Archivio novembre 2004
26 NOVEMBRE
Con la tv fa nove volte gli utili della analoga tv privatizzata francese. Ma sta per disfarsene perché vuole entrare in un nuovo e più redditizio business. E diventare il numero uno del mondo
Abbiamo
di recente appreso da una graduatoria effettuata da un'agenzia internazionale di
ricerche e di analisi che Silvio Berlusconi occupa il quarto posto nella
classifica degli uomini più ricchi e dotati di maggiore influenza nel mondo.
Avete capito bene: nel mondo. Il sultano del Bahrein è forse leggermente più
ricco di lui, ma non ha alcuna influenza. Bill Gates infatti lo supera, ma
Berlusconi viene subito dopo. È entrato in una sorta di Guinness dei primati.
Come non esserne fieri? L'Amor nostro, come lo chiama Giuliano Ferrara non so se
con una punta di ironia o con franca e affettuosa ammirazione, fa bella figura e
la fa fare a tutto il paese da lui così brillantemente rappresentato.
Adesso è molto preso dal problema di sistemare nel modo migliore il suo
gigantesco patrimonio assicurando pace e concordia tra i suoi figli ed eredi
(speriamo tra cent'anni) e tanto per cominciare ha già assicurato alle sue
televisioni, a partire dal 2006, le partite del campionato di calcio attualmente
trasmesse dal canale sportivo di Sky News. Il che significa maggior reddito e
maggior valore.
Del resto basta confrontare gli utili conseguiti dalla televisione francese ex
pubblica con quelli di Canale 5 di Mediaset. Sono due emittenti, entrambe
private, che hanno analoga diffusione nei rispettivi paesi e analogo volume di
fatturato. Ma l'utile della tv francese è stato nell'ultimo anno di 100 milioni
di euro mentre quello di Canale 5 è arrivato a 900.
Il miracolo (nove volte di più) è dovuto al fatto che la convenzione con lo
Stato francese impone alla concessionaria una serie di investimenti in ricerca e
in programmi di utilità pubblica più costosi e profittevoli, mentre lo Stato
italiano non impone assolutamente nulla a Mediaset. Di qui il miracolo dell'Amor
nostro e del suo fedele Confalonieri.
Il gruppo Fininvest-Mediaset è dunque arrivato al culmine del suo valore
patrimoniale e il proprietario sta seriamente pensando di venderlo. Prima che
cominci quell'inevitabile declino che incombe su tutte le costruzioni umane.
Ricordo ancora che mio padre, quando mia madre si addolorava perché qualche
pezzo del suo servizio di cristalleria avuto in dono di nozze finiva in
frantumi, cercava di consolarla ricordandole che anche l'impero romano era stato
distrutto. E così accadrà anche a Canale 5. Perciò meglio disfarsene prima. Ci
saranno dei miliardoni per i ragazzi della famiglia, ma il grosso l'Amor nostro
lo reinvestirà in una delle grandi multinazionali della comunicazione, quelle
che accoppiano insieme telefonia, reti satellitari, grande distribuzione,
'hardware' di trasmissioni informatiche con centinaia di canali e 'software' di
programmi. Con la fondata speranza di ascendere al primo posto della classifica
mondiale degli uomini più ricchi e potenti.
Molti gonzi pensavano che Berlusconi volesse entrare nella storia come il più
grande statista italiano. Ma vogliamo scherzare? L'orizzonte italiano è
supremamente provinciale. Gli va stretto. Lo obbliga perfino a comporre le liti
tra Fini e Calderoli e a confrontarsi con Siniscalco. Miserie. Le vette sono ben
più alte.
Nel frattempo la nostra piccola Rai si accinge a privatizzarsi. Nel modo più
idiota, quello ipotizzato e anzi codificato nella legge Gasparri: il 20 per
cento in Borsa in quote non superiori all'1 per cento. Una manciatina di
spiccioli che non spostano il controllo governativo sull'emittente pubblica. Ma
impongono alla medesima la produzione di valore immediato, ponendo in terza e
quarta fila i programmi che dovrebbero caratterizzare il servizio pubblico.
Questa è una vecchia questione che continua ad alimentare dibattiti accademici
del tutto inutili e diseducativi, scambiando la noiosa seriosità del servizio
pubblico con le effervescenti bollicine della tv commerciale.
Balle. Ci sono ottimi servizi tipici di un'emittente pubblica e capaci di
raggiungere punte eccezionali di ascolto (la fiction su Borsellino insegni) che
la Rai produce ma, chissà perché, nasconde tra le pieghe del suo improbabile
palinsesto.
Un esempio? Rai Educational, guidata da Gianni Minoli, produce da qualche mese
inchieste di notevole interesse che meriterebbero la prima o la seconda serata.
Ma potrebbero disturbare i vari califfati della nostra emittente pubblica.
Perciò meglio tenerli in soffitta, mettendoli in rete all'una di notte o alle
otto del mattino. Qualche volenteroso affetto da insonnia li vedrà.
C'è del senno in questa follia? Non direi. Eppoi non è nemmeno follia, ma
semplice stupidità.
Eugenio Scalfari
Bestiario di Giampaolo Pansa
Rutelli imbarca Manca, La Ganga e la
Parenti. Chi sono?
I protagonisti di un vecchio film che non ci va di rivedere
A
volte ritornano, certi fantasmi. Ma soltanto perché qualcuno li chiama.
Francesco Rutelli ha chiamato nel vertice della Margherita due spettri dell'era
craxiana. E loro hanno risposto. I due sono Enrico Manca e Giusi La Ganga che,
ai tempi di Bettino, erano pezzi da novanta. Dirò più avanti perché Rutelli,
d'accordo con Franco Marini, ha fatto un errore. E ne spiegherò i motivi, che
sono tanti. Ma ce n'è uno che devo chiarire subito. Poiché riguarda una domanda
che molti elettori dell'Ulivo, specie i più giovani, di certo si porranno: ma
chi cavolo sono questi Manca e La Ganga?
La domanda è giustificata da una fantozziana realtà: la politica è un tritasassi
anche più feroce della tivù e, se salti una stagione, nessuno si rammenta più di
te. Dunque, ricordiamo e spieghiamo, cominciando da Manca. La memoria mi rimanda
al luglio 1976, l'estate dell'avvento di Bettino Craxi al vertice del Psi. Il
partito era stato appena bastonato dagli elettori (9,6 per cento). E contava di
salvarsi cambiando segretario. Il giurista Federico Mancini mi riassunse tutto
con una filastrocca: 'Noi compagni socialisti / siamo stanchi e un poco tristi.
/ De Martino quest'estate / lo finiamo a fucilate. / Tutto quanto rinnoviamo, /
Benny Craxi ci mettiamo'.
Il professor Francesco De Martino, il segretario della sconfitta elettorale,
venne sbalzato di sella anche per il tradimento di Manca, il suo pupillo
politico. Fu Enricuccio, con Claudio Signorile e Giacomo Mancini, a issare sul
trono Bettino. All'hotel Midas si vissero ore convulse. De Martino stava
affondato in una poltrona del bar, disfatto, le occhiaie pendule, lo stecchino
fra i denti. Manca gemeva, ma trionfava. Sapeva di aver compiuto un parricidio
politico doloroso, però necessario. E poi lui e Signorile erano convinti che
Craxi sarebbe stato un re travicello. Pensavano, gongolanti: "Noi ti abbiamo
creato, noi possiamo distruggerti!".
Accadde tutto il contrario. Manca, accusato di filocomunismo, fu costretto a
diventare filocraxiano. Per anni, dentro il Psi, fu lo Sconfitto. Ma anche la
prova vivente della magnanimità di Bettino, tanto generoso da farlo ministro per
il Commercio con l'estero. Poi, nel maggio 1981, uscì la lista della loggia P2.
Manca ci figurava, e non era l'unico dei socialisti. Pianse di rabbia, negando
ogni rapporto con Licio Gelli: "Non ho niente da nascondere. Subisco una
violenza morale intollerabile!". Un paio di sentenze gli diedero ragione, ma nel
frattempo aveva dovuto lasciare il ministero e ricominciare una carriera
politica. Ce la fece e, sempre grazie a Craxi, divenne presidente della Rai. Lo
rimase per sei anni, rivelando di essere un mago della lottizzazione. Infine
sparì, nel crollo della Prima Repubblica. Oggi, sbagliando, lo pensavamo un
illustre pensionato di 73 anni, con cinque legislature alle spalle.
Meno romanzesca la carriera di La Ganga. Alto, massiccio, 56 anni, quattro volte
deputato, cordiale, irruento, era un Gianduja d'acciaio, che a Torino faceva e
disfaceva a piacer suo. Un vero ras, ma capace di sorridere anche di quel
cognome che si prestava a ironie micidiali. E che ispirò un'indimenticata
vignetta del primo Forattini. Si vedeva Craxi vestito come Al Capone, che
avanzava gridando: "Fermi tutti! Arriva la ganga". Era il marzo 1983 e sotto la
Mole esplodeva una Tangentopoli locale. Pure Giusi incontrò un paio di
disavventure giudiziarie, entrambe a lieto fine. E concluse la carriera da
potente responsabile degli Enti locali, travolto dal crack della Sacra Famiglia
craxiana.
Adesso il vecchio film sembra destinato ad avere un seguito. E con il concorso
di una protagonista femminile: Tiziana Parenti. Già magistrato del pool di
Milano, poi passata a Forza Italia, la ricordo alla prima convention elettorale
di Berlusconi. Tra le urla di gioia dei forzisti, fu accolta sul palco così:
"Ecco il nostro futuro ministro della Giustizia!". Non andò in questo modo,
naturalmente. Oggi la signora entra nella Margherita come uno degli
intellettuali al seguito di Manca. Che spiega a 'Repubblica', con la sicumera di
sempre: "La nostra componente liberale e socialista farà da calamita per i
delusi della Casa delle libertà". Più furbo, La Ganga ha scelto di tacere,
almeno per ora.
'Un petalo socialista con la Margherita' è l'insegna dell'operazione che il
Bestiario preferisce appellare 'Garofanoni e Margheritucci'. Ecco un innesto ben
poco convincente. C'è già un partito, quello di Enrico Boselli, per drenare i
pochi voti ex craxiani disponibili a passare con l'Ulivo. Rutelli & Marini non
ne ricaveranno nulla. Accolgono signore e signori senza seguito elettorale.
Sconosciuti ai più. Che accrescono il vecchio di un Ulivo che dovrebbe guardare
in avanti e non all'indietro.
È vero che anche nel centro-sinistra i reduci della Prima Repubblica sono tanti,
nei Ds per cominciare. Ma c'è un limite a tutto. Scomparso Craxi, sono rimasti
quelli che chiamavamo 'i suoi cari'. Si conquista con loro il mitico centro? Ma
non fatemi ridere! Perché, se rido troppo, non vado più a votare.
NO GLOBAL: BERTINOTTI, ABOLIRE I REATI DI OPINIONE |
Roma - ''Il centrosinistra deve abolire il reato di opinione. Il processo di Cosenza nasce da un'operazione che non ha alcuna giustificazione giuridica e mette in luce meccanismi repressivi che si stanno verificando nel Paese a cominciare da Genova. Questa puo' essere finalmente l'occasione per abolire il reato d'opinione, residuo dell'era fascista''. Lo ha detto il leader di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti, che ha partecipato alla conferenza stampa indetta a sostegno dei 13 no global accusati di cospirazione politica ed il cui processo comincerà il 2 dicembre a Cosenza. ''A Cosenza è in ballo la civiltà giuridica del Paese. In questo processo si evidenzia la nascita di un nuovo reato, il reato di opposizione e siamo tutti coinvolti in questo reato. Un'azione considerata delittuosa perchè contrasta il governo. In questo modo si vuole negare -conclude Bertinotti- la forma elementare di critica che è alla base della nostra democrazia''. |
USA: CIA, SI DIMETTONO DUE ALTI FUNZIONARI |
Washington - Nuove 'dimissioni eccellenti' alla CIA. A
lasciare l'agenzia di intelligence americana - rivelano funzionari della
Central Intelligence Agency citati oggi dal 'New York Times' - sarebbero
questa volta i capi delle divisioni Europa e Estremo Oriente, che hanno
diretto in passato operazioni di spionaggio in alcune delle più importanti
aree di crisi del mondo. I due erano considerati tra i massimi esponenti
dell'agenzia e, al suo interno, della Direzione delle Operazioni. Proprio
questo organismo è stato al centro di una vasta azione di riorganizzazione
condotta dal nuovo capo della Cia, Porter Goss. Il capo della Direzione,
Stephen Kappes, così come il suo vice, hanno rassegnato le dimissioni
recentemente in seguito ad una disputa con la nuova squadra di management.
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25 NOVEMBRE
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22 NOVEMBRE
CONTRORDINE
I miei occhi hanno visto
telegiornali...
ALESSANDRO ROBECCHI
Ho visto i telegiornali, sono informatissimo, so tutto
quello che succede in Italia e nel mondo. Per esempio che hanno messo una pinna
di plastica al delfino malato (Tg5). Oppure - caso davvero clamoroso, dove
andremo a finire? - che a Mosca è arrivata la neve il 19 novembre (ancora Tg5).
Poi si parla un po' di Wanna Marchi. Visto come sono informato? La
frequentazione assidua del telegiornale dei puffi di Italia Uno mi sta facendo
diventare un esperto di glutei. Con il freddo che fa fuori se vuoi vedere una
spiaggia assolata e un bel paio di tette, c'è il servizio sul calendario del
giorno, poi le ultime sul Grande Fratello, poi uno speciale sul Grande Fratello
dell'anno scorso. C'è l'intervista ai giovani che guardano il Grande Fratello.
E' l'informazione ai tempi del colera. Conto i casi di censura degli ultimi
giorni, vanno da Hendel a Guerritore (Raiuno), da Travaglio (Sky) alla Mussolini
(Raidue). A Radiorai, i giornalisti si sentono ordinare "vola più basso". Emilio
Fede, scusate il termine, dà dei "terroristi" ai suoi redattori. Cade Mentana,
il che significa che si è passati dalla fucilazione dei nemici (i Biagi, i
Santoro) a quella degli amici non troppo stretti. I neutrali (ammesso che
Mentana lo fosse) non sono più tollerati: la legge Gasparri li rende obsoleti, è
autunno, cadono le foglie, anche quelle di fico. Col Tg1 imparo le sottigliezze
della lingua. Se nel pastone politico si dice che "la maggioranza cerca
l'intesa", significa che sono in corso sparatorie e agguati tra i banchi della
destra. Se gli scappa detto che c'è "qualche disagio nella maggioranza"
significa che siamo arrivati ai sacrifici umani. Funziona uguale Bruno Vespa:
quando vedo che parla d'altro (le sette sataniche, la cronaca nera, i tarocchi)
vado subito a controllare che non sia successo qualcosa di brutto a Silvio e ai
suoi boys. Di solito è così: parlar d'altro, volare bassi è sempre una buona
tattica. Per fortuna che c'è il Tg2, che ci racconta la ricetta della felicità:
una sola aliquota fiscale del 19 per cento uguale per tutti, quella sì che è
civiltà, ma purtroppo succede in Slovacchia.
In tutta questa libertà di informazione in cui mi immergo quotidianamente, sento
un po' la mancanza della signora Gardini, la nuova portavoce di Forza Italia.
Sarà che la voce di Silvio la portano tutti e dunque il suo ruolo è un po'
superato. Sarà che l'inesperienza le ha giocato brutti scherzi e si è fatta
beccare mentre raccontava in pubblico che Tremonti ha una macchinetta per
mettersi le supposte. Ma sta di fatto che gli spazi della signora sono troppo
stretti, che si potrebbe fare di più. Il portavoce serve essenzialmente per
chiudere i panini del Tg1. Sapete come succede: si dice bene del governo, si dà
spazio a una millimetrica dichiarazione della sinistra (a volte di Rutelli,
perché la confusione mentale fa sempre ascolto) e poi si chiude con una
dichiarazione della maggioranza. Ogni tanto si sbagliano: danno la reazione del
governo prima ancora della notizia. Altre volte fanno prima e non danno nemmeno
la notizia. E' questo meccanismo dell'informazione italiana che ci ha fatto
conoscere Schifani. E' questo che ha reso popolare Bondi. E' con i grandi
caratteristi che si fa il cinema. La Gardini, invece, si vede poco, se non la
invitasse Vespa ogni tanto sarebbe un portavoce abbastanza afono. E' un caso di
censura? Anche se le voci sono quelle di Silvio è giusto che il servizio
pubblico faccia sentire tutte le voci di Silvio. Devo forse pensare che la
Gardini sia considerata dai suoi stessi capi più impresentabile di Bondi? Non
capisco perché la sinistra, sempre pronta a difendere i martiri della censura,
non muova un dito per questa signora tanto a modo che - a parte quando parla
delle supposte di Tremonti - porge con tanta grazia le opinioni del suo capo.
Non straborda, non tracima come i suoi colleghi. Pratica l'arte della toccata e
fuga. Ogni tanto spunta la Gardini e dice: tagliamo l'irpef! Zam, un lampo, e
poi si continua con lo scandalo del maltempo o l'ammazzamento del giorno. Il
portavoce subliminale funziona proprio così: un flash e si ritira nelle tenebre,
le sue parole rimbombano per un istante e poi si torna ai cuccioli di iguana
dello zoo di Pechino: giusto per la completezza dell'informazione.
8 novembre
Un emendamento alla
Finanziaria per far emergere
i beni archeologici: basta pagare il 5% del loro valore
Il condono per i ladri d'arte
di SALVATORE SETTIS
Ottime notizie per tombaroli, depredatori e trafficanti di antichità,
collezionisti finti e mercanti disonesti: la Finanziaria 2005 ha in serbo per
loro un regalo che nemmeno i più cinici osavano sperare. Secondo un
emendamento in discussione in questi giorni al Parlamento, il Codice dei Beni
Culturali viene integrato come segue: "I privati possessori o detentori a
qualsiasi titolo di beni mobili di interesse archeologico non denunciati né
consegnati a norma delle disposizioni del Codice, ne acquisiscono la proprietà
mediante pagamento del 5% del valore", purché vi sia "una
dichiarazione dell'interessato attestante il possesso o la detenzione in buona
fede".
In altri termini: basta che chi ha occultato beni archeologici anziché
denunziarli o consegnarli secondo la legge dichiari che lo ha fatto "in
buona fede", e il reato che ha commesso si trasforma in merito: si tiene
il maltolto, pagando - sinistra beffa - il 5% del suo valore. E chi determina
il valore? La soprintendenza competente, ovviamente; ma nel caso essa non si
esprima in tempo, "la richiesta si intende accolta": l'orrido
principio del silenzio-assenso, che già si era insediato nel Codice (ma
almeno in modo temporaneo) per un diktat di Tremonti diventa in tal modo, come
era troppo facile profetizzare, un grimaldello per radere al suolo ogni
principio di tutela.
Non è tutto qui: in deroga (anzi in barba) a qualsiasi altra disposizione, i
beni archeologici ormai privatizzati "possono essere oggetto di attività
contrattuale a titolo gratuito o oneroso e la loro circolazione è
libera". Anzi, a scanso di equivoci, chiunque ne presenti istanza è ipso
facto non più punibile non solo per i reati previsti dal Codice dei beni
culturali, ma nemmeno per i reati di cui agli articoli 648 e 712 del Codice
Penale (rispettivamente: "Ricettazione" e "Acquisto di cose di
sospetta provenienza"). Ricettare antichità, acquistarle e rivenderle
anche se di sospetta provenienza (purché "in buona fede") diventa
una virtù.
Questa vergognosa proposta è stata presentata dai deputati Carlucci, Orsini,
Santulli, Licastro Scardino (tutti di Forza Italia) e, in un'altra variante
senza modifiche sostanziali, da altri due deputati dello stesso partito,
Gianfranco Conte e Marinello. Continua dunque, e fu facile profezia, l'opera
di smantellamento della tutela e del Codice Urbani approvato pochi mesi fa. La
legge-delega sull'ambiente fa a pezzetti l'art. 181 del Codice, regalando
sanatorie indiscriminate a chiunque abbia deturpato il paesaggio in aree
vincolate.
Il nuovo emendamento sui beni archeologici ha una portata ancor più vasta:
non si tratta infatti di una sanatoria di situazioni pregresse (o che possono
passare per tali), bensì di una "licenza di uccidere" il patrimonio
archeologico ora e sempre, senza alcun limite e alcun discrimine se non la
dichiarazione che tombaroli e ricettatori operano "in buona fede". E
come negarlo, se i loro complici siedono in Parlamento?
Ma all'impudicizia non c'è fine. L'on. Conte ha dichiarato alla Camera (2
novembre) che la sua proposta ha il nobile fine di favorire "l'emersione
dei beni archeologici in mano privata". Non dunque di legittimare
traffici illeciti e ricettazione si tratta, bensì di far "emergere"
gli oggetti di scavo: "emergere", cioè sommergere senza speranza
nelle mani di chi li ha illecitamente scavati, trafficati, acquistati e può
ormai impunemente continuare a farlo.
Nella discussione alla V Commissione, un'opposizione tanto flebile da
somigliare a un applauso è venuta dall'on. Maurandi (Ds), a cui la proposta
non piace perché "non raggiungerebbe l'obiettivo che il presentatore si
prefigge"; mentre l'on. Boccia (Margherita) ha parlato di "un vero e
proprio colpo di spugna", e il sottosegretario all'Economia Vegas ha
usato un linguaggio non meno duro ("una sanatoria per i tombaroli").
Ma entrambe le definizioni sono molto al di sotto della realtà: questa norma
intende essere (e sarà, se approvata) un invito a un generalizzato
do-it-yourself dello scavo archeologico, gratificato dall'assoluta certezza
non solo di non compiere alcun reato, ma anzi di acquistare la proprietà dei
rinvenimenti, e di poterli liberamente commerciare previo pagamento di un
modestissimo obolo allo Stato.
In tal modo, il principio plurisecolare che ha regolato la tutela in Italia -
la proprietà statale dei reperti archeologici comunque rinvenuti - viene
cancellato con un blitz brutale. Si apre su tutto il territorio nazionale una
gigantesca caccia al tesoro, si beffeggiano i Carabinieri del benemerito
Nucleo per la tutela del patrimonio artistico, impegnatissimi nel recupero dei
beni archeologici trafugati (resteranno ora senza lavoro?), si vanificano
tutte le azioni in corso (anche della magistratura) per il recupero del
patrimonio archeologico illegalmente acquisito da collezioni e musei
stranieri.
Questa norma non solo viola la Costituzione, ma la offende. Essa rivela che
cosa è il "Codice Urbani" per una parte almeno della maggioranza di
governo che lo ha approvato: uno specchietto per le allodole, che ha
consentito di concentrare il fuoco sul ministro Urbani al momento della
discussione, diffondendo tuttavia la falsa impressione che con l'approvazione
del Codice "i giochi sono fatti".
E' vero il contrario: per una qualche lobby il Codice è già in corso di
smantellamento sul fronte dell'ambiente e dei beni archeologici. Il resto
fatalmente arriverà, se mancheranno reazioni adeguate nel Parlamento e nel
Paese, e il Codice sarà presto carta straccia. A poco serviranno i ponderosi
commentari che stanno già arrivando in libreria.
Questa, è bene sottolinearlo, non è una battaglia né di destra né di
sinistra, è una battaglia di civiltà. Le tiepide proteste delle opposizioni
contro una norma tanto spudorata non sono meno preoccupanti della norma
stessa. Perché il partito trasversale dei nemici della tutela venga
sconfitto, occorre un'alleanza delle buone volontà, degli onesti, di coloro
(e ce ne sono in ogni parte politica) a cui ripugna la connivenza con
ricettatori e trafficanti. Ma occorre anche informazione e consapevolezza dei
cittadini.
Faremo in tempo ad arrestare questo cinico, irresponsabile invito allo scempio
del nostro patrimonio archeologico?
5 novembre
L'America
latina, Lula e il "cambio" |
di
Salvatore Cannavò |
La
spinta al cambiamento che ha caratterizzato l'America latina degli ultimi
anni sembra confermarsi nelle ultime scadenze elettorali. La vittoria
della sinistra in Uruguay rappresenta solo l'ennesimo tassello di un
avanzamento complessivo delle idee progressiste e antiliberiste, come
dimostra anche il suggello apposto sul successo di Tabaré Vasquez dalla
vittoria del referendum contro la privatizzazione dell'acqua: un'ulteriore
prova della volontà di farla finita con il dominio del "pensiero
unico" che tanti disastri ha provocato in tutto il Sudamerica. Per
l'Uruguay si tratta di una svolta storica, avvenuta dopo 170 anni ma
soprattutto di un possibile riscatto dopo gli anni di piombo della
dittatura militare. Il successo del Frente Amplio, però, acquista
risonanza e risalto maggiori proprio perché inscritto in una dinamica
regionale importante. Nello stesso giorno in cui Tabaré Vasquez
raccoglieva la maggioranza assoluta dei voti in Uruguay, Chavez
riconfermava la forza di un insediamento e di un progetto politico per il
Venezuela vincendo in 20 dei 23 governatorati in cui si è votato
domenica. Nel suo piccolo, dal punto di vista della moderazione politica
non certo dell'importanza del paese, anche il centrosinistra cileno ha
potuto vantare una vittoria nelle elezioni amministrative che si sono
svolte nello stesso giorno. E poi c'è l'avanzata del Pt, per quanto
contraddittoria e contraddetta dai risultati di San Paolo e Porto Alegre,
che sta lì a dimostrare ancora la vitalità della situazione brasiliana e
la quantità di aspettative riposte nell'esperimento lulista. Se poi
consideriamo che questi risultati contingenti hanno alle spalle vicende
come quella argentina, quella boliviana o il caso dell'Ecuador - purtroppo
"rinnegato" dal presidente-colonnello Gutierrez - il quadro
complessivo del sub-continente appare piuttosto chiaro: decenni di
neoliberismo, e di dominazione imperialista statunitense, hanno talmente
compresso le condizioni di vita che la reazione popolare oggi appare
inarrestabile e indisponibile a sopportare ancora. "Ya basta",
è il felice slogan zapatista che sembra riassumere questo stato d'animo. |
Il
sogno e l'incubo americano di
Piero Sansonetti L'
America ha scelto Bush. Non solo l'uomo, ma le sue idee. Essenzialmente
l'America ha scelto l'idea imperiale di Bush: quella che assegna agli
Stati Uniti il compito di governare il mondo, di piegarlo alle proprie
abitudini, ai propri interessi, alla propria cultura, e soprattutto al
proprio mercato. L'idea che vede nella guerra lo strumento principale di
questa politica. La guerra come mezzo per dare ordine agli Stati, ai
popoli, alle gerarchie degli interessi, a una ragionevole distribuzione
delle risorse. L'America ha scelto l'idea bushista secondo la quale è
bene che le risorse siano concentrate nei paesi ricchi, perchè i paesi
ricchi sono il motore dello sviluppo, e lo sviluppo dei paesi ricchi è la
salvezza per tutti. Le elezioni di ieri hanno tre vincitori e uno
sconfitto: ha vinto il liberismo, ha vinto il mercato, ha vinto Bush. In
quest'ordine. E ha perso John Kerry. Se non vogliamo trovarci a vagare
senza meta e senza bussola nella notte della politica, dovremo ragionare
bene, riflettere, discutere, sia sul perché della vittoria di Bush sia
sui motivi per i quali ha perso Kerry. Bush non è quel
fesso che molti di noi hanno pensato che fosse in tutti questi anni. E' un
uomo di modesta cultura, è un personaggio abbastanza rozzo, ma ha
dimostrato delle grandi capacità politiche, molto intuito e anche un
disegno. Semplicissimo, quasi infantile, ma un disegno che è stato capito
da milioni di americani, poveri e ricchi, e che li ha mobilitati e fatti
diventare protagonisti del successo della nuova destra. Il disegno di Bush
può essere un po' approssimativamente riassunto in tre punti. Il primo -
molto politico - è la riunificazione della destra americana. Dopo Reagan
e dopo la caduta del muro di Berlino, la destra americana si era sempre
divisa. Nessuno aveva avuto la forza di metterla insieme. Ci aveva provato
- battendosi contro Clinton - alla fine degli anni '90, Newt Gingrich,
però non ci era riuscito ed era stato sconfitto. Bush ci è riuscito: ha
messo insieme l'anima superliberista dei neo-con, l'anima bigotta e
autoritaria dei religiosi (cioè del fondamentalismo ma anche del
conservatorismo cristiano) e l'anima liberal dei Giuliani e dei McCain. E
ha trovato il punto di equilibrio in se stesso. In questo modo Bush si è
guadagnato una leadership personale che nei primi anni della presidenza
non aveva avuto. Oggi il padrone è lui, non sono le anime rissose del
partito. |
Il
secondo punto del disegno di Bush è quellio ideale. Bush ha lavorato
molto bene sull'immaginario. Cosa ha promesso al suo popolo? Due cose
orribili: la guerra e maggiori disparità sociali (meno tasse, meno stato,
più iniziativa privata, più impresa), ma ha saputo proporle dentro un
progetto di dominio del popolo americano sul mondo che è un'idea
tutt'altro che trascurabile e irrealista. E' il sogno, il sogno americano.
L'idea di sicurezza che Bush ha proposto (guerra senza quartiere ai
nemici) che a noi sembra dissennata e immorale, contiene invece - dobbiamo
capirlo - una carica ideale che non può essere solo maledetta, va
combattuta. Sennò vince. Il terzo punto del
disegno di Bush è quello economico. Mano libera al capitalismo. Senza
accettare i compromessi, le legiferazioni, i burocratismi del partito
democratico. E quindi una spartizione dei compiti: alle corporation il
potere di organizzare il mondo, alla politica il potere di raccogliere e
organizzare il consenso. John Kerry non ha
saputo opporsi in nessun modo a questa ogettiva forza della nuova destra
americana. Ha presentato agli elettori un semplice programma di
moderazione del bushismo, privo di indicazioni per il futuro, privo di
alternativa, e dove non c'era neppure l'ombra di un progetto, di un sogno,
di una speranza di riscatto. Ha detto: un po' meno guerra, un po' meno
disuguaglianze, un po' meno strapotere delle corporation. Perchè avrebbe
dovuto vincere? La ricetta offerta da Kerry agli americani è stata la
brutta copia del programma di Clinton del '92. Clinton si presentò con
una proposta. Disse: "se lasciate alla destra il governo dei mercati
avremo un capitalismo selvaggio che travolgerà i deboli; io invece posso
garantirvi un governo del liberismo che darà lunga vita al capitalismo ma
ne smusserà la ferocia e la sua carica disegualitaria". Gli
americani gli credettero, lui però non riuscì a mantenere la promessa.
Le diseguaglianze crebbero, il divario tra ricchi e poveri si allargò. Il
clintonismo - e tutte le sue estensioni europee, dalla Gran Bretagna
all'Italia - fu travolto dalla globalizzazione e seppellito a Seattle,
alla fine del '99. La sua brutta copia kerrista non è durata nemmeno un
mattino. Dobbiamo ripartire da
qui, credo. Da questa certezza: o la sinistra, innanzitutto in Europa, è
capace di costruire un progetto di società, realistico, serio, ma che sia
davvero alternativo a quello bushista (liberista, occidentalista,
sviluppista), e cioè riesce a selezionare e a rendere concreto un sistema
di valori diverso da quello che ha vinto ieri in America, oppure è
destinata alla sconfitta. Da almeno 15 anni la sinistra, nel mondo, non
riesce a proporre un progetto di questa altezza. Ha perso il suo
"universalismo". Dobbiamo ragionare tutti su questo: devono
pensarci i riformisti, che ieri hanno visto annegare definitivamente la
loro speranza americana e la vecchia "terza via" clintoniana, e
ora si trovano a un bivio: o piegano al centro o vanno a sinistra.
Dobbiamo pensarci anche noi, perchè non possiamo sperare di trarre
profitto dalle sconfitte degli altri: siamo chiamati a dare tutto quello
che abbiamo, a metterci in gioco, a prendere la guida di un cammino di
ricostruzione del pensiero e della politica della sinistra. A prenderne la
guida. |
Cuori
E'andata
oltre le migliori aspettative, possiamo continuare a essere antiamericani col
cuore in pace. (jena)
3 novembre
Il
governatore e altre 12 persone a febbraio davanti ai giudici
E' l'inchiesta sulle "talpe" che passavano
informazioni ai boss
Sicilia,
Cuffaro rinviato a giudizio
"Ha favorito Cosa nostra"
Figura chiave del
dibattimento l'imprenditore di Bagheria
Mario Aiello, in carcere dallo scorso novembre
|
Salvatore
Cuffaro |
PALERMO - Il presidente della Regione
Sicilia, Salvatore Cuffaro, è stato rinviato a giudizio dal gup Bruno Fasciana.
Il governatore, nell'ambito dell'inchiesta sulle talpe alla Dda, è accusato di
aver favorito Cosa nostra. Il gup ha disposto invece il non luogo a procedere
per il reato di violazione di segreto d'ufficio. La procura aveva chiesto il
processo lo scorso primo settembre. Insieme a Cuffaro sono stati rinviati a
giudizio tutti gli altri 12 imputati dell'inchiesta sulle talpe alla Dda. Il
processo si aprirà il primo febbraio davanti ai giudici del tribunale di
Palermo.
L'inchiesta. L'indagine ''Talpe alla Dda'' di Palermo riguarda la
presunta realizzazione di una rete occulta di informatori che, secondo l'accusa,
sarebbe stata allestita dall'imprenditore sanitario di Bagheria Michele Aiello
per avere notizie sulle inchieste della Direzione distrettuale antimafia di
Palermo.
Ora, dopo quasi due anni, l'inchiesta finirà in un processo, il cui perno
saranno i tre imputati ancora in stato di detenzione, e cioè l'imprenditore
Michele Aiello e i marescialli Giorgio Riolo e Giuseppe Ciuro. Il primo accusato
di associazione mafiosa e gli altri due di concorso esterno in associazione
mafiosa. Questi gli altri rinvii a giudizio: il medico Aldo Carcione; Roberto
Rotondo, ex consigliere comunale di Bagheria; il funzionario di polizia Giacomo
Venezia; l'ex funzionario della Asl Lorenzo Iannì; Salvatore Prestigiacomo;
Domenico Oliveri; Angelo Calaciura; Michele Giambruno; Adriana La Barbera,
dipendente Asl e l'ex segretaria del pm Domenico Gozzo, Antonella Buttitta.
Rinvio a giudizio infine per le società Atm e Villa Santa Teresa.
Le accuse a Cuffaro. Le accuse rivolte al governatore della Sicilia
risalgono al giugno dello scorso anno, quando il governatore ricevette un avviso
di garanzia per "concorso in associazione mafiosa". Le ipotesi di
reato furono poi modificate in "favoreggiamento di Cosa nostra" e
"rivelazione di segreti d'ufficio".
Sono due le inchieste che lo hanno coinvolto: la prima denominata "Ghiaccio
2", e la seconda "Talpe alla Dda". In entrambi i casi l'indagine
riguarda politici, professionisti, imprenditori e rappresentanti delle forze
dell'ordine. Ci sono, fra gli altri, il medico Salvatore Aragona, l'ex assessore
del Comune di Palermo Mimmo Miceli, il deputato regionale dell'Udc Antonio
Borzacchelli (ex carabiniere). Tutti sono finiti sotto processo, dopo essere
stati arrestati.
Come detto, gli accertamenti dei carabineri del Nucleo operativo hanno
concentrato i sospetti su Cuffaro a proposito di fughe di notizie riservate, in
particolare su Aiello, uomo considerato vicino a Bernardo Provenzano, arrestato
per associazione mafiosa il 5 novembre 2003. Un ruolo che, sostengono gli
inquirenti, Cuffaro avrebbe condiviso con Borzacchelli, arrestato a novembre per
concussione e ancora agli arresti domiciliari.
Ma ai contatti con il manager non è stata collegata l'accusa di mafia, che è
stata invece stralciata dai magistrati in quanto non ci sarebbero contatti
diretti fra il governatore ed esponenti mafiosi come il boss Giuseppe Guttadauro.
Nel salotto di quest'ultimo, durante la campagna elettorale delle elezioni
regionali del 2001, sono state registrate diverse ore di conversazione con
mafiosi, politici e medici. Nel corso di questi dialoghi è stato fatto più
volte riferimento al nome di Cuffaro.
Proprio queste intercettazioni, in cui si parla di estorsioni, omicidi, intrecci
fra mafia e politica, hanno portato all'arresto di numerose persone, fra cui
l'ex assessore Miceli, attualmente sotto processo per concorso in associazione
mafiosa.
Botta e risposta tra pm e avvocato. Secondo il pm Nino Di Matteo,
presente in aula, "il non luogo a procedere ordinato dal gup per il reato
di violazione di segreto d'ufficio non alleggerisce il favoreggiamento a Cosa
nostra", di cui è accusato Cuffaro. "Il gup - afferma Di Matteo - ha
ritenuto infatti che la violazione di segreto d'ufficio fosse assorbita nel
reato di favoreggiamento a Cosa nostra".
Di parere opposto l'avvocato Claudio Gallina Montana, che sottolinea come
"il giudice ha dimezzato i reati contestati al presidente e in dibattimento
dimostreremo l'estraneità relativa alle altre contestazioni".
17 NOVEMBRE
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Particolari
Se durante una guerra che ha provocato almeno centomila
morti un soldato americano viene filmato mentre uccide un iracheno ferito
sparandogli alla testa, questo soldato finisce sotto processo perché avrebbe
violato i diritti umani. E' da questi particolari che si riconosce la
democrazia. (jena)
10 novembre
Costruire ponti, non muri di
Lisa Clark A luglio siamo stati a Baghdad per onorare questo impegno, per conoscere più da vicino le realtà della società civile che lavorano per la costruzione di reti, per un progetto di società futura. La vivacità e la molteplicità di gruppi ed associazioni che abbiamo trovati ha sorpreso anche quelli tra di noi che meglio conoscevano il Paese. Ismail Daud ci raccontava come avesse preparato, insieme ad altre associazioni irachene, un dossier circostanziato di denuncia di violazioni dei diritti umani da parte delle forze di occupazione. Molto prima dello scandalo scoppiato con la pubblicazione delle foto-ricordo scattate dai torturatori di Abu Ghraib, Ismail e gli altri avevano già raccolto testimonianze sufficienti per una denuncia delle incarcerazioni illegittime e delle torture. Le loro denunce, presentate in una affollata conferenza stampa a Baghdad, non arrivarono sui principali giornali occidentali. Questa settimana Ismail Daud sarà in Italia, insieme ai rappresentanti di altre organizzazioni irachene della società civile che resiste, che costruisce. E di cui non si parla. Sono persone e gruppi che provengono da percorsi diversi ed hanno orientamenti ed opinioni diversi tra di loro, ma sono tutti accomunati dal desiderio di lavorare insieme, costruendo reti di partecipazione civile, per offrire una svolta positiva alla tragedia del loro paese. Sono uomini e donne che non si rassegnano a lasciare la parola solo alle armi. All'incontro che si terrà a Roma, al Teatro Piccolo Eliseo, giovedì 11 novembre dalle 10 alle 17, saranno presenti anche altri iracheni tra cui un portavoce del neonato sindacato dei lavoratori petroliferi di Bassora, quelli che scesero in sciopero per esigere l'assunzione di manodopera locale, facendo fare marcia indietro alla Halliburton che voleva importare operai dall'estero lasciando disoccupati gli iracheni. Ed esponenti di organizzazioni umanitarie sciite e sunnite che insieme hanno portato aiuti a Falluja e Najaf sotto assedio, quando neanche la Croce Rossa internazionale riusciva a raggiungere le città. Il giorno successivo, venerdì 12, incontreranno alcuni Premi Nobel per la Pace all'Auditorium Parco della Musica alle 10.30. E' il primo passo di un progetto, Costruire Ponti di Pace, promosso da un ampio gruppo di realtà italiane pacifiste, insieme alla Provincia e al Comune di Roma, che intende nei prossimi mesi invitare nelle diverse regioni italiane delegazioni di donne, di sindacalisti, di attivisti per i diritti umani e di organizzazioni umanitarie irachene. Per costruire ponti di pace. In queste ore le forze della Coalizione stanno portando "l'attacco finale" a Falluja. Ad aprile furono 600 gli abitanti di Falluja uccisi nell'assalto alla città. Oggi non ci sono più giornalisti indipendenti per raccontarci cosa succede. Sappiamo di un ospedale occupato, di un altro bombardato. E ci ricordiamo l'accorato appello all'Onu diffuso pochi giorni fa dal Centro per i Diritti Umani e la Democrazia di Falluja, in cui si chiedeva a Kofi Annan di adoperarsi per evitare un altro massacro. Abbiamo sperato che quell'appello fosse ascoltato. Invece sappiamo tutti come l'invito rivolto da Kofi Annan ai governi statunitense, britannico ed iracheno sia rimasto inascoltato. E la tragedia annunciata si compie. Anche un esponente del Centro per i Diritti Umani di Falluja sarà a Roma in questi giorni. A luglio a Baghdad, incontrammo anche le rappresentanti di una rete di più di 150 associazioni di donne. Abbiamo ascoltato i racconti del loro impegno sociale. Quando il proconsole Bremer, prima di lasciare Baghdad, al fine di ingraziarsi i due partiti sciiti che partecipavano al Governing Council, aveva presentato un suo editto che avrebbe cancellato la legge di famiglia, introducendo un ordinamento più improntato alla legge islamica, la rete di donne - sunnite, sciite, laiche - si era mobilitata. Con manifestazioni, petizioni, sit-in, documenti esercitarono una tale pressione che Bremer fu obbligato a ritirare il suo ordine. Solo un esempio, per dirvi della speranza straordinaria che questa rete di donne è per gli iracheni e per noi tutti. Ma, purtroppo, Hana Edwar, una delle coordinatrici di questa rete, la Iraq Women's Network, non sarà con noi in questi giorni a Roma. Il primo ministro ad interim, Allawi, ha dichiarato lo stato di emergenza ed ha fatto chiudere l'aeroporto di Baghdad. Hana e Saba'a Fahan, dell'associazione delle donne di Diwaniya, sono rimaste bloccate a Baghdad. Di Iraq ormai parlano tutti. Ma nessuno ascolta le voci degli iracheni. In questo micidiale cerchio di violenza che alimenta violenza, non è vero che in Iraq ci siano solo gli occupanti e i tagliatori di teste, i torturatori e le autobomba. Vogliamo ascoltare alcune delle innumerevoli forme di resistenza e di costruzione che i venti e passa milioni di iracheni stanno mettendo in atto? Vogliamo ribadire con forza che anche alla società civile irachena sia data voce nella cosiddetta Conferenza di Pace che si sta organizzando tra poche settimane in Egitto?
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La
morte di Briand sconvolge la Francia
Il giovane attivista è stato
ucciso domenica da un treno che trasportava scorie nucleari dalla Francia alla
Germania. Solidarietà dal mondo ambientalista, ma si apre il dibattito sulla
disobbedienza civile e sul blocco dei convogli
A.M.M.
PARIGI
Il dramma di domenica pomeriggio ha
sconvolto il mondo degli oppositori al nucleare: un giovane di 23 anni,
Sébastien Briand, è morto a Avrincourt, all'est della Mosella, dopo essere stato
travolto da un treno che trasportava delle scorie nucleari vetrificate, che
erano state trattate in Francia a La Hague, e stavano rientrando in Germania. Il
giovane Sébastien si era incatenato ai binari dove doveva passare il treno, un
convoglio lungo 400 metri, composto da 12 vagoni chiusi ermeticamente, dal peso
di duemila tonnellate. Il conduttore del treno, che ha visto all'ultimo momento
il giovane - perché si era incatenato subito dopo una curva dei binari - ha
tentato invano di frenare. Ma il giovane, che ha avuto una gamba sezionata, è
morto qualche istante più tardi. Le associazioni anti-nucleari sono
nell'imbarazzo, perché il dramma rischia di rimettere in causa un metodo di
lotta: la disobbedienza civile. Il giovane era assieme a sette altri militanti,
sembra un gruppo spontaneo, senza grandi legami con le organizzazioni che fanno
tradizionalmente questo tipo di lotta. «Siamo molto sorpresi - dicono al
collettivo Bure-Stop, nel
dipartimento della Meuse, abituato ad opporsi a questi convogli - non conosciamo
questo gruppo. In genere, la gente che fa questo tipo di azioni è addestrata, a
volte persino in Germania. Prendono le precauzioni necessarie. Ogni azione è
molto precisa, calcolata al minuto, ciascuno sa esattamente quale ruolo deve
avere e si impegna a rispettare le regole».
Non è la prima volta che un militante anti-nucleare si
incatena ai binari per un'azione simbolica, volta a far fermare, o almeno a
ritardare, il treno che trasporta scorie nucleari. Ma di solito questo tipo di
azione è fatto lungo un rettilineo, la Sncf (le ferrovie francesi) viene
avvertita alcune centinaia di metri prima, da dei «ricognitori» che fanno
ricorso a dei fumogeni. Invece, nel caso di Avrincourt, non è stato fatto nulla
di tutto questo.
Secondo i Verdi e le organizzazione anti-nucleari, questo
dramma prova una volta di più che non esiste la sicurezza assoluta nel trasporto
nucleare, che resta estremamente pericoloso come essi denunciano.
Un concorso di circostanze ha portato al dramma.
L'inesperienza del gruppo di militanti, prima di tutto, ma anche il fatto che
l'elicottero, che segue il tragitto di questo tipo di treni, in quel preciso
momento non era al lavoro, perché era andato a fare rifornimento di carburante.
I treni del trasporto nucleare sono anche preceduti, due-tre minuti prima, da un
gendarme in moto. Ma sembra che il gruppo di Sébastien si sia nascosto al
passaggio della moto, per poi incatenerai ai binari. Gli altri militanti sono
riusciti a liberarsi prima dell'arrivo del treno, invece Sébastien è rimasto
intrappolato. Tra l'altro, la «tecnica» per incatenarsi, importata dalla
Germania, suggerisce di scavare sotto il binario, per infilarvi un braccio o una
gamba ed evitare il peggio. Neppure questo era stato fatto dal gruppo
improvvisato di Sébastien.
Per i Verdi dell'associazione Cacendr (collettivo di
azione contro il sotterramento delle scorie nucleari), «in qualsiasi momento, un
treno può sbattere contro qualcosa senza che né la Sncf né la sicurezza civile
possano farci niente e questo è di una gravità estrema, visto che si tratta di
scorie nucleari». Secondo il deputato verde Noël Mamère, il dramma di Sébastien
è «una vera catastrofe». Anche perché «gli avversari degli ecologisti
cercheranno di sfruttare questa tragedia». Ma nessuno intende mettere in causa
il diritto alla disobbedienza civile. «Fa parte della nostra tradizione politica
- ha spiegato l'ex ministro verde Dominique Voynet - vi abbiamo fatto ricorso,
dopo altre azioni, quando ci sembrava essenziale allertare l'opinione pubblica e
agire per impedire l'irreparabile: quando il dibattito democratico è inesistente
e gli altri modi d'azione hanno dimostrato la loro impotenza». Secondo Dominique
Voynet, l'azione disperata di Sébastien è la conseguenza del mancato dibattito
democratico sul trasporto di scorie nucleari. Il trasporto tra il sito di
riciclaggio de La Hague, sulla Manica, e la Germania è ripreso nel 2001, dopo
due anni di sospensione a causa di una contaminazione di vagoni, in seguito a un
accordo concluso allora tra la Francia (governo Jospin) e la Germania. Berlino
aveva accettato di riprendersi le scorie, perché Jospin non voleva che La Hague
diventasse la pattumiera nucleare dei tedeschi. Ogni trasporto - il settimo dal
`96 tra Francia e Germania di residui vetrificati, mentre treni con scorie
viaggiano sulla rete francese a un ritmo quasi mensile - è accompagnato da forti
manifestazioni. La rete Sortir du nucléaire ha preso l'abitudine di
rivelare gli orari del passaggio. Questo per «impedire che questo tipo di
trasporto si banalizzi» dicono, per denunciare «l'assurdità di far girare le
scorie attraverso l'Europa, per protestare contro la mancanza di informazioni».
Questo tipo di convogli, infatti, sono protetti dal «segreto militare».
Costa
d'Avorio e d'intrighi
Il conflitto ivoriano presenta
tutti gli ingredienti della «modernità»: la politica come violenza, il
tribalismo, il neocolonialismo (francese in questo caso), l'Islam, lo scontro
Usa-Francia in Africa, l'ipocrisia dell'Onu, fino al petrolio
GIAMPAOLO CALCHI NOVATI
Nella tormentata vicenda della Costa
d'Avorio fanno bella mostra di sé tutti gli ingredienti del malessere di cui
attualmente soffre il mondo: la violenza come modo d'essere della politica, il
tribalismo, l'Islam, le interferenze delle grandi potenze, la rivalità
Francia-Usa e sullo sfondo il petrolio. Da una parte la «povera Africa»,
dall'altra il «neocolonialismo». Ma ogni spiegazione monocausale non renderebbe
giustizia alla complessità di una crisi in cui comunque i fattori interni e i
fattori esterni interagiscono sorreggendosi a vicenda. Non ci sono solo le colpe
dei gruppi dirigenti africani dopo una decolonizzazione che, nel caso della
Costa d'Avorio, sembrava riuscita e che alla prima occasione ha mostrato tutti i
limiti di assetti posticci, affidati alla buona volontà di un padre-padrone,
privi di una istituzionalizzazione tale da creare pratiche condivise in vista di
una successione ordinata. E non ci sono solo le malversazioni dell'ex-potenza
coloniale, che si comporta come se la presunta «vetrina» di un passato coloniale
e di un modus vivendi
postcoloniale l'autorizzi a fare e disfare i governi, le coalizioni e gli stessi
blocchi sociali usando la forza militare con una disinvoltura pari solamente
all'ipocrisia.
Il ruolo dell'Onu
C'è anche una premessa d'ordine generale che trascende la
Costa d'Avorio e l'Africa e che riguarda piuttosto l'Onu e la cosiddetta
comunità internazionale.
A furia di coprire la politica dei «grandi» nelle aree
della periferia turbolenta e inquieta con finte «operazioni di pace» non c'è più
un confine definito fra aggressione, manipolazione e mediazione o
interposizione. Una volta le forze di pace dell'Onu dovevano rispondere a tre
requisiti non eludibili: essere accettate dalle due parti in conflitto,
osservare una rigorosa neutralità, disporre di un armamento leggero per la sola
difesa degli operatori. In Costa d'Avorio la Francia prende posizione, non si sa
bene a favore di chi ma in modo tutt'altro che lieve, ha usato l'aviazione per
bombardare gli aerei dello Stato che dovrebbe proteggere e secondo molte fonti
ha fatto fuoco contro i dimostranti con uno dei tanti pretesti a disposizione di
qualsiasi forza d'occupazione. Nel momento dell'emergenza, ad abundantiam,
Parigi invia la Legione straniera, che dovrebbe rispondere solo a comandi
francesi, aggravando la confusione fra caschi blu di paesi terzi, truppe
francesi del corpo internazionale (se esiste ancora) e esercito di una potenza
terza che interviene in via unilaterale in un paese teoricamente sovrano.
E' inutile fregiarsi come scudo legale di questa o quella
risoluzione dell'Onu con mandato incerto. In assenza di una struttura di comando
imparziale, che abbia come fine la pacificazione e non la conservazione di
questa o quella posizione di potere, nessuna operazione può dirsi legittima e
legittimata.
A ciascuno la sua Costa d'Avorio o il suo Iraq? Se la
Francia perde ogni parvenza di obiettività nell'ambito del suo «cortile» (il
famoso pré carré), Chirac non potrà dare lezioni a nessuno in altri
scacchieri altrettanto delicati. Nel frattempo, l'Onu è coinvolta in una
politica che aumenta il discredito che ben identificabili potenze hanno tutto
l'interesse a versare a piene mani sull'ultimo baluardo di una vita
internazionale sottratta alla potenza nuda e cruda. La stessa situazione, con
poche varianti, si produsse anni fa in Sierra Leone, quando la Gran Bretagna
prima rifiutò le truppe al corpo dell'Onu e subito dopo, con i caschi blu allo
sbando davanti all'offensiva dei «ribelli», effettuò un intervento in proprio
imponendo la sua pax colonialis.
Come si vede, non si tratta solo di tecnicismi buoni per le
disquisizioni degli internazionalisti. E' in giuoco la possibilità stessa di una
tutela della sicurezza e dei diritti dei popoli che non sia condizionata e
subordinata ai secondi fini delle potenze di riferimento. E le potenze in Africa
sono quasi sempre la Francia e gli Stati uniti, spesso in competizione fra loro,
senza esclusione di colpi, fino all'ultimo africano, nell'indifferenza o nella
complicità delle élites locali, deboli e preoccupate solo di
salvaguardare se stesse.
E' dalla firma degli accordi di Marcoussis nel gennaio 2003
che la Francia è nel mirino di Laurent Gbagbo. Tutte le sistemazioni di questo
genere hanno i soliti punti deboli: il riconoscimento dei ribelli come un
soggetto politico a parte intera, il disarmo delle parti, l'abbandono delle
posizioni di forza eventualmente occupate. Anche in Costa d'Avorio, è stato
costituito un governo d'unità nazionale che si è riunito sia ad Abidjan, dove
risiede il presidente eletto (in elezioni contestate), sia a Bouaké, il feudo
delle forze che hanno organizzato il colpo di stato del settembre 2002. Ma
puntualmente l'iter si è inceppato.
La divisione fisica sul terreno fra i due eserciti e
rispettivi rappresentanti a livello politico, nonché fra due popolazioni con
caratteri etnici e religiosi diversi, i musulmani al nord e i cristiani al sud,
non facilita certo un compromesso.
Torti e ragioni
In astratto il presidente Gbagbo ha ragione di lamentarsi
perché con il tempo il profilo legale dei contendenti è andato smarrendosi. E'
assurdo che nel discorso politico dominante a livello mondiale si neghi il
diritto di resistenza a chi è sotto occupazione di una potenza esterna e si
avalli l'insorgenza di una forza o di una fazione che magari con argomenti
validissimi sta pur sempre agendo dentro un sistema politico con certe regole e
certe garanzie. D'altra parte, Gbagbo non può consentire alla formazione di un
processo di fusione fra le forze in campo e periodicamente antagonizzare i
ribelli o ex-ribelli vietando e reprimendo spietatamente ogni manifestazione
politica (è capitato nei mesi scorsi) o addirittura imbastendo raids
aerei oltre la «zona di fiducia» che separa nord e sud.
Invece che un incidente, l'attacco del 6 novembre contro la
guarnigione francese a Bouaké che ha tanto indignato l'Eliseo potrebbe essere
stato un avvertimento a scopo chiaramente provocatorio, forse pensando al
«nuovo» Bush.
Se non altro, un comportamento più rettilineo di Abidjan
costringerebbe la Francia ad essere un po' meno sfuggente, come sarebbe
auspicabile ora che nel meccanismo di pacificazione sono stati associati anche
altri paesi africani.
MA
UN BAMBINO E' UN CLANDESTINO?
Ogni notte barconi di disperati
arrivano dall'Africa su coste e isole spagnole. Molti muoiono. Ieri la
guardia costiera ha «raccolto» un neonato arrivato con altri 41 immigrati
intercettati dalla marina spagnola al largo di Puerto del Rosario, a
Fuertaventura nelle Isole Canarie
Amianto,
un killer inestinguibile
Nel 2025 l'asbesto avrà ucciso
in Italia tra le 20 e le 30 mila persone
Eternit, cioè eterno come i tumori
che provoca e continuerà a provocare. Gli ammalati e i parenti delle vittime del
mesotelioma hanno intrapreso un difficile battaglia, per sé e per tutti noi
esposti
MANUELA
CARTOSIO
Ha due nomi, entrambi derivati dal
greco. Amianto significa «incorruttibile», asbesto vuol dire «inestinguibile».
Di qui il neologismo eternit, passato dalla multinazionale svizzera che
all'inizio del Novecento brevettò la miscela di cemento e amianto all'ondulato
grigio che nel dopoguerra scalzò i coppi rossi dai tetti. Le virtù vantate dai
nomi si sono rovesciate in maledizione. L'amianto, messo al bando in Italia nel
1992, continuerà a presentarci il conto per un pezzo. Il picco dell'epidemia di
tumori causati dal minerale usato come isolante universale - dalle navi ai ferri
da stiro, dai tetti ai freni, dalle carrozze dei treni ai tessuti - è atteso
attorno al 2025. A quella data si stima che l'amianto avrà fatto solo nel nostro
paese tra i 20 e i 30 mila morti. La bonifica e la demolizione dei siti
produttivi, la rimozione dagli edifici dei rivestimenti e dei tubi in
cemento-amianto, la distruzione o la messa in sicurezza dei manufatti
all'asbesto procedono a rilento. «In giro per l'Italia ci sono milioni di metri
cubi di roba varia con dentro l'amianto», dice il senatore diessino Antonio
Pizzinato, tra i promotori della conferenza nazionale non governativa
sull'amianto che si terrà questo fine settimana a Monfalcone (vedi box). Quanti
esattamente non si sa. La mappatura completa dell'amianto non è stata fatta. E'
solo uno dei tanti ritardi sulla tabella di marcia indicata dalla legge 257 del
1992. Non è stato fatto il registro nazionale degli esposti all'amianto e
qualche regione non ha fatto neppure quello dei mesoteliomi, il micidiale tumore
alla pleura che con il carcinoma polmonare e l'asbestosi si accanisce sui
lavoratori che hanno inalato le fibre d'amianto.
Tutto cominciò a Casale...
Il mesotelioma era un tumore rarissimo. Un caso
atteso su un milione di abitanti all'anno, secondo gli epidemiologi. Nel 2003
l'ospedale di Casale Monferrato, che ha un bacino d'utenza sotto i 100 mila
abitanti, ha diagnosticato 32 nuovi casi di mesotelioma. «E due terzi delle
persone colpite non lavoravano all'Eternit», precisa Bruno Pesce, coordinatore
dell'Associazione familiari vittime dell'amianto. L'Eternit di Casale, chiusa
nel 1986, ha un posto di rilievo nella storia italiana dell'amianto e della sua
messa al bando. Lì si è cominciato a contare i morti e lì si è celebrato il
primo processo contro l'asbesto. Finito con una condanna prescritta nel 2000
dalla Cassazione e un risarcimento di 7 miliardi di lire da spartire tra 1.700
parti lese. Una miseria, rispetto all'enormità del danno. Per evitare di pagare
risarcimenti più consistenti - ricorda Pesce - alla metà degli anni Ottanta l'Eternit
italiana si dichiarò autofallita, portò i libri in tribunale e chiuse gli
stabilimenti a Casale, Melilli e Bagnoli. La cava di Balangero, la più grande
d'Europa, l'Eternit la chiuse nel `90.
La multinazionale Eternit, però, continua a esistere. E i
casalesi vogliono portarla alla sbarra, sia in sede penale che in sede civile,
con quella che hanno battezzato «vertenzamianto». L'esposto da presentare alla
magistratura è già stato sottoscritto da oltre 1.400 cittadini, vittime dirette
o loro eredi. All'azione civile parteciperà anche il Comune di Casale: i costi
della bonifica incidono pesantemente sui suoi bilanci. In Brasile, uno dei
maggiori produttori di asbesto dopo Cina, Russia e Canada, l'Abrea -
l'associazione degli esposti all'amianto guidata dalla coraggiosa Fernanda
Giannasi - due mesi fa ha ottenuto un risarcimento di 160 milioni di dollari da
Eternit, Brasilit e Eterbras. E' una sentenza importantissima, commenta Bruno
Pesce, ma anche in quel caso bisognerà trovare il modo di risalire «agli
svizzeri», la famiglia Schmidheiny che, dopo aver fatto i miliardi con il
cemento-amianto, ha ceduto la rogna ad altre società investendo gli utili «nel
cioccolato e nelle banche». Pesce, fino a qualche anno fa segretario della Cgil,
da quando è in pensione lavora a tempo pieno «contro» l'amianto. Il suo raggio
d'azione spazia dal Brasile a Tiggiano, un piccolo paese del Salento dove,
quando l'intervistiamo, è appena andato per affrontare un altro problema: tanti
emigranti si sono beccati l'amianto lavorando in Germania, in Svizzera, in
Belgio e tornati in Italia si ritrovano figli di nessuno.
C'è un particolare agghiacciante nel rapporto tra Casale e
l'Eternit. Per anni, quando già si sapeva che l'amianto era una bomba a
orologeria, l'azienda si è liberata del «polverino» - gli scarti di lavorazione
- regalandolo ai dipendenti e ai casalesi. E' tutto finito nelle stradine, nelle
soffitte, nelle cantine. E c'è ancora. Sarà per questo «regalo» che a Casale
muore di mesotelioma anche chi non ha lavorato all'Eternit?
... e proseguì a Monfalcone
A Monfalcone la polvere d'amianto l'hanno respirata i
lavoratori di Fincantieri. Nella piazzetta di Panzano, di fronte all'ingresso
dei cantieri, un monumento ricorda le vittime. L'epigrafe di Massimo Carlotto
dice tutto: «Costruirono le stelle del mare, li uccise la polvere, li tradì il
profitto». Dice tutto anche il titolo del libro del professor Claudio Bianchi,
Amianto, un secolo di sperimentazione sull'uomo. E' il medico che,
arrivato nei primi anni Settanta all'ospedale di Monfalcone, «scoprì» tra i
cantieristi l'altissima incidenza di mesoteliomi. E' andato in pensione avendone
censiti circa 600. La latenza, correlata all'intensità e alla durata
dell'esposizione, varia dai 15 ai 40 anni. In alcuni paesi europei la curva dei
mesoteliomi sembra essersi assestata, smentendo le funeste previsioni di
crescita fino a 2025. In Italia non è così, forse perché l'amianto è stato messo
al bando solo nel `92. E' stato sostituito dalla lana di vetro e di roccia o
dalle fibre di ceramica. Tra vent'anni scopriremo se e quanto fanno male. E sarà
difficile stabilire, prevede il professore, «fin dove arrivano i danni
dell'amianto e dove cominciano quelli delle materie con cui è stato
rimpiazzato».
Meglio non sapere?
Essendo il mesotelioma un tumore incurabile, è utile
monitorare tutti gli esposti all'amianto? «Morire per morire, preferisco non
saperlo in anticipo». Molti lavoratori la pensano così, dice Michele Michelino,
ex operaio della Breda Fucine di Sesto San Giovanni, fondatore di uno dei
comitati che hanno promosso «dal basso» la conferenza di Monfalcone. A una
trentina dei 350 ex lavoratori della Breda visitati dalla Clinica del lavoro di
Milano sono state riscontrate placche pleuriche che potrebbero evolvere in
tumori. Saranno ricontrollati ogni anno e le loro condizioni psicologiche non
sono delle migliori. «Non sappiamo se questi monitoraggi serviranno o no»,
ammette il professor Bianchi, «siamo costretti a continuare la sperimentazione».
In Svezia, che sull'amianto è avanti a noi almeno di vent'anni, si è visto che i
costi psicologici del monitoraggio sono effettivamente pesanti. D'altra parte,
però, alimentazione e fumo possono essere co-fattori del mesotelioma. Essere
allertati in anticipo, quindi, può essere utile.
Amiantizzati di tutto il mondo...
Nei tre quarti di mondo ancora amiantizzato il dilemma sui
monitoraggi non se lo pongono. Essendo notoria la sensibilità per la salute dei
lavoratori e per l'ambiente di Russia e Cina, vengono i brividi al pensiero che
proprio loro sono i maggiori produttori di amianto. Hanno strappato il primato
al Canada che, non sapendo più a chi vendere il suo amianto, ha rallentato la
produzione. Sulla situazione nell'ex patria del socialismo, fa testo quel che in
un congresso internazionale alcuni colleghi russi hanno detto al professor
Bianchi: «La sua relazione è molto interessante. Però da noi non succede. Il
nostro amianto è puro e non fa male». La strada per mettere al bando l'amianto -
se ne parlerà a Monfalcone e alla fine del mese a Tokyo - è tutta in salita.
L'unificazione dei processi
Qui da noi, la strada per ottenere giustizia per le vittime
è un percorso a ostacoli e dall'esito incerto. Di recente due processi, contro
la Fibronit di Bari e la Fincantieri di Riva Trigoso, sono finiti con una
condanna. Ma le assoluzioni - ultima quella della Breda ferroviaria di Pistoia -
non mancano e amareggiano malati e familiari delle vittime. La procura di
Gorizia, competente per Monfalcone, ha 600 fascicoli aperti per morti attribuite
all'amianto. Una cinquantina di vedove, come le madri Plaza de Mayo, hanno
manifestato tutti i giovedì perché siano celebrati i processi. Alla fine di
ottobre, il gup di Gorizia ha chiesto d'unificare nello stesso procedimento
tutti le cause Fincantieri. Alessandro Morena, autore di Polvere, pur
vedendo il rischio che i tempi si allunghino è convinto che l'unificazione
dell'inchiesta sia una novità positiva. Ottenuta grazie al protagonismo e alla
determinazione di donne consapevoli che i loro mariti «non sono morti per caso».
Il loro apporto ha rivitalizzato l'associazione esposti amianto, «alle riunioni
quando parlano loro non si sente volare una mosca».
Gualtiero Nardi, tubista per 35 anni alla Fincatieri di
Monfalcone, cominciò a star male quattro giorni dopo essere andato in pensione.
Un anno dopo, la diagnosi: mesotelioma. E' morto alla vigilia di Natale del `99.
«Difendere mio marito è l'unica cosa che mi tiene al mondo», dice Rita Nardi, «i
nostri uomini hanno sofferto come cani nell'indifferenza. Ora questa sofferenza
la portiamo noi». Fincantieri sarà anche «una potenza», ma deve rispondere del
perché ha tenuto gli operai a respirare amianto, sapendo da decenni che faceva
male. «Per un milione e mezzo al mese».