Archivio Gennaio 2004

 

30 gennaio

Il telegiornale lo fa chi governa
Il ministro Giovanardi: «La maggioranza ha diritto all'ultima parola, sono le regole della democrazia». I giornalisti insorgono. L'opposizione chiede l'intervento dell'Authority contro il controllo politico sull'informazione. Annunziata: «No all'esame del Dna politico dei professionisti»
MICAELA BONGI
ROMA
Non vogliono mandare giù il «panino» del governo, quei servizi confezionati in modo tale che la Casa berlusconiana abbia sempre l'ultima parola. Ma non sanno, i giornalisti del Tg1, che queste sono le regole della democrazia. E non lo sanno perché prima di essere giornalisti sono «militanti». Parola del ministro dei rapporti con il parlamento, l'Udc Carlo Giovanardi. All'indomani dell'assemblea a Saxa Rubra sul caso del vicedirettore Daniela Tagliafico, che ha chiesto al direttore Clemente J. Mimun di essere sollevata dal suo incarico, l'offensiva della destra sull'informazione Rai ha assunto una portata inedita. Ecco infatti che ci pensa Giovanardi a dare una lezione di libera informazione ai giornalisti del servizio pubblico. «Mi spiace molto - premette - che il Tg1 di Mimun, il tg più amato e più seguito dagli italiani, non piaccia ai militanti di quella redazione». Ma in democrazia funziona così: «Le motivazioni del vicedirettore Tagliafico denunciano una totale ignoranza delle regole parlamentari, culla della democrazia - spiega il ministro, dall'alto delle sue competenze - dove il governo può intervenire quando ritiene opportuno e l'ultima parola spetta sempre al gruppo parlamentare più forte. Forse la Tagliafico si confonde con i processi, dove l'ultima parola spetta sempre agli imputati, ma in democrazia sono gli elettori a indicare chi ha diritto di parlare per ultimo».

Gli attacchi scomposti con cui, dopo la reazione preoccupata del margheritato Renzo Lusetti, la destra sommerge i «militanti» del Tg1 la cui «offensiva è destinata a finire su un binario morto» (parola del forzista Lainati) non riescono a attutire il clamore delle affermazioni di Giovanardi, ma anzi lo evidenziano. L'idea del ministro «è vera quanto incredibile - trasecola il segretario del Prc Fausto Bertinotti - E' l'idea del Minculpop, secondo cui l'autonomia dell'informazione non esiste e in realtà c'è un solo sovrano: il governo». Il responsabile informazione della Quercia, Fabrizio Morri, parla di un «salto di qualità nel rapporto tra governo e mezzi d'informazione», dimostrato dalle reazioni dello stesso Mimun, oltre che da quelle «dei suoi sponsor politici». Per tutta risposta, il direttore del Tg1 liquida così la vicenda che da giorni scalda la sua redazione: «Apprendo dal responsabile dell'informazione Ds di mie reazioni sprezzanti a non so cosa. Visto che a differenza di altri conosco anche il valore del silenzio oggi l'ho volentieri praticato».

Epperò le affermazioni di Giovanardi provocano un coro di indignazione anche nel mondo della stampa. L'Usigrai, il sindacato dei giornalisti Rai, denuncia la «totale incomprensione delle più elementari norme del giornalismo e delle ragioni dell'autonomia professionale»; la Fnsi parla di democrazia confusa «con la dittatura, dove le regole dell'informazione vengono dettate dai potenti»; il segretario nazionale dell'Ordine dei giornalisti, Vittorio Roidi, non vuole credere né accettare che «in una nazione retta da una Costituzione liberale che ha il suo pilastro nell'articolo 21, un ministro dica che spetta alla maggioranza di governo decidere. E questa la libertà di stampa?», domanda. E sulla sortita di Giovanardi interviene anche l'Associazione stampa parlamentare, ricordando che «un conto sono le regole democratiche di funzionamento delle assemblee parlamentari e un altro la libertà d'informazione e i doveri del giornalista a essa collegati».

Il caso del Tg1 si somma a molti altri, più o meno recenti. Alla vigilia degli Stati generali dell'informazione (oggi all'Auditorium di Roma), il segretario della Quercia Piero Fassino si augura che da quella sede arrivi una risposta «all'emergenza critica». Mentre i capigruppo dell'opposizione alla camera e al senato si rivolgono con una lettera al presidente dell'Authority delle comunicazioni, Enzo Cheli. Al garante chiedono di verificare «le cause dei sempre più evidenti e numerosi comportamenti discriminatori della Rai» e di garantire «il rispetto dei principi di pluralismo e della professionalità da parte del servizio pubblico», segnalando come nell'imminenza di importanti scadenze elettorali si moltiplichino le «iniziative volte a irrigidire il controllo politico indebito sull'informazione Rai». Ultime, le vicende del Tg1 e della striscia informativa dalla quale sono stati esclusi i giornalisti sgraditi al governo. E, prima ancora, le ispezioni al Tg3, il caso Raiot, quello dell'Elmo di Scipio... Sulla striscia prevista da febbraio su Raiuno è tornata ieri la presidente Rai Lucia Annunziata per «chiarire definitivamente che avendo io avanzato una proposta che ritenevo equilibrata, mi sono rifiutata di prendere in esame ulteriori candidati per non dare luogo a uno shopping di professionisti che non meritano di essere sottoposti all'esame del loro Dna politico».


TELEKOM
Pera, Casini e Ponzio Pilato
I presidenti di camera e senato intervengono (per la terza volta) sulla commissione Telekom Serbia. Ma al centrosinistra, che da tre settimane ha abbandonato la bicamerale in polemica per la gestione troppo accondiscendente nei confronti delle calunnie di Igor Marini, rispondono lavandosi le mani: non possiamo «in alcun modo interferire» fanno sapere. Una posizione che i parlamentari del centrosinistra giudicano «insufficiente».

 

29 gennaio

Il presidente di viale Mazzini sui nomi sgraditi al governo per la fascia informativa dopo il Tg1: "Ho pensato a pressioni esterne"
Annunziata: "Rai mattatoio
delle professionalità"
Cattaneo: "Margini d'accordo: il programma si farà"

Annunziata con Gasparri

ROMA - "Questa azienda sta diventando un mattatoio di professionalità. Non ho più intenzione di occuparmi della fascia informativa delle 20.30 su Raiuno". Dopo la denuncia di ieri sulla bocciatura da parte del Cda Rai di alcuni giornalisti sgraditi al governo, il presidente di viale Mazzini Lucia Annunziata spiega quanto successo in Consiglio sulla striscia che dovrebbe sostituire Il Fatto di Enzo Biagi. Uno spazio di informazione che, nonostante le polemiche, "si farà" secondo il direttore generale Flavio Cattaneo.

"Una fascia di questo tipo - rileva Annunziata - non pesa poco, non ha poca rilevanza, soprattutto in campagna elettorale. E' stata aperta la discussione ed eravamo 5-0, per una volta non 4-1. I verbali del consiglio riportano il fatto che si parlava di vari nomi di conduttori per aumentare il pluralismo interno ed esterno".

La questione poi, ha ricordato il presidente, doveva passare alla rete e al direttore generale: "Il mio è stato un discorso esplorativo sui conduttori: la mia personale opinione, credo condivisa dal direttore generale, è che bisognasse tentare, invece di far esplodere le tensioni dentro la Rai, in un momento delicato come quello della campagna elettorale, di incanalare la dinamica fra i poli, in modo che fosse rappresentata in maniera autonoma, moderata, esplicativa, non militante". "La mia esplorazione riguardava una serie di nomi che non farò - ha sottolineato Annunziata - per evitare il rischio di fare shopping nel supermercato della bravura dei colleghi".

Esclusi i direttori dei giornali, il discorso si è orientato "verso solide professionalità, con credibilità, moderazione e condivisione: pensavo - ha ribadito il presidente - di essere arrivata ad un accordo in consiglio, invece mi sono trovata in consiglio con un no in particolare a un nome, definito spiacevole per il governo. Ho pensato allora che qualcosa fosse cambiato: non so perché ho pensato ad una pressione esterna".


Quando perciò ha letto le dichiarazioni del Polo sui problemi al Tg1 "in cui si parlava di pressioni politiche dall'esterno", Annunziata ha deciso di portare l'esempio delle "pressioni" intorno alla striscia informativa. "Ho fatto una scorrettezza? Certamente. L'ho fatto apposta? Sicuramente. Ma non voglio stare in un clima di doppio standard. Al Tg3 hanno mandato gli ispettori su una denuncia del premier; al Tg1, dove ci sono molti esempi di disagi professionale, non è stata neanche aperta la discussione in consiglio. La solidarietà a Mimun va benissimo, ma per me Mimun, i vicedirettori e la redazione sono la stessa cosa. Vogliamo giocare al doppio standard? Io non ci sto".

La presidente ha infine sottolineato di aver dato "ampiamente dimostrazione al consiglio, ai dipendenti e al pubblico di non essere appassionata alle risse. Sul caso Bonolis-Striscia non c'è stato nessun problema da parte mia. Ma gli interessi della Rai sono gli interessi della Rai: e in questo caso gli interessi dell'azienda per me coincidevano con una striscia che rappresentasse una forma di concordia e la scelta dei nomi doveva essere parte di una gestione consensuale".

E i margini per trovare un accordo, secondo Cattaneo, ci sono: "La striscia si farà, c'è nel piano di trasmissione", ha detto il direttore generale aggiungendo che "l'intento è questo. Sono per cercare una soluzione condivisa, non per farne un ulteriore campo di battaglia. Abbiamo una settimana per definire questa cosa. Lo scontro per me rimane l'ultimo stadio".

 

28 gennaio

Dai magistrati contabili attacco alla discrezionalità del ministero dell'Economia: "Decisioni che prevaricano il Parlamento"
Corte dei Conti contro Tremonti
"Un caso unico in Occidente"
Abuso di una tantum e di consulenze
poca trasparanza, gravi sprechi di risorse

ROMA - Troppa ''discrezionalità" sui conti pubblici è lasciata al ministro dell'Economia, una discrezionalità che non ha pari negli altri paesi dell'Occidente". Dopo l'attacco ieri del governatore di Bankitalia Antonio Fazio, è oggi la Corte dei Conti a dare addosso al ministro Giulio Tremonti. Nella relazione sullo stato della giurisdizione e dei controlli, la magistratura contabile accusa il dicastero di Tremonti di prevaricare il Parlamento con decreti legge e interventi una tantum, di ricorrere a troppe consulenze esterne e di gestire i conti pubblici con poca trasparenza e con gravi sprechi di risorse. I magistrati della Corte dei Conti, elencando una per una le falle dell'amministrazione pubblica, auspicano il restauro di "una generale cultura del controllo e della responsabilità". Vediamo, punto per punto, le accuse della Corte dei Conti.

Troppa discrezionalità a Tremonti: il caso del decreto 'taglia-spese' del 2002
"Alla fine del 2002 il decreto legge taglia-spese ha spostato l'asse decisionale dal Parlamento al governo e alla Ragioneria, indebolendo la resistenza della decisione parlamentare del bilancio e delle leggi di spesa e di entrata, con l'attribuzione di una discrezionalità al ministro dell'Economia che non ha riscontro nel panorama comparatistico delle democrazie dell'Occidente".

Il caso della Finanziaria 2004
La sessione di bilancio 2004 "ha travolto la procedura parlamentare condivisa, seguita dall'inizio degli Anni 90, affidando la manovra fuori dalla disciplina della sessione di bilancio, ad un decreto legge".


Troppe misure una tantum, poca trasparenza
"Poca trasparenza nel bilancio delle pubbliche amministrazioni, coperture finanziarie 'inconsistenti' per la riforma del fisco e per quelle del settore del Welfare, troppe operazioni una tantum, che hanno avuto la funzione di tamponare momentaneamente la situazione del disavanzo rinviando però gli oneri agli anni successivi". La magistratura contabile mette in rilievo ''seri problemi di trasparenza'' dei conti pubblici, anche a causa degli interventi in materia di patrimonio e di privatizzazioni immobiliari e a causa del ''crescente ricorso ad operazioni poste al di fuori del bilancio e dei conti della P.A.''. Tutto questo ''ha reso ancora piu' opaca la conoscibilita' ex ante e la trasparenza del rendere conto ex post''.

Abusi consulenze private, sprechi risorse
Una nuova forma di spreco di denaro sta prendendo sempre più piede nella pubblica amministrazione: l'abuso delle consulenze chieste ai privati, che nel 2003 sono cresciute di oltre il 50%. Nella mappa degli sprechi, i magistrati contabili ribadiscono anche quest'anno che continua a essere "forte" l'evasione fiscale, così anche le gestioni fuori bilancio, l'amministrazione del demanio e del patrimonio, quella del personale, il recupero dei crediti, la gestione della sanità. Ma il maggiore aumento quantitativo e percentuale delle ipotesi di danno è quella connessa non all'uso, ma all'abuso delle consulenze chieste dalle Amministrazioni a privati e degli incarichi ad essi attribuiti. Tutto ciò "contribuisce di conseguenza d aggravare i costi di gestione, a mortificare la professionalità di pubblici dipendenti e a far sorgere il sospetto di favoritismi". Nel 2003 il costo delle consulenze "ha raggiunto, specie negli enti pubblici economici e nelle Spa a partecipazione pubblica, punte di incremento annuale di oltre il 50%, in termini numerici e di costi".

Condoni
Le entrate straordinarie da condoni fiscali sembrerebbero avere "un ruolo solo in parte aggiuntivo rispetto alle entrate ordinarie". La magistratura contabile sottolinea anche che l'importo complessivamente atteso per l'esercizio finanziario 2003 da condoni e sanatorie è di 12,6 miliardi di euro.
Il fatto che i condoni avrebbero un ruolo "solo in parte aggiuntivo" sul complesso delle entrate è collegabile, secondo la Corte, "alla fisiologica contrazione dei versamenti a titolo di accertamento e controllo".

Insuccesso del governo nel sommerso

I programmi del governo per sconfiggere il sommerso "non sembrano aver avuto molto successo". Se il programma messo in campo dalla precedente legislatura "è rimasto sostanzialmente inattuato", gli strumenti messi in campo dal nuovo governo hanno ottenuto risultati modesti". Secondo la magistratura contabile, "il fenomeno del sommerso continua ad avere in Italia dimensioni molto maggiori di quelle riscontrate negli altri Paesi dell' Ue" e "secondo studi comparativi svolti in sede internazionale, la quota sul Pil dell' economia sommersa sarebbe in Italia del 26,2%".

Restaurare cultura controllo
"Qualunque sia il settore, pubblico o privato, in cui una gestione di pubbliche risorse si trovi ad operare ciò non significa affatto che il concetto di discrezionalità amministrativa possa tramutarsi in autonomia privata e in irresponsabilità di fatto: il rispetto del cittadino contribuente, sostanziale azionista delle aziende pubbliche, moralmente e giuridicamente lo vieta".

Il governo sfiora la crisi
Braccio di ferro tra Berlusconi e Fini. Il leader di An a un passo dall'uscita dal governo. Poi il premier strappa la tregua grazie a una dichiarazione del suo portavoce che promette «maggiore collegialità nelle scelte di politica economica» per il futuro. Ma nella sostanza il dissenso tra i due resta totale, e il rischio di rottura rimane altissimo
ANDREA COLOMBO
ROMA
Crisi vicinissima, evitata per un pelo dalla tregua firmata da Berlusconi e Fini dopo quasi tre ore di braccio di ferro. Ma lo spettro incombe ancora. I nazional-alleati ostentano ottimismo, ed è possibile che tra i due partiti maggiori della destra lo sblocco di ieri, pur limitatissimo, preluda a un vero disgelo. E' possibile, ma tutt'altro che certo. La partita è ancora tutta da giocare. Il meeting di ieri tra il premier e il suo vice ha solo evitato che lo scontro degenerasse in rottura clamorosa. Ieri a mezzogiorno, forse per la prima volta, il centrodestra è arrivato davvero a un millimetro dalla crisi di governo. Il colloquio tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, previsto per la giornata, non era ancora stato neppure fissato. Ma i due si erano già visti la sera precedente a villa Madama, per la cena ufficiale offerta al vice di Bush Dick Cheney. Quello che doveva essere un breve pre-colloquio è diventato lì un incontro in piena regola. Di fronte all'ennesima barricata eretta dal premier a difesa del suo ministro dell'economia, Giulio Tremonti, Fini ha messo apertamente sul tavolo la carta che minacciava di giocare da settimane. L'uscita dal governo sua e dei suoi ministri. Il passaggio di An all'appoggio esterno. Nella migliore delle ipotesi l'anticamera della crisi di governo. Più probabilmente l'apertura immediata della crisi.

Ieri mattina il capo di An ha convocato il coordinatore del partito La Russa, ha spiegato che la situazione sarebbe potuta precipitare di lì a poco, e la notizia è rapidamente arrivata nel quartier generale dell'altro partito che nella maggioranza compone il fronte ribelle, l'Udc.

L'appuntamento col premier che è stato poi fissato per le 13, a palazzo Grazioli. E in quella sede la distanza tra i due principali leader del centrodestra è riemersa per intero. Berlusconi conferma la sua strategia. Vuole fare delle prossime elezioni una battaglia campale, decisiva. Per combatterla nelle condizioni per lui più vantaggiose insiste nel mettere al primo posto dell'agenda politica la riforma elettorale e quella della par condicio. Ha promesso a Bossi di portargli in dono il suo «federalismo» in tempi brevissimi, e intende mantenere la promessa. Perché teme le alzate di testa dell'imprevedibile leghista, ma anche perché è convinto che questo chiedano gli elettori del nord. Non dimentica, infine, la sua principale ossessione, la campagna contro il potere togato. Il tempo stringe, e il premier vuole muovere all'assalto con la sua tante volte minacciata riforma della giustizia.

E' un calendario diversissimo da quello del numero due di palazzo Chigi, che batte martellante sempre sullo stesso tasto. La necessità di una sterzata nella politica economica, garantita da solenni impegni, da dichiarazioni pubbliche, ma anche e più concretamente da un ridimensionamento tangibile dell'onnipotenza di Tremonti. Per supportare le sue argomentazioni ha messo di nuovo sul piatto della bilancia le dimissioni, e a questo punto, dopo oltre due ore e mezzo di trattativa, sull'orlo del precipizio, il cavaliere ha aperto uno spiraglio. Minimo, ma sufficiente per non dare ancora per persa la partita.

Berlusconi ha promesso. Si è impegnato a considerare la svolta in politica economica con tutta la serietà del caso. Ha assicurato di essere pronto a garantire quella collegialità che Fini e Follini reclamano invano da mesi. Fini ha chiesto un pegno, e lo ha ottenuto. Una dichiarazione ufficiale del portavoce del premier Paolo Bonaiuti: «Il presidente Berlusconi ha assunto da oggi in prima persona l'iniziativa di concordare con gli alleati le priorità dell'azione di governo. Si tratta di garantire una effettiva collegialità nelle decisioni più importanti, specie per quel che attiene alla poltiica economica».

Sulla base di queste righette Fini, che uscendo da palazzo Grazioli non aveva voluto dichiarare nulla («Non siate indiscreti»), convoca a palazzo Chigi nel tardo pomeriggio lo stato maggiore del suo partito, tutti i iministri più il coordinatore La Russa. Alla fine tutti gli an sbandierano una soddisfazione e un ottimismo persino sospetti. Nania: «Attendiamo con fiducia le decisioni del premier». Alemanno: «Il colloquio non è andato male». La Russa: «Berlusconi ha capito. Oggi comincia la verifica vera».

Forse hanno ragione. Ma di concreto, per ora, non c'è nulla se non la promessa del sottosegretario Bonaiuti. Berlusconi, al contrario, ha detto chiaro e tondo che il superministro non si tocca. Collegialità sì, ma con le redini ben salde nelle mani di Tremonti. E su questa base la tregua di ieri potrebbe rivelarsi fragilissima. Roba di pochi giorni se non di poche ore.

L'Udc, dal canto suo, aspetta. Ma se le cose dovessero andare bene, con Fini nel governo e una svolta (almeno a parole) nella politica economica, la decisione di rinviare il chiarimento a dopo le elezioni europee non reggerebbe più. A quel punto i centristi, sia pur controvoglia, dovrebbero rientrare in partita. Lo stesso rifiuto opposto dal segretario Follini a una poltrona ministeriale potrebbe essere rimesso in discussione. Ma anche se la tregua non reggesse e l'ombra della crisi tornasse a profilarsi imminente, i centristi avrebbero poche possibilità di evitare uno schieramento a fianco del loro alleato di sempre, Gianfranco Fini, contro i nemici perenni, Umberto Bossi e Giulio Tremonti. Costi quel che costi.

 

 23 gennaio

Mutilate, solo un po'
GIULIANA SGRENA
E'possibile ridurre il danno dell'infibulazione? Una pratica aberrante che, attraverso varie forme di mutilazioni sessuali più o meno invasive, garantisce il controllo della vita sessuale di una donna, fin dai primi anni di età, attraverso la privazione del piacere e la chiusura della vagina? A sostenerlo è un medico somalo che vive a Firenze e che ha escogitato un'«alternativa» - una semplice puntura di spillo sul clitoride anestetizzato, sostiene - per sottrarre le bambine alle mammane e agli effetti devastanti del rituale tradizionale. Una puntura di spillo che però i medici pronti a praticarla - guarda caso - per premunirsi chiedono una autorizzazione scritta dei genitori. Già, perché l'infibulazione è la mutilazione del corpo di un minore e con che diritto un genitore può autorizzarla? E' difficile immaginare che i fautori dell'infibulazione si accontentino di una puntura di spillo, ma se anche così fosse e si volesse semplicemente mantenere il rituale è inaccettibile che una struttura pubblica (le Asl) possa legittimare, anche simbolicamente, una pratica così aberrante come una mutilazione ritenuta una violazione dei diritti umani delle donne e delle bambine dalla Convenzione internazionale sui diritti umani e dalla Carta africana sui diritti umani e dei popoli. Proprio dieci anni fa la Conferenza del Cairo, e quella di Pechino poi, si ponevano come obiettivo la sua abolizione.

L'inviolabilità del corpo è un valore universale che non può essere mercanteggiato in nome della riduzione del danno irreversibile che peraltro non è solo fisico ma anche psicologico. E guarda caso a firmare l'accordo sul progetto alternativo sono stati tutti maschi, che si sono guardati bene dall'interpellare le donne (immigrate) interessate che, a giudicare dalle reazioni, sono assolutamente contrarie. Togliendo così ogni giustificazione anche ai fautori del relativismo culturale.

Perché invece di ridurre il danno non si è pensato ad evitarlo con una campagna di informazione che denunci tutti i danni di questa pratica e ne sveli le mistificazioni che la vogliono legata alla religione - l'infibulazione ha un'origine precristiana e si è diffusa in alcune società cristiane animiste, musulmane e anche tra gli ebrei falascia. Se sconfiggere la pratica dell'infibulazione è difficile ancor più ardua è la battaglia per togliere ai maschi il controllo della sessualità della donna. Ma non possiamo rinunciare.


22 gennaio

TELEVISIONE
Fedele nei secoli
DOMENICO STARNONE
Lunedì sera, a Otto e mezzo, trasmissione della 7 che non ha niente di felliniano ma si distingue per i primissimi piani che scavano nel naso, nelle orecchie, nei pori di Giuliano Ferrara, di Barbara Palombelli e dei loro ospiti, c'era Fedele Confalonieri. Il presidente di Mediaset è un uomo colto, misurato, lontano dagli entusiasmi ciechi alla Emilio Fede. Ha detto con toni distanti che il suo datore di lavoro e presidente del consiglio Silvio Berlusconi ha fatto e fa tutto il meglio per l'azienda e per il paese. E' stato garbatamente vago su un eventuale ingresso in politica della sua autorevole persona. Ha mostrato qualche preoccupazione per la guerricciola Ricci-Bonolis che getta fango sul totem Televisione, un feticcio d'oro zecchino. Si è appena appena adombrato per certe illazioni antipatiche sul suo modo di far fruttare i risparmi, che erano state riferite cautamente da Palombelli, amichevolmente chiamata Barbara. Tutte cose serie, insomma, pronunciate in modo composto, accolte sempre con prono entusiasmo da Ferrara. Questo conduttore è un segnale luminoso. Lo spettatore sa sempre dai suoi comportamenti se l'ospite sta lì solo per essere messo in croce o è un vero potente con cui non si scherza. Fedele Confalonieri - abbiamo capito - è un vero potente. Né Ferrara e nemmeno Palombelli, per esempio, sono scoppiati a ridere, o almeno si sono fatti sfottenti, quando il manager ha paragonato Berlusconi a Napoleone. E' successo, ma i due conduttori hanno convenuto evidentemente che l'imprenditore-premier non poteva essere chiamato in altro modo, se si pensava al suo modo fulmineo di capire e affrontare le situazioni, all'impresa epica che l'aveva portato a fondare oltre che un impero anche un partito, a come era riuscito lì dove gli Agnelli, i De Benedetti, tutti i Buddenbrook (citazione colta di Fedele) erano falliti. Non era davvero Bonaparte redivivo uno che, pur essendo solo dell'ultimissima generazione di industriali, aveva fregato i grandi casati e s'era conquistato la vetta del governo, la prerogativa di fare e disfare leggi secondo le necessità, il piacere di stare a braccetto con Bush ragionando tra una barzelletta e l'altra di guerra in missione di pace e di pace in missione di guerra, l'onore di abbracciare l'amico Putin (discendente di un altro Bonaparte per antonomasia, Giuseppe Stalin), convenendo con lui in allegria sui massacri di Cecenia?

Ma Confalonieri non si è limitato a questo. Da uomo di buone letture è andato a fondo e, tra l'altro, ha sottolineato come, d'accordo con Craxi, il fondatore dell'impero Mediaset aveva genialmente intuito, a inizio anni Ottanta, che il popolo italiano era stanco, voleva farla finita con l'austerità alla Saint Just, con il terrore giustizialista alla Robespierre, e godersi finalmente in pace, con agio, Gaspare e Zuzzurro.

S'è ricordato anche, però, che pure la gran parte dei matti delle barzellette pensa di aver detto, in qualche momento decisivo, caso mai di recente pensando a Rete 4: Dio me l'ha data, guai a chi la tocca. Perciò, in un passaggio decisivo del suo bel monologo, sempre con il consenso di Ferrara e Palombelli, ha puntato ancora più in alto ed è passato a stabilire un paragone tra il suo capo e Alessandro Magno. L'occasione, ci pare, è stata data dal garbuglio della imminente verifica di governo, un nodo complicatissimo da sciogliere. Gordiano, l'ha definito Fedele Confalonieri, che sa bene del saggio contadino Gordio, della città col suo nome alle porte dell'oriente, del mitico nodo in testa all'aratro nel tempio, della profezia che chi aspirasse al governo dell'Asia doveva o scioglierlo o essere cacciato a pedate. Bella storia di plateale disprezzo e prepotenza, ricca di insegnamenti. Confalonieri l'ha implicitamente citata per dire chiaro chiaro che Berlusconi non scioglie nodi. I nodi li sciolgono i beoti che hanno tempo da perdere. Berlusconi leverà la spada, invece, e taglierà, come fece appunto il grande Alessandro.

Ora, se col nodo di Gordio la maggioranza si impiccasse, il paese se ne gioverebbe. Se anzi tutti i piccolissimi Alessandri che ne fanno parte levassero insieme le spade per tagliare i nodini che fanno loro intralcio e accidentalmente si trafiggessero, non ci sarebbe da rammaricarsene. Il problema è che le antonomasie di Confalonieri non hanno a che fare solo con la verifica e altre rissose chiacchiere del governo. Esse segnalano un sentimento, un progetto, un'aspettativa. Quando un uomo dall'apparenza coltivata e savia, avanti negli anni, ammette di aver contribuito con gioia a mandare al governo della repubblica un Napoleone, un Alessandro Magno, uno insomma che, come quei grandi, le repubbliche le affossa e per guadagnarsi l'impero i nodi non li scioglie con la dovuta, necessaria pazienza, ma li taglia, noi sentiamo che i vecchi sospetti erano fondati. Berlusconi è, innanzitutto nel cuore dei suoi fidi, uno mandato dalla provvidenza per metterti sull'attenti senza troppe storie, caso mai razziando i poteri avversi, aggirando i riti formali della democrazia, tutta roba per perdigiorno. Conseguenza: se tra Fedele e Fede non c'è una sostanziale differenza, forse siamo solo nelle reminiscenze storiche mutate in farsa; ma se Fedele è diverso da Fede, allora le parole la dicono molto più lunga di quanto persino chi le pronuncia si immagina.

Infibulazione

 Agostino Spataro

Le “carrette del mare”, nonostante il maltempo e la Bossi- Fini, continuano a sbarcare sulle coste siciliane frotte d’immigrati infreddoliti, brandelli di un' umanità povera, affamata e derubata dei più elementari diritti di libertà e di giustizia.

Dall’inferno al paradiso il passo è breve: duecento, trecento km di mare e, per i più fortunati, ecco spuntare la Sicilia, terra di miti e di antiche e nuove migrazioni, oggi divenuta la principale porta dei flussi clandestini verso l’Europa.

Vengono soprattutto dall’Africa per cercare lavoro e anche per sfuggire agli orrori d’interminabili guerre fratricide, fomentate da civilissimi governi e potentati occidentali, che sospingono questo grande continente verso una disastrosa deriva.

Sbarcano col loro carico di bisogni e di tradizioni ataviche il cui impatto sulle società ospiti può mettere a dura prova la convivenza e talvolta perfino gli ordinamenti.

In questi giorni, per esempio, è esploso quello della pratica, dolorosa e ripugnante, della mutilazione sessuale femminile vigente presso alcune comunità d’immigrati, soprattutto quelle originarie dall’Africa centro-orientale e nilotica.

Oltre che sui mass-media, la delicata questione è approdata in Parlamento dove, proprio l’altro ieri, le Commissioni affari sociali e giustizia della Camera hanno approvato (in sede referente) un testo di legge unificato che all’art. 1 sancisce una pena da sei a dodici anni per “chiunque pratica, agevola o favorisce una lesione o mutilazione degli organi genitali femminili…”

Anche il Parlamento, dunque, pur manifestando la necessaria comprensione sociale e culturale, ha dovuto assumere, unitariamente, una posizione che non ammette attenuanti per chi esegue tali  mutilazioni, anche quando- come sembrava ipotizzare un comitato tecnico istituito dalla regione toscana- effettuate con metodi meno invasivi e crudeli di quelli tradizionalmente praticati che, in realtà, sarebbe una sorta di “infibulazione assistita”, da praticare nella struttura pubblica.

Una scelta difficile, ma in sintonia con la Costituzione italiana che salvaguarda la salute e l’integrità fisica dei cittadini.

Tuttavia, senza deflettere dai giusti principi, appare utile accompagnare la norma con vere e proprie campagne di prevenzione e di dissuasione presso le comunità e le singole famiglie interessate dal triste fenomeno e d’informazione dell’opinione pubblica che sovente sconosce la realtà di questo dramma che, in parte, si svolge anche nel nostro Paese.

Di che cosa si tratta? Diciamo subito che tale assurdo rituale non può essere catalogato “infibulazione musulmana”, come fa Gianni Vattimo (La Stampa 23/01/04), anche se praticato in alcuni paesi musulmani.

L’infibulazione era vigente prima della predicazione di Maometto; in ogni caso non è contemplata in nessuno dei Libri sacri. I suoi sostenitori, per conferirle un carattere sacrale, l’annoverano arbitrariamente fra le circoncisioni derivate da una malintesa deduzione religiosa.

L’infibulazione o circoncisione femminile si concentra nei paesi nilotici (Egitto e Sudan), in Somalia e in altri paesi africani di tradizione animista (28 in tutto) e in taluni islamici della penisola arabica. Secondo le stime dell’Onu, almeno 75 milioni di donne (anzi bambine) hanno subito tali assurde mutilazioni.

Esistono diversi tipi e metodi di circoncisione femminile, tutti più o meno crudeli, praticati da barbieri e da donne anziane su bambine in tenerissima età, spesso senza anestesia e con strumenti rudimentali.

Per meglio descriverli attingeremo da uno studio curato dal dottor Sami Aldeeb Abu-Sahlieh, una fonte scientificamente attendibile e di confessione islamica, pubblicato, nel 1993, dal Cermac dell’Università di Lovanio.

Il metodo meno brutale (ma anche meno diffuso) è quello detto “sunnah” che “si limita a tagliare la pelle che si trova alla sommità dell’organo femminile. Si recide l’epidermide protuberante, evitando l’ablazione.”   

Come in un crescendo d' assurda crudeltà, segue la clitoridectomia o escissione consistente nell’ablazione del clitoride e delle piccole labbra. Infine, l’infibulazione “faraonica”, praticata prevalentemente in Sudan e in Somalia, è la forma di circoncisione più crudele e traumatizzante.

Secondo la descrizione di Sahlieh, consiste “nell’ablazione totale del clitoride, delle piccole labbra e di una parte delle grandi labbra. Le parti della vulva così mutilate vengono poi cucite mediante punti di sutura di seta e talvolta anche con spine vegetali. Si lascia aperto soltanto un piccolo orifizio per consentire la fuoriuscita dell’urina e del flusso mestruale...

“Durante la prima notte di nozze, lo sposo dovrà aprire la sua donna, spesso con l’aiuto di un coltello…In caso di divorzio, si richiude l’apertura per evitare che la donna abbia rapporti sessuali”

Scioccante? Purtroppo, pare che le cose stiano proprio così!

Nel caso della circoncisione maschile (a ben pensarci anche questa è una piccola forma di mutilazione genitale!) lo scopo è di carattere religioso ed anche igienico, per quella femminile si ha una pluralità di fini, tutti riconducibili ad una concezione della donna grettamente maschilista che esprime “una volontà diabolica di controllare la sessualità femminile, sotto l’alibi della cultura”.

Ma cosa c’entra tutto questo con la cultura? Con qualsiasi cultura.

Nel caso specifico non si tratta di affermare la superiorità di una cultura sopra un’altra, ma semplicemente d’impedire una patente violazione dell’integrità fisica della persona umana.  

Certo, bisogna sforzarsi per capire le cause di tali pratiche e fare di tutto per prevenirle (a partire dai Paesi di provenienza) e non per  perpetuarle, addirittura all’interno delle nostre legislazioni.

Lo Stato democratico non può abbassarsi a tale livello, semmai ha dovere d’innalzarlo e armonizzarlo con gli standard di vita preesistenti, in primo luogo a tutela della dignità e dell’integrità di milioni di vittime-bambine.

                                                               

20 gennaio

L'Italia degli abusi. Sette colpi di spugna
dall'evasione ai bilanci finti
Tutti gli affari in nero perdonati
Legambiente e Cgia fanno la classifica
dei business creati dalle illegalità più diffuse

ROMA - C'è l'evasore fiscale e chi crea depositi nelle banche offshore. C'è lo scommettitore clandestino e il "portoghese" sull'autobus. Ma anche il pirata audio-video, il falso invalido, il falso medico, lo speculatore...

Tra peccati e reati, ecco un campionario di abusi e illegalità. E' stato redatto con l'aiuto di dati, studi e ricerche di Legambiente e della Cgia di Mestre. Una classifica per forza di cose arbitraria, perché pesca in una zona grigia, che per sua natura sfugge. Ma qualcosa viene fuori. Per esempio: su gran parte di abusi e furbizie sono intervenuti condoni e sanatorie, ben sette. Tra capitali e case risulta alla fine condonabile un patrimonio di 550 miliardi di euro realizzato illegalmente negli ultimi decenni. Più redditi annui per 210 miliardi. A tanto ammonta l'imponibile sottratto al fisco ogni anno. Cui si aggiungono i 250 milioni non pagati ogni anno per il canone Rai.
E poi: il reddito prodotto dall'economia sommersa ammonta a circa 200 miliardi l'anno, in gran parte parte coincidente con l'imponibile evaso. Per chi "emerge", sono stati previsti sconti contributivi e s'è chiuso un occhio sul passato. Anche in questo caso, esistono dati geografici: le irregolarità maggiori sono al Sud, Emilia e Piemonte invece sono le regioni più ligie.

Per tutti i creatori di fondi nei paradisi fiscali, neri o bianchi che siano (60 miliardi l'anno) ha dato una mano la sostanziale depenalizzazione del falso in bilancio. Una misura che va ad aggiungersi allo "scudo fiscale" concesso a chi riporta in patria i fondi illegalmente esportati negli ultimi decenni: circa 500 miliardi secondo le stime di Fmi e Bankitalia. Sanatoria anche per chi possiede o ha costruito case abusive, il cui valore raggiunge i 51 miliardi.

 

15 gennaio

Nascita di sindacato
Mette insieme industria e servizi, chimica ed energia, Enel, Eni e industria farmaceutica
Cos'è la Filcem Cgil 170 mila iscritti, 15 contratti nazionali, un milione di lavoratori, 10 mila quadri e delegati, presenza diffusa in 20 regioni d'Italia

GUGLIELMO RAGOZZINO
Una fusione fredda, commenta un sindacalista. «Speriamo non sia quella sempre promessa, sempre lontana, di Carlo Rubbia». Ieri si sono riuniti i direttivi di Filcea e Fnle, i sindacati dei lavoratori chimici (e affini) ed energetici aderenti alla Cgil per costituire una federazione di secondo livello, che, insomma, si sovrappone a sindacati che continuano a funzionare. E' la Filcem - Federazione sindacale dei lavoratori della chimica dell'energia e dei manufatti. Segreteria e direzione del nuovo sindacato sono la sommatoria delle segreterie e dei direttivi precedenti. Il segretario generale è unico ed è Giacomo Berni, a capo dei chimici dal mese di ottobre 2003 e per gli otto anni precedenti a capo della Flne. Le due strutture che hanno dato vita alla Filcem non sono annullate, ma continueranno ad essere attive fino al 2006, anno previsto per i congressi di scioglimento e di unificazione vera e propria. Nel frattempo i gruppi dirigenti accomunati e la Cgil centrale provvederanno a integrare nei fatti, poco per volta, le due strutture esistenti che hanno per ora interessi diversi e attività, appartenenze internazionali, propensioni all'unità e pratiche sindacali poco omogenee.

La riunione dei direttivi si è risolta in poco più di un'ora. Le votazioni per lo statuto provvisorio dell'organizzazione nascente, il processo di unificazione, i gruppi dirigenti, il segretario generale, sono state rapide, per alzata di mano. Nessuna mano si è alzata per votare contro o per segnalare un'astensione. Probabilmente un sindacato di secondo livello parte sempre così. Non vi sono state dichiarazioni di voto, né interventi, né correzioni, né emendamenti, né richieste di maggiori spiegazioni. Cosicché l'ora è stata riempita da tre brevi discorsi di Guglielmo Epifani, di Mauro Guzzonato e dello stesso Berni. Discorsi brevi, ma di forte interesse.

Per primo ha parlato Guzzonato. Questi era segretario generale della Filcea, finché, durante la vertenza per l'ultimo contratto dei chimici, non è stato chiamato da Epifani nella segreteria confederale, per coprire il ruolo decisivo di responsabile dell'organizzazione, resosi libero. Al suo posto la confederazione suggeriva il nome di Berni, in vista della sempre attesa unificazione. Guzzonato ha insistito su due aspetti per rispiegare alla sua platea la necessità della fusione. Il sindacato è alla ricerca di una semplificazione e di un rafforzamento organizzativo; e li ha fatti maturare in una lunga e sofferta discussione tra i quadri delle due categorie. D'altro canto è stato lo sviluppo stesso dei processi reali nella società e nell'economia che ha imposto di mettere in stretta relazione le competenze e le attitudini di chi organizza i lavoratori dei servizi in rete e chi organizza quelli della manifattura odierna, anch'essa in rete. Aggiunge Guzzonato che l'esperienza maturata nella fusione in corso dovrà servire per ridisegnare l'intera Cgil. La Cisl ci ha provato con la conferenza di organizzazione, ma il risultato non è stato eccellente. La Cgil, con questo suo tentativo, delle federazioni di secondo livello, tenta una strada diversa che se l'insieme dell'organizzazione vorrà, alla fine darà i suoi frutti.

«Prometto che cercherò di meritare la vostra fiducia» dice Berni, un po' commosso, parlando ai vertici della Cgil, ai suoi vecchi compagni di organizzazione e a quelli nuovi. Nel suo brevissimo discorso di accettazione, appena eletto, ricorda che il metodo di unificare i sindacati man mano che l'occasione o meglio la qualità del lavoro organizzativo del sindacato lo hanno reso necessario. Ricorda i primordi della federazione attuale, nel lontano 1977 con la fusione tra elettrici, gasisti e acquedottisti; parla di un «cantiere aperto» che non riguarda soltanto Filcea e Fnle; descrive la contaminazione tra le diverse culture, le pratiche diverse che vanno rispettate e utilizzate tutte, «imparando l'uno dall'altro». Non è preoccupato, non troppo, almeno, per le diverse filiazioni dei due sindacati che si uniscono, per il diverso rapporto con Cisl e Uil, che vede per i chimici la presenza di un sindacato unitario, l'unico rimasto, la Fulc e nel campo dell'energia, la scarsa presenza delle altre confederazioni.

Conclude Epifani. Ci si aspetta molto da voi, dice alla platea. Dovete mettere a punto una linea di condotta precisa, capace di tenere insieme il mercato e le regole, la sfera pubblica e il mercato, i servizi e l'industria. La logica del mercato deve essere accompagnata da regole certe. Il mercato, per noi, deve essere «un'idea alta» non la vittoria del più forte. Il mercato «con le regole» consentirebbe di rendere più accettabile ogni processo di liberalizzazione. E soprattutto servirebbe a evidenziare che i monopoli naturali («non è il vostro caso» si affretta a precisare Epifani) non ha senso privatizzarli. Non si fa a tempo a pensare: perché non è il loro caso? Non è monopolio naturale anche quello degli elettrici, dei gasisti, degli acquedottisti? che Epifani rilancia il suo discorso: l'acqua è un bene pubblico; non si può privatizzarne le strutture senza tenere conto del bene pubblico; «aiutateci a capire il bene pubblico». Compito alto per il nuovo sindacato.

Epifani parla anche brevemente di problemi generali. Spiega perché la Cgil non ci sta. Il governo vuole ridurre la spesa previdenziale dello 0,7% entro il 2008. «Per noi è un vincolo inaccettabile». Se resta, la trattativa non sarà possibile. A noi rimarrebbe soltanto da discutere su come applicare la riduzione. Quello che non possiamo accogliere è uno scambio al ribasso tra previdenza e qualche forma di welfare. Non abbiamo pregiudizi, ma, «dopo 30 mesi di governo Berlusconi, il paese è più povero, più insicuro, più diviso».




13 gennaio 2004

Prove di spaccatura
Cisl e Uil: sì alla trattativa sul welfare. No della Cgil: il governo decida sulle pensioni
Oggi il nuovo tavolo Pezzotta e Angeletti vedono spiragli per un accordo con il governo. La Cgil ripete che, per trattare, palazzo Chigi deve ritirare la delega

PAOLO ANDRUCCIOLI
Cisl e Uil hanno detto sì all'invito del governo. Oggi parteciperanno alla riunione sul welfare, appuntamento che dovrebbe essere dedicato solo al calendario delle riunioni future. Pur essendo quasi esclusivamente tecnica, la riunione di oggi fa registrare una nuova divisione tra i sindacati confederali: la Cgil, infatti, non ci sarà. Ieri il segretario generale Guglielmo Epifani ha motivato la scelta della sua organizzazione subito dopo la riunione con il governo (anzi con mezzo governo) a palazzo Chigi. Epifani ha ricordato che la trattativa sul welfare avrebbe dovuto essere condizionata o comunque collegata alle decisioni sulla previdenza (che poi sono ancora il grosso della spesa per il welfare). Non essendoci ancora una posizione chiara e definitiva del governo sulle pensioni e in generale sulla riforma della previdenza, diventa impossibile per la Cgil partecipare a un tavolo sul welfare. La segreteria confederale della Cgil ha anche diffuso una nota in serata per articolare maggiormente la sua posizione. «La richiesta di una trattativa complessiva su tutto il welfare e non solo sulla previdenza - ricorda la Cgil - era stata una richiesta formulata il 10 dicembre, al primo incontro con il governo, ma aveva come premessa il ritiro della delega. Ritiro che non è mai stato accettato dal governo e tanto meno è stato preso in considerazione nell'incontro di ieri a palazzo Chigi». Quella della Cgil, dunque, non è una scelta politica emotiva o presa a caldo e legata a un qualche atteggiamento pregiudiziale. E' piuttosto la logica conclusione di un percorso su cui ora il governo tenta di fare per l'ennesima volta fumo. All'interno dell'esecutivo sono in molti che gradirebbero rivedere il film della rottura della confederazioni, o meglio ancora la scena di un isolamento della Cgil.

Da parte loro i segretari di Cisl e Uil, Pezzotta e Angeletti, non si sono dichiarati affatto contenti dello stato dei rapporti con il governo, ma hanno detto che ci sono ancora degli spiragli aperti che vale la pena sfruttare. E i possibili spiragli cui fanno riferimento i segretari generali della Cisl e della Uil riguardano il Tfr e la decontribuzione. «Non è stato proprio un confronto inutile - ha detto ieri Pezzotta - ma dal governo vogliamo risposte più chiare ed esplicite». In ogni caso per la Cisl è utile andare alla riunione di oggi sul welfare. «Di che vi meravigliate? - ha detto ieri il segretario cislino durante la conferenza stampa a palazzo Chigi - il tavolo sul welfare lo abbiamo chiesto noi, quindi ci andiamo». Quasi lo stesso discorso quello del segretario della Uil, Angeletti. Sia per la Cisl sia per la Uil rimangono comunque distanze enormi sulla proposta del governo di innalzare l'età pensionabile e sulla valutazione sulla famosa «gobba» del sistema pubblico nel 2033. Nonostante queste «distanze enormi» con il governo, i due sindacati firmatari del Patto per l'Italia hanno deciso di andare a vedere le proposte sul welfare: sperano - e lo ha ammesso esplicitamente Pezzotta - di recuperare almeno il confronto sugli ammortizzatori sociali, una delle basi del Patto per l'Italia, che a tuttoggi risulta essere poco più che un fantasma.

Molto soddisfatti i commenti dei rappresentanti dell'Udc e di An all'interno del governo. «La pendenza della salita sembra che stia diminuendo», ha detto ieri con metafora ciclistica il vicepresidente del gruppo di An, Oreste Tofani. Il senatore ribadisce che il suo partito vuole arrivare alla riforma sulla base del dialogo sociale, lo stesso che interessa molto il vicepremier Gianfranco Fini, che ieri ha perfino rinunciato a partecipare all'inaugurazione dell'Anno giudiziario per stare alla riunione con i sindacati a palazzo Chigi. La scelta di Fini è motivata sia dall'interesse di An al rapporto diretto con i sindacati, sia all'assenza di Berlusconi. La riunione sulle pensioni era stata rinviata a ieri proprio per attendere il ritorno del cavaliere a Roma. Berlusconi è però rimasto in Sardegna e ieri fonti vicine a Fini hanno smentito una possibile visita del vicepresidente del consiglio nell'isola.

Oltre all'assenza del premier Berlusconi ieri si è notata anche l'assenza del ministro dell'economia Giulio Tremonti. Il risultato è stato quindi un incontro tra i sindacati confederali al gran completo e un governo dimezzato. I più rappresentati erano i politici di An e dell'Udc, ovvero proprio di quell'asse che vorrebbe battere la linea più oltranzista di Tremonti e arrivare a un compromesso con i sindacati, o almeno con Cisl e Uil.

In pratica ora si procederà così: la delega previdenziale di Maroni riprenderà il suo cammino in commissione al senato. Prima della discussione in aula i sindacati dovrebbero essere di nuovo convocati per essere informati sulle ultime decisioni del governo. Ieri Maroni ha confermato che la delega dovrebbe essere approvata entro il mese di gennaio. Il condizionale lo abbiamo aggiunto noi visto l'andamento delle precedenti promesse del ministro.

 


ATTACCO
La Lega sull'orlo del baratro
Anche Berlusconi e Tremonti nel mirino. Radio Padania, in onda la rivolta
GIOVANNA PAJETTA
Alle due del pomeriggio, prima di partire per Porto Rotondo, Umberto Bossi appariva un po' meno cupo. «Forse uno spiraglio c'è», confidava ai suoi dopo l'invito a villa Certosa, e dopo le rassicurazioni mattutine di Francesco D'Onofrio sulle sorti della riforma federalista. E forse conta più il secondo che il primo. Perché se Silvio Berlusconi si limiterà con ogni probabilità a promesse di facciata, il senatore dell'Udc ha mostrato a Bossi gli emendamenti che, come relatore e a nome dell'intera maggioranza, presenterà questo pomeriggio. Tre punti non da poco, che rafforzerebbero il futuro senato federale e, soprattutto, il ruolo delle autonomie locali. Presidenti di Regione e presidenti dei consigli regionali diventerebbero infatti grandi elettori, sia di parte dei membri della Corte costituzionale e del Csm che dello stesso presidente della repubblica. Dulcis in fundo, Regioni e autonomie potrebbero costituire dei propri organismi di coordinamento (anticamera per Bossi dell'amato parlamento del Nord) e avere voce in capitolo sul cosiddetto «interesse nazionale». Ma persino l'ottimista D'Onofrio ci tiene a precisare che non tutto è risolto. «Ho trovato Bossi molto irritato, e la cosa è seria - sottolinea il senatore centrista, federalista da sempre - Adesso che una parte dell'opposizione è disposta al dialogo, lui teme ad esempio che An e Udc ne approfittino e tutto si impantani». Per evitarlo il leader leghista ha intrapreso la via che meglio conosce, sparando a zero contro la «manovra concertata, l'imbroglio a cui hanno partecipato tutti gli alleati». Una tecnica sperimentata, che forse darà i suoi frutti. Anche se in realtà, a guardar bene, c'è qualcosa di nuovo nell'ennesimo ultimatum di Bossi. Nelle sue interviste di fuoco, il senatur prende infatti di mira anche gli amici, accusando Silvio Berlusconi di aver «avvallato» l'imbroglio e definendo Giulio di Tremonti «appena meno insensibile di altri». Non sono frasi scelte a caso. Perché, come racconta chi lo conosce bene, Umberto Bossi appare ormai esasperato, cupo e totalmente pessimista sulle sorti della coalizione. Così tra natale e capodanno, è tornato a parlare con i suoi, con un tocco di nostalgia o annunciando sfracelli, di «battaglie indipendentiste». Attenuate giusto giusto da un rituale «se non ci danno il federalismo...».

Sono gli umori e i sentimenti, del resto, che il leader condivide con la sua base. Dopo la lettura delle interviste, ieri a Radio Padania è andata in onda una vera e propria rivolta. Dalle 10 del mattino per tre ore, e poi ancora nel pomeriggio, dai microfoni aperti della radio leghista si è sentito di tutto e di più. Insulti, mugugni, lamenti ma anche qui con una novità non di poco conto. «Certo, in parecchi hanno ripetuto che non bisogna mollare, restare al governo e battere i pugni sul tavolo, ma sono stati una minoranza - racconta Matteo Salvini, direttore della radio - Adesso i più dicono che `la speranza è andata a farsi benedire' ed è meglio uscire dal governo e tornare a dare battaglia sul territorio». Certo, l'indicazione questa volta l'indicazione veniva dall'alto, ma i «padani» l'hanno seguita più che volentieri. «Le parole del capo hanno dato libero sfogo a qualcosa che covava da tempo - dice Salvini - Prima se lo tenevano dentro, ma se poi proprio Bossi comincia a dare colpi d'accetta...».

Innescare la retromarcia insomma, per Bossi come per i suoi non sarà tanto facile. La riforma federalista ora alla prova del dialogo con l'opposizione (un incontro, ancora interlocutorio, si è tenuto ieri sera in senato), e gli alleati giurano che la maggioranza la sosterrà come un sol uomo. Ma la via è stretta, e i tempi ancor di più. Se infatti Fini, Follini e Berlusconi possono continuare per settimane il balletto della verifica, le possibilità che la riforma costituzionale federalista divenga legge sono legate a tempi parlamentari certi. «Se non passa in senato entro gennaio - dice Bossi - non se ne farà più niente». E la parola passerà, ai primi di febbraio, all'Assemblea federale della Lega.



 Tolleranza zero, è vietato disobbedire
Arresti domiciliari per dodici militanti tra cui un consigliere Prc a Roma, e obbligo di firma per altri due. Resistenza aggravata per i disordini del 4 ottobre durante il vertice Ue dell'Eur
ALESSANDRO MANTOVANI
ROMA
Quattordici Disobbedienti romani, quasi tutti piuttosto noti a cominciare dal consigliere comunale Nunzio D'Erme eletto con il Prc, si sono visti notificare ieri un'ordinanza che dispone gli arresti domiciliari per dodici - tra cui D'Erme - e l'obbligo di firma per altri due. Il provvedimento del gip Marina Finiti è stato sollecitato dal pm Salvatore Vitello per i disordini del 4 ottobre all'Eur, al termine della manifestazione contro il summit europeo presieduto da Silvio Berlusconi. L'unico capo d'accusa è resistenza a pubblico ufficiale, con l'aggravante del «travisamento» e dell'uso (per alcuni indagati) di armi improprie e cioè bastoni. Né danneggiamenti né lesioni personali. In tre mesi, su impulso diretto del capo della polizia Gianni De Gennaro, la Digos ha studiato i filmati della scientifica e dei tg: sui riconoscimenti si discuterà in tribunale. Davanti al Palazzo dei congressi dell'Eur, del resto, non ci furono nemmeno «scontri» veri e propri. Per mezz'ora circa i Disobbedienti con caschi e scudi fecero pressione su polizia e carabinieri, lanciando vernice rosa e qualcuno - non identificato - un paio di bombe carta. Ma quando è partita la carica i manifestanti hanno resistito qualche minuto per poi allontanarsi lungo la via Cristoforo Colombo. Cinque minuti dopo i responsabili della Digos erano di nuovo al telefono con i Disobbedienti per garantire una via d'uscita verso la metrò Laurentina. E ieri mattina la stessa Digos di Roma, che da anni (4 ottobre compreso) dimostra equilibrio in ordine pubblico, è andata ad arrestare militanti che conosce uno per uno. Viene da ridere, adesso, a leggere nell'ordinanza del loro «disegno criminoso» e della loro «particolare propensione alla violenza e ad atti di intemperanza verso la società civile e verso rappresentanti delle istituzioni dello Stato», che renderebbero «concreto e estremamente rilevante il pericolo di reiterazione di episodi della stessa specie». Ma c'è poco da ridere se questo provvedimento insegna che la pratica del conflitto a viso aperto, della disobbedienza e degli «scontri finti» con la polizia, non è più tollerata. Forse preferiscono quelli veri, di sicuro nelle piazze romane è accaduto di peggio senza che scattassero le manette, come nel dicembre 2000 per la visita di Jörg Haider. E invece il 4 ottobre due ragazzi vennero presi in flagranza all'Eur (scarcerati in pochi giorni), poi è toccato a due giovani anarchici residenti a Viterbo - uno è il sardo Massimo Leonardi al centro di una vergognosa campagna di stampa sui pacchi bomba - attualmente ai domiciliari per il pestaggio di un maldestro carabiniere in borghese.

Adesso altri 14 militanti vengono sottratti alle loro attività politiche, sociali e lavorative. Nella capitale c'è chi teme che l'operazione serva a preparare lo sgombero di case occupate e centri sociali di recente fondazione, in parte legati ad Action, l'Agenzia comunitaria diritti messa su dai Disobbedienti. Proprio Action, oggetto di un altro incredibile procedimento che ipotizza l'associazione per delinquere, ne esce «decapitata». Agli arresti con D'Erme (42 anni) vanno anche Fabrizio Nizi (43), Valerio Porcelli (43), Francesco Ciacciarelli (35) e Andrea Alzetta (36) del Corto Circuito; Marco Tullio Liuzza (24) e Fabio Malinconico (33) del centro sociale La Strada; Alessandro e Giordano Luparelli (24 e 20) di Spartaco; Duccio Ellero (31), Paolo Contursi (24) e Daniele Romano (27). Obbligo di firma per Alessandro Verga (33 anni) e Luca Blasi (23) dell'Astra, un'occupazione considerata «a rischio sgombero».

Non è mancata una risposta immediata. Circa duecento persone, ieri mattina, hanno trasformato in un'assemblea la conferenza stampa convocata nello stabile occupato di via De Lollis, a San Lorenzo. C'erano i centri sociali, Vicenzo Miliucci per i Cobas, Bruno Papale del Corodinamento di lotta per la casa, l'avvocato Marco Lucentini che difende molti arrestati, il portavoce dei Disobbedienti romani Guido Lutrario rimasto a piede libero, mezzo gruppo parlamentare di Rifondazione (Deiana, Mascia, Russo Spena), il verde Paolo Cento, Patrizia Sentinelli capogruppo in Campidoglio e membro della segreteria nazionale del Prc, i presidenti del X e dell'XI Municipio Sandro Medici e Massimiliano Smeriglio. E anche i volti, meno noti nel movimento, della presidente e della vicepresidente del consiglio comunale Luisa Laurelli (Ds) e Monica Cirinnà (Verdi). Giovedì 4 sono in programma una manifestazione a Roma e iniziative collegate in altre città. Solo per restare ai Disobbedienti, il napoletano Francesco Caruso ha da un mese l'obbligo di firma insieme a due calabresi indagati a Cosenza, Luca Casarini rischia la «sorveglianza speciale».

Nessuno ha voglia di fare la lotta «alla repressione» ma la brutta aria che tira preoccupa anche coloro che il 4 ottobre criticavano i Disobbedienti per quella contrapposizione sterile con la polizia, ad uso e consumo delle telecamere. In tutta Italia centinaia di militanti hanno accumulato condanne che portano in galera anche per resistenza a pubblico ufficiale. Si moltiplicano gli sgomberi e le ordinanze d'arresto, sia pure con la generale rinuncia (salvo Cosenza) ai reati associativi. E a Genova il 3 marzo si apre il processo ai 25 «cattivi» accusati di devastazione e saccheggio per il G8.




 LA «MALAGIUSTIZIA»

- Il grande malato resta il processo penale: 6.049.664 procedimenti nuovi con un arretrato di oltre 5.700mila cause. Nella giustizia civile l'arretrato ammonta a oltre 3 milioni di cause, mentre sono stati iscritti 1.795.876 nuovi procedimenti.

- Aumenta la durata media dei processi. Nel penale 341 giorni in primo grado e 398 in corte d'assise. Ci vogliono 324 giorni per una sentenza del gip. Esplode la durata dei processi in appello: 543 giorni per la corte e 203 per la corte d'assise. Migliora, anche se di poco, la durata del processo civile: 315 giorni per un verdetto del giudice di pace e ben 879 per quello del tribunale. Ma aumenta di molto l'attesa per le sentenze delle corti di appello: 501 giorni. Per quanto riguarda il secondo grado i giorni sono 1.073 nel tribunale e 774 nelle corti di appello.

- Invariato il «grave sovraffollamento» degli istituti di pena italiani: 56.403 detenuti.

E' invece «allarmante» il numero di suicidi dietro le sbarre: 83, ma in tutto sono 108 quelli tentati dal 1 gennaio 2002 al 30 settembre 2003. Si riduce il numero dei detenuti in custodia cautelare che resta comunque vicino al 60% del totale.

- Sono 2.782.252 i delitti denunciati nel 2003. L'80% restano impuniti. Escludendo i furti, di cui ben il 96% resta senza autore, la percentuale di impunità si «abbassa» al 61% del totale.

- Il 46% dei 3.056 omicidi «tentati» e «consumati» e l'81% delle oltre 56.052 rapine sono impuniti.

- In calo le denunce per violenza sessuale (4.074, -21%). Aumentano le estorsioni (8.307, +8%), i sequestri di persona (220, +6%) e le rapine (+9,5%). Impennata di truffe (64.688, +21%) e bancarotta (5.378, +4%).

- Matrimonio in crisi: 73.991 separazioni consensuali e 30.821 giudiziali. 33.885 invece i divorzi complessivi (+1,6%).

 

 

9 gennaio 

Il governo è pronto a tagliare le pensioni
Dati della Ragioneria Nell'incontro di ieri confermata la «gobba», il boom dei pensionati nel 2033. I sindacati contestano l'analisi e parlano di sciopero. Lunedì l'ultimo incontro con Berlusconi
PAOLO ANDRUCCIOLI
L'ultimo appuntamento è fissato per lunedì a palazzo Chigi. Ma se il governo andrà avanti con la delega sulle pensioni, noi non escludiamo ulteriori iniziative di mobilitazione. Così ha sintetizzato ieri «lo stato dell'arte» la segretaria confederale della Cgil, Morena Piccinini. Anche se non si tratta di un vero annuncio di un nuovo sciopero generale, ci siamo molti vicini. Uil e Cisl sono prudenti, ma non escludono neppure che l'epilogo possa essere proprio lo sciopero. «Sono abbastanza pessimista», è stata la battuta del segretario generale della Cisl, Savino Pezzotta, all'uscita dell'incontro. Il sindacalista della Cisl non smette però di sperare in un qualche ripensamento del governo. «Serve un'altra ricetta rispetto a quella del governo - ha precisato sempre ieri il segretario confederale della Cisl, Pier Paolo Baretta - lunedì ci aspettiamo solo che il governo ci dica che vuole aprire un confronto per cambiare la delega». Lo sciopero al momento non è previsto - ha detto invece il numero due della Uil, Adriano Musi - ma non è neppure escluso». Nessuno dunque è ottimista. Neppure il ministro del welfare Roberto Maroni. «Ad oggi non c'è nessun accordo e mi pare difficile che ci possa essere», ha dichiarato ieri il ministro, pochi minuti dopo la conclusione dell'incontro con Cgil, Cisl, Uil. «Le conclusioni le tireremo comunque a palazzo Chigi e penso che la delega possa essere migliorata». C'è dunque un nuovo - ultimo - appuntamento per lunedì 12, lo stesso giorno in cui è previsto il ritorno del premier Berlusconi, che ricomincerà la sua attività di governo con due faccende alquanto esplosive: le pensioni e Parmalat, con il relativo corollario della riforma delle regole di controllo sui mercati finanziari. La dichiarazione di Maroni di ieri è abbastanza chiara: il governo ha deciso di andare fino in fondo sulla riforma delle pensioni ed è disposto solo ad accettare qualche piccolo aggiustamento alla delega previdenziale dello stesso ministro Maroni: è probabile che ci siano novità, per esempio, sull'obbligatorietà del trasferimento del Tfr ai fondi pensione.

La giornata di ieri è stata caratterizzata dalla discussione sui dati relativi alla spesa previdenziale italiana. La Ragioneria dello Stato non ha fatto altro che riproporre i dati già noti che illustrano una crescita delle pensioni in rapporto agli occupati. Il picco più alto - come era stato già detto in più occasioni - si avrà tra il 2033 e 2035. Dopo quella data le pensioni cominceranno invece a scendere. La famosa «gobba» (o il sorpasso dei pensionati rispetto agli attivi) sarà effimera e comunque è una curva matematica che è stata calcolata tenendo conto soprattutto dei dati demografici. I sindacalisti, Baretta, Piccinini e Musi in particolare, hanno contestato al governo la sottovalutazione di altri indicatori in campo a partire dalle dinamiche del prodotto interno lordo per i prossimi anni e degli incrementi di produttività e di occupazione. Governo e Ragioneria dello Stato vedono solo la demografia, ovvero l'invecchiamento. Non calcolano gli effetti sull'occupazione degli aumenti di produttività dovuti allo sviluppo tecnologico e non calcono neppure gli effetti sul mercato del lavoro dell'aumento dei flussi immigratori e della relativa integrazione degli stranieri in Italia.

«Questa curva dimostra - dice Baretta - che il peso della crescita della spesa per le pensioni dei lavoratori dipendenti è proporzionalmente inferiore a quella dei lavoratori autonomi». E questo dimostra, è la conclusione di Baretta condivisa però anche da Morena Piccinini e da Adriano Musi, quanto sia sbagliata la ricetta del governo che prende di mira solamente le pensioni dei lavoratori dipendenti. I dati forniti ieri dal governo confermano poi un altro fatto denunciato in più occasioni dai sindacati: la crescita esponenziale della componente assistenziale del welfare che viene paradossalmente pagata solo con i contributi dei lavoratori invece che con la fiscalità generale. «Oggi è emerso con chiarezza - ha detto Morena Piccinini - che sulle proiezioni future di spesa il lavoro dipendente pesa in maniera significativamente inferiore al lavoro autonomo. Perché dunque i lavoratori dipendenti devono pagare per una curva provocata da altri?

Il quadro insomma è chiaro: il governo ha come obiettivo principale quello di ridurre il peso della spesa previdenziale per ridurre il debito pubblico. Le pensioni pubbliche (che tra l'altro già per effetto della Dini stanno diminuendo progressivamente) dovranno essere compresse il più possibile. Tutto il resto è contorno. O forse lo è fino a un certo punto perché in gioco, oltre alla riduzione del welfare, c'è anche il cambiamento del modello previdenziale. Il governo vuole fare l'americano. Si vorrebbe cioè importare di sana pianta il modello dei fondi pensione anglosassoni, quegli stessi che sono stati al centro del tifone finanziario provocato da Enron o ora da Parmalat.



 
7 gennaio

Resa dei conti tra governo e governatore. Sul crack il Parlamento indagherà

Le mani di Tremonti sulla Banca d'Italia

Una commissione parlamentare d'indagine congiunta sul crack Parmalat. E' l'ipotesi su cui stanno lavorando i presidenti delle Commissioni bilancio e finanze di Camera e Senato, Antonio Tabacci e Giorgio la Malfa, con l'accordo dei presidenti dei due rami del Parlamento Marcello Pera e Pierferdinando Casini. Lo scopo, tra l'altro, è quello di scongiurare un altro scontro istituzionale che si sta addensando sulla testa della Banca d'Italia.

Diretta conseguenza del "buco nero" di Calisto Tanzi, di cui nessuno sembrava essersi accorto fino all'insolvenza del fondo Epycurum e la sconfessione della Bank of America, è infatti l'attacco concentrico del governo, Giulio Tremonti e Lega in testa, sull'unico centro di potere rimasto fuori dalla giurisdizione diretta e dalla presa del potere da parte dei fedelissimi di Silvio Berlusconi.

Tutti gli altri baluardi sono già caduti: la Rai, con l'inclusione di un direttore generale più fedele di Fedele Confalonieri e con l'esclusione di tutti gli oppositori; i vertici dei ministeri, sostituiti o estromessi nella logica dello spoil system da superconsulenti nominati ad personam dai vari ministri; la Consob (fuori Spaventa dentro Cardia), il Cnr (fuori Bianchi dentro Di Maio), l'Isae (fuori Kostoris dentro Majocchi); e via piazzando i propri e spiazzando altrui.

Tra i pochi poteri autonomi che ancora resistono, nel bene e nel male, c'è quella Banca d'Italia che è una sorta di cittadella assediata, anche per i demeriti e per le "amicizie pericolose" del governatore, adesso sotto il fuoco incrociato del ministro Tremonti, del senatore leghista Roberto Calderoli e del giullare di corte Sandro Bondi che ha chiesto la testa di Antonio Fazio, da offrire su un piatto d'argento a Silvio Berlusconi, il quale, di quel potere oscuro che lo rode ai fianchi, unico a poter "misurare" le sciocchezze economico-finanziarie dell'esecutivo, non ne vuole più sapere.

«La richiesta delle dimissioni del governatore Fazio - dice Gavino Angius - svela ciò che già sapevamo: nel partito del presidente del Consiglio esiste un disegno politico finalizzato a giungere al controllo integrale sul sistema bancario italiano attraverso il dominio su Bankitalia». Per Angius «dei bilanci falsati però non si parla. Qui non si vuole nessuna authority indipendente che garantisca i risparmiatori. In realtà Tremonti vuole che il governo controlli tutto. E' un ministro tanto spregiudicato - attacca il capo dei senatori Ds - quanto privo del senso dello Stato e delle istituzioni, non all'altezza del compito che ricopre, pericoloso per la stabilità e la trasparenza del sistema bancario e finanziario del Paese». 

Il racconto a Liberazione di una ragazza nigeriana, incinta di 6 mesi: "sorpresa" col biglietto scaduto, uscita in ambulanza dal posto di polizia

Milano, incubo in metrò

Se il tuo biglietto del metrò è scaduto anche solo di dieci minuti e sei donna, perdipiù immigrata, a Milano rischi parecchio. Rischi che ti portino al posto di polizia dove ti potrebbero sbattere a terra, facendoti picchiare la testa sul pavimento e alla fine con un braccio malconcio potrresti esssere denunciata per non aver voluto mostrare i documenti. Anche se potrebbe non essere vero e alla tua borsetta strapazzata è andata peggio che al tuo avambraccio pieno di ecchimosi. Al Policlinico di via Sforza ti diranno che guarirai in dieci giorni ma nessuno ti ripagherà della paura, dell'umiliazione, del terrore per le conseguenze sulla tua gravidanza visto che il tuo pancione di venticinque settimane non ti risparmia il trattamento.

Stamattina Gioia, il nome è di fantasia, andrà fino alla questura centrale di Via Fatebenefratelli a denunciare quello che ha raccontato a Liberazione e che le è accaduto lunedì mattina nei sotterranei del metrò di Piazza Duomo dopo che i controllori dell'Atm l'hanno "sorpresa" sulla linea 1, la rossa, con un biglietto scaduto, ossia obliterato più di cinquanta minuti prima dell'ispezione.

Nigeriana ventinovenne, da sette anni in Italia, Gioia vive dalle parti del quartiere Baggio e lavora saltuariamente nel campo della ristorazione collettiva e delle pulizie ma ora è disoccupata. La sua disavventura è iniziata alle 11 della vigilia dell'Epifania. Secondo il suo racconto, in un italiano a tratti stentato, nel posto di polizia avrebbe avuto il brusco trattamento che abbiamo accennato nell'attacco. Dice ancora di essersi sentita trattata come una ladra, dopo 24 ore è ancora molto scossa. L'ambulanza è stata chiamata proprio dal posto di polizia, dopo che lei ha rivelato la gravidanza, per condurla alla clinica Mangiagalli, specializzata in pediatria. Da lì però è stata spedita a piedi al pronto soccorso del Policlinico per fortuna non lontanissimo. Qui la prognosi di dieci giorni poi una telefonata a un amico. Solo quest'ultimo si renderà conto, leggendo le carte di Gioia, che le è stato nominato un difensore d'ufficio poiché, sembra, non avrebbe ottemperato completamente alla richiesta di identificazione ed è accusata di resistenza. Gioia aveva certamente con sé la carta d'identità ma forse non il famigerato foglietto di soggiorno. Infatti nel verbale consegnato alla ragazza si dà per certa l'avvenuta identificazione. Restano senza spiegazione quei lividi al braccio e il trauma cranico. Interpellata da Liberazione, la questura centrale rintraccia subito l'annotazione della pattuglia intervenuta che descrive una scena diversa: quella di una ragazza padrona della lingua italiana che avrebbe scalciato contro i controllori al punto da attirare l'attenzione degli agenti della "Polmetro" secondo i quali avrebbe continuato a resistere anche con loro per non farsi identificare.

6 gennaio

 

 

Il dg Rai avvia un procedimento contro "L'elmo di Scipio"
Il presidente si oppone: "Smetta di fare l'avvocato di Berlusconi"
Caso Deaglio, nuovo scontro fra Annunziata e Cattaneo
Dall'azienda "sconcerto" per la reazione e per i toni usati

ROMA - Nuovo scontro ai vertici Rai. Lucia Annunziata si schiera con Enrico Deaglio. Dopo le polemiche sollevate all'interno di Forza Italia dalla puntata di L'elmo di Scipio, con l'intervista al direttore dell'Economist, il presidente della tv pubblica ha annunciato che il direttore generale della Rai Flavio Cattaneo "ha avviato l'iter per mettere 'sotto controllo'" il programma. E, nel timore che si voglia "arrivare alla stessa conclusione di RaiOt", cioè allo stop alla trasmissione, comunica con una nota che non si sottrarrà "ad alcuna responsabilità di tipo politico e legale per difendere nella programmazione della Rai l'autonomia delle testate e dei giornalisti".

Saputa la notizia, Enrico Deaglio commenta con una provocazione: "Dicessero che non si può parlare male del premier, così ci adeguiamo". Poi, arriva la replica dell'azienda: "sconcerto" per le dichiarazioni
del presidente Annunziata e una precisazione, da parte di ambienti della direzione generale della Rai: nei riguardi del programma di Enrico Deaglio è stata attivata una normale procedura, obbligata dalle regole che impongono il rispetto del pluralismo.

"Si tratta di un dejà-vu - scrive Annunziata - di una sequenza fotocopia che attraverso pretesti procedurali e contrattuali, come l'analisi approfondita del contratto, una visione anticipata di più puntate e le valutazioni legali dei contenuti, non dubitiamo voglia arrivare alla stessa conclusione di RaiOt". "E questo - continua il presidente Rai - nonostante quella di Deaglio non sia una trasmissione di satira ma un approfondimento giornalistico tutelato dall'autonomia che a ogni giornalista deve essere riconosciuta".

"Il direttore generale - dice ancora Annunziata - deve smetterla di intendere il suo ruolo come quello di avvocato difensore della reputazione del presidente del Consiglio, che non ha bisogno di difensori". "In un momento così delicato per l'azienda - prosegue la nota - sarebbe più comprensibile e più dignitoso che Cattaneo si dedicasse a non vendere fumo sui contenuti del digitale terrestre e a evitare volgarità e mediocrità dilaganti in troppi programmi di intrattenimento della Rai".

L'affondo di Anunziata è pesante: "Il direttore generale di un servizio pubblico non può giudicare i programmi con due pesi e due misure. Non ricordo un solo caso nel quale sia intervenuto nei confronti di programmi pur criticabili e criticati per eccessi filogovernativi. E questo posso permettermi di dirlo, perché come presidente non mi sono mai intromessa nei contenuti dei programmi né mai ho chiesto censure, nemmeno quando le critiche erano forti e unanimi".

A questo punto, conclude Annunziata, "a difesa della dignità della Rai, non mi sottrarrò ad alcuna responsabilità di tipo politico e legale per difendere nella programmazione della Rai l'autonomia delle testate e dei giornalisti, anche di quelli ritenuti 'dissidenti': indipendentemente dalla parte che ne chiederà la censura".

Da ambienti della direzione generale Rai si sottolinea un certo "sconcerto" per le parole del presidente, sia per i toni usati, sia per il fatto che il direttore generale Cattaneo ha saputo della presa di posizione di Annunziata dalle agenzie di stampa. Nei confronti di Deaglio, comunque, non sarebbe prevista al momento alcuna chiusura in quanto, si precisa, è stata attivata solo una normale procedura, per accertare che sia stato garantito il pluralismo e per valutare l'eventualità di un riequilibrio, previsto dalla legge. Una procedura analoga ha portato nei mesi scorsi alla realizzazione di una puntata "riparatrice" di Excalibur, il programma di Antonio Socci.

Deaglio commenta dicendo che "sarebbe meglio
stabilire per legge che non si può intervistare nessuna persona che critichi il presidente del Consiglio". "Trovo che tutto ciò sia molto strano", prosegue, che per ora non ha "ricevuto alcuna contestazione formale o disciplinare da parte dell'azienda. Temo che vogliano operare una messa in mora del direttore di rete. Comunque, dicessero esplicitamente che non si può parlare male del premier, così ci si adegua".

 

Us-Visit, l'America si trasforma in fortezza
Cambia, in peggio, la vita per chi arriva negli Stati uniti. Rilevazione delle impronte digitali e fotografia all'ingresso negli Usa. È l'ultima trovata dell'Agenzia per la sicurezza interna voluta dal presidente Bush. Presi di mira gli stati del sud del mondo, esclusa l'Europa
FRANCO PANTARELLI
NEW YORK
Da oggi cambia la vita dei controllori e dei controllati negli aeroporti americani. Per chi arriverà dalla maggioranza dei p aesi del mondo, la procedura di ingresso ha una novità che un opuscolo diffuso dal ministero per la Homeland Security (sicurezza interna ndr) provvede a illustrare con i soliti disegnini e anche con qualche sforzo di gentilezza. Primo disegnino: l'omino in fila porge il passaporto al controllore; secondo: il controllore osserva il documento mentre parla all'omino (presumibilmente rivolgendogli le solite domande: scopo del viaggio, durata della permanenza, eccetera); terzo: il controllore invita l'omino a mettere le dita sulla macchina che prende le impronte, quarto: il controllore scatta la foto all'omino; quinto: l'omino si avvia verso il cartello «Welcome to the U.S.A.» Tutto ciò si chiama US-VISIT, che sta per Visitor and Immigrant Status Indicator Technology, cioè il programma, varato dal Congresso Usa all'indomani dell'11 settembre, costato 380 milioni di dollari con cui il governo americano intende difendersi dai terroristi. Per inaugurare la novità il ministro della Homeland Security, Tom Ridge, è andato personalmente ad Atlanta - il più trafficato aeroporto americano, 2.400 fra arrivi e partenze ogni giorno - per sovrintendere alle operazioni e stringere la mano ai primi viaggiatori che passavano attraverso il nuovo sistema. Lo scopo del US-VISIT, ha spiegato il ministro, è rendere i confini americani «aperti ai viaggiatori, ma chiusi ai terroristi». In pratica le impronte digitali (rilevate con un sistema che non richiede l'inchiostro) e le foto (scattate con il sistema digitale) confluiscono automaticamente nel cervellone dell'Fbi, contenente tutti i dati su criminali, terroristi e sospettati, il quale, nel giro di pochi secondi, fornisce il suo «ok», e allora il viaggiatore passa, oppure il suo «check» (controllare), e allora il disgraziato finisce in una stanza appartata per un'ispezione più approfondita.

Durante una «prova» compiuta giorni fa proprio all'aeroporto di Atlanta sono state ventuno le persone «pescate» in questo modo e consegnate all'ulteriore controllo, ha spiegato Ridge. I loro «record»: traffico di droga, violenza sessuale e visto non in regola. Non proprio dei santi, insomma, ma neanche terroristi. E la presenza fra loro di gente con il visto non in regola, formula estremamente generica, sembra dare concretezza alla protesta, per esempio, delle organizzazioni degli immigrati latinoamericani. «Non sembra probabile che in questo modo verranno presi molti cattivi, ma è più che probabile che molti immigrati resteranno incastrati nella burocrazia», ha detto un'organizzazioni, chiamata La Raza.

L'operazione è scattata nei 115 aeroporti americani che ricevono voli internazionali e in 14 dei maggiori porti del paese. Secondo le statistiche, alla fine del 2004 saranno circa 24 milioni le persone che avranno depositato la loro immagine e le loro impronte nel database del Fbi. Poi, a partire dal primo gennaio 2005, il sistema entrerà in funzione anche nei cinquanta valichi di frontiera con il Canada e il Messico. Per ora dal nuovo sistema sono esenti le persone provenienti dai paesi con cui esiste un accordo che li autorizza a entrare negli Stati uniti senza visto e a restare per un periodo non superiore ai 90 giorni. Sono in gran parte paesi europei e quindi c'è anche l'Italia. E ieri uno dei controllati proveniente dal Sud Africa affermava: «Ma perché, i terroristi non possono essere anche europei?»

Fra i paesi esenti non c'è invece il Brasile, malgrado avesse chiesto formalmente a Washington di essere inserito nella lista. La risposta è stata negativa e così un arrabbiatissimo giudice di Brasilia di nome Julier Sebastiao («è una cosa brutale, un attacco ai diritti umani, una violazione dell'umana dignità, un atto xenofobo che richiama i peggiori esempi nazisti», ha scritto nella sua sentenza) ha ordinato alle autorità brasiliane di prendere «misure di reciprocità». Il governo del presidente Lula ha obbedito e così ora i viaggiatori americani che atterrano a San Paolo o a Rio de Janeiro dovranno anche loro farsi fotografare e lasciare le impronte digitali. «All'inizio erano un pò seccati, ma quando gli abbiamo spiegato che quello era lo stesso trattamento riservato ai cittadini brasiliani che andavano negli Stati uniti, hanno mostrato di capire», ha detto un portavoce della polizia brasiliana. «É un diritto sovrano del Brasile», ha riconosciuto magnanimo il dipartimento di Stato americano.


 Ma la Georgia non è in America
Un plebiscito popolare dà a un giovane cresciuto e formato negli Usa, Mikheil Saakashvili, il posto che era di Eduard Shevardnadze a capo della repubblica caucasica. Dovrà affrontare un'economia sfasciata, separatismi feroci e la corruzione che domina la società. Mentre Usa e Russia si daranno battaglia attraverso di lui.
ASTRIT DAKLI
Che la sera di domenica 4 gennaio la gente di Tbilisi avrebbe festeggiato un nuovo presidente nella persona di Mikheil Saakashvili, nessuno ne dubitava. Il carismatico leader nazionalista georgiano, infiammatore di folle, che aveva guidato l'opposizione ad occupare per settimane le piazze della capitale fino alla caduta del barcollante regime di Eduard Shevardnadze, si presentava a queste elezioni presidenziali praticamente come candidato unico; dietro di sè aveva l'intera classe politica nazionale (se così si può chiamare), compreso l'anziano ex presidente da lui deposto; a sfidarlo, si fa per dire, un pugno di quattro o cinque sconosciuti avvocati o funzionari, in rappresentanza di se stessi. Se si aggiunge che Saakashvili e i suoi alleati avevano da due mesi in mano tutte le leve di governo e tutti i media, e che in Georgia (come ovunque nell'ex Urss) chi ha il governo difficilmente è capace di «giocare pulito» nelle elezioni, è chiaro che il risultato non poteva che essere un plebiscito. Proprio per questo, però, il risultato elettorale in se stesso vuol dire poco. Quel che davvero conta è il bilancio che i georgiani cominceranno a fare quest'autunno: un bilancio sul se e sul come il nuovo presidente sarà riuscito ad affrontare e risolvere i terrificanti problemi che ha ereditato dal suo più esperto predecessore, il quale li aveva lasciati marcire senza modificarne in nulla le coordinate. L'elenco fa paura: un'economia annichilita da guerre, criminalità e corruzione, con oltre metà della popolazione ridotta alla mera sopravvivenza fisica; un territorio dilaniato dal separatismo «etnico» e dalla regressione alla politica dei clan familiari; una collocazione internazionale delicatissima che vede il paese come teatro di scontro diretto fra Stati uniti e Russia - uno scontro giocato senza esclusione di colpi sul terreno politico, militare, economico, nonché con l'uso spregiudicato di famiglie politiche, separatismi, ambienti criminali. Una situazione complessivamente tragica, che ha visto la Georgia precipitare in pochi anni da paradiso terrestre, ricco e spensierato giardino delle delizie dell'Urss, a inferno di miseria, sangue e insicurezza.

Saakashvili, nonostante la vastità del consenso popolare, non parte da buone premesse. I suoi primi slogan da oppositore di Shevardnadze (il quale era stato suo mentore politico, facendone il più giovane ministro del suo governo) erano «contro la corruzione»: perfetto, in un paese dove nulla si muove senza pagare funzionari a tutti i livelli; ma questi funzionari ora sono tutti al fianco del nuovo presidente, così come con lui sono i clan mafiosi, i corpi armati (polizia e guardie varie) che impongono costose «protezioni» a tutti, e via dicendo. Come potrà il giovane Saakashvili - che conosce il suo paese più per averlo studiato mentre viveva negli Usa, o in Francia, che per averci vissuto davvero - tagliare le tante teste dell'idra che egli stesso ora guida?

Gli altri slogan che il neopresidente e il suo éntourage continuano a scandire sono «a fianco dell'Occidente» e «più investimenti stranieri». E non c'è dubbio che questo sia il «mandato» che ha accompagnato la benedizione di Saakashvili da parte di Washington, delle multinazionali petrolifere e, in misura più modesta, di alcune cancellerie europee. Una benedizione accompagnata probabilmente anche da un po' di soldi, ma legata a impegni ben precisi: ci si aspetta dal nuovo presidente che garantisca la rapida e piena attuazione del progetto di un grosso oleodotto, che attraverso il territorio georgiano dovrebbe portare il petrolio estratto dai giacimenti offshore dell'Azerbaigian fino al porto mediterraneo di Ceyhan, in Turchia, evitando di mettere il flusso di oro nero (pagando anche ricche royalties) nelle mani dell'infido alleato russo.

Il giovane presidente, cresciuto e formato in America, dotato di inglese perfetto e moglie occidentale (olandese), quando parla ai giornalisti occidentali continua a giurare e garantire che l'oleodotto è la sua priorità. Ma è abbastanza chiaro che le cose non sono facili e che se Saakashvili vuol sopravvivere alla testa del paese dovrà scendere a compromessi.

Ai georgiani, infatti, egli continua a giurare e promettere che la sua priorità è il ristabilimento dell'unità nazionale. Anche sabato, alla vigilia del voto, ha voluto compiere un gesto dimostrativo recandosi brevemente nell'Ossetia del sud, una delle regioni separatiste, a dire che «queste saranno le ultime elezioni cui gli abitanti dell'Abkhazia (l'altra regione separatista, ndr) e dell'Ossetia non partecipano». Solo che i fili del separatismo - e dunque le chiavi dell'unità nazionale georgiana - sono nelle mani della Russia, che controlla militarmente ed economicamente le regioni staccatesi dalla madrepatria con le guerre civili del `91-'93. E la Russia, pur interessata a una stabilizzazione del suo vicino meridionale - anche perché questo renderebbe più difficile alla guerriglia cecena usare le montagne georgiane come proprio «santuario» - non gradisce neanche un po' il trend filooccidentale (e devoto all'oleodotto Baku-Ceyhan) su cui Saakashvili dice di volersi muovere.

Il neopresidente rischia - facendo passi azzardati per compiacere Washington - non solo di far perdere definitivamente al suo paese l'Ossetia del sud e l'Abkhazia (con il loro straordinario potenziale turistico: sono due regioni di spettacolare bellezza), ma di perdere anche una terza regione, l'Adzharia (a sud, affacciata sul Mar Nero e confinante con la Turchia) che già gode di una autonomia quasi totale e il cui presidente-padrone Aslan Abashidze ha ripetutamente detto nelle ultime settimane di esser pronto a rompere del tutto le relazioni con Tbilisi, con l'esplicito sostegno di Mosca (che tiene in quel territorio una delle tre basi militari tuttora attive in Georgia).

Né sembra pensabile che, nonostante il plebiscito in suo favore registrato domenica, Saakashvili sia disposto a rischiare una nuova guerra civile per riguadagnare, cacciandone i russi, il pieno controllo sul territorio nazionale. Non a breve termine, comunque; non con un paese ridotto allo stremo delle forze e, sia pur facilmente infiammabile dalle ideologie nazionaliste, certo incapace di reggere a una prova tanto dura - come ha ben dimostrato la complessa guerra civile del `91-'93, dove l'esercito georgiano venne sbriciolato dagli avversari «etnici» e si trasformò subito in un'accozzaglia di bande armate di clan, ciascuna legata al proprio territorio familiare.

Lo stesso plebiscito di domenica, peraltro, anche a volerlo accettare come autentica, piena e libera espressione di volontà popolare, riflette più una speranza di un aiuto esterno - da un'America più mitica che reale - che una volontà di combattere. I georgiani sono certo abituati (meno degli armeni, ma più di altre nazioni dell'ex Urss) a rapportarsi a una diaspora ricca e influente: resta però il fatto che è difficile immaginare una distanza maggiore di quella che separa il giovane e brillante avvocato laureato alla Columbia university da una società disperatamente povera, il cui destino economico è ancora legato all'agricoltura e il cui principale cemento è costituito dalla religione (una variante autoctona della chiesa ortodossa). Se gli elettori hanno dato in massa il proprio consenso a Saakashvili è perché questi offre con la sua stessa persona un'immagine di riscatto e successo «grazie all'America». Ma la delusione potrebbe essere veloce, e amara.


 Ricerca su 2500 famiglie da 800 euro al mese,
i piccoli di casa consumano caramelle e telefonano
Soli davanti a tv o videogame
i figli dell'Italia a basso reddito

ROMA - Vivono nelle periferie della grandi e piccole città. A Milano come a Palermo; a Torino come a Mestre, o a Genova, o a Bologna o a Bari. Sono i figli delle famiglie a bassissimo reddito (due milioni 456 mila secondo i più recenti dati Istat), quelli che nascono e crescono da genitori che alla fine del mese ci arrivano con sì e no 800 euro. Eppure, incredibilmente, sembra che proprio loro siano "buoni consumatori" ai quali i pubblicitari guardano con avido interesse poiché "il senso di colpa dei genitori, una certa autonomia nella gestione della pur minima paghetta, fa sì che siano forti acquirenti e fruitori di certi prodotti".

Lo sostiene il massmediologo Klaus Davi che, avvalendosi di un pool di psicologi, firma uno studio (commissionato da un colosso internazionale nel campo dei videogiochi) che ha coinvolto 2.500 famiglie italiane. La ricerca che verrà pubblicata in marzo, è durata sei mesi ed ha riguardato tutto il territorio nazionale.

La fascia di età più critica, quella durante la quale il desiderio di "cose" aumenta e dunque aumenta anche la vulnerabilità dei ragazzi ai messaggi pubblicitari, va dagli otto ai sedici anni. Così scopriamo che essi sono grandi consumatori di videogiochi (17 per cento degli acquirenti), patatine e caramelle (32 per cento), internet (16 per cento), riviste in target (27 per cento), riviste per adulti (22 per cento) e soprattutto (ma questo sorprende poco) televisione: il 59 per cento dell'intero target della fascia auditel che va dagli otto ai venti anni.

Klaus David li chiama i figli di un universo dimenticato. "Dimenticato dalla politica. Famiglie per le quali non esistono strutture di sostegno sul territorio, di fatto abbandonate a se stesse. Un universo nel quale si alimenta l'invidia sociale, l'odio per i privilegiati, il disprezzo per la cultura, la schiavitù al consumismo più acritico, la violenza". Un universo nel quale questi bambini vivono spesso in solitudine restando dalle tre alla quattro ore al giorno senza nessuno adulto in casa. Mangiano irregolarmente prodotti per lo più pubblicizzati in tv, il più delle volte grassi e poco salutari per la loro età; vedono in media cinque ore di tv al giorno; ingurgitano nell'arco della giornata qualcosa come 200 spot (ogni giorno su Rai, Mediaset, La7 e tv locali ne vanno in onda 2.500 tra le 14 e le 19); e sfogliano riviste per soli adulti o vedono cassette hard. Eppure, dice David, raramente questi "baby clienti fedeli e affidabili" figurano nelle ricerche di mercato. Almeno finora.

Il fenomeno non è solo italiano: Il ricercatore informa che più o meno nella stessa situazione di oblio si trovano i ragazzi inglesi (18 per cento), quelli tedeschi (15 per cento), spagnoli (22 per cento), francesi (19 per cento). L'idea dei genitori su ciò che fanno i propri figli quando restano soli in casa mentre loro sono al lavoro non coincide con quello che i ragazzi ammettono di fare. C'è discordanza soprattutto sui compiti: dichiara di farli il 32 per cento; credono che i figli li facciano il 56 per cento. Ma praticamente le due visioni non vanno mai di pari passo. Ciò che avviene realmente è che i ragazzi stanno appiccicati alla tv o al telefono, studiano, giocano in modo tradizionale, smangiucchiano, usano giochi elettronici, fanno merenda, leggono. Quel che i genitori pensano che fanno è: studiare, mangiare regolarmente, tv, giocare tradizionalmente, telefonare, leggere, usare giochi elettronici, smangiucchiare.

Sul mercato ovviamente il sesso dei consumatori conta, anche a dieci anni. E dunque scopriamo che i maschi sono divoratori di film violenti, sport, videogiochi violenti, radio, manga giapponesi, internet. Le femmine: fiction e soap, radio, musica in tv, riviste rosa per ragazze, internet. Entrambi mostrano un certo interesse per i video erotici: li guarda il 12 per cento dei ragazzini e l'8 per cento delle ragazzine. Si tratta per lo più di film registrati durante la notte. Ovviamente all'insaputa dei genitori.

 

2 gennaio 

L'Ires-Cgil: nel periodo '91-2003 il potere d'acquisto
dei dipendenti è diminuito dello 0,5 per cento
Sei milioni di lavoratori vicini alla soglia di povertà
Cresce solo la produttività. Nell'ultimo decennio
meno del 20% della ricchezza è andata al fattore lavoro
di RICCARDO DE GENNARO

ROMA - Tre milioni di lavoratori con un salario netto compreso tra i 600 e gli 800 euro, altri tre milioni circa con una busta paga un po' più consistente, ma che raggiunge a malapena i 1.000 euro. I "lavoratori poveri", coloro che pur lavorando tutti i giorni gravitano intorno alla soglia di povertà, sono sei milioni. Tanti. La stima è contenuta in uno studio dell'Ires-Cgil sulla politica dei redditi e la dinamica delle retribuzioni nel 2003, che verrà presentato nelle prossime settimane.

Dallo studio emerge un fatto nuovo, particolarmente inquietante: se è vero che il "lavoratore povero" nasce come prodotto dei contratti atipici, della flessibilità, del sommerso diffuso, è altrettanto vero che oggi il fenomeno ha ormai raggiunto "anche categorie storiche del cosiddetto "made in Italy", dell'edilizia, dell'artigianato, dei servizi". Lavorano, ma hanno un livello di vita che è poco sopra quello di un disoccupato.

Il rischio è che con i tagli al Welfare, lo spostamento dell'asse dei servizi dal pubblico al privato, l'aumento dell'inflazione, il numero dei lavoratori che non riescono ad arrivare a fine mese continui ad aumentare. Di qui l'urgenza, sottolinea l'Ires-Cgil, di tornare a parlare a partire dalle condizioni reali dei lavoratori e non più in termini di "media statistica". Di riaprire, dunque, la questione salariale, attraverso una nuova politica dei redditi che passi per il rilancio della concertazione e restituisca dignità al lavoro.

Qual è la causa della progressiva povertà dei salari? La mancata distribuzione al fattore lavoro della produttività delle imprese. Che non è prevista, nonostante la solitaria battaglia della Fiom tra i metalmeccanici, a livello di contratto nazionale e che riguarda un numero limitato di aziende a livello di contrattazione integrativa.

I risultati dei confronti internazionali sono preoccupanti. Da un'elaborazione dell'Ires-Cgil su dati Ocse e Istat emerge che nel decennio '91-2000 in Italia le retribuzioni lorde sono aumentate - in termini reali (cioè depurati dall'inflazione) - soltanto del 3,3%, a fronte di un aumento della produttività reale per addetto del 18,7%. Nello stesso periodo, in Germania le retribuzioni reali sono aumentate del 9,1% (contro una crescita della produttività per addetto del 21,1), in Francia dell'8,% (33,6), in Danimarca del 12,9 (18,9). Nei Paesi Bassi e negli Stati Uniti la forbice è più ampia: negli Usa addirittura la produttività per addetto nel decennio è salita del 40%, mentre i salari reali sono cresciuti soltanto dell'1,5%.

Ma nel 2003, per la prima volta dopo vent'anni, le retribuzioni di fatto sono aumentate meno dell'inflazione, determinando una perdita secca di potere d'acquisto. Nel 2003 una famiglia di tre persone con due redditi medi da lavoro dipendente ha perso potere d'acquisto per 720 euro: causa la flessione della retribuzione e la mancata restituzione del fiscal drag. Nel 2003 gli italiani risultano di fatto più poveri dello 0,5% rispetto al '91. "Tra il '96 e il 2001 si recupera potere d'acquisto, ma negli ultimi tre anni - dice Megale - è ripreso il declino, i lavoratori non hanno più visto un centesimo di produttività. Il governo Berlusconi ha adottato una sorta di riduzione programmata e strutturale dei salari".

C'è qualcosa che non funziona nella redistribuzione del reddito: i meccanismi sembrano girare al contrario. Le retribuzioni lorde pesano attualmente sul Pil per il 30%, ma erano pari al 36% nell'82. I profitti, invece, sono aumentati, in rapporto al Pil, di cinque punti percentuali: oggi, insieme ai redditi netti da lavoro autonomo, pesano per il 31,9% del Pil. Lo si può dire anche così: "Nell'ultimo decennio - scrive l'Ires - meno del 20% della ricchezza prodotta è andata al lavoro, contro oltre l'80% finito a profitti e tasse". Significa che la concertazione non è stata favorevole ai lavoratori. "Va ripristinata, ma rivista", dice il presidente Ires, Agostino Megale. Il quale ammette che "la vecchia politica dei redditi non funziona più: bisogna fissare un'inflazione programmata più vicina a quella reale e mantenere i salari al di sopra dell'inflazione redistribuendo al lavoro oltre il 50 per cento degli incrementi della produttività".

Lo slogan dell'Ires è infatti questo: "Fare crescere la produttività e darne di più al lavoro". L'Ires chiede "politiche contrattuali che rivalutino il lavoro operaio pagando di più disagi e flessibilità", politiche fiscali che sostengano la crescita dei redditi bassi, l'introduzione di un indice di riferimento al paniere reale delle famiglie, più vicino del paniere Istat ai consumi dei lavoratori dipendenti e dei pensionati. L'Ires-Cgil fa questo esempio: "Due pensionati con un reddito familiare di 16mila euro hanno avuto un'inflazione del 4-5 per cento".