanxin, è nata nel 1940: la
sua autobiografia - dieci pagine fitte di 2.828 caratteri Nushu scritti sul
quaderno di scuola del figlio - descrive le sofferenze di un matrimonio imposto
d'autorità dalla famiglia, una consuetudine teoricamente soppressa nella Cina
socialista di Mao Zedong.
Tuttora i demografi misurano il peso dei pregiudizi sessisti e l'arretratezza
della condizione femminile in Cina dal triste fenomeno statistico delle
"bambine scomparse": in base alle normali tendenze procreative del
genere umano - per cui in media alla nascita ci sono 106 maschi per 100 femmine
- tra il 1980 e il 2000 in Cina sarebbero dovute nascere 13 milioni di bambine
in più di quelle che sono nate. Le "bambine scomparse" nei censimenti
demografici, sono state vittime di veri e propri infanticidi di massa oppure -
in epoca più recente e grazie ai progressi della medicina - sono il risultato
di una selezione pre-natale del sesso: quando l'ecografia rivela che il feto è
femminile, si opta per l'aborto.
Su scala nazionale questi aborti mirati a seconda del sesso del nascituro
producono l'enorme squilibrio delle nascite rivelato dai censimenti. Il
pregiudizio contro le bambine si attenua nelle grandi città come Pechino e
Shanghai. Resta forte nei villaggi come Shanjianxu nonostante la politica di
controllo della natalità - la regola del figlio unico - sia stata ammorbidita
proprio a favore dei contadini.
Oggi la Lingua delle Donne non è più fuorilegge. Anzi, a Shanjianxu e nei
villaggi vicini come Pumei vogliono cercare di trasformare il Nushu in
un'attrazione turistica e hanno cominciato a insegnarlo nelle scuole. Ma Orie
Endo teme che la sua estinzione sia comunque vicina. A parte le studiose venute
da lontano, nello Hunan le donne veramente capaci di leggerlo e scriverlo, oltre
che di parlarlo, sono rimaste solo in tre: Yang Huanyi di 94 anni, He Yanxin e
He Jinhua di 64. Dopo di loro forse l'unica lingua femminile del mondo sarà
relegata in un museo.
27 agosto
Senza
pace
MARIUCCIA
CIOTTA
Silenzio adesso. Enzo Baldoni, l'italiano simpatico, il
viaggiatore spericolato, il pacifista è morto. Ucciso in mezzo a un mare
d'inchiostro versato da chi lo ha usato per attaccare i suoi compagni, la gente
che come lui è contro la guerra. Lo hanno fatto diventare una caricatura, il
rovescio comico di Fabrizio Quattrocchi, tanto per dire che non ci sono ostaggi
«buoni» o «cattivi». Che tutti gli italiani sono uguali. Ora sì. Ma Enzo
Baldoni ha sacrificato la sua vita per aiutare le vittime di una selvaggia
crociata integralista contro integralisti, di un conflitto che ha moltiplicato
il terrore. Era lì armato soltanto della sua fantasia, creatore di interferenze
estetico-politiche, capace di far sorridere i bambini all'ospedale, di
riconsegnare i caduti senza nome alla grande platea della pietà, di immettere
su Internet la flagranza della morte che non è fatta di numeri, ma di persone.
Omaggio a Enzo Baldoni, vittima due volte, della barbarie di militanti di un
Iraq che nelle loro mani non sarà mai pacificato, e di coloro lo ha indicato
come «amico» dei suoi assassini. Non era un italiano come gli altri, aveva più
coraggio di noi che ce ne stiamo qui a parlare della sua fine straziante e di
chi ha irriso il suo magnifico slancio, di chi non vede mentre lui ha visto che
cos'è la guerra.
Perché siamo in Iraq - ostaggi tutti di un mezzo presidente
dalla tortura facile - ora lo sappiamo. E sappiamo anche perché dobbiamo
andarcene. L'ultimatum è scaduto sulla linea della fermezza. Non è troppo
tardi per farlo, si dirà. E invece sì, è troppo tardi perché Enzo non c'è
più e non ci resta che la sua rondinella liquida a volare sulle macerie di un
mondo più triste, più buio e sconfitto.
26 agosto
CAUCASO
Le mille grane di Putin
LUCIA SGUEGLIA*
Viene dalle spiagge di Sochi, sulle rive del mar Nero, là
dove l'estremo lembo meridionale della Russia s'incunea tra Georgia e Cecenia,
l'ultimo incubo di una stagione caldissima per Vladimir Putin. Ieri sera, mentre
uno dei due Tupolev piombava dal cielo guastando le vacanze all'ex funzionario
del Kgb, la paura è tornata a sfiorare anche i cittadini dell'ex impero, da
tempo abituati a temere il peggio di fronte ad ogni esplosione o incidente che
capiti tra Mosca e Vladivostok. Del resto, a preoccupare Putin in vista delle
elezioni indette da Mosca domenica prossima in Cecenia con l'obiettivo di
riportare la stabilità nella piccola regione separatista, c'era già stata la
violenta notte di sabato. Quando, in uno scontro tra ribelli e forze filorusse
(militari e polizia) intorno alla capitale Grozny, sarebbero morte più di 70
persone. Secondo Mosca, ben 250 combattenti indipendentisti avrebbero dato
l'assalto alla città in poche ore; peccato che la notizia sia arrivata alla
stampa solo martedì. Così ieri sera la prima chiamata da Sochi è stata per l'Fsb,
i servizi segreti russi che ultimamente il presidente aveva allertato anche per
guidare azioni armate vere e proprie (condotte dai federali) contro i sospetti
ribelli. In particolare nelle inaccessibili gole del Pankisi, zona di confine
tra Georgia e Cecenia dove si sospetta si annidino i guerriglieri separatisti più
accaniti (e, secondo Mosca, anche alcuni esponenti di al Qaeda) e si svolgano
traffici d'ogni tipo. Proprio questa zona è stata teatro mesi fa di uno
spettacolare inseguimento, con tanto di elicotteri, tra federali fiancheggiati
dagli uomini del Fsb e i presunti terroristi ceceni, lasciando sul campo decine
di morti da entrambe le parti (ancora in numero imprecisato). E proprio qui, ai
confini meridionali dell'impero, si combatte ora una battaglia che ultimamente
scotta forse più di quella cecena per Mosca: quella tra il nuovo governo
filo-Usa della Georgia, e le sue (molte) regioni separatiste fedeli a Mosca.
L'ultima di queste scaramucce armate a media intensità -
dopo la cacciata a maggio del leader d'Adjaria Aslan Abashidze, che ha segnato
una sconfitta per Putin -, viene proprio dalle terre georgiane ai confini con la
Cecenia: l'Ossezia del Sud, che dal 1992, dopo essersi autoproclamata
indipendente, lotta per staccarsi da Tbilisi accusando il governo centrale di
persecuzione a sfondo etnico. Oggi il presidente georgiano Mikhail Saakashvili
minaccia di chiamare in causa la comunità internazionale contro Mosca, accusata
di sobillare i secessionisti.
Anche se l'ipotesi del sabotaggio o dirottamento per i due
Tupolev è per ora scartata, la situazione dalle parti di Grozny non è certo
tranquilla. Anche stavolta, come in coincidenza di ogni importante appuntamento
elettorale in Cecenia, il grido di Samil Basaev, il leggendario comandante del
Battaglione dei martiri per la libertà che dal 2003 il Dipartimento di stato
americano ha messo sulla lista dei gruppi terroristi (dando il via all'alleanza
Mosca-Washington in nome della lotta al terrorismo mondiale) è tornato a farsi
sentire. Dichiarando dal sito Kavkazcenter, vicino alla guerriglia
islamico-secessionista, che chiunque esca vincitore dalle urne domenica sarà un
uomo morto. Ma oggi il rischio maggiore è che le turbolenze caucasiche
sconfinino al di là dei limiti finora imposti da una guerra feroce e senza
scrupoli che da dieci anni paralizza la Cecenia. E che si allarghi, ad esempio,
fino ad includere il vicino Daghestan, postazione di partenza prediletta in
passato per le incursioni degli uomini di Basaev. O l'Inguscezia, dove le
migliaia di profughi costretti alla fuga dalla Cecenia nel corso di due guerre
sanguinose sono mal tollerati da una popolazione poverissima. A Grozny,
comunque, anche se il sangue continua a scorrere quasi quotidianamente, non
sembra soffino per ora venti di cambiamento e tutti sono pronti a giurare che il
prossimo presidente sarà Alu Alkhanov, il candidato gradito a Mosca.
Scoppia il nuovo
caso del ticket sui farmaci
Siniscalco
si irrita per le anticipazioni stampa. Sirchia nega tutto. Morgan Stanley: il
vero rischio del federalismo
PAOLO ANDRUCCIOLI
La manovra economica per il 2005 batterà i recordi storici
(forse anche quella di Amato) e sarà il nuovo banco di prova non solo del
ministro Siniscalco, ma di tutto il governo Berlusconi. In ballo - oltre
all'impegno dell'Italia di rispettare i parametri di Maastricht - ci sono anche
altre due questioni esplosive: la necessità impellente di trovare i soldi (24
miliardi di euro, più i costi della riforma fiscale) e l'obbligo di cambiare in
corsa tutto il sistema dei conti pubblici nazionali nel caso in cui andasse in
porto la riforma federalista, che trasferisce le finanze a livello locale. La
delicatezza della situazione spiega il grande caos e il nervosismo che regnano
di nuovo dentro il palazzo. Il neoministro Domenico Siniscalco non nasconde
infatti la sua irritazione per le anticipazioni che sono circolate in questi
giorni. Perfino il ticket unico sui medicinali (che era contenuto in un
documento riservato di undici pagine scritto a fine luglio), viene ora smentito
dal dicastero di via XX settembre, dove ieri si sono recati i due sottosegretari
all'economia, Giuseppe Vegas e Gianluigi Magri e poi anche il ministro della
sanità, Girolamo Sirchia, che ha incontrato Siniscalco insieme al ragioniere
generale dello Stato, Vittorio Grilli. Secondo fonti del ministero della sanità,
Sirchia avrebbe smentito categoricamente l'ipotesi che il governo stia lavorando
all'introduzione di un ticket unico nazionale sui farmaci. Una mezza smentita
era arrivata già nella mattinata di ieri dal ministero dell'economia. «Il
ministro dell'economia - si legge in un comunicato - vorrebbe sapere chi sono le
fonti del Tesoro che da giorni producono le idee più stravaganti in materia di
politica economica». Nel pomeriggio, però, incontrando i sottosegretari Vegas
e Magri, lo stesso ministro Siniscalco avrebbe impostato il discorso preliminare
sui risparmi di spesa partendo proprio dai tagli nei settori della sanità,
degli enti locali, del pubblico impiego e dell'acquisto di beni servizi.
Nonostante le smentite ufficiali, l'ipotesi di un ticket
unico di 50 centesimi sulle ricette farmaceutiche continua a circolare e produce
anche scontri più o meno espliciti all'interno della maggioranza. Il ticket sui
farmaci viene spinto dallo staff economico di palazzo Chigi che aveva calcolato
in circa 800 milioni di euro la possibile entrata per lo Stato. E' anche ovvio
però che in questo settore, oltre i conti, assumono importanza gli effetti
politici in termini di crollo di popolarità. Siniscalco non ama presentarsi con
il ticket. E in ogni caso il ticket, come ha dichiarato ieri Roberto Polillo
della Cgil, «sarebbe solo un espediente per fare cassa subito».
Il ministro preferisce piuttosto presentarsi come il futuro
artefice della più grande operazione di privatizzazioni e dismissioni che sia
mai stata fatta in Italia. Siniscalco vorrebbe anche ricalcare le orme del suo
collega inglese, Gordon Brown, che ha cambiato il sistema di previsione della
spesa pubblica (mettendo dei tetti preventivi ai vari ministri) e ha osato
intaccare il lavoro nel pubblico impiego. Intervistato dal Financial Times,
Siniscalco ha detto che le privatizzazioni saranno autentiche e che il governo
non si limiterà a parcheggiare le partecipazioni nella Cassa depositi e
prestiti. La Cassa potrebbe però essere «la dimora appropriata per le
partecipazioni in industrie strategiche come le Poste. L'intenzione del governo
è dunque quella di accelerare il programma di privatizzazioni (sono in corso
vari gruppi di lavoro) attraverso cartolarizzazioni di crediti, vendite di
immobili e ulteriori cessioni di quote in aziende pubbliche.
Se tutto questo non bastasse, c'è da tenere in
considerazione anche gli effetti del federalismo. La riforma potrebbe
trasformarsi infatti in un vero e proprio terremoto per le finanze pubbliche. Lo
mette in evidenza anche l'economista della banca d'affari Morgan Stanley,
Vincenzo Guzzo, intervistato ieri dall'agenzia AdnKronos. La finanziaria
e il federalismo, sostiene Guzzo, potrebbero piegare ulteriormente l'Italia. In
particolare sul federalismo, Guzzo dice che la riforma va valutata molto
attentamente. «Mi pare - dice l'economista - che la politica italiana non abbia
valutato le conseguenze effettive della legge. Trasferire così tanti poteri
dall'oggi al domani è quasi impensabile.
25 agosto
A
tutta manetta
ANDREA COLOMBO
I politici italiani, in
stragrande maggioranza, fanno tutti un doppio lavoro: all'attività politica
affiancano quella di guardie carcerarie in pectore. Quando grava
nell'aria l'olezzo di galera, le pur lievi differenze tra i due poli scompaiono
per trasformarsi in identità completa. E' stato così ai tempi non lontani
della sciagurata campagna contro l'«emergenza microcriminalità», e poi di
nuovo in occasione delle manovre congiunte atte a vanificare l'«indultino». E'
ancora così in quest'estate del 2004, con le forze maggiori di destra e di
sinistra che si coalizzano per esorcizzare ogni proposta di amnistia. «Non
basterebbe a risolvere il problema delle prigioni», ripetono concordi diessini
e berluscones, nazionalalleati, leghisti e margheritini. In effetti servirebbe
solo a rendere meno insopportabili le condizioni in cui versano alcune decine di
migliaia di detenuti. Faccenda secondaria.
Il copione si ripete quando dai detenuti stipati nelle
patrie galere si passa al latitante Cesare Battisti. Il ministro della giustizia
accusa la sinistra europea «di difendere assassini e latitanti». I
rappresentanti italiani della stessa sinistra passano al contrattacco e
addossano al guardasigilli leghista la responsabilità di essersi fatto scappare
il serial killer. Se la Lega avesse vistato il mandato europeo, il turpe
Battisti starebbe già dietro le meritate sbarre. Nobile competizione.
Sarebbe il caso di fare chiarezza. Il fatto strano, nella
vicenda che riguarda l'ex leader dei Pac, non è la fuga del medesimo,
comprensibile per chiunque e giustificata dal diritto elementare a evitare la
galera se appena possibile. E' la determinazione degna di miglior causa con la
quale il governo italiano persegue l'obiettivo di incarcerare un signore che ha
rotto ogni ponte con il suo passato e che non rappresenta da decenni alcun
pericolo per l'ordine pubblico, né italiano né francese. Un uomo la cui
biografia «criminale» andrebbe inscritta, interpretata e giudicata nel quadro
di una fase storica lontana e passata. Superata per tutti tranne che per i
politici italiani.
Neppure le argomentazioni del ministro degli interni Pisanu,
pur di tutt'altro livello rispetto agli sbraiti del collega guardiasigilli,
valgono a controbilanciare la palese necessità di chiudere anche nelle aule di
tribunale un capitolo che nella storia del paese è chiuso da un'eternità. Il
rischio di una nuova ondata terroristica, che potrebbe risultare incoraggiata
dal'«impunità» di Battisti, è, se non inesistente, certo inattuale. Lo
dimostra il recente pentimento della neo brigatista Cinzia Banelli, che sta ai
pentimenti degli `80 come la ripetizione in farsa alla tragedia originale. La
deposizione di Antonio Savasta, nel 1982, portò a un paio di migliaia di
denunce. In quella della «compagna So», non c'è una sola denuncia nuova.
Non si tratta di reticenza: è solo che il «nuovo
terrorismo», fatti salvi i lutti e le tragedie che ha prodotto e può ancora
produrre, è una faccenda più che marginale, limitata a pochi singoli
individui. Per dargli qualche spessore occorre scomodare l'anarco-insurrezionalismo,
poco più di una leggenda metropolitana.
Sarebbe già qualcosa se la ferocia con cui il nostro
governo e la nostra opposizione inseguono un manipolo di persone che non
rappresenta più alcun pericolo si spiegasse con una semplice, ancorché
selvaggia, sete di vendetta. Ma il ministro padano non è un giustiziere della
notte. E' un cacciatore di teste che insegue la preda sperando di incassare in
cambio, al posto della taglia, un gruzzolo di voti sonanti.
Purtroppo non sono migliori né più nobili le motivazioni
di quei partiti d'opposizione che lo inseguono e di fatto lo spalleggiano,
anch'essi a caccia di voti forcaioli. Pardon: moderati.
Luoghi
Aerei
americani hanno bombardato il cimitero di Najaf. Lo stato maggiore ha subito
precisato che si è trattato di un errore. La tempestiva precisazione è stata
apprezzata dagli abitanti del luogo.
Il
primo «no» per Central Park
Ieri
il giudice distrettuale William Pauley ha respinto la richiesta dei dimostranti
arabo-americani di manifestare nel parco alla Convention repubblicana. In attesa
della Corte Suprema che deve pronunciarsi sul ricorso dei pacifisti contro il
sindaco di New York che ha negato Central Park
FRANCO PANTARELLI
NEW YORK
A ridosso della convention
repubblicana, le misure di sicurezza sono già pronte a scattare e sono
asfissianti - chiusura al traffico di una vasta zona attorno al Madison Square
Garden che renderà la città invivibile; linee di autobus ridotte o deviate per
l'immaginabile gioia dei loro utenti; posti di blocco «a sorpresa» in vari
altri punti della città; la Penn Station, che si trova proprio sotto al Madison
Square Garden e su cui convergono i treni dei pendolari del New Jersey e del
Long Island più varie linee della metropolitana, pronta a «scoppiare» e
un'infinità di altre restrizioni - ma ancora nessuno sa dove avrà luogo la
grande manifestazione con cui i pacifisti intendono dare il «benvenuto» ai
repubblicani. Domenica, vigilia dell'apertura dei lavori, è attesa una immensa
marcia di almeno 250.000 persone. La disputa in corso fra il sindaco Michael
Bloomberg e la Upj (United for Peace and Justice, l'organizzazione che coordina
i tanti gruppi e gruppetti che parteciperanno), infatti, non è ancora risolta.
Per ieri era prevista la decisione del giudice della Corte Suprema dello Stato,
Jacqueline Silberman, sulla denuncia che la Upj ha presentato contro la
decisione di Bloomberg di negare il Central Park ai manifestanti e un po' tutti
erano come appesi a quel suo pronunciamento. Proprio durante l'attesa, era
arrivata la notizia che nel frattempo un giudice distrettuale, William Pauley,
aveva accolto gli argomenti del sindaco e negato il parco per un'altra
manifestazione - indetta dagli arabi-americani - fissata per venerdì. Non
necessariamente una «linea», quella fissata dal giudice Pauley, anche perché
la signora Silberman, in quanto «custode» della Costituzione dello Stato di
New York, si suppone sia più sensibile al Primo Emendamento (quello che
stabilisce il diritto a manifestare il proprio pensiero). Ma il «no» agli
arabi-americani con cui si era aperta la giornata un bel po' di patema lo aveva
diffuso. Così si aspettava e intanto continuavano le schermaglie fra i due
campi, quello del sindaco e quello dell'Upj, ognuno con i propri problemi «interni».
La lista di quelli di Bloomberg, il cui argomento ufficiale è il suo «amore
per il Central Park» (quando era «solo» uno dei più ricchi abitanti di New
York lo esprimeva attraverso generose donazioni per la manutenzione, adesso che
è sindaco non vuole vedere la sua erba distrutta da mezzo milione di piedi), è
piuttosto lunga e il suo gesto di offrire sconti nei teatri e nei ristoranti ai
manifestanti «bravi» non è certo servito ad accorciarla.
C'è il rischio di apparire «un altro Rudolph Giuliani»,
il suo predecessore diventato materia di studio nelle facoltà di giurisprudenza
perché durante la sua amministrazione ha affrontato in tribunale una dozzina di
cause riguardanti il Primo Emendamento e le ha perse tutte; c'è il problema che
il prossimo anno Bloomberg (repubblicano in una città prevalentemente
democratica) dovrà chiedere la rielezione; c'è la disputa sindacale in corso
per il rinnovo del contratto dei poliziotti della città, i quali è da
settimane che tallonano il sindaco dovunque vada e lo perseguitano con le loro
proteste. E e poi c'è il fatto che la sua speranza di proiettare nel Paese
l'immagine di una New York che ha «recuperato in pieno» per i turisti e non
solo rischia di finire travolta da scene simili a quelle del febbraio dell'anno
scorso, quando la manifestazione contro la guerra in Iraq degenerò in scontri
con feriti e arresti di massa. Ma anche dall'altra parte, quella della Upj, la
lista dei problemi è lunga. Il primo è che i suoi responsabili prima hanno
accettato la controproposta di Bloomberg - quella di andare a manifestare
nell'estremo Ovest di Manhattan, sulla grande strada che costeggia il fiume
Hudson, praticamente la zona più desolata di Manhattan - e poi, in seguito alle
proteste della «base», si sono rimangiati l'accordo stipulato e hanno ripreso
a insistere per il Central Park. Adesso, perciò, nella malaugurata ipotesi che
il giudice Silberman desse ragione al sindaco, non si sarebbe saputo più dove
andare.
L'altro giorno, a una riunione della Upj, un organizzatore
di Chicago ha chiesto brutalmente: «Ma se alla fine il Central Park verrà
vietato, che diavolo (eufemismo) di piano alternativo abbiamo?». E la risposta
è stata che di fatto quel piano non c'è. «Mi dispiace di non avere una
risposta più congrua - ha detto Leslie Cagan, del coordinamento - ma questa è
la situazione». Al che vari gruppi hanno preso a teorizzare che «il divieto di
manifestare non è il divieto di passeggiare», implicando che loro andranno lo
stesso al Central Park « e li voglio vedere - diceva qualcuno - i poliziotti
che cercano di distinguere i manifestanti tra le migliaia di normali visitatori
domenicali del parco». Non fa una grinza, ma significa anche buona possibilità
di scontri. E i repubblicani non aspettano altro, pronti come sono a incolpare i
democratici di qualunque cosa. Per loro, infatti, i possibili attacchi
terroristici, le manifestazioni contro la guerra e il desiderio di mettere John
Kerry alla Casa Bianca al posto di Bush sono la stessa cosa. Che non è vero lo
sanno benissimo, naturalmente, ma sanno anche che qualcuno disposto a crederci
(e a ricordarsene al momento di votare) si trova sempre.
24
agosto
Sinistra
in vacanza
ROSSANA
ROSSANDA
Pereat mundus, fiant vacationes. Sembra lo slogan
delle sinistre. Nel governo ne succedono di tutte, Forza Italia impazza contro
la Udc, la Udc contro la Lega, Calderoli contro tutti, Castelli contro la
sinistra, ma l'opposizione tace, salvo per unirsi al coro di chi non si darà
pace finché il Battisti Cesare, colpevole negli anni `70 e da trent'anni
tranquillo cittadino in Francia, non sarà stato consegnato alle patrie galere,
notoriamente vaste, fresche e sottopopolate. E pazienza se l'opposizione si
prendesse qualche riposo dopo averci fatto conoscere le intenzioni sulle quali
chiederà al popolo il voto per sostituire l'attuale governo, del quale esige le
dimissioni un giorno sì e un giorno no. Dopo le elezioni europee, c'è una
probabilità che quelle legislative avvengano nel 2005, cioè domani. Quali
guasti intende sanare dei molti fatti dal Cavaliere? Il conflitto d'interesse?
Le misure giudiziarie ad personam? La progettata riforma della
magistratura? Le legge Maroni sulla flessibilità del lavoro? La Bossi-Fini? La
riforma Moratti? Qualcuno ha ventilato che molte di esse avrebbero alle radici
delle buone ragioni. D'altra parte non si rimedierà con semplici misure
legislative a disposizione che hanno già modificato la costituzione materiale e
formale del paese. Fra tre settimane darà alla Camera una devolution, cui ha
aperto le porte la modifica del capitolo 5 votata a spron battuto dal
centrosinistra.
Il governo ci lascia un deficit di migliaia di miliardi di
euro, che intende coprire detraendoli dalla spesa sociale e vendendo beni
pubblici. La sinistra invece che ne farà? Ripreleverà dai grossi redditi, dai
patrimoni comprese rendite finanziarie? Sarebbe logico ma andrebbe detto.
Inoltre una grande industria italiana non c'è più, Montezemolo invita a «ricostruirla
assieme» ma con quali mezzi, priorità e garanzie per il lavoro non glielo
chiede nessuno. Non l'opposizione, una cui inviata all'estero fa sapere che
buona parte dell'Ulivo lo considera un premier ideale. Non solo i governi
europei hanno nominato una commissione in confronto alla quale la Confindustria
è un seminario di socialdemocrazia. Qualcuno protesta? E con quali ragionevoli
alleanze si propone ragionevolmente di modificare il patto di stabilità?
Infine ma non per ultimo, in queste settimane l'offensiva
americana contro l'Iraq è diventata selvaggia e investendo Najaf si è messa
contro oltre che i sunniti gli sciiti. Mentre i nostri a Nassirya sono nella
zona di fuoco. Che si aspetta per fare una pressione per il ritiro delle truppe,
anche a prescindere dal povero Baldoni? Che si aspetti la vittoria di Kerry, il
quale non cambierà né molto né subito?
Urge scegliere il che cosa e il come. Un programma non è
una lista di buone intenzioni è una tabella di marcia cui si risponde. Ha da
essere chiara, fattibile e impegnativa.
Non ce l'hanno ancora né la sinistra moderata né quella
radicale. Ambedue ci intrattengono su questioni di metodo: fare o no le primarie
per eleggere il leader del centro-sinistra, che è definito da un pezzo? E a che
punto è la coalizione, e se è a buon punto prelude o no a una maggioranza di
governo? L'Unità non si espone, tanto più che il Congresso dei Ds sarà
tutto un fair play. Su Liberazione è invece in corso un dibattito acerbo
se si debba andare ad una maggioranza come propone Bertinotti oppure no e chi
dovrebbe decidere: la maggioranza del partito, tutto il partito, maggioranza e
minoranza o partito e movimenti? E si sprecano accuse reciproche di cedimento o
settarismo.
Può darsi che il caldo ci renda nervosi. E che con
l'ebbrezza di settembre escano invece le idee chiare dalla sinistra. Nel
solleone di agosto abbiamo visto soltanto che la borghesia ha gratificato la
memoria del suo De Gasperi mentre la sinistra ha riseppellito l'ex suo Togliatti
senza lasciare per un giorno la villeggiatura e mettere sul suo sepolcro un
fiore né di ricordo né di elogio né di perdono.
Morte,
minacce e insicurezza ci costringono a lasciare l’Afganistan.
Dopo
24 anni di assistenza alla popolazione afgana nel pieno rispetto del mandato
umanitario che vincola a indipendenza, imparzialità e neutralità, Medici Senza
Frontiere ha dovuto lasciare il paese.
Il clima che si è creato in Afganistan a partire dall’intervento armato della
coalizione guidata dagli USA ha portato ad un costante ridimensionamento dello
spazio umanitario impedendo ai nostri volontari di svolgere un’azione efficace
e chiara. Ne siamo tristi e tutti stiamo vivendo con amarezza questa decisione
pur dovuta. La morte dei nostri 5 colleghi all’inizio di giugno, crudelmente
assassinati da ignoti, la mancata persecuzione dei responsabili da parte del
governo afgano che ha raccolto prove credibili sui mandanti, altre minacce
rivolte a MSF dopo l’attentato, ci costringono a rivedere i nostri piani
d’intervento per non fare da bersaglio in un paese dove le operazioni
"umanitarie" dei militari hanno confuso i ruoli e le responsabilità
delle azioni condotte.
Grazie a tutti coloro che in tutti questi anni hanno
seguito e sostenuto il nostro intervento in quel paese.
http://www.medicisenzafrontiere.it/
5 agosto
Lavoro
sporco
ANDREA
COLOMBO
Buttata giù da quattro signori di dubbia saggezza tra una
passeggiata montana e un grappino, la riforma istituzionale è arrivata dopo 12
mesi tondi al vaglio di deputati preoccupati soprattutto di raggiungere le
agognate spiagge, incalzati dalla fretta. Se la sono cavata presto. Ieri, nel
vuoto di un'aula deserta, sono bastate poche ore per dichiarare incardinata e
avviata una riforma che straccia la Carta del 48, la riscrive per metà nel
testo e per intero, capovolgendola, nello spirito. Per l'agosto è prevista una
nuova limatura, sempre rigorosamente extraparlamentare. C'è chi spera che la
nuova gita serva a introdurre sensibili miglioramenti, ma solo perché la
speranza è sempre l'ultima a morire.
Poi, in settembre, riprenderà la corsa. A rotta di collo.
Urlando sempre, e quando necessario adoperando più contundenti argomenti, i
leghisti hanno imposto a un parlamento del resto poco incline a resistere tempi
da maratona. E anche così si sono lamentati.
Forse la riforma arriverà in porto e riuscirà a incassare
la doppia approvazione delle camere entro la fine della legislatura. Forse
invece no. Variabili e incognite sono troppe per azzardare previsioni. Il
percorso è accidentato, non perché l'opposizione sia riuscita a mettere in
piedi uno straccio di resistenza degna del nome, ma per le numerose rivalità
insanabili tra i riformatori, per gli appetiti inconciliabili che rischiano di
farli crollare da un momento all'altro.
Quel che in compenso si può prevedere con certezza è che,
se la sferza leghista riuscirà a far correre gli alleati fino al traguardo,
nessuno oserà più mettere mano al parto di Lorenzago, comunque vadano le
prossime elezioni. Non lo farà una destra eventualmente confermata nelle urne,
ed è ovvio. Non lo farà neppure un'opposizione miracolata dagli errori dei
rivali, e questo è meno facile capirlo senza chiamare in causa categorie
patologiche che poco hanno a che vedere con la politica, fosse pure la più
spregiudicata.
Rutelli, concorde con il più quotato consigliere di D'Alema,
ha tranquillizzato ieri i suoi elettori. Un eventuale futuro governo di
centrosinistra non cancellerà le riforme di Berlusconi. L'Ulivo, è vero, le ha
giustamente definite con termini apocalittici, ma quello era per scherzo.
Facezie che ci si possono permettere quando si sta all'opposizione, ma che è
opportuno dimenticare appena invertiti i ruoli.
La riforma delle pensioni griderà pure vendetta, ma in
politica far fare il lavoro sporco agli avversari è il gioco più antico del
mondo. La legge Biagi andrà anche criticata con parole di fuoco, ma vuoi
mettere il vantaggio di ritrovarsi la flessibilità già bell'e fatta? La scuola
secondo Moratti fa accapponare la pelle (e la Cgil ha ripetuto ieri che va
abrogata in blocco), ma in fondo non è che quella di Luigi Berlinguer fosse
molto diversa. Identiche considerazioni varrebbero ove si trattasse di
vanificare il duro lavoro riformatore del governo Berlusconi.
Non è molto interessante sapere quali tortuosi ragionamenti
abbiano consigliato a Rutelli di esporsi in questo modo, se miri a danneggiare
gli amici diessini o se, in coppia con un esperto in materia quale Franco
Marini, stia cercando di fare le scarpe al molto osannato e poco amato Prodi.
L'importante è che l'ex candidato dell'Ulivo ha dato voce a una tendenza che
nel centrosinistra è da sempre robustissima e solitamente trionfante. E che gli
elettori hanno giù punito più volte. Inutilmente.
3
agosto
INTERVISTA
Bertinotti:
«Se serve mi candido»
Il leader di Rifondazione conferma la
sua disponibilità per le primarie. E sul programma: «Concordo con Epifani»
Alternativa «Quel che manca al centrosinistra è un
impianto generale di politica economica-sociale»
MICAELA BONGI
Il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani,
bacchetta il centrosinistra. Si parla di «programma condiviso», è la sua
critica, ma «sotto questo profilo siamo ancora all'anno zero». E avanza alcune
proposte: il ripristino dell'imposta di successione per i grandi patrimoni, una
revisione delle aliquote sulle rendite finanziarie, una leggera, leggerissima
patrimoniale.
Per i Ds e la Margherita dire che il centrosinistra sul
programma è ancora fermo è ingeneroso. Cosa ne pensi?
Va da sé che non siamo all'anno zero perché le opposizioni
su alcuni punti come lavoro e ambiente sono andate avanti. E la costruzione di
un programma non è solo quella che fai nei luoghi predisposti alla bisogna, ma
la costruzione materiale: Scanzano e Melfi consentono di dire che non siamo
all'anno zero. Ma la questione posta da Epifani è di altra natura: di fronte
alla crisi irreversibile del sistema politico berlusconiano, che affonda le
radici nella crisi del blocco sociale e economico che lo ha alimentato, c'è una
immaturità oggettiva che andrebbe colmata. Il problema non è solo definire il
programma, ma definire la relazione fra il programma e un sistema di forze
politiche, culturali, sociali. Tutti riconoscono l'importanza di un'operazione
politica, che sia chiami convention programmatica o assemblea. Ma manca la
volontà, l'energia politica che dà la soluzione del problema. Non è un j'accuse,
ma la replica di lesa maestà è sbagliata. Andrebbe riconosciuto il problema e
cercata la soluzione.
La convocazione della convention programmatica a
settembre?
Entro settembre andrebbe convocata la prima assemblea, e
parlo di assemblea perché bisogna dare il senso di un coinvolgimento largo.
Anche su questo punto, nei colloqui che ho avuto mi sono speso sentito dire che
un'assemblea di questo tipo deve comprendere anche esperienze di governo locale
e esperienze di movimento. Quindi non vedo contrasti. Ma si torna sempre allo
stesso punto: non accade. Aggiungo che la sollecitazione di Epifani andrebbe a
maggior ragione accolta se si ritiene che noi andiamo a una acutizzazione della
crisi. Il governo si accinge a misure di politica economica che si fondano sul
motto «morto il re viva il re», cioè morte le politiche neoliberiste viva le
politiche neoliberiste. Il fatto che la compagine governativa sia allo sbando
aggrava la situazione come dimostra la fiducia su una questione pesante come
l'attacco alla previdenza pubblica. Di fronte alla crisi del sistema politico
berlusconiano il rischio che tu possa essere sotterrato dalle loro macerie è
molto forte e quindi bisogna immediatamente pensare a una nuova edificazione,
non si può più rinviare.
Proprio sulle pensioni il centrosinistra è tornato
recentemente a dividersi.
Eistevano già le divisioni e anche per questo c'è bisogno
di forti discussioni su un impianto comune. Insisto, su un impianto, non sulla
definizione di un po' di punti programmatici come se fosse un elenco telefonico,
ma una discussione su un impianto generale di politica economica e sociale. Il
discorso di Epifani comincia a accendere una luce: serve una vera e sistematica
aggressione alle rendite.
Anche la proposta di elezioni primarie per la leadership
del centrosinistra ha fatto discutere.
Ci sono primarie che mi piacciono. Penso che andrebbero
fatte primarie programmatiche, ad esempio sulla legge 30 o appunto sulle
pensioni.
E la proposta di Prodi? Tu hai ipotizzato una tua
candidatura...
Noi abbiamo detto che non facevamo questione alcuna su
Prodi, per noi andava bene, la questione era chiusa. Se tuttavia vengono
proposte le primarie, allora è indispensabile che non ci sia il candidato
unico, ma almeno due.
E tu saresti davvero pronto?
Assolutamente sì. Seriamente. O la discussione sulla
leadership non si fa - è per noi il candidato c'è già - oppure se si va alle
primarie...
La tua candidatura sembra aver messo in difficoltà i Ds.
Io sono tranquillissimo, in ogni caso. Ma ripeto, se vengono
proposte le primarie servono almeno due candidati.
Dalla sinistra interna a Rifondazione ti hanno criticato:
si paventa un Prodi-Bertinotti sul modello Kerry-Edwards...
All'interno di Rifondazione c'è un dibattito politico molto
acceso al quale sono abituato e non mi sottraggo. Anche dopo il risultato
elettorale c'è stato dibattito. Ci sentiamo più forti anche per il risultato
elettorale, non è detto che non si possa avere una linea radicale e al tempo di
unità. La grande crescita del movimento ha contribuito a innovare la cultura
politica.
Nel centrosinistra è tornata a far discutere anche la
guerra, dopo quanto hanno detto Fassino e Rutelli a Boston.
La guerra continuerà a essere centrale. In Italia c'è
stata un'aggregazione di forze che ha portato alla richiesta del ritiro delle
truppe anche quando non era l'opzione prevalente. Si tratta di successi
importanti. Penso che ci siano buone chances per mantenere questa posizione
anche se ciò determina forti disagi nelle forze riformiste.
Dunque, tu proponi l'assemblea programmatica. Prodi sarà
disponibile?
Ho tutte le ragioni per pensare di sì.