Archivio Ottobre 2004
28 ottobre
Pena di morte sempre più
diffusa: 10 mila vittime l'anno
Visite guidate per ragazzini delle elementari e delle medie
Cina, alunni in
gita premio
per assistere alle esecuzioni
dal nostro corrispondente
FEDERICO RAMPINI
|
Pechino,
detenuti in tribunale |
PECHINO - Ma Weihua, 29 anni, l'hanno arrestata alla
stazione ferroviaria di Lanzhou con l'eroina nascosta sotto la sua gonna gialla.
Il possesso di droga è uno dei 69 reati per cui scatta la condanna a morte in
Cina. Il suo era un caso speciale, però. Al momento dell'arresto Ma Weihua era
incinta e il codice penale esclude dalla sentenza capitale le donne in stato di
gravidanza. La polizia di Lanzhou non si è fermata per così poco.
La squadra narcotici ha trasferito Ma dal carcere all'ospedale Kangati dove un
medico le ha praticato subito l'aborto. Sotto anestesia forzata "perché la
paziente si rifiutava di cooperare". Un dirigente della Pubblica sicurezza di
Lanzhou ha dichiarato alla stampa locale che "il codice non deve diventare
un'arma in mano agli spacciatori per sottrarsi alla punizione".
Il caso di Ma rilancia il dibattito sulla pena di morte in Cina. Qui ogni anno
la giustizia fa fucilare o sopprime per iniezione letale almeno diecimila
persone: cinque volte più delle condanne a morte eseguite in tutto il resto del
mondo, America compresa.
Nonostante il disagio degli intellettuali e dei dirigenti più illuminati, la
pena di morte ha ancora un solido avvenire in questo paese. Pochi giorni fa a
Changsha, capitale della provincia dello Hunan, centinaia di scolari sono stati
guidati dai loro maestri in una singolare gita premio. Dentro il palazzetto
dello sport di Changsha, insieme con altri 2.500 spettatori, i ragazzini delle
classi elementari e medie hanno potuto assistere di persona e in diretta
all'esecuzione di sei condannati.
Lo spettacolo è stato immortalato su un sito Internet: gli scolari in uniforme
(dai sei ai sedici anni) ascoltano dagli altoparlanti la proclamazione dei reati
commessi, poi il plotone di esecuzione apre il fuoco. Queste cerimonie pubbliche
si moltiplicano in occasione delle festività nazionali. Di recente la provincia
dello Yunnan ha acquistato diciotto "celle mobili" equipaggiate per l'iniezione
letale, al fine di "migliorare l'efficienza e l'economicità" delle esecuzioni.
A Pechino il governo centrale sembra meno entusiasta di tanta pubblicità. Questo
può spiegare il divario consistente che c'è tra le esecuzioni dichiarate e
quelle reali. Nel 2003, per esempio, Amnesty International ha censito 1.639
condanne a morte ufficiali in Cina di cui 726 già eseguite. La stessa Amnesty
International nel suo rapporto annuo avverte che "le cifre vere purtroppo sono
molto più alte".
La stima di diecimila esecuzioni avanzata dal giurista Chen Zhonglin è
considerata attendibile. Una simile strage non viene giustificata con gravi
motivi di ordine pubblico. La Cina non è descritta dalle sue autorità come un
paese tormentato da alti livelli di criminalità, non c'è un clima di allarme
sociale per la violenza. E' il sistema giudiziario ad avere il grilletto facile.
Il professor Xiao Zhonghua dell'Accademia delle Scienze sociali invita a
"vigilare contro l'abuso della pena di morte". Il giurista Liu Renwen dichiara
alla rivista Huanqiu: "Nel 1910 sotto l'ultimo regime imperiale, la dinastia
Qing, c'era la pena capitale per venti capi d'imputazione. Un secolo più tardi,
il nostro nuovo codice penale ha triplicato i casi in cui si applica". Sono
inclusi delitti non cruenti come il contrabbando, lo sfruttamento della
prostituzione, la profanazione delle tombe, la falsificazione di banconote.
Di recente i reati che si pagano con la vita sono stati ancora aumentati. L'anno
scorso sono stati aggiunti alla lunga lista il crimine di "diffusione deliberata
della Sars", e quello di "produzione di materie prime tossiche". Anche la
prevenzione sanitaria e la lotta all'inquinamento si regolano così, in un paese
dove secondo Amnesty International "non esiste la presunzione d'innocenza, le
confessioni ottenute attraverso la tortura valgono come prove in tribunale, gli
avvocati difensori non sono tenuti ad essere presenti negli interrogatori di
polizia, e il potere politico interferisce nel sistema giudiziario". Si aggiunge
il sospetto che la pena di morte sia somministrata con particolare facilità ai
membri di minoranze etniche non appena scatta contro di loro il sospetto di
attività terroristiche (è il caso del tibetano Lobsang Dhondup fucilato a
gennaio, e di diversi musulmani Uiguri in carcere).
Nelle ultime settimane qualcosa sembra muoversi. Una delle massime autorità
giudiziarie del paese, il vicepresidente della Corte Suprema del Popolo Huang
Songyou, annuncia che i condannati a morte dovrebbero avere diritto di appello
presso la sua giurisdizione, cioè il tribunale costituzionale. Sarebbe già un
progresso enorme: oggi i giudici che esaminano i ricorsi sono gli stessi che
hanno inflitto la pena capitale. Il quotidiano Notizie di Pechino
pubblica un appello firmato dai più celebri giuristi del paese, si intitola "Per
l'abolizione della pena di morte sui reati economici". Liu Ri, vicepresidente
dell'università Hebei, conferma che questo sarebbe il primo passo più
ragionevole: "Eliminare la condanna capitale per i reati finanziari, poi per
tutti i delitti che non comportano spargimento di sangue".
Questi esperti e magistrati hanno fatto i conti senza l'opinione pubblica. La
Cina non ha libere elezioni o referendum per consultarla, ma almeno ha le
rubriche di lettere ai giornali, i forum su Internet e i weblog. La loro
reazione a queste proposte non si fa attendere. Sui siti Sohu. com e Sina. com
piomba una valanga di proteste: 5.000 interventi contro la clemenza - o la
civiltà - invocata dagli esperti. "E' irragionevole - scrive un giovane su Sohu.
com - abrogare la pena di morte per i dirigenti politici che prendono le
tangenti. Queste proposte ignorano il sentimento dei cittadini ordinari, offesi
e danneggiati dal dilagare della corruzione".
Alcuni lettori indignati confidano ai giornali il timore che i giudici
garantisti siano d'accordo con gli amministratori disonesti. Verso i corrotti
nessuno è disposto a usare indulgenza. Per loro neanche l'ergastolo sembra
bastare. Il giurista Li Kejie ammette che "molti cittadini sono a favore della
legge del taglione, occhio per occhio dente per dente, soprattutto oggi che le
riforme economiche creano conflitti e instabilità sociale. L'effetto deterrente
e la punizione esemplare della pena capitale diventano ancora più importanti,
sembrano dare sicurezza".
In realtà le statistiche rivelano che solo di rado chi ha intascato tangenti
finisca davanti al plotone d'esecuzione. Anche quando succede, si tratta di
figure di medio calibro, dirigenti provinciali gettati in pasto all'opinione
pubblica per dare l'impressione che la corruzione viene combattuta senza pietà.
Negli ultimi anni il più alto in grado ad aver pagato con la vita è un
vice-governatore provinciale dello Jianxi, Hu Changqing, fucilato l'8 marzo del
2000 per aver preso 658.000 dollari di mazzette. Quest'anno si segnala un solo
caso di pena capitale per un alto funzionario accusato di ruberie: è Wang
Huaizhong, ex vice-governatore dello Anhui, la cui condanna è stata eseguita il
12 febbraio.
Sulla massa dei condannati a morte i colletti bianchi sono già oggi una
minuscola eccezione. Inoltre, spiega ancora Liu Renwen, "il potere deterrente
della pena capitale contro la corruzione ha dei limiti evidenti. Conosciamo dei
casi in cui dopo la condanna a morte di un amministratore locale per tangenti,
il suo successore si è macchiato poco tempo dopo dello stesso delitto. Questo
deve metterci in allarme. La soluzione per prevenire questo genere di delitti
sta nel cambiare il sistema". La migliore cura contro il giustizialismo dei
cittadini, sostiene il giurista impegnato contro le condanne a morte, "è rendere
pubbliche le informazioni sui numerosi errori giudiziari, illustrare la scarsa
utilità pratica della pena capitale".
Forse Liu sopravvaluta la razionalità dei suoi concittadini. O sottovaluta la
tensione che cova dentro la società. Pochi giorni fa nella città di Wanzhou un
banale diverbio tra automobilisti è degenerato quando è intervenuta la polizia:
diecimila persone hanno attaccato le forze dell'ordine e incendiato i loro
automezzi, apparentemente senza una ragione, finché sono dovuti intervenire
reparti anti sommossa per sedare la guerriglia. Le autorità ora minimizzano
questo incidente, come le tante esplosioni improvvise di conflittualità sociale
nelle campagne, fiammate di ribellione contadina contro i capi-partito che si
impadroniscono delle terre comuni per venderle alle aziende o ai palazzinari. La
voglia di forca probabilmente è un altro modo di dire le stesse cose. A fare le
spese di questo risentimento popolare, purtroppo, non sarà la nomenklatura
corrotta. Sarà Ma Weihua, che a 29 anni ha abortito su decisione di un
poliziotto, perché neanche il codice penale possa sottrarre la sua vita al
potere assoluto del giudice.
Solo
Ottimo il risultato del centrosinistra, ha vinto in sei collegi perdendo solo a
Ischia dove è stato eletto D'Antoni.
Senza casa a
Bankitalia. Picchiati
Proteste per il taglio della
luce al palazzo occupato. Interviene la polizia
A. MAN.
ROMA
Un centinaio di occupanti
dello stabile di via Carlo Felice 69, tra i quali parecchie mamme africane e
sudamericane con i bambini al seguito, anche in carrozzina, sono stati malmenati
ieri mattina dalla polizia in via Nazionale, davanti alla sede della Banca
d'Italia. Erano andati a chiedere il riallaccio della corrente elettrica nel
palazzo occupato, che si trova nel quartiere Esquilino ed è di proprietà della
banca centrale: l'Acea, ente erogatore, l'ha staccata dopo la diffida
dell'istituto proprietario. La questura non ha gradito la manifestazione (non
preavvisata) e ha fatto intervenire cento uomini tra poliziotti e carabinieri,
agitando persino le direttive antiterrorismo che indicano Bankitalia come
«obiettivo sensibile». Sono bastati un po' di spintoni, qualche calcio e qualche
manganellata per costringere i dimostranti, che si trovavano in via Nazionale
già sul lato opposto alla sede dell'istituto, a salire sul marciapiede,
schiacciati contro gli ingressi del teatro Eliseo. Tra loro c'era il consigliere
comunale disobbediente Nunzio D'Erme e altri attivisti di Action, l'Agenzia
comunitaria per i diritti. Inutili le richieste di un incontro con i vertici
dell'istituto. In mezzo alla strada D'Erme ha scambiato qualche parola con il
responsabile del segretariato di Bankitalia, Claudio Del Core, che però
allargava le braccia dicendo: «Non posso farci niente». Con l'inverno alle
porte, staccare la luce nelle case occupate equivale a renderle invivibili,
specie per le donne e i bambini: sembra una mossa che prepara e facilita gli
sgomberi di cui si parla da mesi a Roma. Prima di via Carlo Felice la corrente
era già stata tolta allo spazio sociale «32» di via dei Volsci, ma poi era stata
ripristinata dopo un incontro con il prefetto Achille Serra. «L'Acea continua a
non Voler stipulare un regolare contratto e informa - si legge in una nota di
Action - che a partire dai primi di novembre è in programma un fitto calendario
di distacchi, circa 25», in base a «una lista fornita ad aprile dal prefetto
Serra».
Venti occupazioni sono a rischio, alcuni decreti di
sgombero emessi dalla magistratura sono di fatto sospesi per ragioni di ordine
pubblico. Ma nessuno ha voglia di parlarne: tace il sindaco Walter Veltroni e
tace perfino Rifondazione comunista. «Il sindaco alza le mani - osserva Action -
l'Acea che è ancora in gran parte a capitale comunale si trincera dietro la
diffida della Banca, la Banca neanche si degna di rispondere e il prefetto manda
la polizia. E la povera gente cosa deve fare?».
25 ottobre
I ricchi di ieri e le tasse di oggi
STRETTAMENTE PERSONALE
Biagi Enzo
C' era una canzone che sembrava un inno alla solitudine: l' unico segno di vita era il rubinetto che sgocciolava. Eppure era domenica, da sempre considerata giorno di festa. Mi tornano in mente certi incontri, qualche ricordo. Enrico Mattei, il fondatore dell' Eni, diceva: «Voglio che i miei operai mettano la camicia bianca», che per lui era un modo per distinguersi. Il professor Valletta, capo della Fiat, prima che arrivasse l' avvocato Agnelli, aveva un altro programma, anche questo ispirato da un sano realismo: «Voglio che i miei uomini la domenica facciano bollire la pignatta del brodo». Erano Valletta e Mattei gli imprenditori di una volta, simili al vecchio Angelo Rizzoli il quale, per rimarginare le ferite di Marzabotto, ci impiantò una cartiera e diede un lavoro e una casa decorosa agli abitanti di quella valle. Demagogia, populismo? Può darsi, e in aggiunta forse l' idea che il dipendente con la pancia piena e un tetto sopra la testa lavora meglio e produce di più. Oggi abbiamo a Palazzo Chigi un signore che fino all' altro ieri di mestiere faceva l' imprenditore e non si è mai dimenticato come si fanno gli affari. I racconti di quanti da lui hanno preso lo stipendio lo descrivono come un generoso, paghe più che buone, panettone aziendale a Natale e fiori alle segretarie per onomastici e compleanni. Quasi roba di altri tempi. Ma si sa business is business, e allora anche i comportamenti si adeguano. Quello stesso signore, infatti, ha annunciato che nella riforma fiscale rimarranno solo tre aliquote, la terza, quella più alta, al 39% perché, ha spiegato Berlusconi, «sono le classi degli imprenditori e manager che devono dare una spinta alla loro attività e con essa una spinta all' economia». In parole povere vuol dire che i manager e gli imprenditori, cioè i più ricchi, pagheranno meno tasse.
21 ottobre
Mercanti in pillole
FRANCO CARLINI
Nei
giorni scorsi, non temendo il ridicolo, il ministro Sirchia aveva detto che la
riduzione non si poteva fare perché nel libero mercato, i prezzi li fa appunto
il mercato. Ieri invece si è scoperto che si poteva fare, almeno attraverso la
pressione morale. Sono improvvisamente diventate generose le sei aziende che
producono i vaccini? No di certo: semplicemente hanno deciso che la loro
reputazione già notoriamente assai bassa, si sarebbe troppo deteriorata. In
compenso sono riuscite ad affossare immediatamente la timida proposta che
qualche matto nel governo aveva suggerito, di produrre pillole in confezioni
singole o ridotte, per ridurre gli sprechi. Del resto se c'è una cosa che non ha
nulla a che fare con il liberismo e con Adamo Smith, questa è per l'appunto la
compravendita dei farmaci: infatti non sono i consumatori finali a fare la
scelta d'acquisto, la quale passa invece attraverso i medici e il sistema
sanitario nazionale. Questa anomalia strutturale e inevitabile spiega perché
siano così alti gli investimenti della aziende farmaceutiche nella propaganda
presso i medici - anche generando veri e proprie corruzioni - e le altrettanto
dispendiose attività di lobbying presso i governanti, in tutto il mondo. Il
costo finale di una medicina dunque dipende dalle regole in vigore nel singolo
stato e dall'insieme dei meccanismi di rimborsi e di tariffe. La domanda non
c'entra per niente perché se così fosse il prezzo degli antimalarici dovrebbe
essere molto più basso: muoiono tre milioni di persone all'anno, ma dato che
vivono in paesi poveri, quello non viene giudicato un mercato interessante,
anche se sciaguratamente di massa.
Il
caso esploso un anno fa nella regione Toscana ci ricorda anche quali robuste
azioni queste aziende siano pronte a dispiegare: di fronte alle regole toscane
che riducevano gli sprechi farmaceutici senza compromettere la salute dei
cittadini, la Pfizer commissionò un sondaggio all'Ispo di Remato Mannheimer e
poi cercò di usarlo in un «piano di mobilitazione e comunicazione» il cui scopo
era di far emergere il supposto malcontento dei cittadini. Insomma la questione
farmaci e della salute va esplodendo in tutto il mondo. Anche in California dove
il governatore Schwarzenegger a
fine settembre
ha messo il veto a tutte le proposte di legge che andavano a
favore dei consumatori di farmaci. Vietato dunque importarli dal Canada, dove
costano di meno e bocciata anche l'idea di aprire un sito web statale da cui
risultassero i confronti tra i diversi prezzi dei diversi farmaci. Era un
tentativo di libero mercato transfrontaliero, ma i massicci finanziamenti
elettorali ricevuti da Novartis, GlaxoSmithKline, Bristol-Myers Squibb e Pfizer
gli l'hanno evidentemente impedito di attuarlo.
Quanto all'influenza, tutti lo sanno che essa arriva ogni
anno, puntuale come l'autunno, partendo dall'est e propagandosi a occidente, e
che ogni anno il virus è un po' diverso: così fin dalla primavera i laboratori
preparano i nuovi vaccini e le aziende si attrezzano allegre alla
produzione-vendemmia: è un mercato meraviglioso perché è di massa e perché in
autunno le fasce di popolazione più esposte, bambini e anziani, «devono»
consumare. Consumano tutti lo stesso vaccino, sovente realizzato con i soldi dei
contribuenti, ma in confezioni diverse di aziende diverse: l'altra anomalia del
«mercato» dei farmaci è infatti che tutte le maggiori aziende puntano solo ai
farmaci ad alta resa, i blockbuster che esse producono e vendono in cartello
senza che nessun antitrust possa o voglia intervenire.
20 ottobre
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17 ottobre
Sulle
riforme giocano a palla
con lo stato repubblicano
di EUGENIO SCALFARI
15 ottobre
L'accusa: quasi la metà
del territorio nazionale resterà
irrimediabilmente sfregiato dall'ultima sanatoria
Da Portofino ad Agrigento
gli scempi a rischio di grazia
Tutto quello che potrebbe essere condonato
con la nuova legge delega per l'ambiente
di ANTONIO CIANCIULLO
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ROMA - "E' un super condono, un colpo di spugna
come non se n'erano mai visti. Le aree interessate, cioè quelle coperte da
vincolo paesaggistico, coprono il 48 per cento del territorio italiano: tutte
le coste fino a 300 metri dalla battigia, le aree montane oltre i 1.600 metri
sulle Alpi e i 1200 metri sugli Appennini, le rive dei fiumi e dei laghi, le
foreste, i 22 parchi nazionali, centinaia di parchi regionali. Un massacro
pianificato del territorio". E' durissimo il commento di Fausto Giovanelli,
senatore della sinistra ecologista, che parla di una "legge Cirami
dell'ambiente".
Anche per Angelo Bonelli, coordinatore nazionale dell'esecutivo dei Verdi, il
risultato delle modifiche apportate dal Senato alla delega ambientale avrà un
effetto devastante: "Berlusconi è come i talebani: non c'è differenza tra chi
demolisce i Budda e chi distrugge l'ambiente".
Perfino all'interno della maggioranza c'è chi, pur criticando "l'opposizione
accecata dall'antiberlusconismo", ammette il passo falso compiuto. "Questo
maxi emendamento prevede la possibilità di sanare i piccoli abusi quando non
vi sia un aumento dei volumi", ha commentato il senatore di An Giuseppe
Specchia. "Rispetto al vecchio comma 32 è un passo avanti per quanto riguarda
il futuro. Per quanto invece è avvenuto fino al settembre scorso, pur fissando
i paletti del parere delle soprintendenze e le pene pecuniarie, c'è una
sanatoria".
Il confine degli illeciti che potranno effettivamente essere sanati resta
incerto perché il testo votato dal Senato sembra studiato per alimentare gli
equivoci e le incertezze interpretative. Il ministro dell'Ambiente Altero
Matteoli, ad esempio, è convinto che i parchi siano esclusi dalla sanatoria
perché non rientrerebbero nelle aree protette dai vincoli paesaggistici.
In realtà la prima parte del provvedimento è chiara. Il comma 36 spiega che
demolire le costruzioni abusive sarà più facile; che diventa più severa (da 1
a 4 anni di reclusione) la pena per chi realizza un ampliamento di più di 750
metri cubi o una nuova costruzione di oltre 1.000 metri cubi; che per i
piccoli abusi non scatterà la sanzione penale.
Più complessa l'interpretazione del comma successivo: "Per i lavori compiuti
su beni paesaggistici entro e non oltre il 30 settembre 2004 senza la
prescritta autorizzazione o in difformità da essa, l'accertamento di
compatibilità paesaggistica dei lavori effettivamente eseguiti, anche rispetto
all'autorizzazione eventualmente rilasciata, comporta l'estinzione del reato"
a condizione che tipologie edilizie e materiali "rientrino tra quelli previsti
dagli strumenti di pianificazione urbanistica" o siano compatibili con il
contesto paesaggistico e che i trasgressori abbiano pagato la sanzione.
Dunque nessun esplicito riferimento al volume delle opere da sanare. Il
divieto di ampliamento è implicito visto il contesto generale, come sostiene
la maggioranza e anche una parte degli ambientalisti?
Secondo Italia nostra, che ha lanciato una petizione per chiedere a Ciampi di
non firmare la legge, no: si tratta di un condono generalizzato che produrrà
effetti disastrosi da Portofino ad Agrigento.
Diverso il parere del Wwf. "Un primo danno è comunque fatto: si potranno
sanare, anche nei parchi, illeciti come nuove finestre, piscine, campi da
tennis, tralicci, antenne, strade, tagli dei boschi non consentiti, estensioni
di cave", afferma Gaetano Benedetto, segretario del Wwf. "Si può però evitare
di aprire le porte a un ulteriore allargamento della sanatoria: occorre dare
un'interpretazione restrittiva del testo".
Intanto ieri è arrivata la prima conferma dell'ambiguità della legge: è
circolata con insistenza la voce secondo la quale in base al nuovo testo
andrebbe abbattuto il Corviale, un enorme palazzo dal passato difficile dove
vivono 6.500 romani. "E' in corso un'opera di riqualificazione dell'immobile",
ha commentato il sindaco di Roma Walter Veltroni, "ed è davvero singolare che
un governo che parla tanto di federalismo pretenda di decidere in una materia
che appartiene in modo del tutto evidente alle competenze del Comune".
14 ottobre
La
maschia gioventù
GIANNI
ROSSI BARILLI
Il presidente della commissione Ue, Barroso, ha deciso
di sfidare la potente mafia gay confermando Rocco Buttiglione nel suo incarico
di commissario europeo con deleghe su giustizia libertà e sicurezza. Anche se in
Europa, come dice il ministro per gli italiani all'estero Tremaglia, «i
culattoni sono in maggioranza», non avranno il coraggio di bocciare l'intera
commissione solo per le intemperanze ideologiche di un Buttiglione. Resta il
fatto che l'immagine dell'Italia sarà almeno per un po' legata a un signore
capace di dire, in sei lingue e convinto di fare un figurone, che
l'omosessualità è un peccato e non un reato (ma non certo un diritto) e che la
famiglia esiste per permettere alla donna di avere figli e di essere protetta
dal marito. E che poi, dopo che gli è stato detto che non è l'uomo giusto per
garantire la libertà dei cittadini europei, incolpa la «lobby omosessuale
trasversale», come negli anni Cinquanta, di avere organizzato un complotto con
la sinistra.
Il problema casomai è che l'Europa si è data degli standard minimi di civiltà al
di sotto dei quali si trova Buttiglione, e che la lobby cattolica, istruita da
appositi manuali del Vaticano con ricorrenti rinforzi epistolari del cardinale
Ratzinger, a Bruxelles e dintorni conta meno che da noi.
Peccato davvero che in Italia la nebbia clericale renda confusi per gran parte
dell'anno i contorni dell'Europa laica: neppure un genio come Buttiglione è
riuscito a rendersi conto che il suo show europarlamentare avrebbe fatto un
effetto un po' fuori stagione.
L'Italia di Berlusconi, se proprio dovesse darsi degli standard di civiltà,
guarderebbe a Washington piuttosto che a Bruxelles. Al cristianesimo armato e
fulminato di George Bush, che guarda caso, (proprio come Buttiglione) ha la
fissa di salvare la famiglia dagli omosessuali e vuole blindare nella
costituzione il copyright eterosessuale sul matrimonio. Il rivale Kerry non è
Zapatero: sta sulle stesse posizioni di Fassino (no al matrimonio, sì alle
unioni civili), ma tanto gli basta per essere il candidato ufficiale della
comunità gay. In materia di morale, comunque, fintanto che abbiamo il Vaticano
in casa, non prendiamo lezioni da nessuno.
Il cattolicesimo reazionario legifera indisturbato nel parlamento nazionale e in
quelli regionali, preparando per la fecondazione e la famiglia un futuro di
massima sicurezza., a cominciare dal filo spinato. La chiamano «difesa» o
«protezione», un po' come dicono «portare la pace» andando a fare la guerra. Del
resto questo tipo di cattolicesimo, ipocrita o sincero che sia, si trova a
condividere spesso l'idea che con la forza si ottiene tutto, che è poi lo stesso
tema filosofico su cui Bush ha fatto la tesi di laurea in Iraq.
Un cattolicesimo autoritario che in alcune frange si tinge di esplicito
bellicismo, immaginando di resuscitare le crociate in funzione antislamica,
salvo eventualmente allearsi con l'Islam in funzione antigay. E' il fantasma
dello scontro di civiltà, che spinge a serrare i ranghi e marciare anche
moralmente compatti contro il nemico. Seduce anche laici bellicosi di destra,
come Giuliano Ferrara che si preoccupa di difendere i valori tradizionali dal
modello Zapatero o la reputazione della chiesa dall'ultimo film di Almodovar.
L'atmosfera mista di sacrestia e caserma è legittimata anche dai molti che non
sono per le maniere forti, e magari sono pure di sinistra, ma continuano a
ripetere che non bisogna scontrarsi con i cattolici, bisogna mediare sempre.
Anche quando i cattolici presidiano militarmente la riproduzione altrui o
sostengono che gli omosessuali non sono soggetti portatori di diritti? E' così
che si arriva a non trovare bizzarra la prospettiva di esportare Buttiglione in
Europa. Fortuna che dall'estero ogni tanto ci danno la sveglia.
13 ottobre
Sulle prime
presidenziali Usa dopo l'11 settembre
pesa l'incubo del pasticcio elettorale di quattro anni fa
Speriamo che stavolta
qualcuno
vinca davvero
In tempo di guerra un altro
presidente delegittimato
sarebbe una catastrofe per l'America e per il mondo
di VITTORIO
ZUCCONI
|
Proteste anti-Bush nel 2000 |
WASHINGTON
- C'è il ricordo di un incubo, in quel due novembre elettorale americano che si
avvicina a passi rapidi, il ricordo di una notte di novembre del 2000 quando 280
milioni di americani (e alcune migliaia di giornalisti e corrispondenti esteri,
tra i quali chi scrive) vissero sbigottiti e increduli quella che sull'ultima
edizione di Repubblica definimmo esausti, per disperazione, la "notte
delle streghe". Tra le cinque del pomeriggio americane, quando le fonti
riservate dei partiti cominciarono a segnalare che il democratico Al Gore era in
lieve ma sicuro vantaggio sul repubblicano George Bush (sarebbe finito con 580
mila voti di maggioranza nell'inutile conteggio nazionale) e le prime ore del
mattino quando tutti ci arrendemmo davanti al pasticcio di sondaggi, concessioni,
ritrattazioni, conte e riconte di voti, la sede del massimo potere economico,
militare, culturale e nucleare del mondo passò di mano almeno tre volte tra loro,
avanti e indietro, prima di impantanarsi definitivamente nella palude della
Florida, stato leggendario per i frequenti brogli elettorali da repubblica delle
banane, dalla quale sarebbe emerso 35 giorni più tardi il nome di Bush, per
sentenza della Corte Suprema da Washington che tagliò ogni ulteriore conta e gli
assegnò ex officio la vittoria.
Nell'imbarazzo, nell'umiliazione e nel caos di quel mese senza precedenti nella
storia americana, dove mai prima un uomo era entrato alla Casa Bianca per
sentenza di un magistrato (5 sì contro 4 no per lui fu il voto finale della
Supreme Court che prese per buona la maggioranza di 537 voti su sei milioni
espressi in Florida) nessuno, neppure i più pessimisti tra noi avrebbero potuto
immaginare che un capo dello stato sospinto al potere da circostanze per lo meno
bizzarre, sarebbe stato colui che meno di un anno dopo quel sabba infernale
avrebbe subito l'attacco delle Torri Gemelle. E poi avrebbe condotto l'America e
trascinato spezzoni di Europa in una guerra campale prima nel cuore dell'Asia
islamica, in Afghanistan, e poi nel mondo arabo, in Iraq. Di nuovo, mai un
Presidente con così poca legittimità e così privo di alcun chiaro mandato
popolare sarebbe stato protagonista - e vittima - di un conflitto tanto epocale
come quello lanciato contro "il terrore".
Questo peccato originale che ha macchiato la genesi della Presidenza Bush e che
ha prodotto il bacino di risentimento contro di lui visto come un truffatore/usurpatore
("REDEFEAT BUSH" dicono gli adesivi da paraurti stampati dai democratici,
SCONFIGGETE DI NUOVO BUSH) è l'ombra che da quattro anni si allunga sulla
massima potenza democratica della Terra e che torna a profilarsi sopra il
prossimo voto del 2 novembre.
Se dobbiamo ascoltare gli esperti e i sondaggi di opinione, la possibilità che
si ripeta quella notte delle streghe e i due avversari finiscano alla pari nel
conteggio dei "voti elettorali" stato per stato, nei quali si traduce il voto
popolare, è concreta.
Nel
sito internet che segue giorno per
giorno i soli sondaggi che contano, che sono quelli stato per stato e non le
somme delle opinioni nazionali, il rosso, che indica le zone repubblicane e il
blu, colore assegnato tradizionalmente ai democratici, cambiano, si sfumano e si
ridipingono senza sosta, indice sicuro di completa insicurezza. Essendo il
numero dei voti elettorali un numero pari - 538 - la possibilità che i due
finiscano in parità, 269 contro 269, esiste. E con essa si ripresenta l'ipotesi
di una Casa Bianca assegnata, e non democraticamente vinta, senza vero mandato
politico.
Questo, di un nuovo appiccicoso "pastiche" come quello che portò Bush al potere,
è il "nightmare scenario", l'incubo che pesa sull'America, nelle prime elezioni
presidenziali dopo l'11 settembre. Tifosi e partigiani dello schieramento
anti-Bush tremano al pensiero che possa vincere (o rivincere) l'ostinato
guerriero accidentale che ha spalancato le porte della guerra di civiltà, con
pretesti falsi e senza sapere bene come richiuderle. Gli altri paventano
l'avvento della "banderuola" Kerry, che la destra dipinge come una foglia al
vento, incapace della risolutezza necessaria per proteggere l'Occidente dai
nuovi barbari dell'Islam violento.
E se ogni simpatia o antipatia è legittima, l'esperienza insegna che ogni
previsione sul comportamento futuro di un presidente americano è arbitaria,
perché, dietro la retorica politica, è il mondo a cambiare i presidenti molto
più di quanto i presidenti cambino il mondo, da Roosevelt l'isolazionista che
entrò nella guerra del secolo a Bush, l'uomo che promise un'"umile" politica
estera, facendo esattamente il contrario.
Ma il vero incubo è che il prossimo due novembre produca un altro presidente
dimezzato, un leader americano dalla dubbia o fragilissima legittimità. Oltre
ogni "tifo" ideologico o personale, l'ipotesi di un altro presidente Usa
guardato come un usurpatore da metà dei suoi concittadini e dunque visto come
tale anche dal resto di un mondo dove il prestigio dell'America e l'affetto per
essa sono ai minimi, sarebbe catastrofica.
Nel tempo contraddittorio di una guerra che non si sarebbe mai dovuta combattere
in questo modo arrogantemente dilettantesco e con questi falsi pretesti, ma che
non può essere perduta senza concedere un trionfo impensabile a nemici di ogni
civiltà, un'America di nuovo acefala o in balia di dilanianti polemiche e
accuse, sarebbe una disgrazia superiore ai difetti e ai limiti di questo o
dell'altro candidato.
Non auguriamo dunque agli Stati Uniti che vinca Bush o vinca Kerry, ma che
qualcuno vinca davvero, con onestà, con chiarezza e con serenità, quella
poltrona terribile che da quattro anni è occupata da un uomo tormentato dal
sospetto di non averla davvero mai vinto. Il complesso della illegittimità che
dalla "notte delle streghe" tormenta George W lo ha portato, con il detonatore
dell'attacco alle Torri, all'estremismo ideologico e alla guerra. E' possibile
dunque sperare che la certezza della legittimità riporti invece il prossimo
presidente americano sul sentiero della ragione e della intelligenza politica.
12 ottobre
IL COMMENTO
Il ritorno dell'opposizione
di CURZIO MALTESE
11 ottobre
La forza (rara) di non abituarsi
Strettamente personale
Biagi Enzo
Sono andate a morire, peggio, risultano disperse e chissà se ci saranno due funerali, due tombe su cui piantare le ortensie, per 400 euro, andata e ritorno dall' aeroporto di Bergamo, una settimana sulle spiagge del Mar Rosso tutto compreso, escursioni e bibite escluse. Al loro paese, Dronero, le conoscevano tutti Jessica e Sabrina, un po' per quei nomi presi dalla televisione, poi perché una sorrideva sempre al banco della gastronomia del supermercato e l' altra, tra una messa in piega e una permanente, era gentile, garbata. Insomma due ragazze italiane come tante, come le nostre figlie, 22 e 20 anni, e come tante ragazze italiane si erano regalate una vacanza all' estero, in quei posti che vedevano fotografati sui rotocalchi rosa perché ci vanno Naomi Campbell e Paola Barale. Mentre stiamo scrivendo Jessica e Sabrina Rinaudo sono ancora nell' elenco dei dispersi e se lo dice la Farnesina figuriamoci se non ci crediamo: ci piacerebbe pensare che questa notizia venisse cancellata, annullata da una buona notizia, ma ormai ci siamo abituati a non sperare. Così si celebra questa guerra assurda per la quale molti vanno a morire senza sapere perché. Una volta si diceva: se avrò i soldi manderò i miei figli a studiare all' estero, garanzia di cultura, esperienza di vita e possibilità di un futuro migliore. Ancora: se un ragazzo non conosce le lingue è analfabeta, e via con i college, gli stage e i master. Oggi abbiamo paura se vanno a scuola in metropolitana. Il guaio, però, non è questo: è che al terrore, ai brutti pensieri, ci siamo abituati e a dieci, cento morti in un bombardamento, ai sequestri con conseguenti sgozzamenti reagiamo con «poveretti». Un po' poco. Oggi c' è ancora un' altra pagina da scrivere e quel paese che è passato alla storia perché vi nacque Giolitti è entrato nella cronaca per Jessica e Sabrina Rinaudo. Ma questa è una gran brutta vicenda.
7 Ottobre
ITALIA-LIBIA
Ponti
aerei, che vergogna
CESARE SALVI
Il vecchio Gesualdo
Bufalino scriveva che in Sicilia, per chi ci è nato, dura poco l'allegria di
sentirsi seduto sull'ombelico del mondo. Subentra presto la sofferenza di non
sapere districare, fra mille curve e intrecci di sangue, il filo del proprio
destino. Se questo vale per chi abita in quella terra, figurarsi per quanti
tentano di raggiungerla, seppure con le astuzie della disperazione. E infatti
tali sono: disperati. La cronaca degli ultimi giorni racconta di decine di
persone, forse di più, morte annegate in quel tratto di mare. Lì, di fronte agli
scogli di Lampedusa, vicino alle ville barocche piene di fiori, in quel mare di
incanto dove ti viene la rabbia se pensi alla morte. Sono «clandestini» secondo
i nostri telegiornali, ma anche secondo le parole del sottosegretario Alfredo
Mantovano. Morti e sepolti dal mare. E su di loro impresso, come un marchio a
fuoco, quell'epitaffio di una presunta modernità: clandestini. Ma come si fa ad
essere clandestini in un paese in cui non si è messo piede? Ogni giorno ha la
sua pena, ma la pena di assistere in diretta al rimpatrio forzato, ai ponti
aerei messi in pista da questo governo, francamente lo troverebbe eccessivo
persino una camicia verde di Pontida. Se n'è accorto anche Tremaglia, ministro
di un improbabile dicastero che dovrebbe tutelare i diritti dei nostri
connazionali sparsi nel mondo. L'ex milite di Salò ha detto che «c'è troppa
fretta di mandarli via», e si è anche chiesto se quei "clandestini" hanno il
tempo di formulare la richiesta di asilo politico.
Purtroppo il tempo molti di loro non l'hanno mai avuto. A dire il vero non hanno
avuto nemmeno quello di scendere dai barconi, dato che sono morti prima. Per i
pochi sopravvissuti, invece, la domanda del ministro Tremaglia precipita nel
vuoto legislativo del Belpaese. Un'ordinaria cronaca di sommersi e di salvati,
potremmo parafrasare usando con estrema moderazione le parole di Primo Levi. Con
un governo che in materia di immigrazione, grazie alla legge Bossi-Fini, si è
trasformato nella falange armata di una geopolitica che non tollera che i
"dannati della terra" si rifiutino di pagare il conto per i banchetti luculliani
dei paesi ricchi. Europa compresa. Ma che Europa è quella che per bocca del
commissario Buttiglione, giocando sulle parole, dà man forte al governo italiano
distinguendo cavillosamente tra espulsioni e respingimento al confine? E che
Europa è quella che si predispone ai campi di concentramento nel Nordafrica
esportando la vergogna dei centri di permanenza temporanea?
I ponti aerei tra Roma e la Libia sono una vergogna. Un governo che vincola
l'Italia su accordi di cui non è a conoscenza nemmeno il suo Parlamento è una
vergogna. Una diplomazia da trattati segreti che ci riporta ai tempi del
colonialismo. Una procedura che viola palesemente tutte le normative
internazionali. A cominciare dalla Costituzione, sino alla Convenzione di
Ginevra che sancisce il principio del non respingimento dei richiedenti asilo
«anche se entrati illegalmente nel territorio dello Stato». Una Convenzione che
la Libia non ha mai sottoscritto. Ma diciamo la verità, e diciamola tutta:
questa destra, in definitiva, gli immigrati li vuole. E li vuole proprio così,
"clandestini". Perché l'amministrazione Berlusconi non è razzista. Il razzismo è
solo la cattiveria dei gonzi. Noi, invece, siamo nelle mani di un governo di
potere e di cumenda, e questi ultimi pensano solo al denaro, agli "sghei",
all'uso e all'abuso di una manodopera docile da sottomettere all'etica
dell'impresa. Per il resto, il reo c'è già, c'è a prescindere, è socialmente già
giudicato e dunque pregiudicato, è culturalmente già esorcizzato, è
politicamente già manipolato. Il reo è lo straniero. Ma lo straniero, ci ricorda
Camus ne La Peste, «ascoltando le grida di allegria che salivano dalle
città, ricordava che quell'allegria era sempre minacciata: lui sapeva ciò che
ignorava la folla, ossia che il bacillo della peste non muore e non scompare mai
(...) che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine e che forse verrebbe
giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe
svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice». Caro Tremaglia,
è da 56 anni che un algerino ci avvertiva.
5 Ottobre
Viste da Pechino le nostre
difficoltà sono evidenti
Gli altri stringono accordi, noi non esistiamo
Ma contro il declino
non basta dire basta
Fratelli d'Italia
Cosimo Rossi
Le tonalità del
tricolore le hanno codificate norma di legge: sventola su tutti gli edifici
pubblici, a cominciare dagli asili, in compagnia con il vessillo d'Europa.
Dell'Inno rinascimentale di Goffredo Mameli - sul cui dubbio gusto musicale
tocca glissare proprio per amor di patria - è stata fatta una promozione degna
delle più trite major discografiche: sia uno stadio o un'assemblea di partiti ci
si alza in piedi per intonarlo senza un perché. La Costituzione, intanto, la
riscrivono in parlamento dopo averla già manomessa nel paese. Ma la guerra, a
ben vedere, non è più nemmeno questione di Costituzione. Il garrir di patria,
infatti, di qualsiasi patria, si affloscia immediatamente di fronte a una
violenza che non conosce più bandiere, né cittadinanza. Né, perciò, pietà
pubblica e civile.
E' vero: basta avere sangue iracheno per non essere morti italiani, come Ayad
Anwar Wali, che probabilmente contribuiva con le sue tasse alla nostra
assistenza sanitaria. Basta la governo italiano, che ha effettivamente
considerato l'imprenditore rapito un ostaggio di serie B. Basta alle
opposizioni, che volenti o nolenti hanno fatto altrettanto. Basta al circo
mediatico, che preferisce la complice autocensura e il folle inseguimento
dell'audience assicurata dalle ragazze scampate alla morte. E basta a chiunque
si opponga alla guerra, che volente o nolente ha perso il senso della
cittadinanza, della libertà della persona umana, nel labirinto dell'ideologia.
Perché nella guerra globale la cittadinanza non c'è più. E' spezzata, divisa in
due, tre, forse quattro. Vista da qui ci sono gli italiani perché italiani, ci
sono gli italiani perché combattono sotto il vessillo del loro paese, ci sono
gli italiani perché sono contro la guerra e ci sono forse anche gli italiani che
è meglio che ci restano secchi così si capisce che la guerra è sbagliata.
Cittadini italiani, però non ce ne sono: né per chi vuole restituire la
cittadinanza agli iracheni con i missili statunitensi né talvolta per chi vuole
restituirgliela tramite la loro autodeterminazione. Perché di cittadini -
iracheni, americani, italiani - non ce ne sono più quasi per nessuno, se non per
come si collocano rispetto agli assi cartesiani della violenza.
Ma la violenza omicida che millenariamente ha trovato fondamento nel diritto (di
sopraffazione) di stati, regni e nazioni, nei confini, nelle bandiere, negli
ideali, financo nelle etnie e nel razzismo è sopraffatta dall'unica violenza
senza fondamento razioncinabile: la violenza della paura. Una violenza che
perciò non conosce più la differenza, che spinge all'estremo le identità, che
fomenta il razzismo insieme più primordiale e astratto; che assume caratteri
biologici.
Altro che impero. Nemmeno quel concetto regge più. Cives romanus sum.
L'impero romano, la sua guerra e la sua pax si basavano sul concetto
repubblicano di cittadinanza: fatto il bagno di sangue - perché quello facevano
a colpi di daga - arrivava anche la cittadinanza con le sue gabelle e le sue
prebende. E la cittadinanza bastava per diventare anche imperatori; troppi se ne
contano dai natali tutt'altro che italiani.
Cittadino, si sono chiamati poi nella comune parigini. Cittadini ci
chiamiamo e ci chiamano le leggi. Ma non siamo più cittadini: siamo solo
cecchini dentro gli assi della violenza; pronti a dimenticare la morte che non
ci fa comodo e a magnificare quella utile, immemori anche del nostro rifiuto
della morte di stato come di quella per mano privata.
In nome di cosa? Probabilmente di un vessillo - per ciascuno il suo - che non è
più quello nazionale perché semplicemente non è. Perché alla sua ombra non c'è
diritto di cittadinanza. Beata invece la comunità umana che non avrà bisogno di
bandiere nelle proprie scuole.