Archivio Ottobre 2004

 

28 ottobre

Pena di morte sempre più diffusa: 10 mila vittime l'anno
Visite guidate per ragazzini delle elementari e delle medie
Cina, alunni in gita premio
per assistere alle esecuzioni
dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

Pechino, detenuti in tribunale
in attesa della sentenza

PECHINO - Ma Weihua, 29 anni, l'hanno arrestata alla stazione ferroviaria di Lanzhou con l'eroina nascosta sotto la sua gonna gialla. Il possesso di droga è uno dei 69 reati per cui scatta la condanna a morte in Cina. Il suo era un caso speciale, però. Al momento dell'arresto Ma Weihua era incinta e il codice penale esclude dalla sentenza capitale le donne in stato di gravidanza. La polizia di Lanzhou non si è fermata per così poco.

La squadra narcotici ha trasferito Ma dal carcere all'ospedale Kangati dove un medico le ha praticato subito l'aborto. Sotto anestesia forzata "perché la paziente si rifiutava di cooperare". Un dirigente della Pubblica sicurezza di Lanzhou ha dichiarato alla stampa locale che "il codice non deve diventare un'arma in mano agli spacciatori per sottrarsi alla punizione".

Il caso di Ma rilancia il dibattito sulla pena di morte in Cina. Qui ogni anno la giustizia fa fucilare o sopprime per iniezione letale almeno diecimila persone: cinque volte più delle condanne a morte eseguite in tutto il resto del mondo, America compresa.

Nonostante il disagio degli intellettuali e dei dirigenti più illuminati, la pena di morte ha ancora un solido avvenire in questo paese. Pochi giorni fa a Changsha, capitale della provincia dello Hunan, centinaia di scolari sono stati guidati dai loro maestri in una singolare gita premio. Dentro il palazzetto dello sport di Changsha, insieme con altri 2.500 spettatori, i ragazzini delle classi elementari e medie hanno potuto assistere di persona e in diretta all'esecuzione di sei condannati.


Lo spettacolo è stato immortalato su un sito Internet: gli scolari in uniforme (dai sei ai sedici anni) ascoltano dagli altoparlanti la proclamazione dei reati commessi, poi il plotone di esecuzione apre il fuoco. Queste cerimonie pubbliche si moltiplicano in occasione delle festività nazionali. Di recente la provincia dello Yunnan ha acquistato diciotto "celle mobili" equipaggiate per l'iniezione letale, al fine di "migliorare l'efficienza e l'economicità" delle esecuzioni.

A Pechino il governo centrale sembra meno entusiasta di tanta pubblicità. Questo può spiegare il divario consistente che c'è tra le esecuzioni dichiarate e quelle reali. Nel 2003, per esempio, Amnesty International ha censito 1.639 condanne a morte ufficiali in Cina di cui 726 già eseguite. La stessa Amnesty International nel suo rapporto annuo avverte che "le cifre vere purtroppo sono molto più alte".

La stima di diecimila esecuzioni avanzata dal giurista Chen Zhonglin è considerata attendibile. Una simile strage non viene giustificata con gravi motivi di ordine pubblico. La Cina non è descritta dalle sue autorità come un paese tormentato da alti livelli di criminalità, non c'è un clima di allarme sociale per la violenza. E' il sistema giudiziario ad avere il grilletto facile.

Il professor Xiao Zhonghua dell'Accademia delle Scienze sociali invita a "vigilare contro l'abuso della pena di morte". Il giurista Liu Renwen dichiara alla rivista Huanqiu: "Nel 1910 sotto l'ultimo regime imperiale, la dinastia Qing, c'era la pena capitale per venti capi d'imputazione. Un secolo più tardi, il nostro nuovo codice penale ha triplicato i casi in cui si applica". Sono inclusi delitti non cruenti come il contrabbando, lo sfruttamento della prostituzione, la profanazione delle tombe, la falsificazione di banconote.

Di recente i reati che si pagano con la vita sono stati ancora aumentati. L'anno scorso sono stati aggiunti alla lunga lista il crimine di "diffusione deliberata della Sars", e quello di "produzione di materie prime tossiche". Anche la prevenzione sanitaria e la lotta all'inquinamento si regolano così, in un paese dove secondo Amnesty International "non esiste la presunzione d'innocenza, le confessioni ottenute attraverso la tortura valgono come prove in tribunale, gli avvocati difensori non sono tenuti ad essere presenti negli interrogatori di polizia, e il potere politico interferisce nel sistema giudiziario". Si aggiunge il sospetto che la pena di morte sia somministrata con particolare facilità ai membri di minoranze etniche non appena scatta contro di loro il sospetto di attività terroristiche (è il caso del tibetano Lobsang Dhondup fucilato a gennaio, e di diversi musulmani Uiguri in carcere).

Nelle ultime settimane qualcosa sembra muoversi. Una delle massime autorità giudiziarie del paese, il vicepresidente della Corte Suprema del Popolo Huang Songyou, annuncia che i condannati a morte dovrebbero avere diritto di appello presso la sua giurisdizione, cioè il tribunale costituzionale. Sarebbe già un progresso enorme: oggi i giudici che esaminano i ricorsi sono gli stessi che hanno inflitto la pena capitale. Il quotidiano Notizie di Pechino pubblica un appello firmato dai più celebri giuristi del paese, si intitola "Per l'abolizione della pena di morte sui reati economici". Liu Ri, vicepresidente dell'università Hebei, conferma che questo sarebbe il primo passo più ragionevole: "Eliminare la condanna capitale per i reati finanziari, poi per tutti i delitti che non comportano spargimento di sangue".

Questi esperti e magistrati hanno fatto i conti senza l'opinione pubblica. La Cina non ha libere elezioni o referendum per consultarla, ma almeno ha le rubriche di lettere ai giornali, i forum su Internet e i weblog. La loro reazione a queste proposte non si fa attendere. Sui siti Sohu. com e Sina. com piomba una valanga di proteste: 5.000 interventi contro la clemenza - o la civiltà - invocata dagli esperti. "E' irragionevole - scrive un giovane su Sohu. com - abrogare la pena di morte per i dirigenti politici che prendono le tangenti. Queste proposte ignorano il sentimento dei cittadini ordinari, offesi e danneggiati dal dilagare della corruzione".

Alcuni lettori indignati confidano ai giornali il timore che i giudici garantisti siano d'accordo con gli amministratori disonesti. Verso i corrotti nessuno è disposto a usare indulgenza. Per loro neanche l'ergastolo sembra bastare. Il giurista Li Kejie ammette che "molti cittadini sono a favore della legge del taglione, occhio per occhio dente per dente, soprattutto oggi che le riforme economiche creano conflitti e instabilità sociale. L'effetto deterrente e la punizione esemplare della pena capitale diventano ancora più importanti, sembrano dare sicurezza".

In realtà le statistiche rivelano che solo di rado chi ha intascato tangenti finisca davanti al plotone d'esecuzione. Anche quando succede, si tratta di figure di medio calibro, dirigenti provinciali gettati in pasto all'opinione pubblica per dare l'impressione che la corruzione viene combattuta senza pietà. Negli ultimi anni il più alto in grado ad aver pagato con la vita è un vice-governatore provinciale dello Jianxi, Hu Changqing, fucilato l'8 marzo del 2000 per aver preso 658.000 dollari di mazzette. Quest'anno si segnala un solo caso di pena capitale per un alto funzionario accusato di ruberie: è Wang Huaizhong, ex vice-governatore dello Anhui, la cui condanna è stata eseguita il 12 febbraio.

Sulla massa dei condannati a morte i colletti bianchi sono già oggi una minuscola eccezione. Inoltre, spiega ancora Liu Renwen, "il potere deterrente della pena capitale contro la corruzione ha dei limiti evidenti. Conosciamo dei casi in cui dopo la condanna a morte di un amministratore locale per tangenti, il suo successore si è macchiato poco tempo dopo dello stesso delitto. Questo deve metterci in allarme. La soluzione per prevenire questo genere di delitti sta nel cambiare il sistema". La migliore cura contro il giustizialismo dei cittadini, sostiene il giurista impegnato contro le condanne a morte, "è rendere pubbliche le informazioni sui numerosi errori giudiziari, illustrare la scarsa utilità pratica della pena capitale".

Forse Liu sopravvaluta la razionalità dei suoi concittadini. O sottovaluta la tensione che cova dentro la società. Pochi giorni fa nella città di Wanzhou un banale diverbio tra automobilisti è degenerato quando è intervenuta la polizia: diecimila persone hanno attaccato le forze dell'ordine e incendiato i loro automezzi, apparentemente senza una ragione, finché sono dovuti intervenire reparti anti sommossa per sedare la guerriglia. Le autorità ora minimizzano questo incidente, come le tante esplosioni improvvise di conflittualità sociale nelle campagne, fiammate di ribellione contadina contro i capi-partito che si impadroniscono delle terre comuni per venderle alle aziende o ai palazzinari. La voglia di forca probabilmente è un altro modo di dire le stesse cose. A fare le spese di questo risentimento popolare, purtroppo, non sarà la nomenklatura corrotta. Sarà Ma Weihua, che a 29 anni ha abortito su decisione di un poliziotto, perché neanche il codice penale possa sottrarre la sua vita al potere assoluto del giudice.

 

Solo
Ottimo il risultato del centrosinistra, ha vinto in sei collegi perdendo solo a Ischia dove è stato eletto D'Antoni.

 

Senza casa a Bankitalia. Picchiati
Proteste per il taglio della luce al palazzo occupato. Interviene la polizia
A. MAN.
ROMA
Un centinaio di occupanti dello stabile di via Carlo Felice 69, tra i quali parecchie mamme africane e sudamericane con i bambini al seguito, anche in carrozzina, sono stati malmenati ieri mattina dalla polizia in via Nazionale, davanti alla sede della Banca d'Italia. Erano andati a chiedere il riallaccio della corrente elettrica nel palazzo occupato, che si trova nel quartiere Esquilino ed è di proprietà della banca centrale: l'Acea, ente erogatore, l'ha staccata dopo la diffida dell'istituto proprietario. La questura non ha gradito la manifestazione (non preavvisata) e ha fatto intervenire cento uomini tra poliziotti e carabinieri, agitando persino le direttive antiterrorismo che indicano Bankitalia come «obiettivo sensibile». Sono bastati un po' di spintoni, qualche calcio e qualche manganellata per costringere i dimostranti, che si trovavano in via Nazionale già sul lato opposto alla sede dell'istituto, a salire sul marciapiede, schiacciati contro gli ingressi del teatro Eliseo. Tra loro c'era il consigliere comunale disobbediente Nunzio D'Erme e altri attivisti di Action, l'Agenzia comunitaria per i diritti. Inutili le richieste di un incontro con i vertici dell'istituto. In mezzo alla strada D'Erme ha scambiato qualche parola con il responsabile del segretariato di Bankitalia, Claudio Del Core, che però allargava le braccia dicendo: «Non posso farci niente». Con l'inverno alle porte, staccare la luce nelle case occupate equivale a renderle invivibili, specie per le donne e i bambini: sembra una mossa che prepara e facilita gli sgomberi di cui si parla da mesi a Roma. Prima di via Carlo Felice la corrente era già stata tolta allo spazio sociale «32» di via dei Volsci, ma poi era stata ripristinata dopo un incontro con il prefetto Achille Serra. «L'Acea continua a non Voler stipulare un regolare contratto e informa - si legge in una nota di Action - che a partire dai primi di novembre è in programma un fitto calendario di distacchi, circa 25», in base a «una lista fornita ad aprile dal prefetto Serra».

Venti occupazioni sono a rischio, alcuni decreti di sgombero emessi dalla magistratura sono di fatto sospesi per ragioni di ordine pubblico. Ma nessuno ha voglia di parlarne: tace il sindaco Walter Veltroni e tace perfino Rifondazione comunista. «Il sindaco alza le mani - osserva Action - l'Acea che è ancora in gran parte a capitale comunale si trincera dietro la diffida della Banca, la Banca neanche si degna di rispondere e il prefetto manda la polizia. E la povera gente cosa deve fare?».


 

25 ottobre

I ricchi di ieri e le tasse di oggi

STRETTAMENTE PERSONALE

 Biagi Enzo

C' era una canzone che sembrava un inno alla solitudine: l' unico segno di vita era il rubinetto che sgocciolava. Eppure era domenica, da sempre considerata giorno di festa. Mi tornano in mente certi incontri, qualche ricordo. Enrico Mattei, il fondatore dell' Eni, diceva: «Voglio che i miei operai mettano la camicia bianca», che per lui era un modo per distinguersi. Il professor Valletta, capo della Fiat, prima che arrivasse l' avvocato Agnelli, aveva un altro programma, anche questo ispirato da un sano realismo: «Voglio che i miei uomini la domenica facciano bollire la pignatta del brodo». Erano Valletta e Mattei gli imprenditori di una volta, simili al vecchio Angelo Rizzoli il quale, per rimarginare le ferite di Marzabotto, ci impiantò una cartiera e diede un lavoro e una casa decorosa agli abitanti di quella valle. Demagogia, populismo? Può darsi, e in aggiunta forse l' idea che il dipendente con la pancia piena e un tetto sopra la testa lavora meglio e produce di più. Oggi abbiamo a Palazzo Chigi un signore che fino all' altro ieri di mestiere faceva l' imprenditore e non si è mai dimenticato come si fanno gli affari. I racconti di quanti da lui hanno preso lo stipendio lo descrivono come un generoso, paghe più che buone, panettone aziendale a Natale e fiori alle segretarie per onomastici e compleanni. Quasi roba di altri tempi. Ma si sa business is business, e allora anche i comportamenti si adeguano. Quello stesso signore, infatti, ha annunciato che nella riforma fiscale rimarranno solo tre aliquote, la terza, quella più alta, al 39% perché, ha spiegato Berlusconi, «sono le classi degli imprenditori e manager che devono dare una spinta alla loro attività e con essa una spinta all' economia». In parole povere vuol dire che i manager e gli imprenditori, cioè i più ricchi, pagheranno meno tasse.

21 ottobre

Mercanti in pillole
FRANCO CARLINI
Nei giorni scorsi, non temendo il ridicolo, il ministro Sirchia aveva detto che la riduzione non si poteva fare perché nel libero mercato, i prezzi li fa appunto il mercato. Ieri invece si è scoperto che si poteva fare, almeno attraverso la pressione morale. Sono improvvisamente diventate generose le sei aziende che producono i vaccini? No di certo: semplicemente hanno deciso che la loro reputazione già notoriamente assai bassa, si sarebbe troppo deteriorata. In compenso sono riuscite ad affossare immediatamente la timida proposta che qualche matto nel governo aveva suggerito, di produrre pillole in confezioni singole o ridotte, per ridurre gli sprechi. Del resto se c'è una cosa che non ha nulla a che fare con il liberismo e con Adamo Smith, questa è per l'appunto la compravendita dei farmaci: infatti non sono i consumatori finali a fare la scelta d'acquisto, la quale passa invece attraverso i medici e il sistema sanitario nazionale. Questa anomalia strutturale e inevitabile spiega perché siano così alti gli investimenti della aziende farmaceutiche nella propaganda presso i medici - anche generando veri e proprie corruzioni - e le altrettanto dispendiose attività di lobbying presso i governanti, in tutto il mondo. Il costo finale di una medicina dunque dipende dalle regole in vigore nel singolo stato e dall'insieme dei meccanismi di rimborsi e di tariffe. La domanda non c'entra per niente perché se così fosse il prezzo degli antimalarici dovrebbe essere molto più basso: muoiono tre milioni di persone all'anno, ma dato che vivono in paesi poveri, quello non viene giudicato un mercato interessante, anche se sciaguratamente di massa.

Il caso esploso un anno fa nella regione Toscana ci ricorda anche quali robuste azioni queste aziende siano pronte a dispiegare: di fronte alle regole toscane che riducevano gli sprechi farmaceutici senza compromettere la salute dei cittadini, la Pfizer commissionò un sondaggio all'Ispo di Remato Mannheimer e poi cercò di usarlo in un «piano di mobilitazione e comunicazione» il cui scopo era di far emergere il supposto malcontento dei cittadini. Insomma la questione farmaci e della salute va esplodendo in tutto il mondo. Anche in California dove il governatore Schwarzenegger a fine settembre ha messo il veto a tutte le proposte di legge che andavano a favore dei consumatori di farmaci. Vietato dunque importarli dal Canada, dove costano di meno e bocciata anche l'idea di aprire un sito web statale da cui risultassero i confronti tra i diversi prezzi dei diversi farmaci. Era un tentativo di libero mercato transfrontaliero, ma i massicci finanziamenti elettorali ricevuti da Novartis, GlaxoSmithKline, Bristol-Myers Squibb e Pfizer gli l'hanno evidentemente impedito di attuarlo.

Quanto all'influenza, tutti lo sanno che essa arriva ogni anno, puntuale come l'autunno, partendo dall'est e propagandosi a occidente, e che ogni anno il virus è un po' diverso: così fin dalla primavera i laboratori preparano i nuovi vaccini e le aziende si attrezzano allegre alla produzione-vendemmia: è un mercato meraviglioso perché è di massa e perché in autunno le fasce di popolazione più esposte, bambini e anziani, «devono» consumare. Consumano tutti lo stesso vaccino, sovente realizzato con i soldi dei contribuenti, ma in confezioni diverse di aziende diverse: l'altra anomalia del «mercato» dei farmaci è infatti che tutte le maggiori aziende puntano solo ai farmaci ad alta resa, i blockbuster che esse producono e vendono in cartello senza che nessun antitrust possa o voglia intervenire. 

20 ottobre 

COMMENTO
Il bluff fiscale del premier
di MASSIMO GIANNINI
 
PRIMA la legge sul falso in bilancio. Poi la Tremonti-bis. Adesso anche il condono sull'Iva. La bestia nera del governo Berlusconi non è l'opposizione a Roma, ma la Commissione a Bruxelles. Eppure, mentre di giorno la Ue smonta un pezzo alla volta le scelte economiche del centrodestra, di notte la maggioranza si affanna a tessere la tela di una "riforma fiscale" sempre più improbabile e avventurosa. Solo tre aliquote Irpef, al 23, al 33 e al 39%. Aumenti modesti nelle detrazioni e negli assegni per le famiglie monoreddito. "No tax area" a quota 7.500 euro. Pochi spiccioli, e per giunta maldistribuiti: nel migliore dei casi, un risparmio medio d'imposta intorno ai 500 euro l'anno.

Tuttavia, con questi chiari di luna, chi non sottoscriverebbe una "riforma" del genere? Costa teoricamente poco sul piano dell'onere contabile: 6,5 miliardi di euro. Rende potenzialmente molto sul piano del consenso politico: Berlusconi può presentarsi alle regionali del 2005 e alle politiche del 2006 dicendo agli italiani "ho mantenuto la mia promessa".

Ma la realtà imposta dal ciclo congiunturale è molto più complicata, e spietata, rispetto ai sogni indotti dal ciclo elettorale. Questa rozza e sconclusionata applicazione dello slogan vincente del 2001, "meno tasse per tutti", incappa in un doppio vincolo, difficilmente aggirabile. Il primo è un vincolo di "quantità". Intanto: quale spinta può dare alla ripresa e ai consumi una "mancia" annuale da meno di un milione di vecchie lire a famiglia? E soprattutto: dov'è la copertura finanziaria? Per il presidente del Consiglio questo non è mai stato un ostacolo: il premier è sempre stato e resta tuttora convinto che evocare il "miracolo" sia sufficiente ad autoprodurlo. Per l'ex ministro dell'Economia questa era addirittura un'opportunità: lo stimolava a improvvisare l'ennesimo illusionismo tributario (sanatoria, una tantum, cartolarizzazione), sicuramente già pronto nell'inesauribile cilindro di Giulio Tremonti, il "mago dei numeri". Ma per il ministro del Tesoro attuale questo è un problema non eludibile. Il nostro Paese, che oggi paga la disinvoltura contabile di questi ultimi tre anni, è nel mirino della Ue. Pesa l'allarme suonato una settimana fa dal governatore della Banca d'Italia: con un deficit lanciato verso il record del 4,4% del Pil nel 2005, Fazio avverte che "i necessari provvedimenti di rilancio dell'economia richiedono il reperimento, su base durevole, di risorse aggiuntive rispetto a quelle indicate dalla Finanziaria", e che "ogni intervento di riduzione del prelievo fiscale non fondato sul rallentamento dell'espansione della spesa non è sostenibile".
Finora non c'è risposta a questi avvertimenti. Siniscalco esibisce, ma non chiarisce. Giura che se il maxiemendamento fiscale sarà contenuto nella misura intermedia di 6,5 miliardi di euro "la copertura c'è già, ed è blindata". Ma non dice qual è, e non apre spiragli su questa presunta blindatura. E invece sarebbe davvero ora di farlo. La stessa Finanziaria da 24 miliardi di euro, già varata dal governo, è piena di buchi neri ancora non colmati. All'aleatorietà applicativa del tetto del 2% alle uscite correnti, si somma adesso il progressivo svuotamento delle poche cose buone che il Tesoro aveva azzardato sul fronte delle entrate. Prima tra tutte la revisione degli studi di settore, che doveva fruttare 3,8 miliardi di euro di gettito e sulla quale il ministro ha già fatto una sorprendente retromarcia di fronte alle rituali pressioni corporative dei commercianti. Ma ora c'è di più. Un pacchetto di ulteriori sgravi fiscali per le persone fisiche. Una manna, se nel bilancio pubblico ci fossero le risorse necessarie a erogarli. Una trappola, se quelle risorse vengono reperite attraverso la classica "partita di giro" dell'aumento delle tasse locali. Il governo ha il dovere politico della trasparenza, di fronte ai contribuenti italiani e alle autorità europee.

Il secondo è un vincolo di "qualità". Anche questa sedicente "rivoluzione copernicana" del fisco, come è già accaduto per quella della Costituzione e come sta per accadere per quella della giustizia, è un bluff pasticciato e destabilizzante. Non riforma, ma piuttosto deforma il sistema tributario. È lo specchio delle diverse identità della coalizione. Ne riflette le culture politiche originarie, e inconciliabili. Nasce da un'alchimia identitaria ambiziosa, ma irrisolta.

Da una parte c'è il proto-liberismo titanico della destra berlusconiana, di cui proprio Tremonti è stato il braccio armato. Un liberismo istintuale che, privo di radici dottrinarie domestiche, mutua il suo progetto da quello della destra repubblicana di Bush. Quello che mira alla riduzione delle tasse perché vuole la riduzione del settore pubblico. Quello che non crede alla funzione redistributiva dell'imposta perché non crede alla funzione regolatrice dello Stato. Quello che crede nella curva di Laffer, quindi riduce prima di tutto le tasse sui ricchi. Quello che fa dire al presidente della "American for tax reform", Groven Norquist, "io non voglio abolire il governo, voglio semplicemente ridurlo a dimensioni tali che possa trascinarlo in bagno per affogarlo nella vasca". Lo stesso che fa scrivere a Tremonti un libro-manifesto per Forza Italia, intitolato "Lo Stato criminogeno". La prima delega fiscale in tre moduli, lanciata tre anni fa dallo stesso Tremonti, nasce così. Irpef con due sole aliquote, zero tasse per i redditi alti, zero progressività dell'imposta. Berlusconi resta affezionato a quel progetto. Ancora oggi insiste con Siniscalco per un folle pacchetto di sgravi fiscali da oltre 12 miliardi di euro, a dispetto di una spesa primaria corrente che, secondo la Banca d'Italia, l'anno prossimo supererà il 40% del Pil, tornando "in prossimità dei livelli dei primi anni '90, e inferiore solo al picco del 1993". Per intenderci, l'anno dopo la maxi-svalutazione della lira e la maxi-stangata da 98 mila miliardi di lire dell'allora governo Amato.

Dall'altra parte c'è l'anima sociale post-fascista della destra finiana. Quella che spinge il vicepremier ad arginare gli "animal spirits" del Cavaliere. Che lo costringe a esaltare i doveri dello Stato e a rappresentare i diritti del pubblico impiego. A frenare sui tre scaglioni Irpef, e a ripetere (come ha fatto ancora ieri) che "la priorità della riforma fiscale è la difesa dei ceti medi", e che è essenziale "un contributo di solidarietà per i redditi più alti". In mezzo, a mediare il non mediabile, c'è il centro moderato folliniano, neo-cattolico e familista, al quale si appoggia Siniscalco, il ministro "impolitico" che, con la sapienza dorotea del più consumato dei politici, cerca di sopire i contrasti e di ammortizzare le spinte. Da questa mediazione non ci si può attendere granché. Come scrivono Massimo Baldini e Paolo Bosi su Lavoce. info, "si delinea una riforma fiscale che aumenta le disuguaglianze", e i cui "maggiori beneficiari sono i redditi più bassi e quelli più alti, mentre i guadagni sono inferiori per le classi centrali della distribuzione del reddito".
È il prezzo da pagare alle esigenze mediatiche e pre-elettorali del Cavaliere. Senza nulla concedere al "partito delle tasse", che pure esiste e resiste in certa sinistra, mai come stavolta, nel populismo leaderistico dei liberisti alle vongole italiani, rischia di dimostrarsi vera la tesi di Thomas Friedman sul "capitalismo compassionevole" dei fondamentalisti anti-statalisti americani: ogni volta che vi promettono "meno tasse" - ha scritto il principe degli opinionisti del New York Times - ricordatevi di sostituire la parola "tasse" con la parola "servizi". Solo a quel punto potete decidere se rivotarli oppure no.

17 ottobre

Sulle riforme giocano a palla
con lo stato repubblicano
di EUGENIO SCALFARI
 

Di fronte a questo disegno di legge che riscrive 43 articoli della nostra Costituzione e che è stato approvato in prima lettura venerdì 15 ottobre dalla Camera dei Deputati, non si sa se aggregarsi ai brindisi di gioia della Lega e di tutto il Polo (Follini e Udc compresi, con la sola eccezione del roccioso Tabacci che si è astenuto) oppure condividere la definizione di Piero Fassino e di Ciriaco De Mita ("indigeribile pastrocchione") e le parole di Francesco Rutelli ("un venerdì nero per la Repubblica"). Non si sa se vederlo come una tragedia o come una farsa costituzionale.

Personalmente sarei incline più alla farsa che alla tragedia, ma mi rendo ben conto che una farsa costituzionale è al tempo stesso una tragedia: non si può infatti scherzare impunemente con la Carta che sancisce il patto fondamentale tra i cittadini e le istituzioni definendo i diritti, i doveri, lo statuto di cittadinanza, le forme della rappresentanza, l'equilibrio dei poteri, le modalità del controllo sul loro operato, gli istituti di garanzia.

Con questo complesso di problemi la maggioranza ha arruffato soluzioni improbabili con una leggerezza che rasenta l'irresponsabilità. Di qui il dilemma tra farsa o tragedia, che a ben guardare sono le due facce d'uno stesso spettacolo messo in scena da Berlusconi Bossi e Fini sotto gli occhi rassegnati e conniventi di Follini sulla pelle della democrazia repubblicana.

Trattandosi d'un disegno di legge di riforma costituzionale, per di più sottoposto a referendum poiché manca la maggioranza qualificata prevista dalla Costituzione, il Capo dello Stato non ha in questo caso alcun potere di interdizione. Non resta dunque che l'appello referendario al popolo sovrano che però non potrà essere indetto che a conclusione delle quattro votazioni previste dall'articolo 138 della vigente Costituzione.

Credo e spero che la votazione popolare cancellerà questo pastrocchione, dico meglio questo obbrobrio che, allo stato dei fatti, lascia dietro di sé una veduta di rovine. Il testo approvato l'altro ieri dalla maggioranza plaudente ha infatti abbattuto in un colpo solo i poteri del Parlamento, quelli del presidente della Repubblica, l'unità nazionale. Per di più ha messo in moto un meccanismo del quale si ignora il costo ma non l'ampiezza della sua oscillazione che va da zero a 100 miliardi di euro.

Sull'ipotesi di costo zero non scommetterebbe nessuna persona dotata di normale buonsenso: essa infatti si può verificare soltanto nel caso in cui le Regioni italiane, per gestire i nuovi poteri che otterranno dalla devoluzione, possano utilizzare i pubblici impiegati già in forza nelle attuali strutture amministrative dello Stato.

L'ipotesi più probabile si colloca invece in prossimità del tratto di oscillazione massimo, tra gli 80 e i 100 miliardi di euro, con possibilità di superare perfino quella cifra-limite. Il che significa che l'intero impianto della devoluzione può portare lo Stato federale alla bancarotta finanziaria.

Ma questo lo sapremo soltanto quando si dovranno emettere le leggi attuative del nuovo dettato costituzionale. A quel punto il faccione grottesco e comico della farsa tornerà a far capolino dietro le cupe nuvole della tragedia, ma allora sarà troppo tardi per riderne.

Andrea Manzella ha già individuato ieri su questo giornale con chiarezza e dottrina gli aspetti sostanziali e sostanzialmente incongrui di questa legge.
Ero tentato di chiamarla legge di controriforma, ma mi sono poi reso conto che il termine non sarebbe appropriato. La controriforma è una cosa molto seria con la quale si può dissentire o consentire, ma che è comunque animata da una sua coerenza, da una sua cultura, da una sua dignità intellettuale. La Controriforma con la quale la Chiesa si oppose, tra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo, allo scisma luterano fu una profonda scossa riformatrice che alimentò per almeno cent'anni un rinnovamento profondo del clero, della catechesi, delle opere missionarie; ebbe una sua coerenza non esclusivamente oscurantistica; produsse la cultura del barocco in architettura, nella "maniera" pittorica, nella musica.

Applicare il termine di controriforma all'obbrobrio farsesco che sta sotto i nostri occhi sarebbe quindi blasfemo. Qui c'è soltanto una furbizia di avvocaticchi che hanno cercato di accontentare i disomogenei partiti della coalizione preparando una sorta di "fricandò" messo in cottura a fuoco lentissimo; talmente lento che quasi nessuno degli attuali protagonisti sarà in grado di assaporarne il gusto.
Provo ad elencare i vari elementi che lo compongono aggiungendovi poche note di chiarimento e di osservazione.

1. Il Parlamento, come rappresentanza del popolo dotata del potere di fare leggi, controllare l'operato del potere esecutivo, dargli e togliergli la fiducia, non esiste più. Il governo assume in proprio anche il potere legislativo poiché decide quali provvedimenti ritiene indispensabili alla propria azione e su di essi chiede la fiducia. Ove mai non l'ottenesse scioglie la Camera. Essa, la Camera, può in teoria votare la sfiducia al governo a patto però di aver già individuato - rigorosamente nell'ambito della maggioranza parlamentare - un nuovo premier in grado di ereditare il consenso della maggioranza stessa senza che vi sia alcun apporto da parte dell'opposizione.

2. Il "premier" è eletto direttamente dal popolo in collegamento con i deputati candidati nei collegi. Il Capo dello Stato gli deve affidare automaticamente la formazione del governo. Il premier presenta al Parlamento il ministero senza bisogno di chiedere alla Camera il voto di fiducia. Dello scioglimento della legislatura abbiamo già detto: rientra nei poteri del premier.

Osservo che non esiste in nessun Paese europeo l'elezione diretta del primo ministro né esiste la sfiducia costruttiva limitata all'ambito della maggioranza parlamentare.

3. Il Capo dello Stato è semplicemente un notaio. Serve a certificare come autentici gli atti che il "premier" sottopone alla sua firma. Ogni controllo di legalità e di costituzionalità di tali atti gli è precluso. La sua firma di certificazione è un atto dovuto. Sta scritto nella legge che egli è il garante dell'unità federale dello Stato. Ma i modi e i poteri attraverso i quali possa esercitare quella garanzia non sono previsti. Il solo modo possibile che ha è di dimettersi dalla carica che ricopre. Chi sta al Quirinale avrà dunque soltanto diritto al picchetto d'onore e poteri di tagliar nastri, portare corone d'alloro al Milite ignoto e inviare telegrammi d'auguri o di condoglianze a seconda dei casi.

4. Il Senato federale non si sa che cosa sia e non lo sanno, credo, nemmeno coloro che ne hanno proposto l'istituzione. Esamina solo le leggi regionali e quelle che interessino le regioni. Qualora vi sia conflitto di competenza tra Senato e Camera, la decisione viene presa da una Commissione paritetica che configura una sorta di terza Camera.

5. Sulla devoluzione di poteri alle Regioni non mi diffonderò, è materia già spiegata fino alla noia. Il fatto che, ciò nonostante, nessuno ci capisca niente vuol dire semplicemente che si tratta di materia non comprensibile.

Esempio: l'organizzazione delle istituzioni sanitarie è di esclusiva competenza regionale ma la tutela della salute è di competenza dello Stato.

Così per la scuola e per i suoi programmi. Lo Stato comunque ha il potere di avocare a sé in qualunque momento poteri devoluti qualora la situazione lo richieda. Si tratta insomma d'una devoluzione-fisarmonica che si allarga o si restringe a capriccio e secondo gli umori.

6. I Comuni sono in coda alla gerarchia amministrativa, fiscale e politica.
Sopra di loro non c'è più soltanto il bieco Stato centralista, ma anche l'amorevole regione neo-centralista. E le province? Nebbia e mistero.

7. Le regioni possono accorparsi fondendosi tra loro. Ma possono anche cambiare confini. Se i piacentini volessero uscire dall'Emilia e aggregarsi alla Lombardia o al Piemonte potrebbero farlo senza che l'Emilia abbia potere di opporsi. E viceversa se il lodigiano volesse trasmigrare in Emilia. Anche qui fisarmonica, che si porta dietro ospedali, imprese, gettito tributario, risorse bancarie e professionali.

Tralascio il resto. Sembra un "puzzle" costruito da un pazzo.

8. Il "puzzle del pazzo" (scusate la cacofonia) andrà in vigore nel 2011 nel caso migliore, oppure nel 2016. Il motivo di questa lunghissima dilazione è il seguente: la legge prevede di andare in vigore nella legislatura successiva a quella nella quale avviene l'approvazione. Se il referendum confermativo avverrà entro il 2006 la legge di cui qui si discute entrerà a regime nella legislatura che inizia nel 2011; ma se il referendum avverrà dopo il 2006 (e sempre che approvi il "puzzle del pazzo") la legge sarà a regime nel 2016.

Non esiste nel mondo intero un solo caso d'una nuova Costituzione (perché di questo si tratta) che entri in vigore sei o undici anni dopo la sua prima approvazione. Motivo? Forse segretamente sperano che qualcuno negli anni a venire butti per aria il "puzzle del pazzo".

9. C'è un'altra possibilità. Che la Corte costituzionale, messa in moto da un magistrato ordinario o da un ricorso di Regioni, stabilisca che la procedura adottata modificando con un'unica legge 43 articoli della Costituzione violi quanto previsto dall'articolo 138, che esclude riforme "a sacco". In tal caso la legge in parola sarebbe cassata. Questo però potrebbe avvenire solo dopo la sua approvazione finale.

Ci sarebbe ancora molto da scrivere e da spigolare ma ne faccio grazia. Alla mia età ne ho già viste tante e tante ne ho lette o sentite raccontare. Una storia come questa però supera l'immaginazione. Perciò sono anche contento d'averla vissuta in presa diretta. Ungaretti parlava di allegria di naufragi e Montale di come si cammina sul ciglio d'un muro dove sono infissi i vetri acuminati d'una bottiglia rotta. Qui è diverso. Qui un gruppo di buontemponi giocano a palletta con lo Stato e si battono le mani da soli sperando che gli spettatori facciano altrettanto.

Non era mai accaduto un fatto simile. Speriamo che non accada mai più.

15 ottobre

L'accusa: quasi la metà del territorio nazionale resterà
irrimediabilmente sfregiato dall'ultima sanatoria
Da Portofino ad Agrigento
gli scempi a rischio di grazia
Tutto quello che potrebbe essere condonato
con la nuova legge delega per l'ambiente
di ANTONIO CIANCIULLO
 

 

ROMA - "E' un super condono, un colpo di spugna come non se n'erano mai visti. Le aree interessate, cioè quelle coperte da vincolo paesaggistico, coprono il 48 per cento del territorio italiano: tutte le coste fino a 300 metri dalla battigia, le aree montane oltre i 1.600 metri sulle Alpi e i 1200 metri sugli Appennini, le rive dei fiumi e dei laghi, le foreste, i 22 parchi nazionali, centinaia di parchi regionali. Un massacro pianificato del territorio". E' durissimo il commento di Fausto Giovanelli, senatore della sinistra ecologista, che parla di una "legge Cirami dell'ambiente".

Anche per Angelo Bonelli, coordinatore nazionale dell'esecutivo dei Verdi, il risultato delle modifiche apportate dal Senato alla delega ambientale avrà un effetto devastante: "Berlusconi è come i talebani: non c'è differenza tra chi demolisce i Budda e chi distrugge l'ambiente".

Perfino all'interno della maggioranza c'è chi, pur criticando "l'opposizione accecata dall'antiberlusconismo", ammette il passo falso compiuto. "Questo maxi emendamento prevede la possibilità di sanare i piccoli abusi quando non vi sia un aumento dei volumi", ha commentato il senatore di An Giuseppe Specchia. "Rispetto al vecchio comma 32 è un passo avanti per quanto riguarda il futuro. Per quanto invece è avvenuto fino al settembre scorso, pur fissando i paletti del parere delle soprintendenze e le pene pecuniarie, c'è una sanatoria".

Il confine degli illeciti che potranno effettivamente essere sanati resta incerto perché il testo votato dal Senato sembra studiato per alimentare gli equivoci e le incertezze interpretative. Il ministro dell'Ambiente Altero Matteoli, ad esempio, è convinto che i parchi siano esclusi dalla sanatoria perché non rientrerebbero nelle aree protette dai vincoli paesaggistici.


In realtà la prima parte del provvedimento è chiara. Il comma 36 spiega che demolire le costruzioni abusive sarà più facile; che diventa più severa (da 1 a 4 anni di reclusione) la pena per chi realizza un ampliamento di più di 750 metri cubi o una nuova costruzione di oltre 1.000 metri cubi; che per i piccoli abusi non scatterà la sanzione penale.

Più complessa l'interpretazione del comma successivo: "Per i lavori compiuti su beni paesaggistici entro e non oltre il 30 settembre 2004 senza la prescritta autorizzazione o in difformità da essa, l'accertamento di compatibilità paesaggistica dei lavori effettivamente eseguiti, anche rispetto all'autorizzazione eventualmente rilasciata, comporta l'estinzione del reato" a condizione che tipologie edilizie e materiali "rientrino tra quelli previsti dagli strumenti di pianificazione urbanistica" o siano compatibili con il contesto paesaggistico e che i trasgressori abbiano pagato la sanzione.

Dunque nessun esplicito riferimento al volume delle opere da sanare. Il divieto di ampliamento è implicito visto il contesto generale, come sostiene la maggioranza e anche una parte degli ambientalisti?
Secondo Italia nostra, che ha lanciato una petizione per chiedere a Ciampi di non firmare la legge, no: si tratta di un condono generalizzato che produrrà effetti disastrosi da Portofino ad Agrigento.

Diverso il parere del Wwf. "Un primo danno è comunque fatto: si potranno sanare, anche nei parchi, illeciti come nuove finestre, piscine, campi da tennis, tralicci, antenne, strade, tagli dei boschi non consentiti, estensioni di cave", afferma Gaetano Benedetto, segretario del Wwf. "Si può però evitare di aprire le porte a un ulteriore allargamento della sanatoria: occorre dare un'interpretazione restrittiva del testo".

Intanto ieri è arrivata la prima conferma dell'ambiguità della legge: è circolata con insistenza la voce secondo la quale in base al nuovo testo andrebbe abbattuto il Corviale, un enorme palazzo dal passato difficile dove vivono 6.500 romani. "E' in corso un'opera di riqualificazione dell'immobile", ha commentato il sindaco di Roma Walter Veltroni, "ed è davvero singolare che un governo che parla tanto di federalismo pretenda di decidere in una materia che appartiene in modo del tutto evidente alle competenze del Comune".


14 ottobre

La maschia gioventù
GIANNI ROSSI BARILLI
Il presidente della commissione Ue, Barroso, ha deciso di sfidare la potente mafia gay confermando Rocco Buttiglione nel suo incarico di commissario europeo con deleghe su giustizia libertà e sicurezza. Anche se in Europa, come dice il ministro per gli italiani all'estero Tremaglia, «i culattoni sono in maggioranza», non avranno il coraggio di bocciare l'intera commissione solo per le intemperanze ideologiche di un Buttiglione. Resta il fatto che l'immagine dell'Italia sarà almeno per un po' legata a un signore capace di dire, in sei lingue e convinto di fare un figurone, che l'omosessualità è un peccato e non un reato (ma non certo un diritto) e che la famiglia esiste per permettere alla donna di avere figli e di essere protetta dal marito. E che poi, dopo che gli è stato detto che non è l'uomo giusto per garantire la libertà dei cittadini europei, incolpa la «lobby omosessuale trasversale», come negli anni Cinquanta, di avere organizzato un complotto con la sinistra.

Il problema casomai è che l'Europa si è data degli standard minimi di civiltà al di sotto dei quali si trova Buttiglione, e che la lobby cattolica, istruita da appositi manuali del Vaticano con ricorrenti rinforzi epistolari del cardinale Ratzinger, a Bruxelles e dintorni conta meno che da noi.

Peccato davvero che in Italia la nebbia clericale renda confusi per gran parte dell'anno i contorni dell'Europa laica: neppure un genio come Buttiglione è riuscito a rendersi conto che il suo show europarlamentare avrebbe fatto un effetto un po' fuori stagione.

L'Italia di Berlusconi, se proprio dovesse darsi degli standard di civiltà, guarderebbe a Washington piuttosto che a Bruxelles. Al cristianesimo armato e fulminato di George Bush, che guarda caso, (proprio come Buttiglione) ha la fissa di salvare la famiglia dagli omosessuali e vuole blindare nella costituzione il copyright eterosessuale sul matrimonio. Il rivale Kerry non è Zapatero: sta sulle stesse posizioni di Fassino (no al matrimonio, sì alle unioni civili), ma tanto gli basta per essere il candidato ufficiale della comunità gay. In materia di morale, comunque, fintanto che abbiamo il Vaticano in casa, non prendiamo lezioni da nessuno.

Il cattolicesimo reazionario legifera indisturbato nel parlamento nazionale e in quelli regionali, preparando per la fecondazione e la famiglia un futuro di massima sicurezza., a cominciare dal filo spinato. La chiamano «difesa» o «protezione», un po' come dicono «portare la pace» andando a fare la guerra. Del resto questo tipo di cattolicesimo, ipocrita o sincero che sia, si trova a condividere spesso l'idea che con la forza si ottiene tutto, che è poi lo stesso tema filosofico su cui Bush ha fatto la tesi di laurea in Iraq.

Un cattolicesimo autoritario che in alcune frange si tinge di esplicito bellicismo, immaginando di resuscitare le crociate in funzione antislamica, salvo eventualmente allearsi con l'Islam in funzione antigay. E' il fantasma dello scontro di civiltà, che spinge a serrare i ranghi e marciare anche moralmente compatti contro il nemico. Seduce anche laici bellicosi di destra, come Giuliano Ferrara che si preoccupa di difendere i valori tradizionali dal modello Zapatero o la reputazione della chiesa dall'ultimo film di Almodovar.

L'atmosfera mista di sacrestia e caserma è legittimata anche dai molti che non sono per le maniere forti, e magari sono pure di sinistra, ma continuano a ripetere che non bisogna scontrarsi con i cattolici, bisogna mediare sempre. Anche quando i cattolici presidiano militarmente la riproduzione altrui o sostengono che gli omosessuali non sono soggetti portatori di diritti? E' così che si arriva a non trovare bizzarra la prospettiva di esportare Buttiglione in Europa. Fortuna che dall'estero ogni tanto ci danno la sveglia. 


13 ottobre

Sulle prime presidenziali Usa dopo l'11 settembre
pesa l'incubo del pasticcio elettorale di quattro anni fa

Speriamo che stavolta
qualcuno vinca davvero

In tempo di guerra un altro presidente delegittimato
sarebbe una catastrofe per l'America e per il mondo
di VITTORIO ZUCCONI

Proteste anti-Bush nel 2000

WASHINGTON - C'è il ricordo di un incubo, in quel due novembre elettorale americano che si avvicina a passi rapidi, il ricordo di una notte di novembre del 2000 quando 280 milioni di americani (e alcune migliaia di giornalisti e corrispondenti esteri, tra i quali chi scrive) vissero sbigottiti e increduli quella che sull'ultima edizione di Repubblica definimmo esausti, per disperazione, la "notte delle streghe". Tra le cinque del pomeriggio americane, quando le fonti riservate dei partiti cominciarono a segnalare che il democratico Al Gore era in lieve ma sicuro vantaggio sul repubblicano George Bush (sarebbe finito con 580 mila voti di maggioranza nell'inutile conteggio nazionale) e le prime ore del mattino quando tutti ci arrendemmo davanti al pasticcio di sondaggi, concessioni, ritrattazioni, conte e riconte di voti, la sede del massimo potere economico, militare, culturale e nucleare del mondo passò di mano almeno tre volte tra loro, avanti e indietro, prima di impantanarsi definitivamente nella palude della Florida, stato leggendario per i frequenti brogli elettorali da repubblica delle banane, dalla quale sarebbe emerso 35 giorni più tardi il nome di Bush, per sentenza della Corte Suprema da Washington che tagliò ogni ulteriore conta e gli assegnò ex officio la vittoria.

Nell'imbarazzo, nell'umiliazione e nel caos di quel mese senza precedenti nella storia americana, dove mai prima un uomo era entrato alla Casa Bianca per sentenza di un magistrato (5 sì contro 4 no per lui fu il voto finale della Supreme Court che prese per buona la maggioranza di 537 voti su sei milioni espressi in Florida) nessuno, neppure i più pessimisti tra noi avrebbero potuto immaginare che un capo dello stato sospinto al potere da circostanze per lo meno bizzarre, sarebbe stato colui che meno di un anno dopo quel sabba infernale avrebbe subito l'attacco delle Torri Gemelle. E poi avrebbe condotto l'America e trascinato spezzoni di Europa in una guerra campale prima nel cuore dell'Asia islamica, in Afghanistan, e poi nel mondo arabo, in Iraq. Di nuovo, mai un Presidente con così poca legittimità e così privo di alcun chiaro mandato popolare sarebbe stato protagonista - e vittima - di un conflitto tanto epocale come quello lanciato contro "il terrore".

Questo peccato originale che ha macchiato la genesi della Presidenza Bush e che ha prodotto il bacino di risentimento contro di lui visto come un truffatore/usurpatore ("REDEFEAT BUSH" dicono gli adesivi da paraurti stampati dai democratici, SCONFIGGETE DI NUOVO BUSH) è l'ombra che da quattro anni si allunga sulla massima potenza democratica della Terra e che torna a profilarsi sopra il prossimo voto del 2 novembre.

Se dobbiamo ascoltare gli esperti e i sondaggi di opinione, la possibilità che si ripeta quella notte delle streghe e i due avversari finiscano alla pari nel conteggio dei "voti elettorali" stato per stato, nei quali si traduce il voto popolare, è concreta.

Nel sito internet che segue giorno per giorno i soli sondaggi che contano, che sono quelli stato per stato e non le somme delle opinioni nazionali, il rosso, che indica le zone repubblicane e il blu, colore assegnato tradizionalmente ai democratici, cambiano, si sfumano e si ridipingono senza sosta, indice sicuro di completa insicurezza. Essendo il numero dei voti elettorali un numero pari - 538 - la possibilità che i due finiscano in parità, 269 contro 269, esiste. E con essa si ripresenta l'ipotesi di una Casa Bianca assegnata, e non democraticamente vinta, senza vero mandato politico.

Questo, di un nuovo appiccicoso "pastiche" come quello che portò Bush al potere, è il "nightmare scenario", l'incubo che pesa sull'America, nelle prime elezioni presidenziali dopo l'11 settembre. Tifosi e partigiani dello schieramento anti-Bush tremano al pensiero che possa vincere (o rivincere) l'ostinato guerriero accidentale che ha spalancato le porte della guerra di civiltà, con pretesti falsi e senza sapere bene come richiuderle. Gli altri paventano l'avvento della "banderuola" Kerry, che la destra dipinge come una foglia al vento, incapace della risolutezza necessaria per proteggere l'Occidente dai nuovi barbari dell'Islam violento.

E se ogni simpatia o antipatia è legittima, l'esperienza insegna che ogni previsione sul comportamento futuro di un presidente americano è arbitaria, perché, dietro la retorica politica, è il mondo a cambiare i presidenti molto più di quanto i presidenti cambino il mondo, da Roosevelt l'isolazionista che entrò nella guerra del secolo a Bush, l'uomo che promise un'"umile" politica estera, facendo esattamente il contrario.
Ma il vero incubo è che il prossimo due novembre produca un altro presidente dimezzato, un leader americano dalla dubbia o fragilissima legittimità. Oltre ogni "tifo" ideologico o personale, l'ipotesi di un altro presidente Usa guardato come un usurpatore da metà dei suoi concittadini e dunque visto come tale anche dal resto di un mondo dove il prestigio dell'America e l'affetto per essa sono ai minimi, sarebbe catastrofica.

Nel tempo contraddittorio di una guerra che non si sarebbe mai dovuta combattere in questo modo arrogantemente dilettantesco e con questi falsi pretesti, ma che non può essere perduta senza concedere un trionfo impensabile a nemici di ogni civiltà, un'America di nuovo acefala o in balia di dilanianti polemiche e accuse, sarebbe una disgrazia superiore ai difetti e ai limiti di questo o dell'altro candidato.

Non auguriamo dunque agli Stati Uniti che vinca Bush o vinca Kerry, ma che qualcuno vinca davvero, con onestà, con chiarezza e con serenità, quella poltrona terribile che da quattro anni è occupata da un uomo tormentato dal sospetto di non averla davvero mai vinto. Il complesso della illegittimità che dalla "notte delle streghe" tormenta George W lo ha portato, con il detonatore dell'attacco alle Torri, all'estremismo ideologico e alla guerra. E' possibile dunque sperare che la certezza della legittimità riporti invece il prossimo presidente americano sul sentiero della ragione e della intelligenza politica.
 

 

12 ottobre

IL COMMENTO
Il ritorno dell'opposizione
di CURZIO MALTESE

L'Ulivo ha deciso di tornare a fare l'opposizione a Berlusconi invece che a Prodi. È in brutale sintesi questo il risultato dell'ultimo vertice di tutti i leader del centrosinistra, stranamente costruttivo e per giunta in contemporanea con la buttiglionesca figuraccia del governo in Europa.

Con un'improvvisa ventata di realismo che non ha risparmiato nessuno, da Bertinotti a Di Pietro, si è scelto di serrare le fila intorno a Prodi, chiudere la stanza dei vertici e tornare nelle piazze a parlare dei problemi reali del Paese. La grande manifestazione contro la Finanziaria è prevista per sabato 6 novembre. I più ottimisti sperano di festeggiare con milioni di persone anche la vittoria di Kerry, o meglio la sconfitta di Bush (in America si vota il 2).

La data in ogni caso coincide con il ritorno ufficiale dall'incarico europeo di Romano Prodi e segna anche simbolicamente la sua vittoria sulla fronda interna.
Il Professore sarà "bollito" ma intanto ha ottenuto dai grandi elettori più garanzie di quante ne ebbe nel '96. Le primarie si terranno in febbraio, dopo il congresso dei Ds. I candidati alle Regioni saranno scelti fra chi ha maggiori possibilità di vincere e non lottizzati fra i partiti. Quindi è probabile che in molte regioni si punti alla lista unitaria, che viaggia bene nei sondaggi e favorisce i candidati "indipendenti". Più importante ancora, l'Ulivo e soci hanno forse finalmente trovato sulla guerra una posizione comune nella quale i cittadini possano riconoscersi per più di un mese, con la richiesta di ritiro delle truppe italiane dopo una grande conferenza internazionale sull'Iraq.

È la fine dei tormenti e del latinorum che ha occupato per mesi le menti del centrosinistra mentre il governo collezionava disastri? Chissà. Le reazioni isteriche della destra lasciano ben sperare. È di sicuro la fine della ricerca di un'alternativa a Romano Prodi, il vero nocciolo della questione. Il leader non convince tutti ed era giusto discuterne. Forse anche il centrodestra oggi metterebbe in discussione il suo, se potesse permetterselo. Ma alla fine tutti nell'Ulivo hanno capito che Prodi è l'unico candidato in grado di garantire una vasta alleanza, fallita da Rutelli nel 2001, e una squadra di governo d'alto profilo e fortemente europeista. È insomma il "candidato unico". Anche perché l'ipotesi di sostituirlo avrebbe scatenato una guerra di successione con gigantesco e inutile spargimento di sangue fra i possibili delfini. L'altro elemento che ha favorito la riconferma di Prodi è il sostanziale fallimento dell'idea di ricostruire un "grande centro", l'araba fenice che ogni tanto volteggia nelle stanze del Palazzo e scompagina le alleanze. Soltanto che la rinascita di un centro politico non s'è mai vista in un sistema bipolare e non si capisce a chi si rivolga, in un'Italia dove la base moderata è comodamente contenuta in pochi circoli del Rotary. Mentre nel centrosinistra appare assai più concreto il rischio che con la chimera del grande centro si finisca per rompere con Rifondazione e il suo 6 per cento reale di voti, dunque avviarsi serenamente a perdere un altro centinaio di seggi come l'ultima volta e senza neppure scampare all'accusa di comunismo "a prescindere".

L'Ulivo ha in definitiva recuperato da oggi il buon senso e la razionalità politica, che è quanto i suoi elettori imploravano da mesi. Si tratta di una buona base per ripartire ma forse occorre anche altro. C'è bisogno che il centrosinistra chiarisca in concreto qual è il suo progetto d'Italia, la ricetta economica contro il declino del Paese, i valori nei quali crede. Non sarà con i balletti terzisti di questi anni su tutto, dal liberismo al welfare, dalla giustizia al federalismo, sulla guerra e sulla pace, che riusciranno a convincere gli incerti e i delusi. Se il leader è lo stesso di dieci anni fa, la squadra dev'essere più giovane e le idee più moderne. Con un altro paio di passi in avanti, la prospettiva di una larga vittoria elettorale è assai probabile. Per la prima volta da dieci anni l'Italia appare stanca di Berlusconi e di berlusconate, decisa a voltare pagina. Anche nei momenti peggiori di delirio autolesionistico delle opposizioni, i sondaggi hanno confermato il progressivo, inesorabile calo di consensi della maggioranza del 2001. Poi puntualmente certificato dalle elezioni europee e amministrative.

L'unico freno alla caduta libera di Berlusconi finora l'avevano messo i suoi avversari, con astruse liti e una specie di perverso attaccamento a un'immagine di inaffidabilità e ambiguità. Tornare a fare il proprio mestiere, l'opposizione, non può che fare bene a tutti, perfino al governo.

11 ottobre

La forza (rara) di non abituarsi

Strettamente personale

Biagi Enzo

Sono andate a morire, peggio, risultano disperse e chissà se ci saranno due funerali, due tombe su cui piantare le ortensie, per 400 euro, andata e ritorno dall' aeroporto di Bergamo, una settimana sulle spiagge del Mar Rosso tutto compreso, escursioni e bibite escluse. Al loro paese, Dronero, le conoscevano tutti Jessica e Sabrina, un po' per quei nomi presi dalla televisione, poi perché una sorrideva sempre al banco della gastronomia del supermercato e l' altra, tra una messa in piega e una permanente, era gentile, garbata. Insomma due ragazze italiane come tante, come le nostre figlie, 22 e 20 anni, e come tante ragazze italiane si erano regalate una vacanza all' estero, in quei posti che vedevano fotografati sui rotocalchi rosa perché ci vanno Naomi Campbell e Paola Barale. Mentre stiamo scrivendo Jessica e Sabrina Rinaudo sono ancora nell' elenco dei dispersi e se lo dice la Farnesina figuriamoci se non ci crediamo: ci piacerebbe pensare che questa notizia venisse cancellata, annullata da una buona notizia, ma ormai ci siamo abituati a non sperare. Così si celebra questa guerra assurda per la quale molti vanno a morire senza sapere perché. Una volta si diceva: se avrò i soldi manderò i miei figli a studiare all' estero, garanzia di cultura, esperienza di vita e possibilità di un futuro migliore. Ancora: se un ragazzo non conosce le lingue è analfabeta, e via con i college, gli stage e i master. Oggi abbiamo paura se vanno a scuola in metropolitana. Il guaio, però, non è questo: è che al terrore, ai brutti pensieri, ci siamo abituati e a dieci, cento morti in un bombardamento, ai sequestri con conseguenti sgozzamenti reagiamo con «poveretti». Un po' poco. Oggi c' è ancora un' altra pagina da scrivere e quel paese che è passato alla storia perché vi nacque Giolitti è entrato nella cronaca per Jessica e Sabrina Rinaudo. Ma questa è una gran brutta vicenda.

 

7 Ottobre

ITALIA-LIBIA
Ponti aerei, che vergogna
CESARE SALVI
Il vecchio Gesualdo Bufalino scriveva che in Sicilia, per chi ci è nato, dura poco l'allegria di sentirsi seduto sull'ombelico del mondo. Subentra presto la sofferenza di non sapere districare, fra mille curve e intrecci di sangue, il filo del proprio destino. Se questo vale per chi abita in quella terra, figurarsi per quanti tentano di raggiungerla, seppure con le astuzie della disperazione. E infatti tali sono: disperati. La cronaca degli ultimi giorni racconta di decine di persone, forse di più, morte annegate in quel tratto di mare. Lì, di fronte agli scogli di Lampedusa, vicino alle ville barocche piene di fiori, in quel mare di incanto dove ti viene la rabbia se pensi alla morte. Sono «clandestini» secondo i nostri telegiornali, ma anche secondo le parole del sottosegretario Alfredo Mantovano. Morti e sepolti dal mare. E su di loro impresso, come un marchio a fuoco, quell'epitaffio di una presunta modernità: clandestini. Ma come si fa ad essere clandestini in un paese in cui non si è messo piede? Ogni giorno ha la sua pena, ma la pena di assistere in diretta al rimpatrio forzato, ai ponti aerei messi in pista da questo governo, francamente lo troverebbe eccessivo persino una camicia verde di Pontida. Se n'è accorto anche Tremaglia, ministro di un improbabile dicastero che dovrebbe tutelare i diritti dei nostri connazionali sparsi nel mondo. L'ex milite di Salò ha detto che «c'è troppa fretta di mandarli via», e si è anche chiesto se quei "clandestini" hanno il tempo di formulare la richiesta di asilo politico.

Purtroppo il tempo molti di loro non l'hanno mai avuto. A dire il vero non hanno avuto nemmeno quello di scendere dai barconi, dato che sono morti prima. Per i pochi sopravvissuti, invece, la domanda del ministro Tremaglia precipita nel vuoto legislativo del Belpaese. Un'ordinaria cronaca di sommersi e di salvati, potremmo parafrasare usando con estrema moderazione le parole di Primo Levi. Con un governo che in materia di immigrazione, grazie alla legge Bossi-Fini, si è trasformato nella falange armata di una geopolitica che non tollera che i "dannati della terra" si rifiutino di pagare il conto per i banchetti luculliani dei paesi ricchi. Europa compresa. Ma che Europa è quella che per bocca del commissario Buttiglione, giocando sulle parole, dà man forte al governo italiano distinguendo cavillosamente tra espulsioni e respingimento al confine? E che Europa è quella che si predispone ai campi di concentramento nel Nordafrica esportando la vergogna dei centri di permanenza temporanea?

I ponti aerei tra Roma e la Libia sono una vergogna. Un governo che vincola l'Italia su accordi di cui non è a conoscenza nemmeno il suo Parlamento è una vergogna. Una diplomazia da trattati segreti che ci riporta ai tempi del colonialismo. Una procedura che viola palesemente tutte le normative internazionali. A cominciare dalla Costituzione, sino alla Convenzione di Ginevra che sancisce il principio del non respingimento dei richiedenti asilo «anche se entrati illegalmente nel territorio dello Stato». Una Convenzione che la Libia non ha mai sottoscritto. Ma diciamo la verità, e diciamola tutta: questa destra, in definitiva, gli immigrati li vuole. E li vuole proprio così, "clandestini". Perché l'amministrazione Berlusconi non è razzista. Il razzismo è solo la cattiveria dei gonzi. Noi, invece, siamo nelle mani di un governo di potere e di cumenda, e questi ultimi pensano solo al denaro, agli "sghei", all'uso e all'abuso di una manodopera docile da sottomettere all'etica dell'impresa. Per il resto, il reo c'è già, c'è a prescindere, è socialmente già giudicato e dunque pregiudicato, è culturalmente già esorcizzato, è politicamente già manipolato. Il reo è lo straniero. Ma lo straniero, ci ricorda Camus ne La Peste, «ascoltando le grida di allegria che salivano dalle città, ricordava che quell'allegria era sempre minacciata: lui sapeva ciò che ignorava la folla, ossia che il bacillo della peste non muore e non scompare mai (...) che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine e che forse verrebbe giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice». Caro Tremaglia, è da 56 anni che un algerino ci avvertiva.


5 Ottobre

Viste da Pechino le nostre difficoltà sono evidenti
Gli altri stringono accordi, noi non esistiamo
Ma contro il declino
non basta dire basta
 

PECHINO - "BASTA basta basta parlare di declino", ha scandito il presidente della Confindustria ai giovani industriali riuniti a Capri, prima di lanciare la sua proposta di un nuovo patto sociale ai sindacati. Ma basta dire basta? È tutta una questione di comunicazione, e il talento di Montezemolo in quel campo può guarirci dalla depressione?

Osservato da Pechino il declino dell'Italia non è un'invenzione. La Cina è un punto d'osservazione importante. Secondo le statistiche basate sulla parità dei poteri d'acquisto è già oggi la seconda economia mondiale dopo gli Usa. Viene corteggiata da Bush per entrare nel G7, e può permettersi il lusso di farsi pregare. È diventata il banchiere degli americani, a cui presta capitali purché continuino a comprare made in China. Anche a ritmi di sviluppo realistici la modernizzazione della Cina nel prossimo mezzo secolo aggiungerà una tale ricchezza all'economia globale, da equivalere alla scoperta di altre quattro Americhe, secondo l'immagine suggestiva usata da The Economist.
Vista dal nuovo centro propulsivo della crescita planetaria, l'Italia soffre anche nel paragone con altri paesi che si considerano in declino.

Montezemolo capirebbe, se fosse qui questa settimana quando l'aereo presidenziale di Chirac si poserà sulla pista dell'aeroporto di Pechino. La Francia non ha l'economia più effervescente del mondo. Eppure incute ancora rispetto per la stazza, la qualità e la grinta del suo sistema industriale, che accompagna il presidente e viene a "vendersi" ai cinesi. Nei piani degli industriali che scortano Chirac c'è la vendita di 10 super-Airbus A380 alle compagnie Air China e China Southern (2 miliardi di euro). C'è la costruzione del treno ad alta velocità sulla linea Pechino-Shanghai (10 miliardi di euro). Ci sono 32 reattori nucleari da mille megawatt, per rispondere alla fame di energia della Cina e alleviare la pressione sul mercato petrolifero. A fianco ai top manager di Airbus, Alstom, Edf, Areva, Framatome, ci sono decine di piccoli e medi imprenditori.

Non tutte le speranze dei francesi andranno esaudite, la concorrenza è forte e qualcuno tornerà a casa a tasche vuote. Ma l'impegno profuso per questa visita smentisce due stereotipi diffusi in Italia. Il primo luogo comune è quello che considera la Cina solo come una temibile potenza conquistatrice dei mercati esteri. Il vero portento cinese è un boom economico realizzato con poco protezionismo, una replica in meglio del miracolo giapponese degli anni ?50-'80. La Cina di oggi è due volte più aperta: importa molto dal resto del mondo, e accoglie volentieri le imprese straniere che vogliono investire (quest'anno è diventata la prima mèta assoluta per gli investimenti delle multinazionali, scavalcando l'America). Ha decine di milioni di consumatori esterofili che invadono i supermercati e i fast food stranieri, guidano auto estere, fanno le vacanze all'estero.

Il secondo stereotipo è quello di una Cina in simbiosi economica solo con gli Stati Uniti e con l'Asia. In realtà ce n'è per tutti. L'Unione europea ha scavalcato il Giappone e tallona l'America come secondo partner commerciale di Pechino con oltre 140 miliardi di euro di interscambio. I cinesi non vedono un'Europa in declino ma un continente ricco di tecnologie e know how di cui hanno bisogno. Il governo di Pechino sta facendo costruire i tre maggiori impianti petrolchimici dalla Basf (tedesca), dalla Bp (inglese) e dalla Shell (anglo-olandese). Per modernizzare le infrastrutture urbane - sottoposte alle ondate migratorie dalle campagne - la Cina si affida alla Siemens tedesca e alla Abb svizzera per i generatori elettrici e le ferrovie; alla Veolia francese e alla Thames Water inglese per le reti idriche.

Un altro paese che si considera in declino, la Germania, ha un cancelliere che si è imposto di venire in Cina come commesso viaggiatore almeno una volta all'anno. Promessa tenuta: Schroeder è già stato qui cinque volte. Sempre accompagnato dai capi di Siemens, Volkswagen, Bmw, Daimler, Bayer e altre decine di imprenditori. Per Berlino ormai la Cina è il secondo mercato extraeuropeo dopo gli Stati Uniti. La Camera di commercio tedesca a Pechino e Shanghai è una lobby formidabile. 1.600 aziende tedesche hanno messo le radici qui. L'interesse è ricambiato da un'industria locale che ormai è arrivata a generare multinazionali: 600 imprese cinesi hanno investito in Germania.

Simboli del "male europeo", gli industriali francesi e tedeschi sono meno rassegnati di quel che si crede. La cultura del protezionismo è meno viva di un tempo, a giudicare da un editoriale di Le Monde intitolato "Vive les délocalisations!" che rivela ai lettori una verità istruttiva: la Francia è il terzo paese al mondo come esportatore di investimenti, ma è anche il terzo ad attirare i capitali (e i posti di lavoro) delle multinazionali estere.

Si fa presto a dire declino. Nel caso di altri paesi europei l'autoflagellazione non è sempre giustificata. Ma nella mappa geoeconomica che la rivista americana Fortune dedica al Big Bang della Cina, l'Italia non esiste. C'è invece l'Olanda. Negli investimenti l'Italia è 23esima, dietro la Malaysia. Perfino nell'attirare studenti, ricercatori e scienziati cinesi (un modo per costruire relazioni durevoli) l'Europa se la cava nella sfida con l'America: ci sono 60.000 cinesi nelle università inglesi, 50.000 in quelle tedesche, 40.000 in Francia e 35.000 nella sorprendente Irlanda. In Italia solo 600.

Montezemolo è venuto una settimana fa a Shanghai a godersi la vittoria della Ferrari nel primo Gran Premio di Formula Uno su un circuito cinese. Ma sul piano industriale anche la Ferrari è lo specchio dell'Italia: un gioiello rimasto piccolo piccolo, senza le ambizioni che hanno fatto della Porsche un vero business. Come la Fiat, che ebbe l'intuizione di venire a Nanchino anni fa, poi non ha creduto davvero alla Cina ed è rimasta una presenza simbolica mentre la Volkswagen conquistava un terzo del mercato. Per dire basta al declino, e sedurre i sindacati, dal presidente della Confindustria ci si attende qualche idea sul futuro mestiere
dell'Italia.

 

Fratelli d'Italia
Cosimo Rossi

Le tonalità del tricolore le hanno codificate norma di legge: sventola su tutti gli edifici pubblici, a cominciare dagli asili, in compagnia con il vessillo d'Europa. Dell'Inno rinascimentale di Goffredo Mameli - sul cui dubbio gusto musicale tocca glissare proprio per amor di patria - è stata fatta una promozione degna delle più trite major discografiche: sia uno stadio o un'assemblea di partiti ci si alza in piedi per intonarlo senza un perché. La Costituzione, intanto, la riscrivono in parlamento dopo averla già manomessa nel paese. Ma la guerra, a ben vedere, non è più nemmeno questione di Costituzione. Il garrir di patria, infatti, di qualsiasi patria, si affloscia immediatamente di fronte a una violenza che non conosce più bandiere, né cittadinanza. Né, perciò, pietà pubblica e civile.

E' vero: basta avere sangue iracheno per non essere morti italiani, come Ayad Anwar Wali, che probabilmente contribuiva con le sue tasse alla nostra assistenza sanitaria. Basta la governo italiano, che ha effettivamente considerato l'imprenditore rapito un ostaggio di serie B. Basta alle opposizioni, che volenti o nolenti hanno fatto altrettanto. Basta al circo mediatico, che preferisce la complice autocensura e il folle inseguimento dell'audience assicurata dalle ragazze scampate alla morte. E basta a chiunque si opponga alla guerra, che volente o nolente ha perso il senso della cittadinanza, della libertà della persona umana, nel labirinto dell'ideologia.

Perché nella guerra globale la cittadinanza non c'è più. E' spezzata, divisa in due, tre, forse quattro. Vista da qui ci sono gli italiani perché italiani, ci sono gli italiani perché combattono sotto il vessillo del loro paese, ci sono gli italiani perché sono contro la guerra e ci sono forse anche gli italiani che è meglio che ci restano secchi così si capisce che la guerra è sbagliata.

Cittadini italiani, però non ce ne sono: né per chi vuole restituire la cittadinanza agli iracheni con i missili statunitensi né talvolta per chi vuole restituirgliela tramite la loro autodeterminazione. Perché di cittadini - iracheni, americani, italiani - non ce ne sono più quasi per nessuno, se non per come si collocano rispetto agli assi cartesiani della violenza.

Ma la violenza omicida che millenariamente ha trovato fondamento nel diritto (di sopraffazione) di stati, regni e nazioni, nei confini, nelle bandiere, negli ideali, financo nelle etnie e nel razzismo è sopraffatta dall'unica violenza senza fondamento razioncinabile: la violenza della paura. Una violenza che perciò non conosce più la differenza, che spinge all'estremo le identità, che fomenta il razzismo insieme più primordiale e astratto; che assume caratteri biologici.

Altro che impero. Nemmeno quel concetto regge più. Cives romanus sum. L'impero romano, la sua guerra e la sua pax si basavano sul concetto repubblicano di cittadinanza: fatto il bagno di sangue - perché quello facevano a colpi di daga - arrivava anche la cittadinanza con le sue gabelle e le sue prebende. E la cittadinanza bastava per diventare anche imperatori; troppi se ne contano dai natali tutt'altro che italiani.

Cittadino, si sono chiamati poi nella comune parigini. Cittadini ci chiamiamo e ci chiamano le leggi. Ma non siamo più cittadini: siamo solo cecchini dentro gli assi della violenza; pronti a dimenticare la morte che non ci fa comodo e a magnificare quella utile, immemori anche del nostro rifiuto della morte di stato come di quella per mano privata.

In nome di cosa? Probabilmente di un vessillo - per ciascuno il suo - che non è più quello nazionale perché semplicemente non è. Perché alla sua ombra non c'è diritto di cittadinanza. Beata invece la comunità umana che non avrà bisogno di bandiere nelle proprie scuole.