Archivio novembre 2004

 

26 NOVEMBRE

Il sultano Silvio e il futuro Fininvest  

                       Con la tv fa nove volte gli utili della analoga tv privatizzata francese. Ma sta per disfarsene perché vuole entrare in un nuovo e più redditizio business. E diventare il numero uno del mondo

Abbiamo di recente appreso da una graduatoria effettuata da un'agenzia internazionale di ricerche e di analisi che Silvio Berlusconi occupa il quarto posto nella classifica degli uomini più ricchi e dotati di maggiore influenza nel mondo. Avete capito bene: nel mondo. Il sultano del Bahrein è forse leggermente più ricco di lui, ma non ha alcuna influenza. Bill Gates infatti lo supera, ma Berlusconi viene subito dopo. È entrato in una sorta di Guinness dei primati.
Come non esserne fieri? L'Amor nostro, come lo chiama Giuliano Ferrara non so se con una punta di ironia o con franca e affettuosa ammirazione, fa bella figura e la fa fare a tutto il paese da lui così brillantemente rappresentato.

Adesso è molto preso dal problema di sistemare nel modo migliore il suo gigantesco patrimonio assicurando pace e concordia tra i suoi figli ed eredi (speriamo tra cent'anni) e tanto per cominciare ha già assicurato alle sue televisioni, a partire dal 2006, le partite del campionato di calcio attualmente trasmesse dal canale sportivo di Sky News. Il che significa maggior reddito e maggior valore.
Del resto basta confrontare gli utili conseguiti dalla televisione francese ex pubblica con quelli di Canale 5 di Mediaset. Sono due emittenti, entrambe private, che hanno analoga diffusione nei rispettivi paesi e analogo volume di fatturato. Ma l'utile della tv francese è stato nell'ultimo anno di 100 milioni di euro mentre quello di Canale 5 è arrivato a 900.

Il miracolo (nove volte di più) è dovuto al fatto che la convenzione con lo Stato francese impone alla concessionaria una serie di investimenti in ricerca e in programmi di utilità pubblica più costosi e profittevoli, mentre lo Stato italiano non impone assolutamente nulla a Mediaset. Di qui il miracolo dell'Amor nostro e del suo fedele Confalonieri.
Il gruppo Fininvest-Mediaset è dunque arrivato al culmine del suo valore patrimoniale e il proprietario sta seriamente pensando di venderlo. Prima che cominci quell'inevitabile declino che incombe su tutte le costruzioni umane.

Ricordo ancora che mio padre, quando mia madre si addolorava perché qualche pezzo del suo servizio di cristalleria avuto in dono di nozze finiva in frantumi, cercava di consolarla ricordandole che anche l'impero romano era stato distrutto. E così accadrà anche a Canale 5. Perciò meglio disfarsene prima. Ci saranno dei miliardoni per i ragazzi della famiglia, ma il grosso l'Amor nostro lo reinvestirà in una delle grandi multinazionali della comunicazione, quelle che accoppiano insieme telefonia, reti satellitari, grande distribuzione, 'hardware' di trasmissioni informatiche con centinaia di canali e 'software' di programmi. Con la fondata speranza di ascendere al primo posto della classifica mondiale degli uomini più ricchi e potenti.

Molti gonzi pensavano che Berlusconi volesse entrare nella storia come il più grande statista italiano. Ma vogliamo scherzare? L'orizzonte italiano è supremamente provinciale. Gli va stretto. Lo obbliga perfino a comporre le liti tra Fini e Calderoli e a confrontarsi con Siniscalco. Miserie. Le vette sono ben più alte.
Nel frattempo la nostra piccola Rai si accinge a privatizzarsi. Nel modo più idiota, quello ipotizzato e anzi codificato nella legge Gasparri: il 20 per cento in Borsa in quote non superiori all'1 per cento. Una manciatina di spiccioli che non spostano il controllo governativo sull'emittente pubblica. Ma impongono alla medesima la produzione di valore immediato, ponendo in terza e quarta fila i programmi che dovrebbero caratterizzare il servizio pubblico.

Questa è una vecchia questione che continua ad alimentare dibattiti accademici del tutto inutili e diseducativi, scambiando la noiosa seriosità del servizio pubblico con le effervescenti bollicine della tv commerciale.
Balle. Ci sono ottimi servizi tipici di un'emittente pubblica e capaci di raggiungere punte eccezionali di ascolto (la fiction su Borsellino insegni) che la Rai produce ma, chissà perché, nasconde tra le pieghe del suo improbabile palinsesto.
Un esempio? Rai Educational, guidata da Gianni Minoli, produce da qualche mese inchieste di notevole interesse che meriterebbero la prima o la seconda serata. Ma potrebbero disturbare i vari califfati della nostra emittente pubblica. Perciò meglio tenerli in soffitta, mettendoli in rete all'una di notte o alle otto del mattino. Qualche volenteroso affetto da insonnia li vedrà.
C'è del senno in questa follia? Non direi. Eppoi non è nemmeno follia, ma semplice stupidità.

 Eugenio Scalfari

  

Bestiario di Giampaolo Pansa

Garofanoni e Margheritucci

 Rutelli imbarca Manca, La Ganga e la Parenti. Chi sono?
I protagonisti di un vecchio film che non ci va di rivedere


A volte ritornano, certi fantasmi. Ma soltanto perché qualcuno li chiama. Francesco Rutelli ha chiamato nel vertice della Margherita due spettri dell'era craxiana. E loro hanno risposto. I due sono Enrico Manca e Giusi La Ganga che, ai tempi di Bettino, erano pezzi da novanta. Dirò più avanti perché Rutelli, d'accordo con Franco Marini, ha fatto un errore. E ne spiegherò i motivi, che sono tanti. Ma ce n'è uno che devo chiarire subito. Poiché riguarda una domanda che molti elettori dell'Ulivo, specie i più giovani, di certo si porranno: ma chi cavolo sono questi Manca e La Ganga?

La domanda è giustificata da una fantozziana realtà: la politica è un tritasassi anche più feroce della tivù e, se salti una stagione, nessuno si rammenta più di te. Dunque, ricordiamo e spieghiamo, cominciando da Manca. La memoria mi rimanda al luglio 1976, l'estate dell'avvento di Bettino Craxi al vertice del Psi. Il partito era stato appena bastonato dagli elettori (9,6 per cento). E contava di salvarsi cambiando segretario. Il giurista Federico Mancini mi riassunse tutto con una filastrocca: 'Noi compagni socialisti / siamo stanchi e un poco tristi. / De Martino quest'estate / lo finiamo a fucilate. / Tutto quanto rinnoviamo, / Benny Craxi ci mettiamo'.

Il professor Francesco De Martino, il segretario della sconfitta elettorale, venne sbalzato di sella anche per il tradimento di Manca, il suo pupillo politico. Fu Enricuccio, con Claudio Signorile e Giacomo Mancini, a issare sul trono Bettino. All'hotel Midas si vissero ore convulse. De Martino stava affondato in una poltrona del bar, disfatto, le occhiaie pendule, lo stecchino fra i denti. Manca gemeva, ma trionfava. Sapeva di aver compiuto un parricidio politico doloroso, però necessario. E poi lui e Signorile erano convinti che Craxi sarebbe stato un re travicello. Pensavano, gongolanti: "Noi ti abbiamo creato, noi possiamo distruggerti!".

Accadde tutto il contrario. Manca, accusato di filocomunismo, fu costretto a diventare filocraxiano. Per anni, dentro il Psi, fu lo Sconfitto. Ma anche la prova vivente della magnanimità di Bettino, tanto generoso da farlo ministro per il Commercio con l'estero. Poi, nel maggio 1981, uscì la lista della loggia P2. Manca ci figurava, e non era l'unico dei socialisti. Pianse di rabbia, negando ogni rapporto con Licio Gelli: "Non ho niente da nascondere. Subisco una violenza morale intollerabile!". Un paio di sentenze gli diedero ragione, ma nel frattempo aveva dovuto lasciare il ministero e ricominciare una carriera politica. Ce la fece e, sempre grazie a Craxi, divenne presidente della Rai. Lo rimase per sei anni, rivelando di essere un mago della lottizzazione. Infine sparì, nel crollo della Prima Repubblica. Oggi, sbagliando, lo pensavamo un illustre pensionato di 73 anni, con cinque legislature alle spalle.

Meno romanzesca la carriera di La Ganga. Alto, massiccio, 56 anni, quattro volte deputato, cordiale, irruento, era un Gianduja d'acciaio, che a Torino faceva e disfaceva a piacer suo. Un vero ras, ma capace di sorridere anche di quel cognome che si prestava a ironie micidiali. E che ispirò un'indimenticata vignetta del primo Forattini. Si vedeva Craxi vestito come Al Capone, che avanzava gridando: "Fermi tutti! Arriva la ganga". Era il marzo 1983 e sotto la Mole esplodeva una Tangentopoli locale. Pure Giusi incontrò un paio di disavventure giudiziarie, entrambe a lieto fine. E concluse la carriera da potente responsabile degli Enti locali, travolto dal crack della Sacra Famiglia craxiana.

Adesso il vecchio film sembra destinato ad avere un seguito. E con il concorso di una protagonista femminile: Tiziana Parenti. Già magistrato del pool di Milano, poi passata a Forza Italia, la ricordo alla prima convention elettorale di Berlusconi. Tra le urla di gioia dei forzisti, fu accolta sul palco così: "Ecco il nostro futuro ministro della Giustizia!". Non andò in questo modo, naturalmente. Oggi la signora entra nella Margherita come uno degli intellettuali al seguito di Manca. Che spiega a 'Repubblica', con la sicumera di sempre: "La nostra componente liberale e socialista farà da calamita per i delusi della Casa delle libertà". Più furbo, La Ganga ha scelto di tacere, almeno per ora.

'Un petalo socialista con la Margherita' è l'insegna dell'operazione che il Bestiario preferisce appellare 'Garofanoni e Margheritucci'. Ecco un innesto ben poco convincente. C'è già un partito, quello di Enrico Boselli, per drenare i pochi voti ex craxiani disponibili a passare con l'Ulivo. Rutelli & Marini non ne ricaveranno nulla. Accolgono signore e signori senza seguito elettorale. Sconosciuti ai più. Che accrescono il vecchio di un Ulivo che dovrebbe guardare in avanti e non all'indietro.
È vero che anche nel centro-sinistra i reduci della Prima Repubblica sono tanti, nei Ds per cominciare. Ma c'è un limite a tutto. Scomparso Craxi, sono rimasti quelli che chiamavamo 'i suoi cari'. Si conquista con loro il mitico centro? Ma non fatemi ridere! Perché, se rido troppo, non vado più a votare.

 

NO GLOBAL: BERTINOTTI, ABOLIRE I REATI DI OPINIONE

Roma - ''Il centrosinistra deve abolire il reato di opinione. Il processo di Cosenza nasce da un'operazione che non ha alcuna giustificazione giuridica e mette in luce meccanismi repressivi che si stanno verificando nel Paese a cominciare da Genova. Questa puo' essere finalmente l'occasione per abolire il reato d'opinione, residuo dell'era fascista''. Lo ha detto il leader di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti, che ha partecipato alla conferenza stampa indetta a sostegno dei 13 no global accusati di cospirazione politica ed il cui processo comincerà il 2 dicembre a Cosenza. ''A Cosenza è in ballo la civiltà giuridica del Paese. In questo processo si evidenzia la nascita di un nuovo reato, il reato di opposizione e siamo tutti coinvolti in questo reato. Un'azione considerata delittuosa perchè contrasta il governo. In questo modo si vuole negare -conclude Bertinotti- la forma elementare di critica che è alla base della nostra democrazia''.

 

USA: CIA, SI DIMETTONO DUE ALTI FUNZIONARI

Washington - Nuove 'dimissioni eccellenti' alla CIA. A lasciare l'agenzia di intelligence americana - rivelano funzionari della Central Intelligence Agency citati oggi dal 'New York Times' - sarebbero questa volta i capi delle divisioni Europa e Estremo Oriente, che hanno diretto in passato operazioni di spionaggio in alcune delle più importanti aree di crisi del mondo. I due erano considerati tra i massimi esponenti dell'agenzia e, al suo interno, della Direzione delle Operazioni. Proprio questo organismo è stato al centro di una vasta azione di riorganizzazione condotta dal nuovo capo della Cia, Porter Goss. Il capo della Direzione, Stephen Kappes, così come il suo vice, hanno rassegnato le dimissioni recentemente in seguito ad una disputa con la nuova squadra di management.

La notizia delle dimissioni dei due alti funzionari, ha reso noto la fonte del quotidiano statunitense, non verrà annunciata pubblicamente. Né possono essere diffusi i nomi dei due ''altissimi funzionari'', perché si tratta di agenti sotto copertura. Si sa, invece, che i due hanno deciso di presentare le dimissioni perché a disagio con la nuova squadra di management dell'agenzia di intelligence. In un memorandum diretto ai dipendenti la scorsa settimana, Goss ha annunciato nuovi cambiamenti a livello di personale: misure destinate a mettere nuovamente l'agenzia in misura di adempiere ad una delle sue missioni chiave, la raccolta di informazioni confidenziali, ha spiegato nel memorandum.

 

 

 

Settecento chilometri fino alla capitale per chiedere
diritti sempre negati. Li guida una stella del rugby
Australia, la marcia
del popolo dimenticato

Gli aborigeni decimati da alcol e suicidi
di RAIMONDO BULTRINI
 
 

BANGKOK - Si è messo in marcia da solo, zaino in spalla con un po' di cibo e vestiti, poche ore dopo il funerale di un suo giovane amico aborigeno morto suicida come tanti ragazzi in crisi dell'etnia indigena australiana. Ma a tre giorni dall'inizio della sua lunga camminata di quasi 700 chilometri da Melbourne a Camberra, la capitale federale, l'ex campione di rugby Michael Long si è già visto affiancare da centinaia di persone, qualcuno per un breve tratto, altri - come l'ex campione aborigeno di pugilato Anthony Mundine e il settantenne australiano Jim Usher - determinati a raggiungere con lui il palazzo del Parlamento e poi la sede del primo ministro John Howard.

"Sono stanco di andare a maledetti funerali. Troppi aborigeni continuano a morire suicidi, per droga e problemi di salute endemici", ha dichiarato Long, oggi ambasciatore indigeno dell'Australian Football League, ai giornalisti che lo hanno intervistato chiamandolo al cellulare oppure marciando con lui lungo la Hume Highway, la trafficata superstrada che unisce le due grandi città del continente australe.

Long, che ha lasciato la carriera agonistica nel 1990, non è nuovo a iniziative di sensibilizzazione dell'opinione pubblica del suo Paese sui problemi della minoranza aborigena, sterminata con l'arrivo dei bianchi nel 1788 e poi emarginata nelle riserve o nei ghetti metropolitani dove 450 mila indigeni - contro i 20 milioni di "cittadini di serie A" giunti negli ultimi due secoli da oltreoceano - vivono in gran parte di sovvenzioni statali spese spesso in droghe e alcool, quando non si uccidono inalando i vapori della benzina. Molti sono i figli della cosiddetta "generazione rubata", migliaia e migliaia di giovani di sangue misto che fino agli anni ?60 venivano strappati alle loro famiglie e "rieducati" alla civiltà bianca nelle missioni e parrocchie cristiane, come la stessa madre di Long.
Oggi gli aborigeni hanno un'aspettativa di vita di 20 anni inferiore a quella dei bianchi e ultimamente si sono visti privare anche dell'unico organismo politico di rappresentanza, la Commissione indigena Atsic, sostituita da un ente meramente consultivo.

"Siamo una razza che sta morendo - ha dichiarato il campione sportivo - Se non facciamo qualcosa adesso, fra 50 anni non ci saranno più zii e zie, non resterà nulla della nostra gente e della nostra cultura". E' questo che vorrebbe andare a dire al primo ministro, se lo riceverà, quando - prevedibilmente il 2 dicembre - raggiungerà Canberra col suo drappello di aborigeni e bianchi che hanno deciso di unirsi alla marcia, sensibilizzati dalla sua determinazione e dai toni pacifici di una protesta che nei mesi scorsi era invece esplosa con violenza in uno dei ghetti di Sidney dopo che un ragazzo era morto cadendo per sfuggire a una pattuglia della polizia.

Linda Bumey, rappresentante politica aborigena, si è detta certa che la sua marcia, giunta ieri al centesimo chilometro, raccoglierà "un esercito di aderenti quando raggiungerà Canberra", e la stampa australiana lo già ha paragonato alla celebre militante dei neri americani Rosa Parks, che galvanizzò il movimento dei diritti civili negli anni ?50 in America col suo rifiuto di cedere il posto sull'autobus a un cittadino bianco. Ma a chi gli proponeva il raffronto, Long ha risposto che "c'è solo una razza, ed è la razza umana".

 

25 NOVEMBRE

Il Tribunale amministrativo boccia i ricorsi di alcuni sindaci
La norma vieta di costruire entro il limite di due km dal mare
Decreto salvacoste, dal Tar sardo
via libera al presidente Soru

 
Il Golfo degli Aranci

CAGLIARI - Renato Soru ha vinto il primo round. Nella battaglia lanciata per salvaguardare in modo più incisivo le coste sarde dall'invadenza dell'edilizia, il presidente della Regione Sardegna ha incassato il no del Tar di Cagliari ai ricorsi presentati da alcuni sindaci dell'Isola contro il cosiddetto decreto salvacoste.

La sentenza arriva proprio all'indomani dell'approvazione da parte del Consiglio regionale del disegno di legge che recepisce il decreto della giunta.

Il decreto salvacoste era stato uno dei primi atti voluti dalla giunta Soru subito dopo la vittoria elettorale alle regionali della scorsa primavera. Il provvedimento vieta la costruzione di nuovi insediamenti entro il raggio di due chilometri dal mare, bloccando così anche una serie di progetti già in cantiere.

Complessivamente si tratta di lavori per alcuni milioni di metri cubi da spalmare in tutta la Sardegna secondo le lottizzazioni sul mare presentate nella zona di Cagliari (Chia Teulada, Villasiumius) sulla costa di Oristano (Is Arenas), a Bosa (costa occidentale) e a Monti Russu, ad Aglientu, in Gallura.

A chiedere l'annullamento del decreto salvacoste erano stati i sindaci di Olbia, Alghero e Arzachena, tutti della Casa delle libertà e tutti convinti che il nuovo vincolo avrebbe avuto pesanti ricadute negative sull'economia locale. "La valutazione - ha ribadito il capogruppo di Fi in consiglio regionale Giorgio La Spisa - per noi era e resta la stessa: negativa, perché è una legge contro gli interessi della Sardegna". Per questo l'opposizione non ha intenzione di alzare bandiera bianca ma sta già studiando la possibilità di ricorrere alla Consulta. "La legge - ha concluso La Spisa - secondo noi ha fondati dubbi di legittimità costituzionale".
 

22 NOVEMBRE

CONTRORDINE
I miei occhi hanno visto telegiornali...
ALESSANDRO ROBECCHI
Ho visto i telegiornali, sono informatissimo, so tutto quello che succede in Italia e nel mondo. Per esempio che hanno messo una pinna di plastica al delfino malato (Tg5). Oppure - caso davvero clamoroso, dove andremo a finire? - che a Mosca è arrivata la neve il 19 novembre (ancora Tg5). Poi si parla un po' di Wanna Marchi. Visto come sono informato? La frequentazione assidua del telegiornale dei puffi di Italia Uno mi sta facendo diventare un esperto di glutei. Con il freddo che fa fuori se vuoi vedere una spiaggia assolata e un bel paio di tette, c'è il servizio sul calendario del giorno, poi le ultime sul Grande Fratello, poi uno speciale sul Grande Fratello dell'anno scorso. C'è l'intervista ai giovani che guardano il Grande Fratello. E' l'informazione ai tempi del colera. Conto i casi di censura degli ultimi giorni, vanno da Hendel a Guerritore (Raiuno), da Travaglio (Sky) alla Mussolini (Raidue). A Radiorai, i giornalisti si sentono ordinare "vola più basso". Emilio Fede, scusate il termine, dà dei "terroristi" ai suoi redattori. Cade Mentana, il che significa che si è passati dalla fucilazione dei nemici (i Biagi, i Santoro) a quella degli amici non troppo stretti. I neutrali (ammesso che Mentana lo fosse) non sono più tollerati: la legge Gasparri li rende obsoleti, è autunno, cadono le foglie, anche quelle di fico. Col Tg1 imparo le sottigliezze della lingua. Se nel pastone politico si dice che "la maggioranza cerca l'intesa", significa che sono in corso sparatorie e agguati tra i banchi della destra. Se gli scappa detto che c'è "qualche disagio nella maggioranza" significa che siamo arrivati ai sacrifici umani. Funziona uguale Bruno Vespa: quando vedo che parla d'altro (le sette sataniche, la cronaca nera, i tarocchi) vado subito a controllare che non sia successo qualcosa di brutto a Silvio e ai suoi boys. Di solito è così: parlar d'altro, volare bassi è sempre una buona tattica. Per fortuna che c'è il Tg2, che ci racconta la ricetta della felicità: una sola aliquota fiscale del 19 per cento uguale per tutti, quella sì che è civiltà, ma purtroppo succede in Slovacchia.
In tutta questa libertà di informazione in cui mi immergo quotidianamente, sento un po' la mancanza della signora Gardini, la nuova portavoce di Forza Italia. Sarà che la voce di Silvio la portano tutti e dunque il suo ruolo è un po' superato. Sarà che l'inesperienza le ha giocato brutti scherzi e si è fatta beccare mentre raccontava in pubblico che Tremonti ha una macchinetta per mettersi le supposte. Ma sta di fatto che gli spazi della signora sono troppo stretti, che si potrebbe fare di più. Il portavoce serve essenzialmente per chiudere i panini del Tg1. Sapete come succede: si dice bene del governo, si dà spazio a una millimetrica dichiarazione della sinistra (a volte di Rutelli, perché la confusione mentale fa sempre ascolto) e poi si chiude con una dichiarazione della maggioranza. Ogni tanto si sbagliano: danno la reazione del governo prima ancora della notizia. Altre volte fanno prima e non danno nemmeno la notizia. E' questo meccanismo dell'informazione italiana che ci ha fatto conoscere Schifani. E' questo che ha reso popolare Bondi. E' con i grandi caratteristi che si fa il cinema. La Gardini, invece, si vede poco, se non la invitasse Vespa ogni tanto sarebbe un portavoce abbastanza afono. E' un caso di censura? Anche se le voci sono quelle di Silvio è giusto che il servizio pubblico faccia sentire tutte le voci di Silvio. Devo forse pensare che la Gardini sia considerata dai suoi stessi capi più impresentabile di Bondi? Non capisco perché la sinistra, sempre pronta a difendere i martiri della censura, non muova un dito per questa signora tanto a modo che - a parte quando parla delle supposte di Tremonti - porge con tanta grazia le opinioni del suo capo. Non straborda, non tracima come i suoi colleghi. Pratica l'arte della toccata e fuga. Ogni tanto spunta la Gardini e dice: tagliamo l'irpef! Zam, un lampo, e poi si continua con lo scandalo del maltempo o l'ammazzamento del giorno. Il portavoce subliminale funziona proprio così: un flash e si ritira nelle tenebre, le sue parole rimbombano per un istante e poi si torna ai cuccioli di iguana dello zoo di Pechino: giusto per la completezza dell'informazione.
 

 

8 novembre

Un emendamento alla Finanziaria per far emergere
i beni archeologici: basta pagare il 5% del loro valore
Il condono per i ladri d'arte
di SALVATORE SETTIS

Ottime notizie per tombaroli, depredatori e trafficanti di antichità, collezionisti finti e mercanti disonesti: la Finanziaria 2005 ha in serbo per loro un regalo che nemmeno i più cinici osavano sperare. Secondo un emendamento in discussione in questi giorni al Parlamento, il Codice dei Beni Culturali viene integrato come segue: "I privati possessori o detentori a qualsiasi titolo di beni mobili di interesse archeologico non denunciati né consegnati a norma delle disposizioni del Codice, ne acquisiscono la proprietà mediante pagamento del 5% del valore", purché vi sia "una dichiarazione dell'interessato attestante il possesso o la detenzione in buona fede".

In altri termini: basta che chi ha occultato beni archeologici anziché denunziarli o consegnarli secondo la legge dichiari che lo ha fatto "in buona fede", e il reato che ha commesso si trasforma in merito: si tiene il maltolto, pagando - sinistra beffa - il 5% del suo valore. E chi determina il valore? La soprintendenza competente, ovviamente; ma nel caso essa non si esprima in tempo, "la richiesta si intende accolta": l'orrido principio del silenzio-assenso, che già si era insediato nel Codice (ma almeno in modo temporaneo) per un diktat di Tremonti diventa in tal modo, come era troppo facile profetizzare, un grimaldello per radere al suolo ogni principio di tutela.

Non è tutto qui: in deroga (anzi in barba) a qualsiasi altra disposizione, i beni archeologici ormai privatizzati "possono essere oggetto di attività contrattuale a titolo gratuito o oneroso e la loro circolazione è libera". Anzi, a scanso di equivoci, chiunque ne presenti istanza è ipso facto non più punibile non solo per i reati previsti dal Codice dei beni culturali, ma nemmeno per i reati di cui agli articoli 648 e 712 del Codice Penale (rispettivamente: "Ricettazione" e "Acquisto di cose di sospetta provenienza"). Ricettare antichità, acquistarle e rivenderle anche se di sospetta provenienza (purché "in buona fede") diventa una virtù.

Questa vergognosa proposta è stata presentata dai deputati Carlucci, Orsini, Santulli, Licastro Scardino (tutti di Forza Italia) e, in un'altra variante senza modifiche sostanziali, da altri due deputati dello stesso partito, Gianfranco Conte e Marinello. Continua dunque, e fu facile profezia, l'opera di smantellamento della tutela e del Codice Urbani approvato pochi mesi fa. La legge-delega sull'ambiente fa a pezzetti l'art. 181 del Codice, regalando sanatorie indiscriminate a chiunque abbia deturpato il paesaggio in aree vincolate.

Il nuovo emendamento sui beni archeologici ha una portata ancor più vasta: non si tratta infatti di una sanatoria di situazioni pregresse (o che possono passare per tali), bensì di una "licenza di uccidere" il patrimonio archeologico ora e sempre, senza alcun limite e alcun discrimine se non la dichiarazione che tombaroli e ricettatori operano "in buona fede". E come negarlo, se i loro complici siedono in Parlamento?

Ma all'impudicizia non c'è fine. L'on. Conte ha dichiarato alla Camera (2 novembre) che la sua proposta ha il nobile fine di favorire "l'emersione dei beni archeologici in mano privata". Non dunque di legittimare traffici illeciti e ricettazione si tratta, bensì di far "emergere" gli oggetti di scavo: "emergere", cioè sommergere senza speranza nelle mani di chi li ha illecitamente scavati, trafficati, acquistati e può ormai impunemente continuare a farlo.

Nella discussione alla V Commissione, un'opposizione tanto flebile da somigliare a un applauso è venuta dall'on. Maurandi (Ds), a cui la proposta non piace perché "non raggiungerebbe l'obiettivo che il presentatore si prefigge"; mentre l'on. Boccia (Margherita) ha parlato di "un vero e proprio colpo di spugna", e il sottosegretario all'Economia Vegas ha usato un linguaggio non meno duro ("una sanatoria per i tombaroli").

Ma entrambe le definizioni sono molto al di sotto della realtà: questa norma intende essere (e sarà, se approvata) un invito a un generalizzato do-it-yourself dello scavo archeologico, gratificato dall'assoluta certezza non solo di non compiere alcun reato, ma anzi di acquistare la proprietà dei rinvenimenti, e di poterli liberamente commerciare previo pagamento di un modestissimo obolo allo Stato.

In tal modo, il principio plurisecolare che ha regolato la tutela in Italia - la proprietà statale dei reperti archeologici comunque rinvenuti - viene cancellato con un blitz brutale. Si apre su tutto il territorio nazionale una gigantesca caccia al tesoro, si beffeggiano i Carabinieri del benemerito Nucleo per la tutela del patrimonio artistico, impegnatissimi nel recupero dei beni archeologici trafugati (resteranno ora senza lavoro?), si vanificano tutte le azioni in corso (anche della magistratura) per il recupero del patrimonio archeologico illegalmente acquisito da collezioni e musei stranieri.

Questa norma non solo viola la Costituzione, ma la offende. Essa rivela che cosa è il "Codice Urbani" per una parte almeno della maggioranza di governo che lo ha approvato: uno specchietto per le allodole, che ha consentito di concentrare il fuoco sul ministro Urbani al momento della discussione, diffondendo tuttavia la falsa impressione che con l'approvazione del Codice "i giochi sono fatti".

E' vero il contrario: per una qualche lobby il Codice è già in corso di smantellamento sul fronte dell'ambiente e dei beni archeologici. Il resto fatalmente arriverà, se mancheranno reazioni adeguate nel Parlamento e nel Paese, e il Codice sarà presto carta straccia. A poco serviranno i ponderosi commentari che stanno già arrivando in libreria.

Questa, è bene sottolinearlo, non è una battaglia né di destra né di sinistra, è una battaglia di civiltà. Le tiepide proteste delle opposizioni contro una norma tanto spudorata non sono meno preoccupanti della norma stessa. Perché il partito trasversale dei nemici della tutela venga sconfitto, occorre un'alleanza delle buone volontà, degli onesti, di coloro (e ce ne sono in ogni parte politica) a cui ripugna la connivenza con ricettatori e trafficanti. Ma occorre anche informazione e consapevolezza dei cittadini.

Faremo in tempo ad arrestare questo cinico, irresponsabile invito allo scempio del nostro patrimonio archeologico?

5 novembre

L'America latina, Lula e il "cambio"

di Salvatore Cannavò

La spinta al cambiamento che ha caratterizzato l'America latina degli ultimi anni sembra confermarsi nelle ultime scadenze elettorali. La vittoria della sinistra in Uruguay rappresenta solo l'ennesimo tassello di un avanzamento complessivo delle idee progressiste e antiliberiste, come dimostra anche il suggello apposto sul successo di Tabaré Vasquez dalla vittoria del referendum contro la privatizzazione dell'acqua: un'ulteriore prova della volontà di farla finita con il dominio del "pensiero unico" che tanti disastri ha provocato in tutto il Sudamerica. Per l'Uruguay si tratta di una svolta storica, avvenuta dopo 170 anni ma soprattutto di un possibile riscatto dopo gli anni di piombo della dittatura militare. Il successo del Frente Amplio, però, acquista risonanza e risalto maggiori proprio perché inscritto in una dinamica regionale importante. Nello stesso giorno in cui Tabaré Vasquez raccoglieva la maggioranza assoluta dei voti in Uruguay, Chavez riconfermava la forza di un insediamento e di un progetto politico per il Venezuela vincendo in 20 dei 23 governatorati in cui si è votato domenica. Nel suo piccolo, dal punto di vista della moderazione politica non certo dell'importanza del paese, anche il centrosinistra cileno ha potuto vantare una vittoria nelle elezioni amministrative che si sono svolte nello stesso giorno. E poi c'è l'avanzata del Pt, per quanto contraddittoria e contraddetta dai risultati di San Paolo e Porto Alegre, che sta lì a dimostrare ancora la vitalità della situazione brasiliana e la quantità di aspettative riposte nell'esperimento lulista. Se poi consideriamo che questi risultati contingenti hanno alle spalle vicende come quella argentina, quella boliviana o il caso dell'Ecuador - purtroppo "rinnegato" dal presidente-colonnello Gutierrez - il quadro complessivo del sub-continente appare piuttosto chiaro: decenni di neoliberismo, e di dominazione imperialista statunitense, hanno talmente compresso le condizioni di vita che la reazione popolare oggi appare inarrestabile e indisponibile a sopportare ancora. "Ya basta", è il felice slogan zapatista che sembra riassumere questo stato d'animo.

E quel "ya basta", dopo essersi espresso nel vivo dei conflitti sociali, nelle lotte contadine, nei movimenti contro il debito estero, contro gli Ogm, per l'ambiente, per la difesa dei contadini o, ancora, contro l'Alca - l'associazione di libero scambio delle Americhe -si riversa nelle urne, a volte in maniera puntiforme, ma con una dinamica netta.

L'Uruguay, dunque, non parla solo della propria ristretta esperienza ma esprime un linguaggio generale. Il linguaggio del cambiamento che ha forse due punti di riferimento principali: il Venezuela di Chavez e il Brasile di Lula. Due casi analoghi eppure molto differenti tra loro. Una forte polarizzazione personalistica nel primo caso, accompagnata da un esperimento di democrazia popolare, limitato ma reale, e da un tentativo ambizioso di costruire un modello progressivamente capace di affrancarsi dal controllo, e dalle limitazioni, del capitale nordamericano e dei grandi istituti finanziari mondiali. Anche nel secondo c'è una grande personalizzazione: Lula è la "faccia" del popolo brasiliano che accede al potere e che si batte per il cambiamento ma è anche l'espressione di un partito forte e composito, animato da un vivace dibattito interno. Lula è meno solo di Chavez, ha con sé un variegato movimento sociale - si pensi ai Sem Terra - relazioni stratificate con la politica e la società brasiliana. Ma soprattutto governa una delle economie emergenti più importanti del pianeta nonché la metà circa del territorio dell'America latina. E se oggi Chavez gode di un ampio consenso interno, nel caso del presidente-operaio le cose sono più complesse. Come mostrano le sconfitte di San Paolo e Porto Alegre. Due sconfitte talmente simboliche da oscurare l'avanzata elettorale del Pt alle amministrative. Ma anche due sconfitte che offrono alla destra - soprattutto a quella "moderna" del Partito socialdemocratico di Cardoso - una possibilità di riscossa e che chiamano in causa la capacità di "governo" del partito dei lavoratori. Sedici anni di gestione a Porto Alegre, otto a San Paolo, sconfessati dal voto popolare, mostrano che la politica del "cambio" richiede risultati concreti. Che l'alternativa, alla lunga, deve essere reale e misurabile. Se a tutto questo si aggiungono le controverse misure adottate dal governo Lula - una riforma previdenziale contestata anche dal sindacato, una riforma del salario minimo che ha prodotto una spaccatura nel Pt, il programma "Fame zero" ancora al palo e una riforma agraria che forse affronterà solo un quarto dei problemi più urgenti - si capisce meglio, non solo l'esito di San Paolo e Porto Alegre, ma anche quanto la partita che si sta giocando in Brasile sia delicata e coinvolga la sinistra nel suo complesso.

Purtroppo il voto di Montevideo è stato "sporcato" da quello della vicinissima Porto Alegre. Due città che avrebbero potuto unirsi ora sono invece più lontane. Eppure continuano a parlarsi. Porto Alegre (e San Paolo) parla all'Uruguay, mostrandogli come l'adattamento, la pigrizia, la routine amministrativa, e soprattutto il distacco dalla propria gente, possono riservare sorprese amarissime.

E Montevideo parla a Porto Alegre, e al Brasile di Lula, raccontandogli dell'immensa speranza che alberga nel popolo sudamericano: una speranza partecipata e consapevole, che non vuole compromessi, per lo meno non quelli più odiosi, e che intende continuare a gridare, nei confronti del liberismo, ancora quella parla: ya basta. 

Il sogno e l'incubo americano

di Piero Sansonetti

L' America ha scelto Bush. Non solo l'uomo, ma le sue idee. Essenzialmente l'America ha scelto l'idea imperiale di Bush: quella che assegna agli Stati Uniti il compito di governare il mondo, di piegarlo alle proprie abitudini, ai propri interessi, alla propria cultura, e soprattutto al proprio mercato. L'idea che vede nella guerra lo strumento principale di questa politica. La guerra come mezzo per dare ordine agli Stati, ai popoli, alle gerarchie degli interessi, a una ragionevole distribuzione delle risorse. L'America ha scelto l'idea bushista secondo la quale è bene che le risorse siano concentrate nei paesi ricchi, perchè i paesi ricchi sono il motore dello sviluppo, e lo sviluppo dei paesi ricchi è la salvezza per tutti. Le elezioni di ieri hanno tre vincitori e uno sconfitto: ha vinto il liberismo, ha vinto il mercato, ha vinto Bush. In quest'ordine. E ha perso John Kerry. Se non vogliamo trovarci a vagare senza meta e senza bussola nella notte della politica, dovremo ragionare bene, riflettere, discutere, sia sul perché della vittoria di Bush sia sui motivi per i quali ha perso Kerry.

Bush non è quel fesso che molti di noi hanno pensato che fosse in tutti questi anni. E' un uomo di modesta cultura, è un personaggio abbastanza rozzo, ma ha dimostrato delle grandi capacità politiche, molto intuito e anche un disegno. Semplicissimo, quasi infantile, ma un disegno che è stato capito da milioni di americani, poveri e ricchi, e che li ha mobilitati e fatti diventare protagonisti del successo della nuova destra.

Il disegno di Bush può essere un po' approssimativamente riassunto in tre punti. Il primo - molto politico - è la riunificazione della destra americana. Dopo Reagan e dopo la caduta del muro di Berlino, la destra americana si era sempre divisa. Nessuno aveva avuto la forza di metterla insieme. Ci aveva provato - battendosi contro Clinton - alla fine degli anni '90, Newt Gingrich, però non ci era riuscito ed era stato sconfitto. Bush ci è riuscito: ha messo insieme l'anima superliberista dei neo-con, l'anima bigotta e autoritaria dei religiosi (cioè del fondamentalismo ma anche del conservatorismo cristiano) e l'anima liberal dei Giuliani e dei McCain. E ha trovato il punto di equilibrio in se stesso. In questo modo Bush si è guadagnato una leadership personale che nei primi anni della presidenza non aveva avuto. Oggi il padrone è lui, non sono le anime rissose del partito.

 

Il secondo punto del disegno di Bush è quellio ideale. Bush ha lavorato molto bene sull'immaginario. Cosa ha promesso al suo popolo? Due cose orribili: la guerra e maggiori disparità sociali (meno tasse, meno stato, più iniziativa privata, più impresa), ma ha saputo proporle dentro un progetto di dominio del popolo americano sul mondo che è un'idea tutt'altro che trascurabile e irrealista. E' il sogno, il sogno americano. L'idea di sicurezza che Bush ha proposto (guerra senza quartiere ai nemici) che a noi sembra dissennata e immorale, contiene invece - dobbiamo capirlo - una carica ideale che non può essere solo maledetta, va combattuta. Sennò vince.

Il terzo punto del disegno di Bush è quello economico. Mano libera al capitalismo. Senza accettare i compromessi, le legiferazioni, i burocratismi del partito democratico. E quindi una spartizione dei compiti: alle corporation il potere di organizzare il mondo, alla politica il potere di raccogliere e organizzare il consenso.

John Kerry non ha saputo opporsi in nessun modo a questa ogettiva forza della nuova destra americana. Ha presentato agli elettori un semplice programma di moderazione del bushismo, privo di indicazioni per il futuro, privo di alternativa, e dove non c'era neppure l'ombra di un progetto, di un sogno, di una speranza di riscatto. Ha detto: un po' meno guerra, un po' meno disuguaglianze, un po' meno strapotere delle corporation. Perchè avrebbe dovuto vincere? La ricetta offerta da Kerry agli americani è stata la brutta copia del programma di Clinton del '92. Clinton si presentò con una proposta. Disse: "se lasciate alla destra il governo dei mercati avremo un capitalismo selvaggio che travolgerà i deboli; io invece posso garantirvi un governo del liberismo che darà lunga vita al capitalismo ma ne smusserà la ferocia e la sua carica disegualitaria". Gli americani gli credettero, lui però non riuscì a mantenere la promessa. Le diseguaglianze crebbero, il divario tra ricchi e poveri si allargò. Il clintonismo - e tutte le sue estensioni europee, dalla Gran Bretagna all'Italia - fu travolto dalla globalizzazione e seppellito a Seattle, alla fine del '99. La sua brutta copia kerrista non è durata nemmeno un mattino.

Dobbiamo ripartire da qui, credo. Da questa certezza: o la sinistra, innanzitutto in Europa, è capace di costruire un progetto di società, realistico, serio, ma che sia davvero alternativo a quello bushista (liberista, occidentalista, sviluppista), e cioè riesce a selezionare e a rendere concreto un sistema di valori diverso da quello che ha vinto ieri in America, oppure è destinata alla sconfitta. Da almeno 15 anni la sinistra, nel mondo, non riesce a proporre un progetto di questa altezza. Ha perso il suo "universalismo". Dobbiamo ragionare tutti su questo: devono pensarci i riformisti, che ieri hanno visto annegare definitivamente la loro speranza americana e la vecchia "terza via" clintoniana, e ora si trovano a un bivio: o piegano al centro o vanno a sinistra. Dobbiamo pensarci anche noi, perchè non possiamo sperare di trarre profitto dalle sconfitte degli altri: siamo chiamati a dare tutto quello che abbiamo, a metterci in gioco, a prendere la guida di un cammino di ricostruzione del pensiero e della politica della sinistra. A prenderne la guida.

 

Cuori
E'andata oltre le migliori aspettative, possiamo continuare a essere antiamericani col cuore in pace. (jena)

 

3 novembre

Il governatore e altre 12 persone a febbraio davanti ai giudici
E' l'inchiesta sulle "talpe" che passavano informazioni ai boss
Sicilia, Cuffaro rinviato a giudizio
"Ha favorito Cosa nostra"
Figura chiave del dibattimento l'imprenditore di Bagheria
Mario Aiello, in carcere dallo scorso novembre

Salvatore Cuffaro

PALERMO - Il presidente della Regione Sicilia, Salvatore Cuffaro, è stato rinviato a giudizio dal gup Bruno Fasciana. Il governatore, nell'ambito dell'inchiesta sulle talpe alla Dda, è accusato di aver favorito Cosa nostra. Il gup ha disposto invece il non luogo a procedere per il reato di violazione di segreto d'ufficio. La procura aveva chiesto il processo lo scorso primo settembre. Insieme a Cuffaro sono stati rinviati a giudizio tutti gli altri 12 imputati dell'inchiesta sulle talpe alla Dda. Il processo si aprirà il primo febbraio davanti ai giudici del tribunale di Palermo.

L'inchiesta. L'indagine ''Talpe alla Dda'' di Palermo riguarda la presunta realizzazione di una rete occulta di informatori che, secondo l'accusa, sarebbe stata allestita dall'imprenditore sanitario di Bagheria Michele Aiello per avere notizie sulle inchieste della Direzione distrettuale antimafia di Palermo.

Ora, dopo quasi due anni, l'inchiesta finirà in un processo, il cui perno saranno i tre imputati ancora in stato di detenzione, e cioè l'imprenditore Michele Aiello e i marescialli Giorgio Riolo e Giuseppe Ciuro. Il primo accusato di associazione mafiosa e gli altri due di concorso esterno in associazione mafiosa. Questi gli altri rinvii a giudizio: il medico Aldo Carcione; Roberto Rotondo, ex consigliere comunale di Bagheria; il funzionario di polizia Giacomo Venezia; l'ex funzionario della Asl Lorenzo Iannì; Salvatore Prestigiacomo; Domenico Oliveri; Angelo Calaciura; Michele Giambruno; Adriana La Barbera, dipendente Asl e l'ex segretaria del pm Domenico Gozzo, Antonella Buttitta. Rinvio a giudizio infine per le società Atm e Villa Santa Teresa.


Le accuse a Cuffaro. Le accuse rivolte al governatore della Sicilia risalgono al giugno dello scorso anno, quando il governatore ricevette un avviso di garanzia per "concorso in associazione mafiosa". Le ipotesi di reato furono poi modificate in "favoreggiamento di Cosa nostra" e "rivelazione di segreti d'ufficio".

Sono due le inchieste che lo hanno coinvolto: la prima denominata "Ghiaccio 2", e la seconda "Talpe alla Dda". In entrambi i casi l'indagine riguarda politici, professionisti, imprenditori e rappresentanti delle forze dell'ordine. Ci sono, fra gli altri, il medico Salvatore Aragona, l'ex assessore del Comune di Palermo Mimmo Miceli, il deputato regionale dell'Udc Antonio Borzacchelli (ex carabiniere). Tutti sono finiti sotto processo, dopo essere stati arrestati.

Come detto, gli accertamenti dei carabineri del Nucleo operativo hanno concentrato i sospetti su Cuffaro a proposito di fughe di notizie riservate, in particolare su Aiello, uomo considerato vicino a Bernardo Provenzano, arrestato per associazione mafiosa il 5 novembre 2003. Un ruolo che, sostengono gli inquirenti, Cuffaro avrebbe condiviso con Borzacchelli, arrestato a novembre per concussione e ancora agli arresti domiciliari.

Ma ai contatti con il manager non è stata collegata l'accusa di mafia, che è stata invece stralciata dai magistrati in quanto non ci sarebbero contatti diretti fra il governatore ed esponenti mafiosi come il boss Giuseppe Guttadauro. Nel salotto di quest'ultimo, durante la campagna elettorale delle elezioni regionali del 2001, sono state registrate diverse ore di conversazione con mafiosi, politici e medici. Nel corso di questi dialoghi è stato fatto più volte riferimento al nome di Cuffaro.

Proprio queste intercettazioni, in cui si parla di estorsioni, omicidi, intrecci fra mafia e politica, hanno portato all'arresto di numerose persone, fra cui l'ex assessore Miceli, attualmente sotto processo per concorso in associazione mafiosa.

Botta e risposta tra pm e avvocato. Secondo il pm Nino Di Matteo, presente in aula, "il non luogo a procedere ordinato dal gup per il reato di violazione di segreto d'ufficio non alleggerisce il favoreggiamento a Cosa nostra", di cui è accusato Cuffaro. "Il gup - afferma Di Matteo - ha ritenuto infatti che la violazione di segreto d'ufficio fosse assorbita nel reato di favoreggiamento a Cosa nostra".

Di parere opposto l'avvocato Claudio Gallina Montana, che sottolinea come "il giudice ha dimezzato i reati contestati al presidente e in dibattimento dimostreremo l'estraneità relativa alle altre contestazioni".

 

17 NOVEMBRE

Gli italiani sono i più pagati: circa 8.500 euro al mese
La dotazione di Bruxelles per le spese e per i collaboratori
Assistenti e voli low cost
Le cifre degli eurodeputati

di MATTEO TONELLI
 

ROMA - Definito, almeno fino a qualche anno fa, una sorta di cimitero degli elefanti riccamente retributo, dove venivano mandati i politici a fine carriera, il Parlamento europeo è stato accompagnato da una fama di luogo dove, a fronte di una mole lavorativa non travolgente, si ottenevano indubbi benefici economici. Una fama legata, in parte, a luoghi comuni. Fare l'europarlamentare, farlo seriamente almeno, è un lavoro duro. E sarebbe ingiusto bollare l'aula europea come una sorta di coacervo di sprechi. Anche se, anche oggi, a guardare la dotazione economica di ogni eurodeputato, qualche domanda sull'uso della notevole mole di contributi, resta.

Lo stipendio, anzitutto. Gli europarlamentari italiani guadagnano quanto i loro colleghi di Camera e Senato e sono i più pagati dell'intera Unione. Gli italiani prendono circa 8.500 euro al mese, seguiti da austriaci, tedeschi, belgi, inglesi e francesi. Per ultimi gli spagnoli con 30 mila euro all'anno.

A questa cifra i parlamentari sommano le indennità pagate dall'europarlamento. E mentre sullo stipendio i margini di manovra sono limitati, sugli extra, per chi decide di farlo, la fantasia si può sbizzarrire.

Ogni eurodeputato ha a disposizione 3.600 euro al mese per le spese generali. Soldi che devono essere utilizzati per la gestione ordinaria e straordinaria degli uffici. Soldi che possono essere spesi senza alcuna ricevuta o giustificazione. E c'è chi ironizza sulla scarsità di penne o block notes di alcuni uffici. L'unico controllo, non frequentissimo però, lo esercita la Corte dei Conti.

Ben più ricca è la dotazione per gli assistenti. Da sempre è questo uno dei capitoli di spesa più "chiacchierati". Il Parlamento concede ai deputati 12mila euro mensili per dotarsi di uno o più collaboratori. Per giustificare l'uso dei soldi, il deputato deve dimostrare, contratti alla mano, la regolare assunzione (contributi compresi) degli assistenti. Tutto normale? Dipende. Facendo qualche verifica si scopre che ci sono deputati come il diessino Guido Sacconi che usano 12mila euro per pagare un collaboratore a Bruxelles e sostenere l'associazione "Toscana Europa" a Firenze. Ma ci sono anche deputati che decidono di nominare assistenti parenti più o meno stretti. Come il leader della Lega Umberto Bossi che ha spedito a Bruxelles il figlio Riccardo e il fratello Franco.

Infine c'è la diaria giornaliera: 250 euro al giorno per le spese che la permanenza a Bruxelles comporta. Albergo e ristorante in primis. Anche se molti deputati trovano il modo di risparmiare anche su questa. Magari affittando un appartamento in due o tre.

Infine i collegamenti tra l'Italia e il Parlamento. I deputati hanno diritto al rimborso di un biglietto aereo con tariffa business. Ma c'è chi, vista la brevità del volo, preferisce utilizzare i voli a basso costo. Il risparmio per le tasche dei deputati è evidente, perché il Parlamento rimborsa quei tagliandi come se fossero legati a tariffe business. Quindi ben più care.

Se questa è la situazione, bisogna però anche dire che, da tempo, qualcosa a Bruxelles si è mosso. L'ultimo esempio è il regolamento del 7 febbraio 2004, in cui sono state fissate regole più ferree per la trasparenza di contratti e spese. Che poi i regolamenti li facciano gli stessi deputati che sono chiamati a rispettarli, è altra questione.
 

Particolari
Se durante una guerra che ha provocato almeno centomila morti un soldato americano viene filmato mentre uccide un iracheno ferito sparandogli alla testa, questo soldato finisce sotto processo perché avrebbe violato i diritti umani. E' da questi particolari che si riconosce la democrazia. (jena)
 

10 novembre

Costruire ponti, non muri

di Lisa Clark
Quindici anni fa un movimento di popolo fece crollare un muro. Le parole che più spesso abbiamo usato per caratterizzare il nostro impegno di movimenti per la pace sono state "costruiamo ponti, smantelliamo i muri". Sono parole che definiscono il nostro impegno in Palestina/Israele, che abbiamo ripetuto nelle infinite mobilitazioni contro la guerra in Iraq. Ponti tra i popoli per liberare la pace.

A luglio siamo stati a Baghdad per onorare questo impegno, per conoscere più da vicino le realtà della società civile che lavorano per la costruzione di reti, per un progetto di società futura. La vivacità e la molteplicità di gruppi ed associazioni che abbiamo trovati ha sorpreso anche quelli tra di noi che meglio conoscevano il Paese.

Ismail Daud ci raccontava come avesse preparato, insieme ad altre associazioni irachene, un dossier circostanziato di denuncia di violazioni dei diritti umani da parte delle forze di occupazione. Molto prima dello scandalo scoppiato con la pubblicazione delle foto-ricordo scattate dai torturatori di Abu Ghraib, Ismail e gli altri avevano già raccolto testimonianze sufficienti per una denuncia delle incarcerazioni illegittime e delle torture. Le loro denunce, presentate in una affollata conferenza stampa a Baghdad, non arrivarono sui principali giornali occidentali.

Questa settimana Ismail Daud sarà in Italia, insieme ai rappresentanti di altre organizzazioni irachene della società civile che resiste, che costruisce. E di cui non si parla. Sono persone e gruppi che provengono da percorsi diversi ed hanno orientamenti ed opinioni diversi tra di loro, ma sono tutti accomunati dal desiderio di lavorare insieme, costruendo reti di partecipazione civile, per offrire una svolta positiva alla tragedia del loro paese. Sono uomini e donne che non si rassegnano a lasciare la parola solo alle armi. All'incontro che si terrà a Roma, al Teatro Piccolo Eliseo, giovedì 11 novembre dalle 10 alle 17, saranno presenti anche altri iracheni tra cui un portavoce del neonato sindacato dei lavoratori petroliferi di Bassora, quelli che scesero in sciopero per esigere l'assunzione di manodopera locale, facendo fare marcia indietro alla Halliburton che voleva importare operai dall'estero lasciando disoccupati gli iracheni. Ed esponenti di organizzazioni umanitarie sciite e sunnite che insieme hanno portato aiuti a Falluja e Najaf sotto assedio, quando neanche la Croce Rossa internazionale riusciva a raggiungere le città. Il giorno successivo, venerdì 12, incontreranno alcuni Premi Nobel per la Pace all'Auditorium Parco della Musica alle 10.30. E' il primo passo di un progetto, Costruire Ponti di Pace, promosso da un ampio gruppo di realtà italiane pacifiste, insieme alla Provincia e al Comune di Roma, che intende nei prossimi mesi invitare nelle diverse regioni italiane delegazioni di donne, di sindacalisti, di attivisti per i diritti umani e di organizzazioni umanitarie irachene. Per costruire ponti di pace.

In queste ore le forze della Coalizione stanno portando "l'attacco finale" a Falluja. Ad aprile furono 600 gli abitanti di Falluja uccisi nell'assalto alla città. Oggi non ci sono più giornalisti indipendenti per raccontarci cosa succede. Sappiamo di un ospedale occupato, di un altro bombardato. E ci ricordiamo l'accorato appello all'Onu diffuso pochi giorni fa dal Centro per i Diritti Umani e la Democrazia di Falluja, in cui si chiedeva a Kofi Annan di adoperarsi per evitare un altro massacro. Abbiamo sperato che quell'appello fosse ascoltato. Invece sappiamo tutti come l'invito rivolto da Kofi Annan ai governi statunitense, britannico ed iracheno sia rimasto inascoltato. E la tragedia annunciata si compie.

Anche un esponente del Centro per i Diritti Umani di Falluja sarà a Roma in questi giorni.

A luglio a Baghdad, incontrammo anche le rappresentanti di una rete di più di 150 associazioni di donne. Abbiamo ascoltato i racconti del loro impegno sociale. Quando il proconsole Bremer, prima di lasciare Baghdad, al fine di ingraziarsi i due partiti sciiti che partecipavano al Governing Council, aveva presentato un suo editto che avrebbe cancellato la legge di famiglia, introducendo un ordinamento più improntato alla legge islamica, la rete di donne - sunnite, sciite, laiche - si era mobilitata. Con manifestazioni, petizioni, sit-in, documenti esercitarono una tale pressione che Bremer fu obbligato a ritirare il suo ordine. Solo un esempio, per dirvi della speranza straordinaria che questa rete di donne è per gli iracheni e per noi tutti.

Ma, purtroppo, Hana Edwar, una delle coordinatrici di questa rete, la Iraq Women's Network, non sarà con noi in questi giorni a Roma. Il primo ministro ad interim, Allawi, ha dichiarato lo stato di emergenza ed ha fatto chiudere l'aeroporto di Baghdad. Hana e Saba'a Fahan, dell'associazione delle donne di Diwaniya, sono rimaste bloccate a Baghdad.

Di Iraq ormai parlano tutti. Ma nessuno ascolta le voci degli iracheni. In questo micidiale cerchio di violenza che alimenta violenza, non è vero che in Iraq ci siano solo gli occupanti e i tagliatori di teste, i torturatori e le autobomba. Vogliamo ascoltare alcune delle innumerevoli forme di resistenza e di costruzione che i venti e passa milioni di iracheni stanno mettendo in atto? Vogliamo ribadire con forza che anche alla società civile irachena sia data voce nella cosiddetta Conferenza di Pace che si sta organizzando tra poche settimane in Egitto?

Manovra da riscrivere
governo a gambe all'aria

Un emendamento della Margherita all'articolo 1
della Finanziaria ne ribalta l'impianto. E la Camera si ferma

Governo colpito e affondato ieri sera alla Camera; battuto per 191 voti delle opposizioni contro 184 della maggioranza nella votazione al primo articolo della Finanziaria: quello che stabilisce l'ammontare complessivo della copertura per i conti dello Stato.

Berlusconi "alla canna del gas", con una maggioranza che non ha più e che non si è saputa dare gli strumenti della Legge di bilancio, cioè della manovra legislativa "strategica" con cui poi si governa davvero; e Casa delle Libertà in pieno marasma - dopo la sospensione dei lavori dell'Aula da parte del presidente Pier Ferdinando Casini, per un evento che non si era mai verificato nella storia del Parlamento repubblicano - incapace di riprendere le fila della trattativa al suo interno sulle tasse e sul rimpasto dei ministeri, essendogli venuto a mancare sotto i piedi il terreno limaccioso di conti non condivisi e che non si reggono, come i vuoti tra i banchi di destra hanno evidenziato.

Ma anche Italia in apnea, vittima sacrificale di un governo che ha imposto fin qui una manovra raffazzonata e approssimativa, presentata al Parlamento ancora mancante sia della copertura dei presunti tagli alle tasse, tutti da definire, sia delle risorse per lo sviluppo, che avrebbero dovuto essere contenute in un apposito collegato, e che adesso va a gambe all'aria assieme a tutto il resto.

«Se fossero seri dovrebbero dimettersi», sostiene Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze del centrosinistra, che anno dopo anno ha continuato ad analizzare le manovre tremontiane denunciandone superficialità e carenze e rischi per il Paese.

Ma cosa è successo ieri alla Camera, e cosa contiene di così devastante "l'emendamento Boccia"? Andiamo con ordine.

Dal tabulato delle votazioni fornito dalla presidenza di Montecitorio, con le presenze e le assenze dei deputati in Aula, emerge che ieri mancava il 47% dell'Udc, compreso il segretario Follini e il capogruppo Volonté, il 34% di An, a partire dal coordinatore La Russa e dal capogruppo Anedda, il 20% di Forza Italia, assenti tra gli altri Tremonti, Biondi e gli avvocati Ghedini e Previti, e il 14% della Lega Nord, capintesta Dussin e Pagliarini.

Quando il pannello luminoso ha mandato "in rosso" l'improvvida minoranza del centrodestra e ha acceso le luci verdi della metà assegnata all'inedita maggioranza di centrosinistra, dando il via all'emendamento delle opposizioni, si sono viste scene di panico nei banchi del Polo, alla ricerca dei deputati perduti. Applausi invece, e grida di "a casa, a casa", dagli scranni di sinistra dell'emiciclo, dove un'euforica Melandri e un compassato Folena manifestavano tutta la loro soddisfazione con i compagni di Rifondazione, con la pattuglia dei Verdi e dei socialisti di Boselli e con i deputati della Margherita, uniti come un sol uomo nell'impallinare il relatore Crosetto e il viceministro Vegas nel voto favorevole all'emendamento all'articolo 1 presentato da Antonio Boccia, capogruppo della stessa Margherita in Commissione bilancio.

Di fatto, da quel momento in poi la Finanziaria ha smesso di esistere, «con un tonfo politico spettacolare» dirà il socialista Villetti, perché quell'emendamento in fondo moderato, spiega Giovanni Russo Spena, «che taglia i fondi di spesa speciali contenuti nella cosiddetta "Tabella B" per destinarli al recupero del debito di una manovra sbagliata nel tagliare e nello spendere», abbassa la soglia di copertura dei conti dai 50 miliardi di euro previsti a 48, determinando una minore disponibilità di fondi per circa 2 miliardi.

Questo «significa che la Finanziaria non c'è più - afferma ancora Visco - e che è saltata l'intera manovra, con un impatto politicamente dirompente ma anche tecnicamente difficile da recuperare». Saltano infatti tutti gli articoli della legge che seguono, e che elencano le voci di spesa e i capitoli che a cascata ne fissano la quantità e la "qualità". Insomma: la manovra non c'è più e rimane (?) solo il simulacro del governo che l'aveva predisposta.

Cosa succederà adesso? Difficile dirlo. Intanto perché una cosa così non era mai accaduta prima, poi perché non si sa come possa andare avanti la discussione in Parlamento. «Forse con un voto di fiducia che fa saltare tutti gli emendamenti e manda la Legge di bilancio davanti al Senato - dicono gli esperti - dove una maggioranza più che ricompattata dovrebbe rimuovere l'emendamento Boccia e approvare la Finanziaria così com'è».

Senza altre discussioni, per evitare impallinamenti e imboscate. Solo così infatti il testo potrebbe ritornare alla Camera in tempo utile, evitando il ricorso all'esercizio provvisorio (non avveniva dagli Anni Settanta), per il voto finale sulla "correzione" del Senato. In questo modo l'Italia potrebbe vantare un altro primato: quello di avere la Camera dei deputati che non discute una delle leggi più importanti dello Stato e che di fatto viene espropriata della sua funzione legislativa.

Gemma Contin 

 

I sandinisti vincono le amministrative

Successo del Fronte di liberazione nazionale al delicato test delle municipali in Nicaragua. La prima vittoria dopo la sconfitta del '90

Il Fronte sandinista che il 19 luglio del '79 cacciò il dittatore Somoza dal Nicaragua, governò per un decennio definendosi rivoluzionario e nelle elezioni del 1990 perse la presidenza della Repubblica, domenica è tornato a vincere. Il test, minore ma delicato, l'hanno offerto le amministrative. Il successo del partito sopravvissuto alla traumatica sconfitta del '90 è un evento simbolico a Managua.

I sandinisti raddoppiano i governi locali, la destra li dimezza. Il Fronte (Fsln) ha ottenuto dieci punti in più del partito di governo (partito liberale costituzionalista) controllato dall'ex presidente Arnoldo Aleman (1997-2002) condannato di recente a 20 anni di carcere per corruzione.

A Managua, che rimane alla sinistra, il nuovo sindaco Dionisio Marenco, un ingegnere civile senza grande storia politica, ha stracciato Pedro Joaquin Chamorro, figlio della famiglia più potente del Paese. Quattordici anni fa sua madre, Violeta Chamorro, a sconfiggere il leader sandinista Daniel Ortega. E ci fu ancora la mano dei Chamorro nella pesantissima campagna per le elezioni generali del novembre 2001 vinte dal candidato di destra Enrique Bolanos, rappresentante dei latifondisti, dopo una martellante propaganda sull'«incombente minaccia rossa».

«L'esperienza sandinista, fatta di violazioni dei principi democratici e dei diritti umani, di espropriazione senza indennizzo della proprietà privata e di legami con il terrorismo ci impensierisce molto» dichiarò allora il sottosegretario americano Grossman. A nemmeno due mesi dagli attentati dell'11 settembre negli Stati Uniti, rappresentanti dell'amministrazione Bush si dissero in più sedi «preoccupati» dai «terroristi sandinisti» in lizza per il governo. Washington si mostrò allarmata dalla possibilità che un governo Ortega si mettesse in sull'asse Cuba- Venezuela, risuscitando antichi fantasmi. In una lettera alla Santa Sede, il cardinale Obando y Bravo denunciò «sacerdoti irresponsabili che alimentano la confusione tra i fedeli mentre si profila il pericolo del ritorno della sinistra al potere». Contro «il pericolo Ortega» si scatenò anche Jeb Bush, governatore della Florida e fratello del presidente statunitense, che affiancò la sua faccia accanto a quella del candidato delle destre Bolanos, rappresentante del latifondisti, sotto lo slogan: «Daniel Ortega è un nemico di tutto quello che gli Stati Uniti rappresentano».

Per la tornata elettorale di domenica quel vecchio canovaccio è stato ripreso, sono rispuntate le foto di Ortega insieme a Mohammar Gheddafi e Saddam Hussein. Ma la strategia dell'"allarme rosso" questa volta non ha funzionato. E' la prima volta che i sandinisti possono davvero festeggiare qualcosa dal voto del '90. Per la prima volta da allora, possono sperare di aver in parte superato la crisi aperta dagli scandali per corruzione in cui sono stati coinvolti dirigenti di spicco del Fronte e dalla lotta intestina contro gli ortodossi accusati di esercitare autoritarismo dentro il partito. Tanto profonda è stata la frattura causata dalla crisi interna e dalla critica al «pugno di ferro di Ortega» che ex membri del governo e numerosi intellettuali hanno abbandonato il partito. Anche se le basi popolari dell'Fsln hanno mostrato in più occasioni di rimanere fedeli al logo sandinista, l'erosione del consenso attorno alla cupola dirigente hanno permesso agli ultraconservatori di vincere le elezioni presidenziali anche nel '96, con Arnoldo Aleman. Nel corso degli ultimi quattordici anni, l'Fsln all'opposizione ha stretto patti politici e alleanze elettorali con i liberali al potere sul piano nazionale. Ha siglato intese politiche anche con la Democrazia cristiana, scegliendo come vice Augustin Jarquin, ex presidente della Corte dei Conti incarcerato dal capo di Stato Aleman perché lo aveva imputato di corruzione (detenuto anche sotto i sandinisti, per sei mesi, come responsabile di una manifestazione di protesta non autorizzata). Con questa recente traiettoria politica alle spalle il Frente è apparso ad alcuni un'accozzaglia di sopravvissuti senza alcun rapporto con il progetto iniziale di trasformazione sociale. Il disastroso governo delle destre gli ha consentito però di sommare alle preferenze del suo bacino elettorale il prezioso apporto del voto di protesta. Intercettazione determinante in un'elezione in cui si è registrata un'astensione record del 45%. Una vittoria meno clamorosa di quella apparente, se si analizzano i dati, ma pur sempre un simbolico ritorno.

A. N. 

 

 

 

 

 

 

La morte di Briand sconvolge la Francia
Il giovane attivista è stato ucciso domenica da un treno che trasportava scorie nucleari dalla Francia alla Germania. Solidarietà dal mondo ambientalista, ma si apre il dibattito sulla disobbedienza civile e sul blocco dei convogli
A.M.M.
PARIGI
Il dramma di domenica pomeriggio ha sconvolto il mondo degli oppositori al nucleare: un giovane di 23 anni, Sébastien Briand, è morto a Avrincourt, all'est della Mosella, dopo essere stato travolto da un treno che trasportava delle scorie nucleari vetrificate, che erano state trattate in Francia a La Hague, e stavano rientrando in Germania. Il giovane Sébastien si era incatenato ai binari dove doveva passare il treno, un convoglio lungo 400 metri, composto da 12 vagoni chiusi ermeticamente, dal peso di duemila tonnellate. Il conduttore del treno, che ha visto all'ultimo momento il giovane - perché si era incatenato subito dopo una curva dei binari - ha tentato invano di frenare. Ma il giovane, che ha avuto una gamba sezionata, è morto qualche istante più tardi. Le associazioni anti-nucleari sono nell'imbarazzo, perché il dramma rischia di rimettere in causa un metodo di lotta: la disobbedienza civile. Il giovane era assieme a sette altri militanti, sembra un gruppo spontaneo, senza grandi legami con le organizzazioni che fanno tradizionalmente questo tipo di lotta. «Siamo molto sorpresi - dicono al collettivo Bure-Stop, nel dipartimento della Meuse, abituato ad opporsi a questi convogli - non conosciamo questo gruppo. In genere, la gente che fa questo tipo di azioni è addestrata, a volte persino in Germania. Prendono le precauzioni necessarie. Ogni azione è molto precisa, calcolata al minuto, ciascuno sa esattamente quale ruolo deve avere e si impegna a rispettare le regole».

Non è la prima volta che un militante anti-nucleare si incatena ai binari per un'azione simbolica, volta a far fermare, o almeno a ritardare, il treno che trasporta scorie nucleari. Ma di solito questo tipo di azione è fatto lungo un rettilineo, la Sncf (le ferrovie francesi) viene avvertita alcune centinaia di metri prima, da dei «ricognitori» che fanno ricorso a dei fumogeni. Invece, nel caso di Avrincourt, non è stato fatto nulla di tutto questo.

Secondo i Verdi e le organizzazione anti-nucleari, questo dramma prova una volta di più che non esiste la sicurezza assoluta nel trasporto nucleare, che resta estremamente pericoloso come essi denunciano.

Un concorso di circostanze ha portato al dramma. L'inesperienza del gruppo di militanti, prima di tutto, ma anche il fatto che l'elicottero, che segue il tragitto di questo tipo di treni, in quel preciso momento non era al lavoro, perché era andato a fare rifornimento di carburante. I treni del trasporto nucleare sono anche preceduti, due-tre minuti prima, da un gendarme in moto. Ma sembra che il gruppo di Sébastien si sia nascosto al passaggio della moto, per poi incatenerai ai binari. Gli altri militanti sono riusciti a liberarsi prima dell'arrivo del treno, invece Sébastien è rimasto intrappolato. Tra l'altro, la «tecnica» per incatenarsi, importata dalla Germania, suggerisce di scavare sotto il binario, per infilarvi un braccio o una gamba ed evitare il peggio. Neppure questo era stato fatto dal gruppo improvvisato di Sébastien.

Per i Verdi dell'associazione Cacendr (collettivo di azione contro il sotterramento delle scorie nucleari), «in qualsiasi momento, un treno può sbattere contro qualcosa senza che né la Sncf né la sicurezza civile possano farci niente e questo è di una gravità estrema, visto che si tratta di scorie nucleari». Secondo il deputato verde Noël Mamère, il dramma di Sébastien è «una vera catastrofe». Anche perché «gli avversari degli ecologisti cercheranno di sfruttare questa tragedia». Ma nessuno intende mettere in causa il diritto alla disobbedienza civile. «Fa parte della nostra tradizione politica - ha spiegato l'ex ministro verde Dominique Voynet - vi abbiamo fatto ricorso, dopo altre azioni, quando ci sembrava essenziale allertare l'opinione pubblica e agire per impedire l'irreparabile: quando il dibattito democratico è inesistente e gli altri modi d'azione hanno dimostrato la loro impotenza». Secondo Dominique Voynet, l'azione disperata di Sébastien è la conseguenza del mancato dibattito democratico sul trasporto di scorie nucleari. Il trasporto tra il sito di riciclaggio de La Hague, sulla Manica, e la Germania è ripreso nel 2001, dopo due anni di sospensione a causa di una contaminazione di vagoni, in seguito a un accordo concluso allora tra la Francia (governo Jospin) e la Germania. Berlino aveva accettato di riprendersi le scorie, perché Jospin non voleva che La Hague diventasse la pattumiera nucleare dei tedeschi. Ogni trasporto - il settimo dal `96 tra Francia e Germania di residui vetrificati, mentre treni con scorie viaggiano sulla rete francese a un ritmo quasi mensile - è accompagnato da forti manifestazioni. La rete Sortir du nucléaire ha preso l'abitudine di rivelare gli orari del passaggio. Questo per «impedire che questo tipo di trasporto si banalizzi» dicono, per denunciare «l'assurdità di far girare le scorie attraverso l'Europa, per protestare contro la mancanza di informazioni». Questo tipo di convogli, infatti, sono protetti dal «segreto militare».


 Costa d'Avorio e d'intrighi
Il conflitto ivoriano presenta tutti gli ingredienti della «modernità»: la politica come violenza, il tribalismo, il neocolonialismo (francese in questo caso), l'Islam, lo scontro Usa-Francia in Africa, l'ipocrisia dell'Onu, fino al petrolio
GIAMPAOLO CALCHI NOVATI
Nella tormentata vicenda della Costa d'Avorio fanno bella mostra di sé tutti gli ingredienti del malessere di cui attualmente soffre il mondo: la violenza come modo d'essere della politica, il tribalismo, l'Islam, le interferenze delle grandi potenze, la rivalità Francia-Usa e sullo sfondo il petrolio. Da una parte la «povera Africa», dall'altra il «neocolonialismo». Ma ogni spiegazione monocausale non renderebbe giustizia alla complessità di una crisi in cui comunque i fattori interni e i fattori esterni interagiscono sorreggendosi a vicenda. Non ci sono solo le colpe dei gruppi dirigenti africani dopo una decolonizzazione che, nel caso della Costa d'Avorio, sembrava riuscita e che alla prima occasione ha mostrato tutti i limiti di assetti posticci, affidati alla buona volontà di un padre-padrone, privi di una istituzionalizzazione tale da creare pratiche condivise in vista di una successione ordinata. E non ci sono solo le malversazioni dell'ex-potenza coloniale, che si comporta come se la presunta «vetrina» di un passato coloniale e di un modus vivendi postcoloniale l'autorizzi a fare e disfare i governi, le coalizioni e gli stessi blocchi sociali usando la forza militare con una disinvoltura pari solamente all'ipocrisia.

Il ruolo dell'Onu

C'è anche una premessa d'ordine generale che trascende la Costa d'Avorio e l'Africa e che riguarda piuttosto l'Onu e la cosiddetta comunità internazionale.

A furia di coprire la politica dei «grandi» nelle aree della periferia turbolenta e inquieta con finte «operazioni di pace» non c'è più un confine definito fra aggressione, manipolazione e mediazione o interposizione. Una volta le forze di pace dell'Onu dovevano rispondere a tre requisiti non eludibili: essere accettate dalle due parti in conflitto, osservare una rigorosa neutralità, disporre di un armamento leggero per la sola difesa degli operatori. In Costa d'Avorio la Francia prende posizione, non si sa bene a favore di chi ma in modo tutt'altro che lieve, ha usato l'aviazione per bombardare gli aerei dello Stato che dovrebbe proteggere e secondo molte fonti ha fatto fuoco contro i dimostranti con uno dei tanti pretesti a disposizione di qualsiasi forza d'occupazione. Nel momento dell'emergenza, ad abundantiam, Parigi invia la Legione straniera, che dovrebbe rispondere solo a comandi francesi, aggravando la confusione fra caschi blu di paesi terzi, truppe francesi del corpo internazionale (se esiste ancora) e esercito di una potenza terza che interviene in via unilaterale in un paese teoricamente sovrano.

E' inutile fregiarsi come scudo legale di questa o quella risoluzione dell'Onu con mandato incerto. In assenza di una struttura di comando imparziale, che abbia come fine la pacificazione e non la conservazione di questa o quella posizione di potere, nessuna operazione può dirsi legittima e legittimata.

A ciascuno la sua Costa d'Avorio o il suo Iraq? Se la Francia perde ogni parvenza di obiettività nell'ambito del suo «cortile» (il famoso pré carré), Chirac non potrà dare lezioni a nessuno in altri scacchieri altrettanto delicati. Nel frattempo, l'Onu è coinvolta in una politica che aumenta il discredito che ben identificabili potenze hanno tutto l'interesse a versare a piene mani sull'ultimo baluardo di una vita internazionale sottratta alla potenza nuda e cruda. La stessa situazione, con poche varianti, si produsse anni fa in Sierra Leone, quando la Gran Bretagna prima rifiutò le truppe al corpo dell'Onu e subito dopo, con i caschi blu allo sbando davanti all'offensiva dei «ribelli», effettuò un intervento in proprio imponendo la sua pax colonialis.

Come si vede, non si tratta solo di tecnicismi buoni per le disquisizioni degli internazionalisti. E' in giuoco la possibilità stessa di una tutela della sicurezza e dei diritti dei popoli che non sia condizionata e subordinata ai secondi fini delle potenze di riferimento. E le potenze in Africa sono quasi sempre la Francia e gli Stati uniti, spesso in competizione fra loro, senza esclusione di colpi, fino all'ultimo africano, nell'indifferenza o nella complicità delle élites locali, deboli e preoccupate solo di salvaguardare se stesse.

E' dalla firma degli accordi di Marcoussis nel gennaio 2003 che la Francia è nel mirino di Laurent Gbagbo. Tutte le sistemazioni di questo genere hanno i soliti punti deboli: il riconoscimento dei ribelli come un soggetto politico a parte intera, il disarmo delle parti, l'abbandono delle posizioni di forza eventualmente occupate. Anche in Costa d'Avorio, è stato costituito un governo d'unità nazionale che si è riunito sia ad Abidjan, dove risiede il presidente eletto (in elezioni contestate), sia a Bouaké, il feudo delle forze che hanno organizzato il colpo di stato del settembre 2002. Ma puntualmente l'iter si è inceppato.

La divisione fisica sul terreno fra i due eserciti e rispettivi rappresentanti a livello politico, nonché fra due popolazioni con caratteri etnici e religiosi diversi, i musulmani al nord e i cristiani al sud, non facilita certo un compromesso.

Torti e ragioni

In astratto il presidente Gbagbo ha ragione di lamentarsi perché con il tempo il profilo legale dei contendenti è andato smarrendosi. E' assurdo che nel discorso politico dominante a livello mondiale si neghi il diritto di resistenza a chi è sotto occupazione di una potenza esterna e si avalli l'insorgenza di una forza o di una fazione che magari con argomenti validissimi sta pur sempre agendo dentro un sistema politico con certe regole e certe garanzie. D'altra parte, Gbagbo non può consentire alla formazione di un processo di fusione fra le forze in campo e periodicamente antagonizzare i ribelli o ex-ribelli vietando e reprimendo spietatamente ogni manifestazione politica (è capitato nei mesi scorsi) o addirittura imbastendo raids aerei oltre la «zona di fiducia» che separa nord e sud.

Invece che un incidente, l'attacco del 6 novembre contro la guarnigione francese a Bouaké che ha tanto indignato l'Eliseo potrebbe essere stato un avvertimento a scopo chiaramente provocatorio, forse pensando al «nuovo» Bush.

Se non altro, un comportamento più rettilineo di Abidjan costringerebbe la Francia ad essere un po' meno sfuggente, come sarebbe auspicabile ora che nel meccanismo di pacificazione sono stati associati anche altri paesi africani.


 MA UN BAMBINO E' UN CLANDESTINO?
Ogni notte barconi di disperati arrivano dall'Africa su coste e isole spagnole. Molti muoiono. Ieri  la guardia costiera ha «raccolto» un neonato arrivato con altri 41 immigrati intercettati dalla marina spagnola al largo di Puerto del Rosario, a Fuertaventura nelle Isole Canarie


 Amianto, un killer inestinguibile
Nel 2025 l'asbesto avrà ucciso in Italia tra le 20 e le 30 mila persone
Eternit, cioè eterno come i tumori che provoca e continuerà a provocare. Gli ammalati e i parenti delle vittime del mesotelioma hanno intrapreso un difficile battaglia, per sé e per tutti noi esposti

MANUELA CARTOSIO
Ha due nomi, entrambi derivati dal greco. Amianto significa «incorruttibile», asbesto vuol dire «inestinguibile». Di qui il neologismo eternit, passato dalla multinazionale svizzera che all'inizio del Novecento brevettò la miscela di cemento e amianto all'ondulato grigio che nel dopoguerra scalzò i coppi rossi dai tetti. Le virtù vantate dai nomi si sono rovesciate in maledizione. L'amianto, messo al bando in Italia nel 1992, continuerà a presentarci il conto per un pezzo. Il picco dell'epidemia di tumori causati dal minerale usato come isolante universale - dalle navi ai ferri da stiro, dai tetti ai freni, dalle carrozze dei treni ai tessuti - è atteso attorno al 2025. A quella data si stima che l'amianto avrà fatto solo nel nostro paese tra i 20 e i 30 mila morti. La bonifica e la demolizione dei siti produttivi, la rimozione dagli edifici dei rivestimenti e dei tubi in cemento-amianto, la distruzione o la messa in sicurezza dei manufatti all'asbesto procedono a rilento. «In giro per l'Italia ci sono milioni di metri cubi di roba varia con dentro l'amianto», dice il senatore diessino Antonio Pizzinato, tra i promotori della conferenza nazionale non governativa sull'amianto che si terrà questo fine settimana a Monfalcone (vedi box). Quanti esattamente non si sa. La mappatura completa dell'amianto non è stata fatta. E' solo uno dei tanti ritardi sulla tabella di marcia indicata dalla legge 257 del 1992. Non è stato fatto il registro nazionale degli esposti all'amianto e qualche regione non ha fatto neppure quello dei mesoteliomi, il micidiale tumore alla pleura che con il carcinoma polmonare e l'asbestosi si accanisce sui lavoratori che hanno inalato le fibre d'amianto.

Tutto cominciò a Casale...

Il mesotelioma era un tumore rarissimo. Un caso atteso su un milione di abitanti all'anno, secondo gli epidemiologi. Nel 2003 l'ospedale di Casale Monferrato, che ha un bacino d'utenza sotto i 100 mila abitanti, ha diagnosticato 32 nuovi casi di mesotelioma. «E due terzi delle persone colpite non lavoravano all'Eternit», precisa Bruno Pesce, coordinatore dell'Associazione familiari vittime dell'amianto. L'Eternit di Casale, chiusa nel 1986, ha un posto di rilievo nella storia italiana dell'amianto e della sua messa al bando. Lì si è cominciato a contare i morti e lì si è celebrato il primo processo contro l'asbesto. Finito con una condanna prescritta nel 2000 dalla Cassazione e un risarcimento di 7 miliardi di lire da spartire tra 1.700 parti lese. Una miseria, rispetto all'enormità del danno. Per evitare di pagare risarcimenti più consistenti - ricorda Pesce - alla metà degli anni Ottanta l'Eternit italiana si dichiarò autofallita, portò i libri in tribunale e chiuse gli stabilimenti a Casale, Melilli e Bagnoli. La cava di Balangero, la più grande d'Europa, l'Eternit la chiuse nel `90.

La multinazionale Eternit, però, continua a esistere. E i casalesi vogliono portarla alla sbarra, sia in sede penale che in sede civile, con quella che hanno battezzato «vertenzamianto». L'esposto da presentare alla magistratura è già stato sottoscritto da oltre 1.400 cittadini, vittime dirette o loro eredi. All'azione civile parteciperà anche il Comune di Casale: i costi della bonifica incidono pesantemente sui suoi bilanci. In Brasile, uno dei maggiori produttori di asbesto dopo Cina, Russia e Canada, l'Abrea - l'associazione degli esposti all'amianto guidata dalla coraggiosa Fernanda Giannasi - due mesi fa ha ottenuto un risarcimento di 160 milioni di dollari da Eternit, Brasilit e Eterbras. E' una sentenza importantissima, commenta Bruno Pesce, ma anche in quel caso bisognerà trovare il modo di risalire «agli svizzeri», la famiglia Schmidheiny che, dopo aver fatto i miliardi con il cemento-amianto, ha ceduto la rogna ad altre società investendo gli utili «nel cioccolato e nelle banche». Pesce, fino a qualche anno fa segretario della Cgil, da quando è in pensione lavora a tempo pieno «contro» l'amianto. Il suo raggio d'azione spazia dal Brasile a Tiggiano, un piccolo paese del Salento dove, quando l'intervistiamo, è appena andato per affrontare un altro problema: tanti emigranti si sono beccati l'amianto lavorando in Germania, in Svizzera, in Belgio e tornati in Italia si ritrovano figli di nessuno.

C'è un particolare agghiacciante nel rapporto tra Casale e l'Eternit. Per anni, quando già si sapeva che l'amianto era una bomba a orologeria, l'azienda si è liberata del «polverino» - gli scarti di lavorazione - regalandolo ai dipendenti e ai casalesi. E' tutto finito nelle stradine, nelle soffitte, nelle cantine. E c'è ancora. Sarà per questo «regalo» che a Casale muore di mesotelioma anche chi non ha lavorato all'Eternit?

... e proseguì a Monfalcone

A Monfalcone la polvere d'amianto l'hanno respirata i lavoratori di Fincantieri. Nella piazzetta di Panzano, di fronte all'ingresso dei cantieri, un monumento ricorda le vittime. L'epigrafe di Massimo Carlotto dice tutto: «Costruirono le stelle del mare, li uccise la polvere, li tradì il profitto». Dice tutto anche il titolo del libro del professor Claudio Bianchi, Amianto, un secolo di sperimentazione sull'uomo. E' il medico che, arrivato nei primi anni Settanta all'ospedale di Monfalcone, «scoprì» tra i cantieristi l'altissima incidenza di mesoteliomi. E' andato in pensione avendone censiti circa 600. La latenza, correlata all'intensità e alla durata dell'esposizione, varia dai 15 ai 40 anni. In alcuni paesi europei la curva dei mesoteliomi sembra essersi assestata, smentendo le funeste previsioni di crescita fino a 2025. In Italia non è così, forse perché l'amianto è stato messo al bando solo nel `92. E' stato sostituito dalla lana di vetro e di roccia o dalle fibre di ceramica. Tra vent'anni scopriremo se e quanto fanno male. E sarà difficile stabilire, prevede il professore, «fin dove arrivano i danni dell'amianto e dove cominciano quelli delle materie con cui è stato rimpiazzato».

Meglio non sapere?

Essendo il mesotelioma un tumore incurabile, è utile monitorare tutti gli esposti all'amianto? «Morire per morire, preferisco non saperlo in anticipo». Molti lavoratori la pensano così, dice Michele Michelino, ex operaio della Breda Fucine di Sesto San Giovanni, fondatore di uno dei comitati che hanno promosso «dal basso» la conferenza di Monfalcone. A una trentina dei 350 ex lavoratori della Breda visitati dalla Clinica del lavoro di Milano sono state riscontrate placche pleuriche che potrebbero evolvere in tumori. Saranno ricontrollati ogni anno e le loro condizioni psicologiche non sono delle migliori. «Non sappiamo se questi monitoraggi serviranno o no», ammette il professor Bianchi, «siamo costretti a continuare la sperimentazione». In Svezia, che sull'amianto è avanti a noi almeno di vent'anni, si è visto che i costi psicologici del monitoraggio sono effettivamente pesanti. D'altra parte, però, alimentazione e fumo possono essere co-fattori del mesotelioma. Essere allertati in anticipo, quindi, può essere utile.

Amiantizzati di tutto il mondo...

Nei tre quarti di mondo ancora amiantizzato il dilemma sui monitoraggi non se lo pongono. Essendo notoria la sensibilità per la salute dei lavoratori e per l'ambiente di Russia e Cina, vengono i brividi al pensiero che proprio loro sono i maggiori produttori di amianto. Hanno strappato il primato al Canada che, non sapendo più a chi vendere il suo amianto, ha rallentato la produzione. Sulla situazione nell'ex patria del socialismo, fa testo quel che in un congresso internazionale alcuni colleghi russi hanno detto al professor Bianchi: «La sua relazione è molto interessante. Però da noi non succede. Il nostro amianto è puro e non fa male». La strada per mettere al bando l'amianto - se ne parlerà a Monfalcone e alla fine del mese a Tokyo - è tutta in salita.

L'unificazione dei processi

Qui da noi, la strada per ottenere giustizia per le vittime è un percorso a ostacoli e dall'esito incerto. Di recente due processi, contro la Fibronit di Bari e la Fincantieri di Riva Trigoso, sono finiti con una condanna. Ma le assoluzioni - ultima quella della Breda ferroviaria di Pistoia - non mancano e amareggiano malati e familiari delle vittime. La procura di Gorizia, competente per Monfalcone, ha 600 fascicoli aperti per morti attribuite all'amianto. Una cinquantina di vedove, come le madri Plaza de Mayo, hanno manifestato tutti i giovedì perché siano celebrati i processi. Alla fine di ottobre, il gup di Gorizia ha chiesto d'unificare nello stesso procedimento tutti le cause Fincantieri. Alessandro Morena, autore di Polvere, pur vedendo il rischio che i tempi si allunghino è convinto che l'unificazione dell'inchiesta sia una novità positiva. Ottenuta grazie al protagonismo e alla determinazione di donne consapevoli che i loro mariti «non sono morti per caso». Il loro apporto ha rivitalizzato l'associazione esposti amianto, «alle riunioni quando parlano loro non si sente volare una mosca».

Gualtiero Nardi, tubista per 35 anni alla Fincatieri di Monfalcone, cominciò a star male quattro giorni dopo essere andato in pensione. Un anno dopo, la diagnosi: mesotelioma. E' morto alla vigilia di Natale del `99. «Difendere mio marito è l'unica cosa che mi tiene al mondo», dice Rita Nardi, «i nostri uomini hanno sofferto come cani nell'indifferenza. Ora questa sofferenza la portiamo noi». Fincantieri sarà anche «una potenza», ma deve rispondere del perché ha tenuto gli operai a respirare amianto, sapendo da decenni che faceva male. «Per un milione e mezzo al mese».