Archivio Gennaio 2004
30 gennaio
Il
telegiornale lo fa chi governa
Il ministro Giovanardi: «La
maggioranza ha diritto all'ultima parola, sono le regole della democrazia». I
giornalisti insorgono. L'opposizione chiede l'intervento dell'Authority contro
il controllo politico sull'informazione. Annunziata: «No all'esame del Dna
politico dei professionisti»
MICAELA BONGI
ROMA
Non vogliono mandare giù il «panino» del governo, quei servizi
confezionati in modo tale che la Casa berlusconiana abbia sempre l'ultima
parola. Ma non sanno, i giornalisti del Tg1, che queste sono le regole della
democrazia. E non lo sanno perché prima di essere giornalisti sono «militanti».
Parola del ministro dei rapporti con il parlamento, l'Udc Carlo Giovanardi.
All'indomani dell'assemblea a Saxa Rubra sul caso del vicedirettore Daniela
Tagliafico, che ha chiesto al direttore Clemente J. Mimun di essere sollevata
dal suo incarico, l'offensiva della destra sull'informazione Rai ha assunto una
portata inedita. Ecco infatti che ci pensa Giovanardi a dare una lezione di
libera informazione ai giornalisti del servizio pubblico. «Mi spiace molto -
premette - che il Tg1 di Mimun, il tg più amato e più seguito dagli italiani,
non piaccia ai militanti di quella redazione». Ma in democrazia funziona così:
«Le motivazioni del vicedirettore Tagliafico denunciano una totale ignoranza
delle regole parlamentari, culla della democrazia - spiega il ministro,
dall'alto delle sue competenze - dove il governo può intervenire quando ritiene
opportuno e l'ultima parola spetta sempre al gruppo parlamentare più forte.
Forse la Tagliafico si confonde con i processi, dove l'ultima parola spetta
sempre agli imputati, ma in democrazia sono gli elettori a indicare chi ha
diritto di parlare per ultimo».
Gli attacchi scomposti con cui, dopo la reazione preoccupata del margheritato
Renzo Lusetti, la destra sommerge i «militanti» del Tg1 la cui «offensiva è
destinata a finire su un binario morto» (parola del forzista Lainati) non
riescono a attutire il clamore delle affermazioni di Giovanardi, ma anzi lo
evidenziano. L'idea del ministro «è vera quanto incredibile - trasecola il
segretario del Prc Fausto Bertinotti - E' l'idea del Minculpop, secondo cui
l'autonomia dell'informazione non esiste e in realtà c'è un solo sovrano: il
governo». Il responsabile informazione della Quercia, Fabrizio Morri, parla di
un «salto di qualità nel rapporto tra governo e mezzi d'informazione»,
dimostrato dalle reazioni dello stesso Mimun, oltre che da quelle «dei suoi
sponsor politici». Per tutta risposta, il direttore del Tg1 liquida così la
vicenda che da giorni scalda la sua redazione: «Apprendo dal responsabile
dell'informazione Ds di mie reazioni sprezzanti a non so cosa. Visto che a
differenza di altri conosco anche il valore del silenzio oggi l'ho volentieri
praticato».
Epperò le affermazioni di Giovanardi provocano un coro di indignazione anche
nel mondo della stampa. L'Usigrai, il sindacato dei giornalisti Rai, denuncia la
«totale incomprensione delle più elementari norme del giornalismo e delle
ragioni dell'autonomia professionale»; la Fnsi parla di democrazia confusa «con
la dittatura, dove le regole dell'informazione vengono dettate dai potenti»; il
segretario nazionale dell'Ordine dei giornalisti, Vittorio Roidi, non vuole
credere né accettare che «in una nazione retta da una Costituzione liberale
che ha il suo pilastro nell'articolo 21, un ministro dica che spetta alla
maggioranza di governo decidere. E questa la libertà di stampa?», domanda. E
sulla sortita di Giovanardi interviene anche l'Associazione stampa parlamentare,
ricordando che «un conto sono le regole democratiche di funzionamento delle
assemblee parlamentari e un altro la libertà d'informazione e i doveri del
giornalista a essa collegati».
Il caso del Tg1 si somma a molti altri, più o meno recenti. Alla vigilia degli
Stati generali dell'informazione (oggi all'Auditorium di Roma), il segretario
della Quercia Piero Fassino si augura che da quella sede arrivi una risposta «all'emergenza
critica». Mentre i capigruppo dell'opposizione alla camera e al senato si
rivolgono con una lettera al presidente dell'Authority delle comunicazioni, Enzo
Cheli. Al garante chiedono di verificare «le cause dei sempre più evidenti e
numerosi comportamenti discriminatori della Rai» e di garantire «il rispetto
dei principi di pluralismo e della professionalità da parte del servizio
pubblico», segnalando come nell'imminenza di importanti scadenze elettorali si
moltiplichino le «iniziative volte a irrigidire il controllo politico indebito
sull'informazione Rai». Ultime, le vicende del Tg1 e della striscia informativa
dalla quale sono stati esclusi i giornalisti sgraditi al governo. E, prima
ancora, le ispezioni al Tg3, il caso Raiot,
quello dell'Elmo di Scipio... Sulla striscia prevista da febbraio su Raiuno è
tornata ieri la presidente Rai Lucia Annunziata per «chiarire definitivamente
che avendo io avanzato una proposta che ritenevo equilibrata, mi sono rifiutata
di prendere in esame ulteriori candidati per non dare luogo a uno shopping
di professionisti che non meritano di essere sottoposti all'esame del loro Dna
politico».
TELEKOM
Pera, Casini e Ponzio Pilato
I presidenti di camera e senato
intervengono (per la terza volta) sulla commissione Telekom Serbia. Ma al
centrosinistra, che da tre settimane ha abbandonato la bicamerale in polemica
per la gestione troppo accondiscendente nei confronti delle calunnie di Igor
Marini, rispondono lavandosi le mani: non possiamo «in alcun modo interferire»
fanno sapere. Una posizione che i parlamentari del centrosinistra giudicano «insufficiente».
29 gennaio
Il presidente di viale
Mazzini sui nomi sgraditi al governo per la fascia informativa dopo il
Tg1: "Ho pensato a pressioni esterne" |
Annunziata con Gasparri |
ROMA
- "Questa azienda sta diventando un mattatoio di professionalità.
Non ho più intenzione di occuparmi della fascia informativa delle 20.30
su Raiuno". Dopo la denuncia di ieri sulla bocciatura da parte del
Cda Rai di alcuni giornalisti sgraditi al governo, il presidente di viale
Mazzini Lucia Annunziata spiega quanto successo in Consiglio sulla
striscia che dovrebbe sostituire Il
Fatto di Enzo Biagi. Uno spazio di informazione che, nonostante le
polemiche, "si farà" secondo il direttore generale Flavio
Cattaneo. |
|
28
gennaio
Dai magistrati contabili
attacco alla discrezionalità del ministero dell'Economia: "Decisioni che
prevaricano il Parlamento"
Corte
dei Conti contro Tremonti
"Un caso unico in Occidente"
Abuso di una tantum e di consulenze
poca trasparanza, gravi sprechi di risorse
ROMA
- Troppa ''discrezionalità" sui conti pubblici è lasciata al ministro
dell'Economia, una discrezionalità che non ha pari negli altri paesi
dell'Occidente". Dopo l'attacco ieri del governatore di Bankitalia Antonio
Fazio, è oggi la Corte dei Conti a dare addosso al ministro Giulio Tremonti.
Nella relazione sullo stato della giurisdizione e dei controlli, la magistratura
contabile accusa il dicastero di Tremonti di prevaricare il Parlamento con
decreti legge e interventi una tantum, di ricorrere a troppe consulenze esterne
e di gestire i conti pubblici con poca trasparenza e con gravi sprechi di
risorse. I magistrati della Corte dei Conti, elencando una per una le falle
dell'amministrazione pubblica, auspicano il restauro di "una generale
cultura del controllo e della responsabilità". Vediamo, punto per punto,
le accuse della Corte dei Conti.
Troppa discrezionalità a Tremonti: il
caso del decreto 'taglia-spese' del 2002
"Alla fine del 2002 il decreto legge taglia-spese ha spostato l'asse
decisionale dal Parlamento al governo e alla Ragioneria, indebolendo la
resistenza della decisione parlamentare del bilancio e delle leggi di spesa e di
entrata, con l'attribuzione di una discrezionalità al ministro dell'Economia
che non ha riscontro nel panorama comparatistico delle democrazie
dell'Occidente".
Il caso della Finanziaria 2004
La sessione di bilancio 2004 "ha travolto la procedura parlamentare
condivisa, seguita dall'inizio degli Anni 90, affidando la manovra fuori dalla
disciplina della sessione di bilancio, ad un decreto legge".
Troppe misure una tantum, poca
trasparenza
"Poca trasparenza nel bilancio delle pubbliche amministrazioni, coperture
finanziarie 'inconsistenti' per la riforma del fisco e per quelle del settore
del Welfare, troppe operazioni una tantum, che hanno avuto la funzione di
tamponare momentaneamente la situazione del disavanzo rinviando però gli oneri
agli anni successivi". La magistratura contabile mette in rilievo ''seri
problemi di trasparenza'' dei conti pubblici, anche a causa degli interventi in
materia di patrimonio e di privatizzazioni immobiliari e a causa del ''crescente
ricorso ad operazioni poste al di fuori del bilancio e dei conti della P.A.''.
Tutto questo ''ha reso ancora piu' opaca la conoscibilita' ex ante e la
trasparenza del rendere conto ex post''.
Abusi consulenze private, sprechi risorse
Una nuova forma di spreco di denaro sta prendendo sempre più piede nella
pubblica amministrazione: l'abuso delle consulenze chieste ai privati, che nel
2003 sono cresciute di oltre il 50%. Nella mappa degli sprechi, i magistrati
contabili ribadiscono anche quest'anno che continua a essere "forte"
l'evasione fiscale, così anche le gestioni fuori bilancio, l'amministrazione
del demanio e del patrimonio, quella del personale, il recupero dei crediti, la
gestione della sanità. Ma il maggiore aumento quantitativo e percentuale delle
ipotesi di danno è quella connessa non all'uso, ma all'abuso delle consulenze
chieste dalle Amministrazioni a privati e degli incarichi ad essi attribuiti.
Tutto ciò "contribuisce di conseguenza d aggravare i costi di gestione, a
mortificare la professionalità di pubblici dipendenti e a far sorgere il
sospetto di favoritismi". Nel 2003 il costo delle consulenze "ha
raggiunto, specie negli enti pubblici economici e nelle Spa a partecipazione
pubblica, punte di incremento annuale di oltre il 50%, in termini numerici e di
costi".
Condoni
Le entrate straordinarie da condoni fiscali sembrerebbero avere "un ruolo
solo in parte aggiuntivo rispetto alle entrate ordinarie". La magistratura
contabile sottolinea anche che l'importo complessivamente atteso per l'esercizio
finanziario 2003 da condoni e sanatorie è di 12,6 miliardi di euro.
Il fatto che i condoni avrebbero un ruolo "solo in parte aggiuntivo"
sul complesso delle entrate è collegabile, secondo la Corte, "alla
fisiologica contrazione dei versamenti a titolo di accertamento e
controllo".
Insuccesso del governo nel sommerso
I programmi del governo per sconfiggere il sommerso "non sembrano aver
avuto molto successo". Se il programma messo in campo dalla precedente
legislatura "è rimasto sostanzialmente inattuato", gli strumenti
messi in campo dal nuovo governo hanno ottenuto risultati modesti". Secondo
la magistratura contabile, "il fenomeno del sommerso continua ad avere in
Italia dimensioni molto maggiori di quelle riscontrate negli altri Paesi dell'
Ue" e "secondo studi comparativi svolti in sede internazionale, la
quota sul Pil dell' economia sommersa sarebbe in Italia del 26,2%".
Restaurare cultura controllo
"Qualunque sia il settore, pubblico o privato, in cui una gestione di
pubbliche risorse si trovi ad operare ciò non significa affatto che il concetto
di discrezionalità amministrativa possa tramutarsi in autonomia privata e in
irresponsabilità di fatto: il rispetto del cittadino contribuente, sostanziale
azionista delle aziende pubbliche, moralmente e giuridicamente lo vieta".
Il
governo sfiora la crisi
Braccio di
ferro tra Berlusconi e Fini. Il leader di An a un passo dall'uscita dal governo.
Poi il premier strappa la tregua grazie a una dichiarazione del suo portavoce
che promette «maggiore collegialità nelle scelte di politica economica» per
il futuro. Ma nella sostanza il dissenso tra i due resta totale, e il rischio di
rottura rimane altissimo
ANDREA COLOMBO
ROMA
Crisi vicinissima,
evitata per un pelo dalla tregua firmata da Berlusconi e Fini dopo quasi tre ore
di braccio di ferro. Ma lo spettro incombe ancora. I nazional-alleati ostentano
ottimismo, ed è possibile che tra i due partiti maggiori della destra lo
sblocco di ieri, pur limitatissimo, preluda a un vero disgelo. E' possibile, ma
tutt'altro che certo. La partita è ancora tutta da giocare. Il meeting di ieri
tra il premier e il suo vice ha solo evitato che lo scontro degenerasse in
rottura clamorosa. Ieri a mezzogiorno, forse per la prima volta, il centrodestra
è arrivato davvero a un millimetro dalla crisi di governo. Il colloquio tra
Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, previsto per la giornata, non era ancora
stato neppure fissato. Ma i due si erano già visti la sera precedente a villa
Madama, per la cena ufficiale offerta al vice di Bush Dick Cheney. Quello che
doveva essere un breve pre-colloquio è diventato lì un incontro in piena
regola. Di fronte all'ennesima barricata eretta dal premier a difesa del suo
ministro dell'economia, Giulio Tremonti, Fini ha messo apertamente sul tavolo la
carta che minacciava di giocare da settimane. L'uscita dal governo sua e dei
suoi ministri. Il passaggio di An all'appoggio esterno. Nella migliore delle
ipotesi l'anticamera della crisi di governo. Più probabilmente l'apertura
immediata della crisi.
Ieri mattina il capo di An ha convocato il coordinatore del
partito La Russa, ha spiegato che la situazione sarebbe potuta precipitare di lì
a poco, e la notizia è rapidamente arrivata nel quartier generale dell'altro
partito che nella maggioranza compone il fronte ribelle, l'Udc.
L'appuntamento col premier che è stato poi fissato per le
13, a palazzo Grazioli. E in quella sede la distanza tra i due principali leader
del centrodestra è riemersa per intero. Berlusconi conferma la sua strategia.
Vuole fare delle prossime elezioni una battaglia campale, decisiva. Per
combatterla nelle condizioni per lui più vantaggiose insiste nel mettere al
primo posto dell'agenda politica la riforma elettorale e quella della par
condicio. Ha promesso a Bossi di portargli in dono il suo «federalismo» in
tempi brevissimi, e intende mantenere la promessa. Perché teme le alzate di
testa dell'imprevedibile leghista, ma anche perché è convinto che questo
chiedano gli elettori del nord. Non dimentica, infine, la sua principale
ossessione, la campagna contro il potere togato. Il tempo stringe, e il premier
vuole muovere all'assalto con la sua tante volte minacciata riforma della
giustizia.
E' un calendario diversissimo da quello del numero due di
palazzo Chigi, che batte martellante sempre sullo stesso tasto. La necessità di
una sterzata nella politica economica, garantita da solenni impegni, da
dichiarazioni pubbliche, ma anche e più concretamente da un ridimensionamento
tangibile dell'onnipotenza di Tremonti. Per supportare le sue argomentazioni ha
messo di nuovo sul piatto della bilancia le dimissioni, e a questo punto, dopo
oltre due ore e mezzo di trattativa, sull'orlo del precipizio, il cavaliere ha
aperto uno spiraglio. Minimo, ma sufficiente per non dare ancora per persa la
partita.
Berlusconi ha promesso. Si è impegnato a considerare la
svolta in politica economica con tutta la serietà del caso. Ha assicurato di
essere pronto a garantire quella collegialità che Fini e Follini reclamano
invano da mesi. Fini ha chiesto un pegno, e lo ha ottenuto. Una dichiarazione
ufficiale del portavoce del premier Paolo Bonaiuti: «Il presidente Berlusconi
ha assunto da oggi in prima persona l'iniziativa di concordare con gli alleati
le priorità dell'azione di governo. Si tratta di garantire una effettiva
collegialità nelle decisioni più importanti, specie per quel che attiene alla
poltiica economica».
Sulla base di queste righette Fini, che uscendo da palazzo
Grazioli non aveva voluto dichiarare nulla («Non siate indiscreti»), convoca a
palazzo Chigi nel tardo pomeriggio lo stato maggiore del suo partito, tutti i
iministri più il coordinatore La Russa. Alla fine tutti gli an sbandierano una
soddisfazione e un ottimismo persino sospetti. Nania: «Attendiamo con fiducia
le decisioni del premier». Alemanno: «Il colloquio non è andato male». La
Russa: «Berlusconi ha capito. Oggi comincia la verifica vera».
Forse hanno ragione. Ma di concreto, per ora, non c'è
nulla se non la promessa del sottosegretario Bonaiuti. Berlusconi, al contrario,
ha detto chiaro e tondo che il superministro non si tocca. Collegialità sì, ma
con le redini ben salde nelle mani di Tremonti. E su questa base la tregua di
ieri potrebbe rivelarsi fragilissima. Roba di pochi giorni se non di poche ore.
L'Udc, dal canto suo, aspetta. Ma se le cose dovessero
andare bene, con Fini nel governo e una svolta (almeno a parole) nella politica
economica, la decisione di rinviare il chiarimento a dopo le elezioni europee
non reggerebbe più. A quel punto i centristi, sia pur controvoglia, dovrebbero
rientrare in partita. Lo stesso rifiuto opposto dal segretario Follini a una
poltrona ministeriale potrebbe essere rimesso in discussione. Ma anche se la
tregua non reggesse e l'ombra della crisi tornasse a profilarsi imminente, i
centristi avrebbero poche possibilità di evitare uno schieramento a fianco del
loro alleato di sempre, Gianfranco Fini, contro i nemici perenni, Umberto Bossi
e Giulio Tremonti. Costi quel che costi.
23
gennaio
Mutilate,
solo un po'
GIULIANA
SGRENA
E'possibile
ridurre il danno dell'infibulazione? Una pratica aberrante che, attraverso varie
forme di mutilazioni sessuali più o meno invasive, garantisce il controllo
della vita sessuale di una donna, fin dai primi anni di età, attraverso la
privazione del piacere e la chiusura della vagina? A sostenerlo è un medico
somalo che vive a Firenze e che ha escogitato un'«alternativa» - una semplice
puntura di spillo sul clitoride anestetizzato, sostiene - per sottrarre le
bambine alle mammane e agli effetti devastanti del rituale tradizionale. Una
puntura di spillo che però i medici pronti a praticarla - guarda caso - per
premunirsi chiedono una autorizzazione scritta dei genitori. Già, perché l'infibulazione
è la mutilazione del corpo di un minore e con che diritto un genitore può
autorizzarla? E' difficile immaginare che i fautori dell'infibulazione si
accontentino di una puntura di spillo, ma se anche così fosse e si volesse
semplicemente mantenere il rituale è inaccettibile che una struttura pubblica
(le Asl) possa legittimare, anche simbolicamente, una pratica così aberrante
come una mutilazione ritenuta una violazione dei diritti umani delle donne e
delle bambine dalla Convenzione internazionale sui diritti umani e dalla Carta
africana sui diritti umani e dei popoli. Proprio dieci anni fa la Conferenza del
Cairo, e quella di Pechino poi, si ponevano come obiettivo la sua abolizione.
L'inviolabilità del corpo è un valore universale che non
può essere mercanteggiato in nome della riduzione del danno irreversibile che
peraltro non è solo fisico ma anche psicologico. E guarda caso a firmare
l'accordo sul progetto alternativo sono stati tutti maschi, che si sono guardati
bene dall'interpellare le donne (immigrate) interessate che, a giudicare dalle
reazioni, sono assolutamente contrarie. Togliendo così ogni giustificazione
anche ai fautori del relativismo culturale.
Perché invece di ridurre il danno non si è pensato ad
evitarlo con una campagna di informazione che denunci tutti i danni di questa
pratica e ne sveli le mistificazioni che la vogliono legata alla religione - l'infibulazione
ha un'origine precristiana e si è diffusa in alcune società cristiane animiste,
musulmane e anche tra gli ebrei falascia. Se sconfiggere la pratica dell'infibulazione
è difficile ancor più ardua è la battaglia per togliere ai maschi il
controllo della sessualità della donna. Ma non possiamo rinunciare.
22 gennaio
TELEVISIONE
Fedele nei secoli
DOMENICO STARNONE
Lunedì sera, a Otto
e mezzo, trasmissione della 7 che non ha niente di felliniano ma si
distingue per i primissimi piani che scavano nel naso, nelle orecchie, nei pori
di Giuliano Ferrara, di Barbara Palombelli e dei loro ospiti, c'era Fedele
Confalonieri. Il presidente di Mediaset è un uomo colto, misurato, lontano
dagli entusiasmi ciechi alla Emilio Fede. Ha detto con toni distanti che il suo
datore di lavoro e presidente del consiglio Silvio Berlusconi ha fatto e fa
tutto il meglio per l'azienda e per il paese. E' stato garbatamente vago su un
eventuale ingresso in politica della sua autorevole persona. Ha mostrato qualche
preoccupazione per la guerricciola Ricci-Bonolis che getta fango sul totem
Televisione, un feticcio d'oro zecchino. Si è appena appena adombrato per certe
illazioni antipatiche sul suo modo di far fruttare i risparmi, che erano state
riferite cautamente da Palombelli, amichevolmente chiamata Barbara. Tutte cose
serie, insomma, pronunciate in modo composto, accolte sempre con prono
entusiasmo da Ferrara. Questo conduttore è un segnale luminoso. Lo spettatore
sa sempre dai suoi comportamenti se l'ospite sta lì solo per essere messo in
croce o è un vero potente con cui non si scherza. Fedele Confalonieri - abbiamo
capito - è un vero potente. Né Ferrara e nemmeno Palombelli, per esempio, sono
scoppiati a ridere, o almeno si sono fatti sfottenti, quando il manager ha
paragonato Berlusconi a Napoleone. E' successo, ma i due conduttori hanno
convenuto evidentemente che l'imprenditore-premier non poteva essere chiamato in
altro modo, se si pensava al suo modo fulmineo di capire e affrontare le
situazioni, all'impresa epica che l'aveva portato a fondare oltre che un impero
anche un partito, a come era riuscito lì dove gli Agnelli, i De Benedetti,
tutti i Buddenbrook (citazione colta di Fedele) erano falliti. Non era davvero
Bonaparte redivivo uno che, pur essendo solo dell'ultimissima generazione di
industriali, aveva fregato i grandi casati e s'era conquistato la vetta del
governo, la prerogativa di fare e disfare leggi secondo le necessità, il
piacere di stare a braccetto con Bush ragionando tra una barzelletta e l'altra
di guerra in missione di pace e di pace in missione di guerra, l'onore di
abbracciare l'amico Putin (discendente di un altro Bonaparte per antonomasia,
Giuseppe Stalin), convenendo con lui in allegria sui massacri di Cecenia?
Ma Confalonieri non si è limitato a questo. Da uomo di buone letture è andato
a fondo e, tra l'altro, ha sottolineato come, d'accordo con Craxi, il fondatore
dell'impero Mediaset aveva genialmente intuito, a inizio anni Ottanta, che il
popolo italiano era stanco, voleva farla finita con l'austerità alla Saint
Just, con il terrore giustizialista alla Robespierre, e godersi finalmente in
pace, con agio, Gaspare e Zuzzurro.
S'è ricordato anche, però,
che pure la gran parte dei matti delle barzellette pensa di aver detto, in
qualche momento decisivo, caso mai di recente pensando a Rete 4: Dio me l'ha
data, guai a chi la tocca. Perciò, in un passaggio decisivo del suo bel
monologo, sempre con il consenso di Ferrara e Palombelli, ha puntato ancora più
in alto ed è passato a stabilire un paragone tra il suo capo e Alessandro
Magno. L'occasione, ci pare, è stata data dal garbuglio della imminente
verifica di governo, un nodo complicatissimo da sciogliere. Gordiano, l'ha
definito Fedele Confalonieri, che sa bene del saggio contadino Gordio, della
città col suo nome alle porte dell'oriente, del mitico nodo in testa all'aratro
nel tempio, della profezia che chi aspirasse al governo dell'Asia doveva o
scioglierlo o essere cacciato a pedate. Bella storia di plateale disprezzo e
prepotenza, ricca di insegnamenti. Confalonieri l'ha implicitamente citata per
dire chiaro chiaro che Berlusconi non scioglie nodi. I nodi li sciolgono i beoti
che hanno tempo da perdere. Berlusconi leverà la spada, invece, e taglierà,
come fece appunto il grande Alessandro.
Ora, se col nodo di Gordio la maggioranza si impiccasse, il paese se ne
gioverebbe. Se anzi tutti i piccolissimi Alessandri che ne fanno parte levassero
insieme le spade per tagliare i nodini che fanno loro intralcio e
accidentalmente si trafiggessero, non ci sarebbe da rammaricarsene. Il problema
è che le antonomasie di Confalonieri non hanno a che fare solo con la verifica
e altre rissose chiacchiere del governo. Esse segnalano un sentimento, un
progetto, un'aspettativa. Quando un uomo dall'apparenza coltivata e savia,
avanti negli anni, ammette di aver contribuito con gioia a mandare al governo
della repubblica un Napoleone, un Alessandro Magno, uno insomma che, come quei
grandi, le repubbliche le affossa e per guadagnarsi l'impero i nodi non li
scioglie con la dovuta, necessaria pazienza, ma li taglia, noi sentiamo che i
vecchi sospetti erano fondati. Berlusconi è, innanzitutto nel cuore dei suoi
fidi, uno mandato dalla provvidenza per metterti sull'attenti senza troppe
storie, caso mai razziando i poteri avversi, aggirando i riti formali della
democrazia, tutta roba per perdigiorno. Conseguenza: se tra Fedele e Fede non c'è
una sostanziale differenza, forse siamo solo nelle reminiscenze storiche mutate
in farsa; ma se Fedele è diverso da Fede, allora le parole la dicono molto più
lunga di quanto persino chi le pronuncia si immagina.
Infibulazione
Agostino Spataro
Le “carrette del mare”, nonostante il maltempo e la Bossi- Fini, continuano a sbarcare sulle coste siciliane frotte d’immigrati infreddoliti, brandelli di un' umanità povera, affamata e derubata dei più elementari diritti di libertà e di giustizia.
Dall’inferno al paradiso il passo è breve: duecento, trecento km di mare e, per i più fortunati, ecco spuntare la Sicilia, terra di miti e di antiche e nuove migrazioni, oggi divenuta la principale porta dei flussi clandestini verso l’Europa.
Vengono soprattutto dall’Africa per cercare lavoro e anche per sfuggire agli orrori d’interminabili guerre fratricide, fomentate da civilissimi governi e potentati occidentali, che sospingono questo grande continente verso una disastrosa deriva.
Sbarcano col loro carico di bisogni e di tradizioni ataviche il cui impatto sulle società ospiti può mettere a dura prova la convivenza e talvolta perfino gli ordinamenti.
In questi giorni, per esempio, è esploso quello della pratica, dolorosa e ripugnante, della mutilazione sessuale femminile vigente presso alcune comunità d’immigrati, soprattutto quelle originarie dall’Africa centro-orientale e nilotica.
Oltre che sui mass-media, la delicata questione è approdata in Parlamento dove, proprio l’altro ieri, le Commissioni affari sociali e giustizia della Camera hanno approvato (in sede referente) un testo di legge unificato che all’art. 1 sancisce una pena da sei a dodici anni per “chiunque pratica, agevola o favorisce una lesione o mutilazione degli organi genitali femminili…”
Anche il Parlamento, dunque, pur manifestando la necessaria comprensione sociale e culturale, ha dovuto assumere, unitariamente, una posizione che non ammette attenuanti per chi esegue tali mutilazioni, anche quando- come sembrava ipotizzare un comitato tecnico istituito dalla regione toscana- effettuate con metodi meno invasivi e crudeli di quelli tradizionalmente praticati che, in realtà, sarebbe una sorta di “infibulazione assistita”, da praticare nella struttura pubblica.
Una scelta difficile, ma in sintonia con la Costituzione italiana che salvaguarda la salute e l’integrità fisica dei cittadini.
Tuttavia, senza deflettere dai giusti principi, appare utile accompagnare la norma con vere e proprie campagne di prevenzione e di dissuasione presso le comunità e le singole famiglie interessate dal triste fenomeno e d’informazione dell’opinione pubblica che sovente sconosce la realtà di questo dramma che, in parte, si svolge anche nel nostro Paese.
Di che cosa si tratta? Diciamo subito che tale assurdo rituale non può essere catalogato “infibulazione musulmana”, come fa Gianni Vattimo (La Stampa 23/01/04), anche se praticato in alcuni paesi musulmani.
L’infibulazione era vigente prima della predicazione di Maometto; in ogni caso non è contemplata in nessuno dei Libri sacri. I suoi sostenitori, per conferirle un carattere sacrale, l’annoverano arbitrariamente fra le circoncisioni derivate da una malintesa deduzione religiosa.
L’infibulazione o circoncisione femminile si concentra nei paesi nilotici (Egitto e Sudan), in Somalia e in altri paesi africani di tradizione animista (28 in tutto) e in taluni islamici della penisola arabica. Secondo le stime dell’Onu, almeno 75 milioni di donne (anzi bambine) hanno subito tali assurde mutilazioni.
Esistono diversi tipi e metodi di circoncisione femminile, tutti più o meno crudeli, praticati da barbieri e da donne anziane su bambine in tenerissima età, spesso senza anestesia e con strumenti rudimentali.
Per meglio descriverli attingeremo da uno studio curato dal dottor Sami Aldeeb Abu-Sahlieh, una fonte scientificamente attendibile e di confessione islamica, pubblicato, nel 1993, dal Cermac dell’Università di Lovanio.
Il metodo meno brutale (ma anche meno diffuso) è quello detto “sunnah” che “si limita a tagliare la pelle che si trova alla sommità dell’organo femminile. Si recide l’epidermide protuberante, evitando l’ablazione.”
Come in un crescendo d' assurda crudeltà, segue la clitoridectomia o escissione consistente nell’ablazione del clitoride e delle piccole labbra. Infine, l’infibulazione “faraonica”, praticata prevalentemente in Sudan e in Somalia, è la forma di circoncisione più crudele e traumatizzante.
Secondo la descrizione di Sahlieh, consiste “nell’ablazione totale del clitoride, delle piccole labbra e di una parte delle grandi labbra. Le parti della vulva così mutilate vengono poi cucite mediante punti di sutura di seta e talvolta anche con spine vegetali. Si lascia aperto soltanto un piccolo orifizio per consentire la fuoriuscita dell’urina e del flusso mestruale...
“Durante la prima notte di nozze, lo sposo dovrà aprire la sua donna, spesso con l’aiuto di un coltello…In caso di divorzio, si richiude l’apertura per evitare che la donna abbia rapporti sessuali”
Scioccante? Purtroppo, pare che le cose stiano proprio così!
Nel caso della circoncisione maschile (a ben pensarci anche questa è una piccola forma di mutilazione genitale!) lo scopo è di carattere religioso ed anche igienico, per quella femminile si ha una pluralità di fini, tutti riconducibili ad una concezione della donna grettamente maschilista che esprime “una volontà diabolica di controllare la sessualità femminile, sotto l’alibi della cultura”.
Ma cosa c’entra tutto questo con la cultura? Con qualsiasi cultura.
Nel caso specifico non si tratta di affermare la superiorità di una cultura sopra un’altra, ma semplicemente d’impedire una patente violazione dell’integrità fisica della persona umana.
Certo, bisogna sforzarsi per capire le cause di tali pratiche e fare di tutto per prevenirle (a partire dai Paesi di provenienza) e non per perpetuarle, addirittura all’interno delle nostre legislazioni.
Lo Stato democratico non può abbassarsi a tale livello, semmai ha dovere d’innalzarlo e armonizzarlo con gli standard di vita preesistenti, in primo luogo a tutela della dignità e dell’integrità di milioni di vittime-bambine.
20 gennaio
L'Italia degli abusi. Sette
colpi di spugna
dall'evasione ai bilanci finti
Tutti
gli affari in nero perdonati
Legambiente e Cgia fanno la classifica
dei business creati dalle illegalità più diffuse
ROMA
- C'è l'evasore fiscale e chi crea depositi nelle banche offshore. C'è lo
scommettitore clandestino e il "portoghese" sull'autobus. Ma anche il
pirata audio-video, il falso invalido, il falso medico, lo speculatore...
Tra peccati e reati, ecco un campionario di abusi e illegalità. E' stato
redatto con l'aiuto di dati, studi e ricerche di Legambiente e della Cgia di
Mestre. Una classifica per forza di cose arbitraria, perché pesca in una zona
grigia, che per sua natura sfugge. Ma qualcosa viene fuori. Per esempio: su gran
parte di abusi e furbizie sono intervenuti condoni e sanatorie, ben sette. Tra
capitali e case risulta alla fine condonabile un patrimonio di 550 miliardi di
euro realizzato illegalmente negli ultimi decenni. Più redditi annui per 210
miliardi. A tanto ammonta l'imponibile sottratto al fisco ogni anno. Cui si
aggiungono i 250 milioni non pagati ogni anno per il canone Rai.
E poi: il reddito prodotto dall'economia sommersa ammonta a circa 200 miliardi
l'anno, in gran parte parte coincidente con l'imponibile evaso. Per chi
"emerge", sono stati previsti sconti contributivi e s'è chiuso un
occhio sul passato. Anche in questo caso, esistono dati geografici: le
irregolarità maggiori sono al Sud, Emilia e Piemonte invece sono le regioni più
ligie.
Per tutti i creatori di fondi nei paradisi fiscali, neri o bianchi che siano (60 miliardi l'anno) ha dato una mano la sostanziale depenalizzazione del falso in bilancio. Una misura che va ad aggiungersi allo "scudo fiscale" concesso a chi riporta in patria i fondi illegalmente esportati negli ultimi decenni: circa 500 miliardi secondo le stime di Fmi e Bankitalia. Sanatoria anche per chi possiede o ha costruito case abusive, il cui valore raggiunge i 51 miliardi.
15 gennaio
Nascita
di sindacato
Mette
insieme industria e servizi, chimica ed energia, Enel, Eni e industria
farmaceutica
Cos'è la Filcem Cgil 170 mila iscritti, 15 contratti
nazionali, un milione di lavoratori, 10 mila quadri e delegati, presenza diffusa
in 20 regioni d'Italia
GUGLIELMO
RAGOZZINO
Una
fusione
fredda,
commenta un sindacalista. «Speriamo non sia quella sempre promessa, sempre
lontana, di Carlo Rubbia». Ieri si sono riuniti i direttivi di Filcea e Fnle, i
sindacati dei lavoratori chimici (e affini) ed energetici aderenti alla Cgil per
costituire una federazione di secondo livello, che, insomma, si sovrappone a
sindacati che continuano a funzionare. E' la Filcem - Federazione sindacale dei
lavoratori della chimica dell'energia e dei manufatti. Segreteria e direzione
del nuovo sindacato sono la sommatoria delle segreterie e dei direttivi
precedenti. Il segretario generale è unico ed è Giacomo Berni, a capo dei
chimici dal mese di ottobre 2003 e per gli otto anni precedenti a capo della
Flne. Le due strutture che hanno dato vita alla Filcem non sono annullate, ma
continueranno ad essere attive fino al 2006, anno previsto per i congressi di
scioglimento e di unificazione vera e propria. Nel frattempo i gruppi dirigenti
accomunati e la Cgil centrale provvederanno a integrare nei fatti, poco per
volta, le due strutture esistenti che hanno per ora interessi diversi e attività,
appartenenze internazionali, propensioni all'unità e pratiche sindacali poco
omogenee.
La riunione dei direttivi si è risolta in poco più di
un'ora. Le votazioni per lo statuto provvisorio dell'organizzazione nascente, il
processo di unificazione, i gruppi dirigenti, il segretario generale, sono state
rapide, per alzata di mano. Nessuna mano si è alzata per votare contro o per
segnalare un'astensione. Probabilmente un sindacato di secondo livello parte
sempre così. Non vi sono state dichiarazioni di voto, né interventi, né
correzioni, né emendamenti, né richieste di maggiori spiegazioni. Cosicché
l'ora è stata riempita da tre brevi discorsi di Guglielmo Epifani, di Mauro
Guzzonato e dello stesso Berni. Discorsi brevi, ma di forte interesse.
Per primo ha parlato Guzzonato. Questi era segretario
generale della Filcea, finché, durante la vertenza per l'ultimo contratto dei
chimici, non è stato chiamato da Epifani nella segreteria confederale, per
coprire il ruolo decisivo di responsabile dell'organizzazione, resosi libero. Al
suo posto la confederazione suggeriva il nome di Berni, in vista della
sempre attesa unificazione. Guzzonato ha insistito su due aspetti per rispiegare
alla sua platea la necessità della fusione. Il sindacato è alla ricerca di una
semplificazione e di un rafforzamento organizzativo; e li ha fatti maturare in
una lunga e sofferta discussione tra i quadri delle due categorie. D'altro canto
è stato lo sviluppo stesso dei processi reali nella società e nell'economia
che ha imposto di mettere in stretta relazione le competenze e le attitudini di
chi organizza i lavoratori dei servizi in rete e chi organizza quelli della
manifattura odierna, anch'essa in rete. Aggiunge Guzzonato che l'esperienza
maturata nella fusione in corso dovrà servire per ridisegnare l'intera Cgil. La
Cisl ci ha provato con la conferenza di organizzazione, ma il risultato non è
stato eccellente. La Cgil, con questo suo tentativo, delle federazioni di
secondo livello, tenta una strada diversa che se l'insieme dell'organizzazione
vorrà, alla fine darà i suoi frutti.
«Prometto che cercherò di meritare la vostra fiducia»
dice Berni, un po' commosso, parlando ai vertici della Cgil, ai suoi vecchi
compagni di organizzazione e a quelli nuovi. Nel suo brevissimo discorso di
accettazione, appena eletto, ricorda che il metodo di unificare i sindacati man
mano che l'occasione o meglio la qualità del lavoro organizzativo del sindacato
lo hanno reso necessario. Ricorda i primordi della federazione attuale, nel
lontano 1977 con la fusione tra elettrici, gasisti e acquedottisti; parla di un
«cantiere aperto» che non riguarda soltanto Filcea e Fnle; descrive la
contaminazione tra le diverse culture, le pratiche diverse che vanno rispettate
e utilizzate tutte, «imparando l'uno dall'altro». Non è preoccupato, non
troppo, almeno, per le diverse filiazioni dei due sindacati che si uniscono, per
il diverso rapporto con Cisl e Uil, che vede per i chimici la presenza di un
sindacato unitario, l'unico rimasto, la Fulc e nel campo dell'energia, la scarsa
presenza delle altre confederazioni.
Conclude Epifani. Ci si aspetta molto da voi, dice alla
platea. Dovete mettere a punto una linea di condotta precisa, capace di tenere
insieme il mercato e le regole, la sfera pubblica e il mercato, i servizi e
l'industria. La logica del mercato deve essere accompagnata da regole certe. Il
mercato, per noi, deve essere «un'idea alta» non la vittoria del più forte.
Il mercato «con le regole» consentirebbe di rendere più accettabile ogni
processo di liberalizzazione. E soprattutto servirebbe a evidenziare che i
monopoli naturali («non è il vostro caso» si affretta a precisare
Epifani) non ha senso privatizzarli. Non si fa a tempo a pensare: perché non è
il loro caso? Non è monopolio naturale anche quello degli elettrici, dei
gasisti, degli acquedottisti? che Epifani rilancia il suo discorso: l'acqua è
un bene pubblico; non si può privatizzarne le strutture senza tenere conto del
bene pubblico; «aiutateci a capire il bene pubblico». Compito alto per il
nuovo sindacato.
Epifani parla anche brevemente di problemi generali. Spiega
perché la Cgil non ci sta. Il governo vuole ridurre la spesa previdenziale
dello 0,7% entro il 2008. «Per noi è un vincolo inaccettabile». Se resta, la
trattativa non sarà possibile. A noi rimarrebbe soltanto da discutere su come
applicare la riduzione. Quello che non possiamo accogliere è uno scambio al
ribasso tra previdenza e qualche forma di welfare. Non abbiamo pregiudizi, ma,
«dopo 30 mesi di governo Berlusconi, il paese è più povero, più insicuro, più
diviso».
13 gennaio
2004
Prove
di spaccatura
Cisl
e Uil: sì alla trattativa sul welfare. No della Cgil: il governo decida sulle
pensioni
Oggi il nuovo tavolo Pezzotta e Angeletti vedono
spiragli per un accordo con il governo. La Cgil ripete che, per trattare,
palazzo Chigi deve ritirare la delega
PAOLO ANDRUCCIOLI
Cisl e Uil hanno detto sì
all'invito del governo. Oggi parteciperanno alla riunione sul welfare,
appuntamento che dovrebbe essere dedicato solo al calendario delle riunioni
future. Pur essendo quasi esclusivamente tecnica, la riunione di oggi fa
registrare una nuova divisione tra i sindacati confederali: la Cgil, infatti,
non ci sarà. Ieri il segretario generale Guglielmo Epifani ha motivato la
scelta della sua organizzazione subito dopo la riunione con il governo (anzi con
mezzo governo) a palazzo Chigi. Epifani ha ricordato che la trattativa sul
welfare avrebbe dovuto essere condizionata o comunque collegata alle decisioni
sulla previdenza (che poi sono ancora il grosso della spesa per il welfare). Non
essendoci ancora una posizione chiara e definitiva del governo sulle pensioni e
in generale sulla riforma della previdenza, diventa impossibile per la Cgil
partecipare a un tavolo sul welfare. La segreteria confederale della Cgil ha
anche diffuso una nota in serata per articolare maggiormente la sua posizione.
«La richiesta di una trattativa complessiva su tutto il welfare e non solo
sulla previdenza - ricorda la Cgil - era stata una richiesta formulata il 10
dicembre, al primo incontro con il governo, ma aveva come premessa il ritiro
della delega. Ritiro che non è mai stato accettato dal governo e tanto meno è
stato preso in considerazione nell'incontro di ieri a palazzo Chigi». Quella
della Cgil, dunque, non è una scelta politica emotiva o presa a caldo e legata
a un qualche atteggiamento pregiudiziale. E' piuttosto la logica conclusione di
un percorso su cui ora il governo tenta di fare per l'ennesima volta fumo.
All'interno dell'esecutivo sono in molti che gradirebbero rivedere il film della
rottura della confederazioni, o meglio ancora la scena di un isolamento della
Cgil.
Da parte loro i segretari di Cisl e Uil, Pezzotta e
Angeletti, non si sono dichiarati affatto contenti dello stato dei rapporti con
il governo, ma hanno detto che ci sono ancora degli spiragli aperti che vale la
pena sfruttare. E i possibili spiragli cui fanno riferimento i segretari
generali della Cisl e della Uil riguardano il Tfr e la decontribuzione. «Non è
stato proprio un confronto inutile - ha detto ieri Pezzotta - ma dal governo
vogliamo risposte più chiare ed esplicite». In ogni caso per la Cisl è utile
andare alla riunione di oggi sul welfare. «Di che vi meravigliate? - ha detto
ieri il segretario cislino durante la conferenza stampa a palazzo Chigi - il
tavolo sul welfare lo abbiamo chiesto noi, quindi ci andiamo». Quasi lo stesso
discorso quello del segretario della Uil, Angeletti. Sia per la Cisl sia per la
Uil rimangono comunque distanze enormi sulla proposta del governo di innalzare
l'età pensionabile e sulla valutazione sulla famosa «gobba» del sistema
pubblico nel 2033. Nonostante queste «distanze enormi» con il governo, i due
sindacati firmatari del Patto per l'Italia hanno deciso di andare a vedere le
proposte sul welfare: sperano - e lo ha ammesso esplicitamente Pezzotta - di
recuperare almeno il confronto sugli ammortizzatori sociali, una delle basi del
Patto per l'Italia, che a tuttoggi risulta essere poco più che un fantasma.
Molto soddisfatti i commenti dei rappresentanti dell'Udc e
di An all'interno del governo. «La pendenza della salita sembra che stia
diminuendo», ha detto ieri con metafora ciclistica il vicepresidente del gruppo
di An, Oreste Tofani. Il senatore ribadisce che il suo partito vuole arrivare
alla riforma sulla base del dialogo sociale, lo stesso che interessa molto il
vicepremier Gianfranco Fini, che ieri ha perfino rinunciato a partecipare
all'inaugurazione dell'Anno giudiziario per stare alla riunione con i sindacati
a palazzo Chigi. La scelta di Fini è motivata sia dall'interesse di An al
rapporto diretto con i sindacati, sia all'assenza di Berlusconi. La riunione
sulle pensioni era stata rinviata a ieri proprio per attendere il ritorno del
cavaliere a Roma. Berlusconi è però rimasto in Sardegna e ieri fonti vicine a
Fini hanno smentito una possibile visita del vicepresidente del consiglio
nell'isola.
Oltre all'assenza del premier Berlusconi ieri si è notata
anche l'assenza del ministro dell'economia Giulio Tremonti. Il risultato è
stato quindi un incontro tra i sindacati confederali al gran completo e un
governo dimezzato. I più rappresentati erano i politici di An e dell'Udc,
ovvero proprio di quell'asse che vorrebbe battere la linea più oltranzista di
Tremonti e arrivare a un compromesso con i sindacati, o almeno con Cisl e Uil.
In pratica ora si procederà così: la delega previdenziale
di Maroni riprenderà il suo cammino in commissione al senato. Prima della
discussione in aula i sindacati dovrebbero essere di nuovo convocati per essere
informati sulle ultime decisioni del governo. Ieri Maroni ha confermato che la
delega dovrebbe essere approvata entro il mese di gennaio. Il
condizionale lo abbiamo aggiunto noi visto l'andamento delle precedenti promesse
del ministro.
ATTACCO
La Lega
sull'orlo del baratro
Anche
Berlusconi e Tremonti nel mirino. Radio Padania, in onda la rivolta
GIOVANNA PAJETTA
Alle due del pomeriggio, prima
di partire per Porto Rotondo, Umberto Bossi appariva un po' meno cupo. «Forse
uno spiraglio c'è», confidava ai suoi dopo l'invito a villa Certosa, e dopo le
rassicurazioni mattutine di Francesco D'Onofrio sulle sorti della riforma
federalista. E forse conta più il secondo che il primo. Perché se Silvio
Berlusconi si limiterà con ogni probabilità a promesse di facciata, il
senatore dell'Udc ha mostrato a Bossi gli emendamenti che, come relatore e a
nome dell'intera maggioranza, presenterà questo pomeriggio. Tre punti non da
poco, che rafforzerebbero il futuro senato federale e, soprattutto, il ruolo
delle autonomie locali. Presidenti di Regione e presidenti dei consigli
regionali diventerebbero infatti grandi elettori, sia di parte dei membri della
Corte costituzionale e del Csm che dello stesso presidente della repubblica. Dulcis
in
fundo,
Regioni e autonomie potrebbero costituire dei propri organismi di coordinamento
(anticamera per Bossi dell'amato parlamento del Nord) e avere voce in capitolo
sul cosiddetto «interesse nazionale». Ma persino l'ottimista D'Onofrio ci
tiene a precisare che non tutto è risolto. «Ho trovato Bossi molto irritato, e
la cosa è seria - sottolinea il senatore centrista, federalista da sempre -
Adesso che una parte dell'opposizione è disposta al dialogo, lui teme ad
esempio che An e Udc ne approfittino e tutto si impantani». Per evitarlo il
leader leghista ha intrapreso la via che meglio conosce, sparando a zero contro
la «manovra concertata, l'imbroglio a cui hanno partecipato tutti gli alleati».
Una tecnica sperimentata, che forse darà i suoi frutti. Anche se in realtà, a
guardar bene, c'è qualcosa di nuovo nell'ennesimo ultimatum di Bossi. Nelle sue
interviste di fuoco, il senatur
prende infatti di mira anche gli amici, accusando Silvio Berlusconi di aver «avvallato»
l'imbroglio e definendo Giulio di Tremonti «appena meno insensibile di altri».
Non sono frasi scelte a caso. Perché, come racconta chi lo conosce bene,
Umberto Bossi appare ormai esasperato, cupo e totalmente pessimista sulle sorti
della coalizione. Così tra natale e capodanno, è tornato a parlare con i suoi,
con un tocco di nostalgia o annunciando sfracelli, di «battaglie
indipendentiste». Attenuate giusto giusto da un rituale «se non ci danno il
federalismo...».
Sono gli umori e i sentimenti, del resto, che il leader
condivide con la sua base. Dopo la lettura delle interviste, ieri a Radio
Padania è andata in onda una vera e propria rivolta. Dalle 10 del
mattino per tre ore, e poi ancora nel pomeriggio, dai microfoni aperti della
radio leghista si è sentito di tutto e di più. Insulti, mugugni, lamenti ma
anche qui con una novità non di poco conto. «Certo, in parecchi hanno ripetuto
che non bisogna mollare, restare al governo e battere i pugni sul tavolo, ma
sono stati una minoranza - racconta Matteo Salvini, direttore della radio -
Adesso i più dicono che `la speranza è andata a farsi benedire' ed è meglio
uscire dal governo e tornare a dare battaglia sul territorio». Certo,
l'indicazione questa volta l'indicazione veniva dall'alto, ma i «padani»
l'hanno seguita più che volentieri. «Le parole del capo hanno dato libero
sfogo a qualcosa che covava da tempo - dice Salvini - Prima se lo tenevano
dentro, ma se poi proprio Bossi comincia a dare colpi d'accetta...».
Innescare la retromarcia insomma, per Bossi come per i suoi
non sarà tanto facile. La riforma federalista ora alla prova del dialogo con
l'opposizione (un incontro, ancora interlocutorio, si è tenuto ieri sera in
senato), e gli alleati giurano che la maggioranza la sosterrà come un sol uomo.
Ma la via è stretta, e i tempi ancor di più. Se infatti Fini, Follini e
Berlusconi possono continuare per settimane il balletto della verifica, le
possibilità che la riforma costituzionale federalista divenga legge sono legate
a tempi parlamentari certi. «Se non passa in senato entro gennaio - dice Bossi
- non se ne farà più niente». E la parola passerà, ai primi di febbraio,
all'Assemblea federale della Lega.
Tolleranza
zero, è vietato disobbedire
Arresti
domiciliari per dodici militanti tra cui un consigliere Prc a Roma, e obbligo di
firma per altri due. Resistenza aggravata per i disordini del 4 ottobre durante
il vertice Ue dell'Eur
ALESSANDRO MANTOVANI
ROMA
Quattordici Disobbedienti
romani, quasi tutti piuttosto noti a cominciare dal consigliere comunale Nunzio
D'Erme eletto con il Prc, si sono visti notificare ieri un'ordinanza che dispone
gli arresti domiciliari per dodici - tra cui D'Erme - e l'obbligo di firma per
altri due. Il provvedimento del gip Marina Finiti è stato sollecitato dal pm
Salvatore Vitello per i disordini del 4 ottobre all'Eur, al termine della
manifestazione contro il summit europeo presieduto da Silvio Berlusconi. L'unico
capo d'accusa è resistenza a pubblico ufficiale, con l'aggravante del «travisamento»
e dell'uso (per alcuni indagati) di armi improprie e cioè bastoni. Né
danneggiamenti né lesioni personali. In tre mesi, su impulso diretto del capo
della polizia Gianni De Gennaro, la Digos ha studiato i filmati della
scientifica e dei tg: sui riconoscimenti si discuterà in tribunale. Davanti al
Palazzo dei congressi dell'Eur, del resto, non ci furono nemmeno «scontri»
veri e propri. Per mezz'ora circa i Disobbedienti con caschi e scudi fecero
pressione su polizia e carabinieri, lanciando vernice rosa e qualcuno - non
identificato - un paio di bombe carta. Ma quando è partita la carica i
manifestanti hanno resistito qualche minuto per poi allontanarsi lungo la via
Cristoforo Colombo. Cinque minuti dopo i responsabili della Digos erano di nuovo
al telefono con i Disobbedienti per garantire una via d'uscita verso la metrò
Laurentina. E ieri mattina la stessa Digos di Roma, che da anni (4 ottobre
compreso) dimostra equilibrio in ordine pubblico, è andata ad arrestare
militanti che conosce uno per uno. Viene da ridere, adesso, a leggere
nell'ordinanza del loro «disegno criminoso» e della loro «particolare
propensione alla violenza e ad atti di intemperanza verso la società civile e
verso rappresentanti delle istituzioni dello Stato», che renderebbero «concreto
e estremamente rilevante il pericolo di reiterazione di episodi della stessa
specie». Ma c'è poco da ridere se questo provvedimento insegna che la pratica
del conflitto a viso aperto, della disobbedienza e degli «scontri finti» con
la polizia, non è più tollerata. Forse preferiscono quelli veri, di sicuro
nelle piazze romane è accaduto di peggio senza che scattassero le manette, come
nel dicembre 2000 per la visita di Jörg Haider. E invece il 4 ottobre due
ragazzi vennero presi in flagranza all'Eur (scarcerati in pochi giorni), poi è
toccato a due giovani anarchici residenti a Viterbo - uno è il sardo Massimo
Leonardi al centro di una vergognosa campagna di stampa sui pacchi bomba -
attualmente ai domiciliari per il pestaggio di un maldestro carabiniere in
borghese.
Adesso altri 14 militanti vengono sottratti alle loro
attività politiche, sociali e lavorative. Nella capitale c'è chi teme che
l'operazione serva a preparare lo sgombero di case occupate e centri sociali di
recente fondazione, in parte legati ad Action, l'Agenzia comunitaria diritti
messa su dai Disobbedienti. Proprio Action, oggetto di un altro incredibile
procedimento che ipotizza l'associazione per delinquere, ne esce «decapitata».
Agli arresti con D'Erme (42 anni) vanno anche Fabrizio Nizi (43), Valerio
Porcelli (43), Francesco Ciacciarelli (35) e Andrea Alzetta (36) del Corto
Circuito; Marco Tullio Liuzza (24) e Fabio Malinconico (33) del centro sociale
La Strada; Alessandro e Giordano Luparelli (24 e 20) di Spartaco; Duccio Ellero
(31), Paolo Contursi (24) e Daniele Romano (27). Obbligo di firma per Alessandro
Verga (33 anni) e Luca Blasi (23) dell'Astra, un'occupazione considerata «a
rischio sgombero».
Non è mancata una risposta immediata. Circa duecento
persone, ieri mattina, hanno trasformato in un'assemblea la conferenza stampa
convocata nello stabile occupato di via De Lollis, a San Lorenzo. C'erano i
centri sociali, Vicenzo Miliucci per i Cobas, Bruno Papale del Corodinamento di
lotta per la casa, l'avvocato Marco Lucentini che difende molti arrestati, il
portavoce dei Disobbedienti romani Guido Lutrario rimasto a piede libero, mezzo
gruppo parlamentare di Rifondazione (Deiana, Mascia, Russo Spena), il verde
Paolo Cento, Patrizia Sentinelli capogruppo in Campidoglio e membro della
segreteria nazionale del Prc, i presidenti del X e dell'XI Municipio Sandro
Medici e Massimiliano Smeriglio. E anche i volti, meno noti nel movimento, della
presidente e della vicepresidente del consiglio comunale Luisa Laurelli (Ds) e
Monica Cirinnà (Verdi). Giovedì 4 sono in programma una manifestazione a Roma
e iniziative collegate in altre città. Solo per restare ai Disobbedienti, il
napoletano Francesco Caruso ha da un mese l'obbligo di firma insieme a due
calabresi indagati a Cosenza, Luca Casarini rischia la «sorveglianza speciale».
Nessuno ha voglia di fare la lotta «alla repressione» ma
la brutta aria che tira preoccupa anche coloro che il 4 ottobre criticavano i
Disobbedienti per quella contrapposizione sterile con la polizia, ad uso e
consumo delle telecamere. In tutta Italia centinaia di militanti hanno
accumulato condanne che portano in galera anche per resistenza a pubblico
ufficiale. Si moltiplicano gli sgomberi e le ordinanze d'arresto, sia pure con
la generale rinuncia (salvo Cosenza) ai reati associativi. E a Genova il 3 marzo
si apre il processo ai 25 «cattivi» accusati di devastazione e saccheggio per
il G8.
LA
«MALAGIUSTIZIA»
-
Il grande malato resta il processo penale: 6.049.664 procedimenti nuovi con un
arretrato di oltre 5.700mila cause. Nella giustizia civile l'arretrato ammonta a
oltre 3 milioni di cause, mentre sono stati iscritti 1.795.876 nuovi
procedimenti.
- Aumenta la durata media dei processi. Nel penale 341
giorni in primo grado e 398 in corte d'assise. Ci vogliono 324 giorni per una
sentenza del gip. Esplode la durata dei processi in appello: 543 giorni per la
corte e 203 per la corte d'assise. Migliora, anche se di poco, la durata del
processo civile: 315 giorni per un verdetto del giudice di pace e ben 879 per
quello del tribunale. Ma aumenta di molto l'attesa per le sentenze delle corti
di appello: 501 giorni. Per quanto riguarda il secondo grado i giorni sono 1.073
nel tribunale e 774 nelle corti di appello.
- Invariato il «grave sovraffollamento» degli istituti di
pena italiani: 56.403 detenuti.
E' invece «allarmante» il numero di suicidi dietro le
sbarre: 83, ma in tutto sono 108 quelli tentati dal 1 gennaio 2002 al 30
settembre 2003. Si riduce il numero dei detenuti in custodia cautelare che resta
comunque vicino al 60% del totale.
- Sono 2.782.252 i delitti denunciati nel 2003. L'80%
restano impuniti. Escludendo i furti, di cui ben il 96% resta senza autore, la
percentuale di impunità si «abbassa» al 61% del totale.
- Il 46% dei 3.056 omicidi «tentati» e «consumati» e
l'81% delle oltre 56.052 rapine sono impuniti.
- In calo le denunce per violenza sessuale (4.074, -21%).
Aumentano le estorsioni (8.307, +8%), i sequestri di persona (220, +6%) e le
rapine (+9,5%). Impennata di truffe (64.688, +21%) e bancarotta (5.378, +4%).
- Matrimonio in crisi: 73.991 separazioni consensuali e
30.821 giudiziali. 33.885 invece i divorzi complessivi (+1,6%).
9 gennaio
Il
governo è pronto a tagliare le pensioni
Dati della
Ragioneria Nell'incontro di ieri confermata la «gobba», il boom dei pensionati
nel 2033. I sindacati contestano l'analisi e parlano di sciopero. Lunedì
l'ultimo incontro con Berlusconi
PAOLO ANDRUCCIOLI
L'ultimo
appuntamento è fissato per lunedì a palazzo Chigi. Ma se il governo andrà
avanti con la delega sulle pensioni, noi non escludiamo ulteriori iniziative di
mobilitazione. Così ha sintetizzato ieri «lo stato dell'arte» la segretaria
confederale della Cgil, Morena Piccinini. Anche se non si tratta di un vero
annuncio di un nuovo sciopero generale, ci siamo molti vicini. Uil e Cisl sono
prudenti, ma non escludono neppure che l'epilogo possa essere proprio lo
sciopero. «Sono abbastanza pessimista», è stata la battuta del segretario
generale della Cisl, Savino Pezzotta, all'uscita dell'incontro. Il sindacalista
della Cisl non smette però di sperare in un qualche ripensamento del governo.
«Serve un'altra ricetta rispetto a quella del governo - ha precisato sempre
ieri il segretario confederale della Cisl, Pier Paolo Baretta - lunedì ci
aspettiamo solo che il governo ci dica che vuole aprire un confronto per
cambiare la delega». Lo sciopero al momento non è previsto - ha detto invece
il numero due della Uil, Adriano Musi - ma non è neppure escluso». Nessuno
dunque è ottimista. Neppure il ministro del welfare Roberto Maroni. «Ad oggi
non c'è nessun accordo e mi pare difficile che ci possa essere», ha dichiarato
ieri il ministro, pochi minuti dopo la conclusione dell'incontro con Cgil, Cisl,
Uil. «Le conclusioni le tireremo comunque a palazzo Chigi e penso che la delega
possa essere migliorata». C'è dunque un nuovo - ultimo - appuntamento per
lunedì 12, lo stesso giorno in cui è previsto il ritorno del premier
Berlusconi, che ricomincerà la sua attività di governo con due faccende
alquanto esplosive: le pensioni e Parmalat, con il relativo corollario della
riforma delle regole di controllo sui mercati finanziari. La dichiarazione di
Maroni di ieri è abbastanza chiara: il governo ha deciso di andare fino in
fondo sulla riforma delle pensioni ed è disposto solo ad accettare qualche
piccolo aggiustamento alla delega previdenziale dello stesso ministro Maroni: è
probabile che ci siano novità, per esempio, sull'obbligatorietà del
trasferimento del Tfr ai fondi pensione.
La giornata di ieri è stata caratterizzata dalla discussione sui dati relativi
alla spesa previdenziale italiana. La Ragioneria dello Stato non ha fatto altro
che riproporre i dati già noti che illustrano una crescita delle pensioni in
rapporto agli occupati. Il picco più alto - come era stato già detto in più
occasioni - si avrà tra il 2033 e 2035. Dopo quella data le pensioni
cominceranno invece a scendere. La famosa «gobba» (o il sorpasso dei
pensionati rispetto agli attivi) sarà effimera e comunque è una curva
matematica che è stata calcolata tenendo conto soprattutto dei dati
demografici. I sindacalisti, Baretta, Piccinini e Musi in particolare, hanno
contestato al governo la sottovalutazione di altri indicatori in campo a partire
dalle dinamiche del prodotto interno lordo per i prossimi anni e degli
incrementi di produttività e di occupazione. Governo e Ragioneria dello Stato
vedono solo la demografia, ovvero l'invecchiamento. Non calcolano gli effetti
sull'occupazione degli aumenti di produttività dovuti allo sviluppo tecnologico
e non calcono neppure gli effetti sul mercato del lavoro dell'aumento dei flussi
immigratori e della relativa integrazione degli stranieri in Italia.
«Questa curva dimostra - dice Baretta - che il peso della crescita della spesa
per le pensioni dei lavoratori dipendenti è proporzionalmente inferiore a
quella dei lavoratori autonomi». E questo dimostra, è la conclusione di
Baretta condivisa però anche da Morena Piccinini e da Adriano Musi, quanto sia
sbagliata la ricetta del governo che prende di mira solamente le pensioni dei
lavoratori dipendenti. I dati forniti ieri dal governo confermano poi un altro
fatto denunciato in più occasioni dai sindacati: la crescita esponenziale della
componente assistenziale del welfare che viene paradossalmente pagata solo con i
contributi dei lavoratori invece che con la fiscalità generale. «Oggi è
emerso con chiarezza - ha detto Morena Piccinini - che sulle proiezioni future
di spesa il lavoro dipendente pesa in maniera significativamente inferiore al
lavoro autonomo. Perché dunque i lavoratori dipendenti devono pagare per una
curva provocata da altri?
Il quadro insomma è chiaro: il governo ha come obiettivo principale quello di
ridurre il peso della spesa previdenziale per ridurre il debito pubblico. Le
pensioni pubbliche (che tra l'altro già per effetto della Dini stanno
diminuendo progressivamente) dovranno essere compresse il più possibile. Tutto
il resto è contorno. O forse lo è fino a un certo punto perché in gioco,
oltre alla riduzione del welfare, c'è anche il cambiamento del modello
previdenziale. Il governo vuole fare l'americano. Si vorrebbe cioè importare di
sana pianta il modello dei fondi pensione anglosassoni, quegli stessi che sono
stati al centro del tifone finanziario provocato da Enron o ora da Parmalat.
7 gennaio
Resa
dei conti tra governo e governatore. Sul crack il Parlamento indagherà
Le
mani di Tremonti sulla Banca d'Italia
Una
commissione parlamentare d'indagine congiunta sul crack Parmalat. E'
l'ipotesi su cui stanno lavorando i presidenti delle Commissioni bilancio
e finanze di Camera e Senato, Antonio Tabacci e Giorgio la Malfa, con
l'accordo dei presidenti dei due rami del Parlamento Marcello Pera e
Pierferdinando Casini. Lo scopo, tra l'altro, è quello di scongiurare un
altro scontro istituzionale che si sta addensando sulla testa della Banca
d'Italia. Diretta conseguenza
del "buco nero" di Calisto Tanzi, di cui nessuno sembrava
essersi accorto fino all'insolvenza del fondo Epycurum e la sconfessione
della Bank of America, è infatti l'attacco concentrico del governo,
Giulio Tremonti e Lega in testa, sull'unico centro di potere rimasto fuori
dalla giurisdizione diretta e dalla presa del potere da parte dei
fedelissimi di Silvio Berlusconi. Tutti gli altri
baluardi sono già caduti: la Rai, con l'inclusione di un direttore
generale più fedele di Fedele Confalonieri e con l'esclusione di tutti
gli oppositori; i vertici dei ministeri, sostituiti o estromessi nella
logica dello spoil system da superconsulenti nominati ad personam dai vari
ministri; la Consob (fuori Spaventa dentro Cardia), il Cnr (fuori Bianchi
dentro Di Maio), l'Isae (fuori Kostoris dentro Majocchi); e via piazzando
i propri e spiazzando altrui. Tra i pochi poteri
autonomi che ancora resistono, nel bene e nel male, c'è quella Banca
d'Italia che è una sorta di cittadella assediata, anche per i demeriti e
per le "amicizie pericolose" del governatore, adesso sotto il
fuoco incrociato del ministro Tremonti, del senatore leghista Roberto
Calderoli e del giullare di corte Sandro Bondi che ha chiesto la testa di
Antonio Fazio, da offrire su un piatto d'argento a Silvio Berlusconi, il
quale, di quel potere oscuro che lo rode ai fianchi, unico a poter
"misurare" le sciocchezze economico-finanziarie dell'esecutivo,
non ne vuole più sapere. «La richiesta delle dimissioni del governatore Fazio - dice Gavino Angius - svela ciò che già sapevamo: nel partito del presidente del Consiglio esiste un disegno politico finalizzato a giungere al controllo integrale sul sistema bancario italiano attraverso il dominio su Bankitalia». Per Angius «dei bilanci falsati però non si parla. Qui non si vuole nessuna authority indipendente che garantisca i risparmiatori. In realtà Tremonti vuole che il governo controlli tutto. E' un ministro tanto spregiudicato - attacca il capo dei senatori Ds - quanto privo del senso dello Stato e delle istituzioni, non all'altezza del compito che ricopre, pericoloso per la stabilità e la trasparenza del sistema bancario e finanziario del Paese». |
Il
racconto a Liberazione di una ragazza nigeriana, incinta di 6 mesi:
"sorpresa" col biglietto scaduto, uscita in ambulanza dal posto
di polizia |
Milano,
incubo in metrò |
Se
il tuo biglietto del metrò è scaduto anche solo di dieci minuti e sei
donna, perdipiù immigrata, a Milano rischi parecchio. Rischi che ti
portino al posto di polizia dove ti potrebbero sbattere a terra, facendoti
picchiare la testa sul pavimento e alla fine con un braccio malconcio
potrresti esssere denunciata per non aver voluto mostrare i documenti.
Anche se potrebbe non essere vero e alla tua borsetta strapazzata è
andata peggio che al tuo avambraccio pieno di ecchimosi. Al Policlinico di
via Sforza ti diranno che guarirai in dieci giorni ma nessuno ti ripagherà
della paura, dell'umiliazione, del terrore per le conseguenze sulla tua
gravidanza visto che il tuo pancione di venticinque settimane non ti
risparmia il trattamento. Stamattina Gioia, il
nome è di fantasia, andrà fino alla questura centrale di Via
Fatebenefratelli a denunciare quello che ha raccontato a Liberazione e che
le è accaduto lunedì mattina nei sotterranei del metrò di Piazza Duomo
dopo che i controllori dell'Atm l'hanno "sorpresa" sulla linea
1, la rossa, con un biglietto scaduto, ossia obliterato più di cinquanta
minuti prima dell'ispezione. Nigeriana
ventinovenne, da sette anni in Italia, Gioia vive dalle parti del
quartiere Baggio e lavora saltuariamente nel campo della ristorazione
collettiva e delle pulizie ma ora è disoccupata. La sua disavventura è
iniziata alle 11 della vigilia dell'Epifania. Secondo il suo racconto, in
un italiano a tratti stentato, nel posto di polizia avrebbe avuto il
brusco trattamento che abbiamo accennato nell'attacco. Dice ancora di
essersi sentita trattata come una ladra, dopo 24 ore è ancora molto
scossa. L'ambulanza è stata chiamata proprio dal posto di polizia, dopo
che lei ha rivelato la gravidanza, per condurla alla clinica Mangiagalli,
specializzata in pediatria. Da lì però è stata spedita a piedi al
pronto soccorso del Policlinico per fortuna non lontanissimo. Qui la
prognosi di dieci giorni poi una telefonata a un amico. Solo quest'ultimo
si renderà conto, leggendo le carte di Gioia, che le è stato nominato un
difensore d'ufficio poiché, sembra, non avrebbe ottemperato completamente
alla richiesta di identificazione ed è accusata di resistenza. Gioia
aveva certamente con sé la carta d'identità ma forse non il famigerato
foglietto di soggiorno. Infatti nel verbale consegnato alla ragazza si dà
per certa l'avvenuta identificazione. Restano senza spiegazione quei
lividi al braccio e il trauma cranico. Interpellata da Liberazione, la
questura centrale rintraccia subito l'annotazione della pattuglia
intervenuta che descrive una scena diversa: quella di una ragazza padrona
della lingua italiana che avrebbe scalciato contro i controllori al punto
da attirare l'attenzione degli agenti della "Polmetro" secondo i
quali avrebbe continuato a resistere anche con loro per non farsi
identificare. |
Il dg
Rai avvia un procedimento contro "L'elmo di Scipio"
Il presidente si oppone: "Smetta di fare l'avvocato di
Berlusconi"
Caso Deaglio,
nuovo scontro fra Annunziata e Cattaneo
Dall'azienda
"sconcerto" per la reazione e per i toni usati
|
ROMA - Nuovo scontro ai vertici Rai. Lucia
Annunziata si schiera con Enrico Deaglio. Dopo le polemiche
sollevate all'interno di Forza Italia dalla puntata di L'elmo di Scipio,
con l'intervista al direttore dell'Economist, il presidente della tv
pubblica ha annunciato che il direttore generale della Rai Flavio Cattaneo
"ha avviato l'iter per mettere 'sotto controllo'" il programma. E, nel
timore che si voglia "arrivare alla stessa conclusione di RaiOt", cioè
allo stop alla trasmissione, comunica con una nota che non si sottrarrà
"ad alcuna responsabilità di tipo politico e legale per difendere nella
programmazione della Rai l'autonomia delle testate e dei giornalisti".
Saputa la notizia, Enrico Deaglio commenta con una provocazione: "Dicessero
che non si può parlare male del premier, così ci adeguiamo". Poi, arriva
la replica dell'azienda: "sconcerto" per le dichiarazioni
del presidente Annunziata e una precisazione, da parte di ambienti della
direzione generale della Rai: nei riguardi del programma di Enrico Deaglio è
stata attivata una normale procedura, obbligata dalle regole che impongono il
rispetto del pluralismo.
"Si tratta di un dejà-vu - scrive Annunziata - di una sequenza fotocopia
che attraverso pretesti procedurali e contrattuali, come l'analisi approfondita
del contratto, una visione anticipata di più puntate e le valutazioni legali
dei contenuti, non dubitiamo voglia arrivare alla stessa conclusione di RaiOt".
"E questo - continua il presidente Rai - nonostante quella di Deaglio non
sia una trasmissione di satira ma un approfondimento giornalistico tutelato
dall'autonomia che a ogni giornalista deve essere riconosciuta".
"Il direttore generale - dice ancora
Annunziata - deve smetterla di intendere il suo ruolo come quello di avvocato
difensore della reputazione del presidente del Consiglio, che non ha bisogno di
difensori". "In un momento così delicato per l'azienda - prosegue la
nota - sarebbe più comprensibile e più dignitoso che Cattaneo si dedicasse a
non vendere fumo sui contenuti del digitale terrestre e a evitare volgarità e
mediocrità dilaganti in troppi programmi di intrattenimento della Rai".
L'affondo di Anunziata è pesante: "Il direttore generale di un servizio
pubblico non può giudicare i programmi con due pesi e due misure. Non ricordo
un solo caso nel quale sia intervenuto nei confronti di programmi pur
criticabili e criticati per eccessi filogovernativi. E questo posso permettermi
di dirlo, perché come presidente non mi sono mai intromessa nei contenuti dei
programmi né mai ho chiesto censure, nemmeno quando le critiche erano forti e
unanimi".
A questo punto, conclude Annunziata, "a difesa della dignità della Rai,
non mi sottrarrò ad alcuna responsabilità di tipo politico e legale per
difendere nella programmazione della Rai l'autonomia delle testate e dei
giornalisti, anche di quelli ritenuti 'dissidenti': indipendentemente dalla
parte che ne chiederà la censura".
Da ambienti della direzione generale Rai si sottolinea un certo
"sconcerto" per le parole del presidente, sia per i toni usati, sia
per il fatto che il direttore generale Cattaneo ha saputo della presa di
posizione di Annunziata dalle agenzie di stampa. Nei confronti di Deaglio,
comunque, non sarebbe prevista al momento alcuna chiusura in quanto, si precisa,
è stata attivata solo una normale procedura, per accertare che sia stato
garantito il pluralismo e per valutare l'eventualità di un riequilibrio,
previsto dalla legge. Una procedura analoga ha portato nei mesi scorsi alla
realizzazione di una puntata "riparatrice" di Excalibur, il
programma di Antonio Socci.
Deaglio commenta dicendo che "sarebbe meglio
stabilire per legge che non si può intervistare nessuna persona che critichi il
presidente del Consiglio". "Trovo che tutto ciò sia molto
strano", prosegue, che per ora non ha "ricevuto alcuna contestazione
formale o disciplinare da parte dell'azienda. Temo che vogliano operare una
messa in mora del direttore di rete. Comunque, dicessero esplicitamente che non
si può parlare male del premier, così ci si adegua".
Us-Visit,
l'America si trasforma in fortezza
Cambia,
in peggio, la vita per chi arriva negli Stati uniti. Rilevazione delle impronte
digitali e fotografia all'ingresso negli Usa. È l'ultima trovata dell'Agenzia
per la sicurezza interna voluta dal presidente Bush. Presi di mira gli stati del
sud del mondo, esclusa l'Europa
FRANCO PANTARELLI
NEW YORK
Da oggi cambia la vita dei
controllori e dei controllati negli aeroporti americani. Per chi arriverà dalla
maggioranza dei p aesi del mondo, la procedura di ingresso ha una novità che un
opuscolo diffuso dal ministero per la Homeland
Security (sicurezza interna ndr)
provvede a illustrare con i soliti disegnini e anche con qualche sforzo di
gentilezza. Primo disegnino: l'omino in fila porge il passaporto al controllore;
secondo: il controllore osserva il documento mentre parla all'omino
(presumibilmente rivolgendogli le solite domande: scopo del viaggio, durata
della permanenza, eccetera); terzo: il controllore invita l'omino a mettere le
dita sulla macchina che prende le impronte, quarto: il controllore scatta la
foto all'omino; quinto: l'omino si avvia verso il cartello «Welcome
to the U.S.A.» Tutto ciò si
chiama US-VISIT, che sta per Visitor
and Immigrant Status Indicator Technology,
cioè il programma, varato dal Congresso Usa all'indomani dell'11 settembre,
costato 380 milioni di dollari con cui il governo americano intende difendersi
dai terroristi. Per inaugurare la novità il ministro della Homeland
Security, Tom Ridge, è andato
personalmente ad Atlanta - il più trafficato aeroporto americano, 2.400 fra
arrivi e partenze ogni giorno - per sovrintendere alle operazioni e stringere la
mano ai primi viaggiatori che passavano attraverso il nuovo sistema. Lo scopo
del US-VISIT, ha spiegato il ministro, è rendere i confini americani «aperti
ai viaggiatori, ma chiusi ai terroristi». In pratica le impronte digitali
(rilevate con un sistema che non richiede l'inchiostro) e le foto (scattate con
il sistema digitale) confluiscono automaticamente nel cervellone dell'Fbi,
contenente tutti i dati su criminali, terroristi e sospettati, il quale, nel
giro di pochi secondi, fornisce il suo «ok», e allora il viaggiatore passa,
oppure il suo «check» (controllare), e allora il disgraziato finisce in una
stanza appartata per un'ispezione più approfondita.
Durante una «prova» compiuta giorni fa proprio
all'aeroporto di Atlanta sono state ventuno le persone «pescate» in questo
modo e consegnate all'ulteriore controllo, ha spiegato Ridge. I loro «record»:
traffico di droga, violenza sessuale e visto non in regola. Non proprio dei
santi, insomma, ma neanche terroristi. E la presenza fra loro di gente con il
visto non in regola, formula estremamente generica, sembra dare concretezza alla
protesta, per esempio, delle organizzazioni degli immigrati latinoamericani. «Non
sembra probabile che in questo modo verranno presi molti cattivi, ma è più che
probabile che molti immigrati resteranno incastrati nella burocrazia», ha detto
un'organizzazioni, chiamata La Raza.
L'operazione è scattata nei 115 aeroporti americani che
ricevono voli internazionali e in 14 dei maggiori porti del paese. Secondo le
statistiche, alla fine del 2004 saranno circa 24 milioni le persone che avranno
depositato la loro immagine e le loro impronte nel database del Fbi. Poi, a
partire dal primo gennaio 2005, il sistema entrerà in funzione anche nei
cinquanta valichi di frontiera con il Canada e il Messico. Per ora dal nuovo
sistema sono esenti le persone provenienti dai paesi con cui esiste un accordo
che li autorizza a entrare negli Stati uniti senza visto e a restare per un
periodo non superiore ai 90 giorni. Sono in gran parte paesi europei e quindi c'è
anche l'Italia. E ieri uno dei controllati proveniente dal Sud Africa affermava:
«Ma perché, i terroristi non possono essere anche europei?»
Fra i paesi esenti non c'è invece il Brasile, malgrado
avesse chiesto formalmente a Washington di essere inserito nella lista. La
risposta è stata negativa e così un arrabbiatissimo giudice di Brasilia di
nome Julier Sebastiao («è una cosa brutale, un attacco ai diritti umani, una
violazione dell'umana dignità, un atto xenofobo che richiama i peggiori esempi
nazisti», ha scritto nella sua sentenza) ha ordinato alle autorità brasiliane
di prendere «misure di reciprocità». Il governo del presidente Lula ha
obbedito e così ora i viaggiatori americani che atterrano a San Paolo o a Rio
de Janeiro dovranno anche loro farsi fotografare e lasciare le impronte
digitali. «All'inizio erano un pò seccati, ma quando gli abbiamo spiegato che
quello era lo stesso trattamento riservato ai cittadini brasiliani che andavano
negli Stati uniti, hanno mostrato di capire», ha detto un portavoce della
polizia brasiliana. «É un diritto sovrano del Brasile», ha riconosciuto
magnanimo il dipartimento di Stato americano.
Ma la
Georgia non è in America
Un
plebiscito popolare dà a un giovane cresciuto e formato negli Usa, Mikheil
Saakashvili, il posto che era di Eduard Shevardnadze a capo della repubblica
caucasica. Dovrà affrontare un'economia sfasciata, separatismi feroci e la
corruzione che domina la società. Mentre Usa e Russia si daranno battaglia
attraverso di lui.
ASTRIT DAKLI
Che la sera di domenica 4
gennaio la gente di Tbilisi avrebbe festeggiato un nuovo presidente nella
persona di Mikheil Saakashvili, nessuno ne dubitava. Il carismatico leader
nazionalista georgiano, infiammatore di folle, che aveva guidato l'opposizione
ad occupare per settimane le piazze della capitale fino alla caduta del
barcollante regime di Eduard Shevardnadze, si presentava a queste elezioni
presidenziali praticamente come candidato unico; dietro di sè aveva l'intera
classe politica nazionale (se così si può chiamare), compreso l'anziano ex
presidente da lui deposto; a sfidarlo, si fa per dire, un pugno di quattro o
cinque sconosciuti avvocati o funzionari, in rappresentanza di se stessi. Se si
aggiunge che Saakashvili e i suoi alleati avevano da due mesi in mano tutte le
leve di governo e tutti i media, e che in Georgia (come ovunque nell'ex Urss)
chi ha il governo difficilmente è capace di «giocare pulito» nelle elezioni,
è chiaro che il risultato non poteva che essere un plebiscito. Proprio per
questo, però, il risultato elettorale in se stesso vuol dire poco. Quel che
davvero conta è il bilancio che i georgiani cominceranno a fare quest'autunno:
un bilancio sul se e sul come il nuovo presidente sarà riuscito ad affrontare e
risolvere i terrificanti problemi che ha ereditato dal suo più esperto
predecessore, il quale li aveva lasciati marcire senza modificarne in nulla le
coordinate. L'elenco fa paura: un'economia annichilita da guerre, criminalità e
corruzione, con oltre metà della popolazione ridotta alla mera sopravvivenza
fisica; un territorio dilaniato dal separatismo «etnico» e dalla regressione
alla politica dei clan familiari; una collocazione internazionale delicatissima
che vede il paese come teatro di scontro diretto fra Stati uniti e Russia - uno
scontro giocato senza esclusione di colpi sul terreno politico, militare,
economico, nonché con l'uso spregiudicato di famiglie politiche, separatismi,
ambienti criminali. Una situazione complessivamente tragica, che ha visto la
Georgia precipitare in pochi anni da paradiso terrestre, ricco e spensierato
giardino delle delizie dell'Urss, a inferno di miseria, sangue e insicurezza.
Saakashvili, nonostante la vastità del consenso popolare,
non parte da buone premesse. I suoi primi slogan da oppositore di Shevardnadze
(il quale era stato suo mentore politico, facendone il più giovane ministro del
suo governo) erano «contro la corruzione»: perfetto, in un paese dove nulla si
muove senza pagare funzionari a tutti i livelli; ma questi funzionari ora sono
tutti al fianco del nuovo presidente, così come con lui sono i clan mafiosi, i
corpi armati (polizia e guardie varie) che impongono costose «protezioni» a
tutti, e via dicendo. Come potrà il giovane Saakashvili - che conosce il suo
paese più per averlo studiato mentre viveva negli Usa, o in Francia, che per
averci vissuto davvero - tagliare le tante teste dell'idra che egli stesso ora
guida?
Gli altri slogan che il neopresidente e il suo éntourage
continuano a scandire sono «a fianco dell'Occidente» e «più investimenti
stranieri». E non c'è dubbio che questo sia il «mandato» che ha accompagnato
la benedizione di Saakashvili da parte di Washington, delle multinazionali
petrolifere e, in misura più modesta, di alcune cancellerie europee. Una
benedizione accompagnata probabilmente anche da un po' di soldi, ma legata a
impegni ben precisi: ci si aspetta dal nuovo presidente che garantisca la rapida
e piena attuazione del progetto di un grosso oleodotto, che attraverso il
territorio georgiano dovrebbe portare il petrolio estratto dai giacimenti
offshore dell'Azerbaigian fino al porto mediterraneo di Ceyhan, in Turchia,
evitando di mettere il flusso di oro nero (pagando anche ricche royalties) nelle
mani dell'infido alleato russo.
Il giovane presidente, cresciuto e formato in America,
dotato di inglese perfetto e moglie occidentale (olandese), quando parla ai
giornalisti occidentali continua a giurare e garantire che l'oleodotto è la sua
priorità. Ma è abbastanza chiaro che le cose non sono facili e che se
Saakashvili vuol sopravvivere alla testa del paese dovrà scendere a
compromessi.
Ai georgiani, infatti, egli continua a giurare e promettere
che la sua priorità è il ristabilimento dell'unità nazionale. Anche sabato,
alla vigilia del voto, ha voluto compiere un gesto dimostrativo recandosi
brevemente nell'Ossetia del sud, una delle regioni separatiste, a dire che «queste
saranno le ultime elezioni cui gli abitanti dell'Abkhazia (l'altra regione
separatista, ndr) e dell'Ossetia non partecipano». Solo che i fili del
separatismo - e dunque le chiavi dell'unità nazionale georgiana - sono nelle
mani della Russia, che controlla militarmente ed economicamente le regioni
staccatesi dalla madrepatria con le guerre civili del `91-'93. E la Russia, pur
interessata a una stabilizzazione del suo vicino meridionale - anche perché
questo renderebbe più difficile alla guerriglia cecena usare le montagne
georgiane come proprio «santuario» - non gradisce neanche un po' il trend
filooccidentale (e devoto all'oleodotto Baku-Ceyhan) su cui Saakashvili dice di
volersi muovere.
Il neopresidente rischia - facendo passi azzardati per
compiacere Washington - non solo di far perdere definitivamente al suo paese l'Ossetia
del sud e l'Abkhazia (con il loro straordinario potenziale turistico: sono due
regioni di spettacolare bellezza), ma di perdere anche una terza regione, l'Adzharia
(a sud, affacciata sul Mar Nero e confinante con la Turchia) che già gode di
una autonomia quasi totale e il cui presidente-padrone Aslan Abashidze ha
ripetutamente detto nelle ultime settimane di esser pronto a rompere del tutto
le relazioni con Tbilisi, con l'esplicito sostegno di Mosca (che tiene in quel
territorio una delle tre basi militari tuttora attive in Georgia).
Né sembra pensabile che, nonostante il plebiscito in suo
favore registrato domenica, Saakashvili sia disposto a rischiare una nuova
guerra civile per riguadagnare, cacciandone i russi, il pieno controllo sul
territorio nazionale. Non a breve termine, comunque; non con un paese ridotto
allo stremo delle forze e, sia pur facilmente infiammabile dalle ideologie
nazionaliste, certo incapace di reggere a una prova tanto dura - come ha ben
dimostrato la complessa guerra civile del `91-'93, dove l'esercito georgiano
venne sbriciolato dagli avversari «etnici» e si trasformò subito in
un'accozzaglia di bande armate di clan, ciascuna legata al proprio territorio
familiare.
Lo stesso plebiscito di domenica, peraltro, anche a volerlo
accettare come autentica, piena e libera espressione di volontà popolare,
riflette più una speranza di un aiuto esterno - da un'America più mitica che
reale - che una volontà di combattere. I georgiani sono certo abituati (meno
degli armeni, ma più di altre nazioni dell'ex Urss) a rapportarsi a una
diaspora ricca e influente: resta però il fatto che è difficile immaginare una
distanza maggiore di quella che separa il giovane e brillante avvocato laureato
alla Columbia university da una società disperatamente povera, il cui destino
economico è ancora legato all'agricoltura e il cui principale cemento è
costituito dalla religione (una variante autoctona della chiesa ortodossa). Se
gli elettori hanno dato in massa il proprio consenso a Saakashvili è perché
questi offre con la sua stessa persona un'immagine di riscatto e successo «grazie
all'America». Ma la delusione potrebbe essere veloce, e amara.
Ricerca su 2500
famiglie da 800 euro al mese,
i piccoli di casa consumano caramelle e telefonano
Soli davanti a
tv o videogame
i figli dell'Italia a basso reddito
|
ROMA - Vivono nelle periferie della
grandi e piccole città. A Milano come a Palermo; a Torino come a Mestre, o a
Genova, o a Bologna o a Bari. Sono i figli delle famiglie a bassissimo reddito
(due milioni 456 mila secondo i più recenti dati Istat), quelli che nascono e
crescono da genitori che alla fine del mese ci arrivano con sì e no 800 euro.
Eppure, incredibilmente, sembra che proprio loro siano "buoni
consumatori" ai quali i pubblicitari guardano con avido interesse poiché
"il senso di colpa dei genitori, una certa autonomia nella gestione della
pur minima paghetta, fa sì che siano forti acquirenti e fruitori di certi
prodotti".
Lo sostiene il massmediologo Klaus Davi che, avvalendosi di un pool di
psicologi, firma uno studio (commissionato da un colosso internazionale nel
campo dei videogiochi) che ha coinvolto 2.500 famiglie italiane. La ricerca che
verrà pubblicata in marzo, è durata sei mesi ed ha riguardato tutto il
territorio nazionale.
La fascia di età più critica, quella durante la quale il desiderio di
"cose" aumenta e dunque aumenta anche la vulnerabilità dei ragazzi ai
messaggi pubblicitari, va dagli otto ai sedici anni. Così scopriamo che essi
sono grandi consumatori di videogiochi (17 per cento degli acquirenti), patatine
e caramelle (32 per cento), internet (16 per cento), riviste in target (27 per
cento), riviste per adulti (22 per cento) e soprattutto (ma questo sorprende
poco) televisione: il 59 per cento dell'intero target della fascia auditel che
va dagli otto ai venti anni.
Klaus David li chiama i figli di un universo dimenticato. "Dimenticato
dalla politica. Famiglie per le quali non esistono strutture di sostegno sul
territorio, di fatto abbandonate a se stesse. Un universo nel quale si alimenta
l'invidia sociale, l'odio per i privilegiati, il disprezzo per la cultura, la
schiavitù al consumismo più acritico, la violenza". Un universo nel quale
questi bambini vivono spesso in solitudine restando dalle tre alla quattro ore
al giorno senza nessuno adulto in casa. Mangiano irregolarmente prodotti per lo
più pubblicizzati in tv, il più delle volte grassi e poco salutari per la loro
età; vedono in media cinque ore di tv al giorno; ingurgitano nell'arco della
giornata qualcosa come 200 spot (ogni giorno su Rai, Mediaset, La7 e tv locali
ne vanno in onda 2.500 tra le 14 e le 19); e sfogliano riviste per soli adulti o
vedono cassette hard. Eppure, dice David, raramente questi "baby clienti
fedeli e affidabili" figurano nelle ricerche di mercato. Almeno finora.
Il fenomeno non è solo
italiano: Il ricercatore informa che più o meno nella stessa situazione di
oblio si trovano i ragazzi inglesi (18 per cento), quelli tedeschi (15 per
cento), spagnoli (22 per cento), francesi (19 per cento). L'idea dei genitori su
ciò che fanno i propri figli quando restano soli in casa mentre loro sono al
lavoro non coincide con quello che i ragazzi ammettono di fare. C'è discordanza
soprattutto sui compiti: dichiara di farli il 32 per cento; credono che i figli
li facciano il 56 per cento. Ma praticamente le due visioni non vanno mai di
pari passo. Ciò che avviene realmente è che i ragazzi stanno appiccicati alla
tv o al telefono, studiano, giocano in modo tradizionale, smangiucchiano, usano
giochi elettronici, fanno merenda, leggono. Quel che i genitori pensano che
fanno è: studiare, mangiare regolarmente, tv, giocare tradizionalmente,
telefonare, leggere, usare giochi elettronici, smangiucchiare.
Sul mercato ovviamente il sesso dei consumatori conta, anche a dieci anni. E
dunque scopriamo che i maschi sono divoratori di film violenti, sport,
videogiochi violenti, radio, manga giapponesi, internet. Le femmine: fiction e
soap, radio, musica in tv, riviste rosa per ragazze, internet. Entrambi mostrano
un certo interesse per i video erotici: li guarda il 12 per cento dei ragazzini
e l'8 per cento delle ragazzine. Si tratta per lo più di film registrati
durante la notte. Ovviamente all'insaputa dei genitori.
2 gennaio
L'Ires-Cgil:
nel periodo '91-2003 il potere d'acquisto
dei dipendenti è diminuito dello 0,5 per cento
Sei
milioni di lavoratori vicini
alla soglia di povertà
Cresce
solo la produttività. Nell'ultimo decennio
meno
del 20% della ricchezza è andata al fattore lavoro
di
RICCARDO DE GENNARO
ROMA
- Tre milioni di lavoratori con un salario netto compreso tra i 600 e gli 800
euro, altri tre milioni circa con una busta paga un po' più consistente, ma che
raggiunge a malapena i 1.000 euro. I "lavoratori poveri", coloro che
pur lavorando tutti i giorni gravitano intorno alla soglia di povertà, sono sei
milioni. Tanti. La stima è contenuta in uno studio dell'Ires-Cgil sulla
politica dei redditi e la dinamica delle retribuzioni nel 2003, che verrà
presentato nelle prossime settimane.
Dallo studio emerge un fatto nuovo, particolarmente inquietante: se è vero che
il "lavoratore povero" nasce come prodotto dei contratti atipici,
della flessibilità, del sommerso diffuso, è altrettanto vero che oggi il
fenomeno ha ormai raggiunto "anche categorie storiche del cosiddetto "made
in Italy", dell'edilizia, dell'artigianato, dei servizi". Lavorano, ma
hanno un livello di vita che è poco sopra quello di un disoccupato.
Il rischio è che con i tagli al Welfare, lo spostamento dell'asse dei servizi
dal pubblico al privato, l'aumento dell'inflazione, il numero dei lavoratori che
non riescono ad arrivare a fine mese continui ad aumentare. Di qui l'urgenza,
sottolinea l'Ires-Cgil, di tornare a parlare a partire dalle condizioni reali
dei lavoratori e non più in termini di "media statistica". Di
riaprire, dunque, la questione salariale, attraverso una nuova politica dei
redditi che passi per il rilancio della concertazione e restituisca dignità al
lavoro.
Qual è la causa della progressiva povertà dei salari? La mancata distribuzione
al fattore lavoro della produttività delle imprese. Che non è prevista,
nonostante la solitaria battaglia della Fiom tra i metalmeccanici, a livello di
contratto nazionale e che riguarda un numero limitato di aziende a livello di
contrattazione integrativa.
I
risultati dei confronti internazionali sono preoccupanti. Da un'elaborazione
dell'Ires-Cgil su dati Ocse e Istat emerge che nel decennio '91-2000 in Italia
le retribuzioni lorde sono aumentate - in termini reali (cioè depurati
dall'inflazione) - soltanto del 3,3%, a fronte di un aumento della produttività
reale per addetto del 18,7%. Nello stesso periodo, in Germania le retribuzioni
reali sono aumentate del 9,1% (contro una crescita della produttività per
addetto del 21,1), in Francia dell'8,% (33,6), in Danimarca del 12,9 (18,9). Nei
Paesi Bassi e negli Stati Uniti la forbice è più ampia: negli Usa addirittura
la produttività per addetto nel decennio è salita del 40%, mentre i salari
reali sono cresciuti soltanto dell'1,5%.
Ma nel 2003, per la prima volta dopo vent'anni, le retribuzioni di fatto sono
aumentate meno dell'inflazione, determinando una perdita secca di potere
d'acquisto. Nel 2003 una famiglia di tre persone con due redditi medi da lavoro
dipendente ha perso potere d'acquisto per 720 euro: causa la flessione della
retribuzione e la mancata restituzione del fiscal drag. Nel 2003 gli italiani
risultano di fatto più poveri dello 0,5% rispetto al '91. "Tra il '96 e il
2001 si recupera potere d'acquisto, ma negli ultimi tre anni - dice Megale - è
ripreso il declino, i lavoratori non hanno più visto un centesimo di
produttività. Il governo Berlusconi ha adottato una sorta di riduzione
programmata e strutturale dei salari".
C'è qualcosa che non funziona nella redistribuzione del reddito: i meccanismi
sembrano girare al contrario. Le retribuzioni lorde pesano attualmente sul Pil
per il 30%, ma erano pari al 36% nell'82. I profitti, invece, sono aumentati, in
rapporto al Pil, di cinque punti percentuali: oggi, insieme ai redditi netti da
lavoro autonomo, pesano per il 31,9% del Pil. Lo si può dire anche così:
"Nell'ultimo decennio - scrive l'Ires - meno del 20% della ricchezza
prodotta è andata al lavoro, contro oltre l'80% finito a profitti e
tasse". Significa che la concertazione non è stata favorevole ai
lavoratori. "Va ripristinata, ma rivista", dice il presidente Ires,
Agostino Megale. Il quale ammette che "la vecchia politica dei redditi non
funziona più: bisogna fissare un'inflazione programmata più vicina a quella
reale e mantenere i salari al di sopra dell'inflazione redistribuendo al lavoro
oltre il 50 per cento degli incrementi della produttività".
Lo slogan dell'Ires è infatti questo: "Fare crescere la produttività e
darne di più al lavoro". L'Ires chiede "politiche contrattuali che
rivalutino il lavoro operaio pagando di più disagi e flessibilità",
politiche fiscali che sostengano la crescita dei redditi bassi, l'introduzione
di un indice di riferimento al paniere reale delle famiglie, più vicino del
paniere Istat ai consumi dei lavoratori dipendenti e dei pensionati. L'Ires-Cgil
fa questo esempio: "Due pensionati con un reddito familiare di 16mila euro
hanno avuto un'inflazione del 4-5 per cento".