STATI UNITI

La grande rapina

«Il governo Bush sta saccheggiando le casse dello stato». Appello del cineasta attivista contro il piano anti-crisi

Michael Moore

 

Cari amici, permettetemi di andare subito al sodo. Mentre leggete queste righe, è in corso la più grande rapina della storia di questo paese. Anche se non sono servite le armi da fuoco, 300 milioni di persone sono state prese in ostaggio e fatte prigioniere. Potete giurarci: dopo aver rubato 500 miliardi di dollari negli ultimi cinque anni per riempire le tasche dei loro sostenitori che fanno profitti grazie alla guerra, dopo avere riempito le tasche dei loro amici petrolieri al ritmo di più di cento miliardi di dollari solo negli ultimi due anni, Bush e i suoi compari - che presto dovranno traslocare dalla Casa Bianca - stanno saccheggiando le casse dello stato arraffando ogni dollaro su cui riescono a mettere le grinfie. Stanno rubando tutta l'argenteria prima di accomodarsi alla porta. Qualunque cosa dicano, qualunque discorso usino per terrorizzare la gente, si stanno dedicando ai loro vecchi trucchi: creare paura e confusione per continuare ad arricchirsi e ad arricchiare quell'uno% che è già schifosamente ricco. Leggete soltanto le prime quattro frasi del servizio di apertura apparso sul New York Times di lunedì 22 settembre e potrete constatare qual è la vera posta in gioco: «Mentre i policy makers mettevano a punto i dettagli di un'operazione di salvataggio dell'industria finanziaria da 700 miliardi di dollari, Wall Street ha cominciato a cercare il modo di guadagnarci sopra. Le società finanziarie hanno fatto pressione per ottenere la copertura di ogni tipo di investimento traballante, e non solo di quelli collegati ai mutui ipotecari... Nessuno vuole essere tagliato fuori dalla proposta del Tesoro di comprare i bad asset delle istituzioni finanziarie». Incredibile. Wall Street e i suoi sostenitori hanno combinato questo disastro e ora si stanno preparando a fare un sacco di soldi, come dei banditi. Persino Rudy Giuliani sta facendo pressione perché la sua società sia incaricata (e pagata) per fornire «consulenza» nell'operazione di salvataggio. Il problema è che nessuno è veramente in grado di quantificare questo «crollo». Anche il ministro del tesoro Paulson ha ammesso di non sapere quale sia esattamente l'ammontare necessario (la cifra di 700 miliardi di dollari è una sua invenzione!). Il capo dell'ufficio del bilancio al Congresso ha detto che non è in grado di calcolarlo né di spiegarlo a nessuno. Eppure, eccoli lì a strepitare su quanto la fine è vicina! Panico! Recessione! La Grande Depressione! Il baco del millennio! L'influenza aviaria! Le api assassine! Dobbiamo approvare la manovra oggi stesso!! Casca il mondo! Casca la terra! Cascare da cosa? Niente in questa operazione di «salvataggio» abbasserà il prezzo del carburante che dovete mettere nella vostra macchina per andare al lavoro. Niente in questa proposta di legge vi proteggerà dal rischio di perdere la vostra casa. Niente in questa manovra vi darà l'assicurazione sanitaria. Assicurazione sanitaria? Mike, perché la tiri in ballo? Che c'entra con il crollo di Wall Street? C'entra e come. Questo cosiddetto «crollo» è stato scatenato dall'enorme quantità di persone impossibilitate a pagare il mutuo di casa, e dai conseguenti pignoramenti. Sapete perché così tanti americani stanno perdendo la propria abitazione? A sentire i repubblicani, perché troppi idioti della working class hanno contratto dei mutui che in realtà non si potevano permettere di pagare. Ecco la verità: la Causa Numero Uno per cui la gente dichiara bancarotta sono le spese mediche . Ve lo dico in modo semplice: se avessimo avuto tutti l'assistenza sanitaria universale, questa «crisi» dei mutui non ci sarebbe mai stata. La missione di questa manovra di salvataggio è proteggere l'oscena quantità di ricchezza che si è accumulata negli ultimi otto anni. Serve a proteggere i grandi azionisti che possiedono e controllano le corporations americane. Serve a garantire che i loro yacht, le loro tenute, il loro «stile di vita» non siano intaccati mentre il resto dell'America soffre e lotta per pagare le bollette. Che per una volta siano i ricchi a soffrire. Che ci pensino loro a pagare la manovra. Stiamo spendendo 400 milioni di dollari al giorno per la guerra in Iraq. Che la fermino immediatamente, facendo risparmiare a tutti noi altri 500 miliardi di dollari! Devo smetterla di scrivere queste cose e voi dovete smetterla di leggerle. Stamattina nel nostro paese stanno mettendo a segno un golpe finanziario. Sperano che i membri del Congresso si sbrighino, prima di fermarsi a pensare, prima che noi riusciamo a fermarli. Perciò smettete di leggere qui e fate qualcosa... adesso! Ecco cosa potete fare immediatamente: 1. Chiamate il Senatore Obama o mandategli una mail. Ditegli che non c'è bisogno che se ne stia seduto là a sostenere Bush e Cheney e il disastro che hanno combinato. Ditegli che sappiamo che è abbastanza in gamba da fermare questa cosa per poi decidere qual è la strada migliore da prendere. Ditegli che i ricchi devono pagare per qualunque aiuto venga loro offerto. Usate la leva che abbiamo per pretendere una moratoria dei pignoramenti delle abitazioni, per insistere nella richiesta dell'assistenza sanitaria, e ditegli che noi, il popolo, dobbiamo avere voce in capitolo nelle decisioni economiche che riguardano la nostra vita, e non i baroni di Wall Street. 2. Scendete in piazza. Partecipate a una delle centinaia di dimostrazioni convocate in fretta e furia e che si stanno svolgendo in tutto il paese (specialmente quelle vicino Wall Street e Washington). 3. Chiamate il vostro rappresentante al Congresso e i vostri Senatori. Ditegli quello che avete detto al Senatore Obama. Quando nella vita abbiamo incasinato tutto, ci aspettano un bel po' di guai. Ognuno di voi conosce questa lezione fondamentale e presto o tardi ha pagato le conseguenze delle sue azioni. In questa grande democrazia non possiamo permettere che ci siano delle regole per la stragrande maggioranza dei cittadini che lavorano sodo, e delle regole diverse per le élite che, quando combinano un disastro, si vedono offrire l'ennesimo regalo su un piatto d'argento. Ora basta!

(Traduzione Marina Impallomeni )

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PALERMO

«Diffidato» il sindacalista dei senza casa

La questura vieta le manifestazioni a Pietro Milazzo della Cgil

Alfredo Marsala

PALERMO

 

«Cambiare condotta». L'avviso a Pietro Milazzo, leader in Sicilia di Lavoro e società, la corrente di sinistra della Cgil, è stato notificato quattro giorni fa. L'avvertimento non arriva da ambienti criminali ma dalla Questura di Palermo. Tecnicamente si tratta di un «avviso orale», i toni però, secondo Milazzo, «sono gravi». La Questura invita il sindacalista ad adeguare la condotta «a norma di vita onesta e laboriosa e ad osservare le leggi con l'avvertimento che, in caso contrario, sarà proposta al competente Tribunale per l'applicazione di una misura di prevenzione». La colpa di Milazzo è scritta nell'avviso: «Ha precedenti penali per reati contro l'ordine pubblico, lesioni personali, invasione di edificio in concorso, interruzione di un ufficio o servizio pubblico in concorso e altro». «Si tratta di due denunce - commenta Milazzo - di trent'anni fa: una del '72 e l'altra del '74». Per Milazzo dietro al provvedimento potrebbe esserci il suo impegno a fianco delle famiglie senza casa in lotta da anni. Assieme ad altri attivisti il sindacalista, nel luglio scorso, è stato denunciato per violazione delle disposizioni sulle riunioni in luogo pubblico, avendo tentato di leggere un comunicato, tra l'altro dopo avere avuto il via libera dal vicesindaco, durante il festino di Santa Rosalia. «Agli ufficiali di ps che mi hanno notificato l'atto - protesta Milazzo - ho fatto presente di rivendicare in pieno e di essere orgoglioso di quanto ho fatto in questi anni». Il timore è che il caso sia solo un segnale di una situazione più complessa. Nei giorni scorsi lo stesso questore ha inviato una lettera alla Flai-Cgil ordinando che i forestali che avrebbero dovuto manifestare per il contratto a Palermo non potevano scendere dai marciapiedi. Da qualche giorno è vietato affiggere manifesti e striscioni nei palazzi istituzionali durante le manifestazioni. Il sindaco Diego Cammarata (Fi) ha annunciato un'ordinanza per vietare gli assembramenti «che limitano in modo grave il libero utilizzo degli spazi pubblici e che compromettono il decoro urbano». Il provvedimento è stato predisposto «anche alla luce delle ricorrenti proteste di piazza, che spesso scadono in bivacco».

 

 

IN ITALIA

Disoccupazione boom: passa dal 5,7% al 6,7%

ROMA

 

In Italia la crisi non è prettamente finanziaria (almeno fino a questo momento), ma certamente si aggrava ogni giorno di più quella dell'economia cosiddetta «reale»: ieri è arrivato un dato piuttosto traumatico dal fronte disoccupazione, con un aumento del tasso che ha registrato addirittura un punto in più. Passando dal 5,7% dell'anno scorso, all'attuale 6,7%: la misurazione è relativa al secondo trimestre di quest'anno. Traumatico, dicevamo, perché si conferma una tendenza già inaugurata nel primo trimestre 2008, che vede interrompere un ciclo abbastanza lungo: dal secondo trimestre 2005, infatti, il tasso si era ridotto costantemente, con la gradualità di pochi decimi ogni volta, e pareva viaggiare verso cifre ritenute - almeno dagli esperti - «fisiologiche» (sotto il 4%). Ma nel 2008 c'è stata una brusca inversione di tendenza, e opposizione e Cgil attaccano a proposito le politiche del governo. Anche se, bisognerebbe dire per onestà, il primo semestre 2008 è tutto ancora da ascrivere al governo Prodi. Dall'altro lato, comunque, è da osservare che sono in crescita anche gli occupati, dunque il fenomeno non è di facile lettura. Dunque riferiamo i dati: nel secondo trimestre 2008, le persone in cerca di occupazione sono salite a 1.704.000: ben 291 mila in più rispetto al secondo trimestre 2007; il tasso annuale, come detto, è passato dal 5,7 al 6,7%, mentre sul congiunturale il tasso è passato dal 6,6% del primo trimestre 2008, al 6,8%. Sono cresciuti però anche gli occupati: sono 283 mila in più, mentre il tasso di occupazione sale al 59,2% (+0,4% congiunturale e destagionalizzato; +1,2% annuale, non destagionalizzato). In aumento anche i lavoratori precari, con un trend maggiore rispetto agli stabili (è da segnalare che l'Istat calcola solo i dipendenti a tempo determinato: forme «spurie» come i cococò sono incluse nel calderone indistinto degli «autonomi»): sono 2.443.000, cioè il 14% del totale dei dipendenti (che sono 17.496.000); nel secondo trimestre 2007 erano invece il 13,4%. Se li rapportiamo al totale degli occupati (23.581.000), sono passati dal 9,9% al 10,4%, dunque sono in aumento dello 0,5%; mentre i dipendenti a tempo indeterminato crescono solo dello 0,1% (passano dal 63,7% al 63,8%). L'analisi della Cgil è esposta dal segretario Fulvio Fammoni: «Oggi la disoccupazione cresce per due motivi: gli effetti della crisi, e quindi l'aumento degli ex occupati, in particolare uomini che hanno perso il lavoro; ma anche perché le persone escono dall'inattività - soprattutto donne e nel mezzogiorno - e tornano a cercare un impiego sperando che finalmente non sia precario». «In una fase così grave per il settore produttivo - conclude Fammoni - servirebbe sviluppo e un messaggio di fiducia, non certo la deregolazione che sta attuando il governo».

 

 

  

 

E' guerra fra narcos e autorità

Messico, corpi senza vita ritrovati dalla polizia con orribili mutilazioni. La guerra fra autorità e narcos è appena cominciata

 

 

 

Ogni giorno a Tijuana, città di frontiera, regno incontrastato della criminalità, vengono ritrovati cadaveri di persone uccise dalla violenta guerra in atto, quella fra gruppi legati ai cartelli della droga contrapposti alle forze regolari inviate dal presidente Calderon per contrastare questo tragico fenomeno.

 

I fatti. Anche nelle ultime 24 ore la polizia messicana ha fatto una scoperta macabra: 12 cadaveri, probabilmente di persone legate al narcotraffico, che presentavano evidenti segni di tortura. Mani e piedi legati dietro la schiena, un colpo di pistola alla nuca, ecchimosi ovunque sui corpi e poco lontano un sacchetto di plastica, quelli usati comunemente per fare la spesa pieno di lingue umane. E poi, ancora, un biglietto con un avvertimento lasciato dai killer: “Questo è ciò che succede a che fa la spia a “El Ingeniero” (soprannome di Fernando Arellano Felix uno dei capi più spietati del narcotraffico messicano) e a tutti coloro che lo frequentano. Regolamento di conti, dunque? Tutto è possibile. Ad ogni modo l'area intorno a Tijuana è sempre più spesso al centro della cronaca nera e sembra difficile arrivare in tempi brevi a una soluzione.

 

Da Tijuana. “Sta succedendo di tutto ma non sono autorizzato a parlare di queste cose” racconta Manuel H., un agente di polizia che opera nella zona di Tijuana. “Ci sono molti omicidi e tutti hanno un'unica matrice: i cartelli della droga. Sono organizzazioni potenti che non hanno paura di niente e di nessuno e sfidano il governo centrale. A mio avviso si dovrebbe agire con più energia altrimenti questi ci ammazzano tutti. Sono molto violenti e non si fanno problemi a ammazzare. Non solo. Il fatto di sfigurare i cadaveri, di mutilarli e di farli ritrovare è una netta presa di posizione contro il governo. E' un po' come se dicessero: 'Noi ci siamo e siamo pronti a fare la guerra. Venite che vi aspettiamo'. Ci sono troppi interessi economici sotto. Credo che non rinunceranno mai ai loro traffici. Governo e forze di sicurezza devono essere bravi a correggere questa che è una situazione pericolosa e che se lasciata così potrebbe diventare ben presto ingestibile”.

 

Le indagini. “Non possiamo sottovalutare nessuna ipotesi. Gli omicidi avvenuti negli ultimi tempi potrebbero essere collegati fra loro. Potrebbero far parte della vendetta della malavita per un arresto avvenuto giorni fa di uno degli uomini chiave del cartello di Arellano Felix” dicono i portavoce della Fiscalia della Baja California, che tenta in molti modi di porre fine alla sanguinosa striscia di delitti degli ultimi tempi. Secondo gli esperti i diversi gruppi legati al narcotraffico si combattono per il controllo della regione a cavallo con gli Stati Uniti e quindi, con un mercato dalla richiesta molto ampia. La situazione è gravissima e la guerra della droga ha già causato più di 3.000 morti accertati. E non è servito a riportare la calma l'invio e l'impiego di oltre 35mila nuovi agenti di polizia. E nel frattempo nella zona la paura si fa largo e la maggior parte dei crimini non viene punita. Dai tragici omicidi seriali delle donne di Ciudad Juarez, alle morti sospette di Oaxaca, alle violenze compiute dai paramilitari nel Chiapas, il Messico si sta rivelando come uno dei paesi più oscuri del pianeta dove la legge è quella del più forte.

Alessandro Grandi

 

 

 

BajaurOltre duemila guerriglieri talebani uccisi e almeno sessanta soldati morti. E' il bilancio della grande offensiva militare lanciata lo scorso 7 agosto dall'esercito di Islamabad nell'area tribale di Bajaur, principale roccaforte dei jihadisti pachistani e presunto nascondiglio di Bin Laden e Al-Zawairi. Un bilancio, questo, fornito nel finesettimana dal generale pachistano Tariq Khan, che ignora completamente le vittime civili di questa operazione: almeno cinquecento morti secondo il Satp e oltre trecentomila sfollati di cui ventimila si sono rifugiati oltreconfine, nella provincia afgana di Kunar.

"Non riusciamo a vincerli". I reporter stranieri che nei giorni scorsi hanno, per la prima volta dal 7 agosto, avuto la possibilità di fare una brevissima visita guidata al fronte, raccontano di villaggi distrutti, carri armati bruciati ed elicotteri 'Cobra' di fabbricazione Usa che volano tra le montagne sparando a tutto spiano. "Per finire il lavoro e riportare stabilità qui in Bajaur ci vorrà ancora un mese e mezzo, due al massimo", ha dichiarato alla stampa il generale Khan, mostrando un ottimismo non condiviso tra gli ufficiali pachistani. Uno di loro, dietro anonimato, ha confidato all'inviato dell'Afp che in Bajaur le forze armate pachistane stanno incontrando "una resistenza mai vista dall'inizio delle operazioni nelle Aree Tribali (nel 2003, ndr)"; "Bombardiamo ogni giorno le loro roccaforti con i jet e i Cobra - ha detto il militare - ma non riusciamo a vincerli".

Enrico Piovesana

 

 

Pubblica difesa

A Guantanamo, un ufficiale lascia l'incarico di procuratore, citando ''preoccupazioni morali''

 

 

 

Più delle sentenze della Corte Suprema a favore dei detenuti, più delle critiche da parte della stampa e delle organizzazioni per i diritti umani, che l'intero sistema di Guantanamo abbia qualcosa che non va lo si intuisce dal rifiuto di alcuni ingranaggi di andare avanti così. Come è successo qualche giorno fa, quando un membro dell'accusa nei tribunali militari contro i detenuti ha lasciato l'incarico, citando “preoccupazioni morali” nel trattamento di uno degli imputati. Non solo: chiedendo che gli venga concessa l'immunità, ora intende anche testimoniare in favore della difesa.

 

Il tenente colonnello Darrel Vanderveld, un riservista in servizio per un anno come pubblico ministero a Guantanamo, faceva parte del pool dell'accusa impegnato nel caso dell'afghano Mohammed Jawad, un 23enne nel campo di prigionia dal 2002, quando era ancora minorenne. Jawad è accusato di tentato omicidio per aver lanciato una bomba a mano contro la jeep di due soldati americani e del loro interprete a Kabul. L'inizio del processo nei suoi confronti, che potrebbe condannarlo all'ergastolo, è previsto per dicembre. Secondo Vanderveld, i suoi superiori sono a conoscenza del fatto che Jawad era stato probabilmente drogato prima di quell'episodio, nonché della confessione di due altri detenuti di essere gli autori dello stesso attacco. Ma vogliono omettere queste informazioni dal caso.

 

Il colonnello Lawrence Morris, responsabile della pubblica accusa davanti alle commissioni militari di Guantanamo, ha sminuito il caso spiegando che Vandeveld era semplicemente “deluso dal fatto che i suoi superiori non fossero d'accordo con le sue opinioni”, e che non ci sono i presupposti per i suoi “scrupoli etici”. Ma intanto l'ex accusatore, che nella lettera di dimissioni ha anche protestato contro il maltrattamento del giovane afghano, ha dato agli avvocati di Jawad la disponibilità a testimoniare dicendo cosa sa, nel tentativo di arrivare al patteggiamento e quindi a una pena più mite. Per farlo, però, ha chiesto l'immunità.

 

Vandeveld non è il primo ufficiale giudiziario di Guantanamo che dice signor-no. Non sempre i loro casi sono stati resi pubblici e quindi non c'è certezza sul numero di “dissidenti”, ma si calcola che almeno altre tre persone abbiano lasciato i loro incarichi in protesta contro diverse irregolarità. Il caso più famoso è quello del colonnello Morris Davis, che nell'ottobre dell'anno scorso si dimise sostenendo di aver ricevuto pressioni dal dipartimento della Difesa per occuparsi di casi più “pepati” in vista delle elezioni del 2008. Anche lui alla fine testimoniò in favore della difesa, e in seguitò ha parlato più volte pubblicamente contro le commissioni militari istituite a Guantanamo. Le stesse giudicate incostituzionali dalla Corte Suprema lo scorso giugno, quando i giudici sancirono il diritto dei detenuti di ricorrere presso i tribunali civili negli Usa.

 

Alessandro Ursic

 

25 settembre

Esercito contro narcos per la libertà di voto

Amministrative blindate a Rio de Janeiro

 

 

 

scritto da

Viola Conti

 

Rio de Janeiro si conferma una delle città più violente al mondo. Il Tribunale elettorale superiore (Tse) del Brasile ha infatti deciso di autorizzare l’Esercito a presidiarla in vista delle amministrative del 5 ottobre prossimo. Armi dispiegate a garanzia della libertà di voto. Non bastano dunque poliziotti, agenti della polizia militare e corpi speciali per evitare che il narcotraffico detti legge fra le urne delle favelas più pericolose del paese: occorrerà militarizzare la città. È la prima volta che il Brasile è costretto a smobilitare l’esercito durante una campagna elettorale.  Finora i militari erano stati impiegati solo per proteggere le urne in casi estremi, ma mai per proteggere i candidati.

 

esercito Per il diritto alla libertà di voto. Il governatore dello Stato di Rio, Sérgio Cabral, deve ancora essere ufficialmente consultato, ma intanto si è già detto disposto ad accettare il dispiego di soldati in nome della sicurezza dei cittadini. “L’importante è garantire il diritto alla democrazia”, ha precisato. Di tutt’altro avviso, invece, il vicegovernatore, Luis Fernando Pezão, che si è detto contrario a questa misura tanto estrema.

 

militareContro la dittatura della violenza. Il presidente del Tribunale, Ayres Britto, ha giustificato così l’iniziativa: “Il Tse è obbligato ad assicurare la libertà del processo elettorale. Dobbiamo uscire da questa inerzia, dal marasma e dal conformismo. Non abbiamo il diritto di arrenderci”. Parole che si riferiscono al ricatto che i trafficanti di droga sono soliti fare alla città, tenuta sotto costante minaccia dalle varie bande. Per avere il controllo sul risultato elettorale, infatti, i capi narcos hanno minacciato di ricorrere alla violenza pur di far votare i propri candidati e impedire che vengano, quindi, elette persone lontane dal loro controllo. Avere in mano la maggioranza dei comuni carioca è una questione prioritaria per le bande che si spartiscono il potere e queste elezioni sono una tentazione troppo forte.

 

soldato brasilianoA mali estremi... I militari, dunque, sono visti come l’unica maniera per contrastare questa onnipotenza, visto che molti reparti della polizia sono ormai corrotti dagli stessi narcos. E per permettere ai candidati anti-bande di fare campagna elettorale sono indispensabili scorte armate e incorruttibili.  E’ infatti al vaglio dei responsabili delle elezioni la mappa dei punti più cruciali di Rio, in modo da dispiegare un numero sufficiente di truppe armate fino ai denti e con licenza di sparare.

 

 

Dieci cpt, nuovi di zecca

Costo: 78 milioni di euro. Giro di vite su ricongiungimenti familiari e richiedenti asilo

 

 

 

Un aumento dei 'clandestini' del 60 percento. Quindi, via libera alla costruzioni di dieci nuovi Cpt, centri di permanenza temporanea (quelli con sbarre e filo spinato). Che, nel frattempo, si sono sottoposti a una cosmesi e ora si chiamano Cie, Centri di identificazione ed espulsione. Poi, giro di vite sui ricongiungimenti familiari e sui richiedenti asilo. Roberto Maroni ha avuto l'approvazione dal Consiglio dei ministri. “Sui richiedenti asilo c'è una normativa più stringente – ha sottolineato il titolare del Viminale- visto che l'aumento degli sbarchi di immigrati riguarda soprattutto i richiedenti asilo, con oltre 14.000 domande di cui la metà accolta. C'è la necessità di provvedere a definire meglio le procedure, per evitare un abuso delle domande d'asilo come scorciatoia per rimanere in Italia”. Infatti, testuale del ministro, “il clandestino che arriva viene messo in un centro di identificazione chiuso e controllato da cui non può uscire, mentre un richiedente asilo viene messo in una struttura senza obbligo di permanenza e senza possibilità di essere controllato”.

 

La ricetta del ministro delle impronte digitali costerà settantotto milioni di euro in tre anni per la costruzione di nuovi cpt per gli immigrati e per l'ampliamento di quelli già esistenti.

L'obiettivo e' aggiungere mille posti, raddoppiando quasi l'attuale ricettivita' che e' di 1.160.

Gli sbarchi lungo le coste nazionali, si legge nella relazione illustrativa del Viminale, "rendono urgente adeguare le strutture di trattenimento degli stranieri da espellere alle dimensioni e all'entita' del fenomeno in atto. Per quanto concerne gli sbarchi, infatti, rispetto l'anno precedente si e' verificato un aumento di oltre il 60 percento del numero degli stranieri clandestini arrivati sulle coste nazionali. Alla data dell'11 settembre scorso, gli stranieri sbarcati sono stati 23.604. Nel corrispondente periodo del 2007 e del 2006 erano stati rispettivamente 14.236 e 15.999". Di qui la necessita' di "un piano straordinario di ampliamento della ricettivita' dei centri di identificazione ed espulsione per garantire la migliore funzionalita' delle procedure di espulsione attraverso la costruzione di nuove strutture di trattenimento".

 

L'italiano dalla sintassi contorta del ministero è tutto qui: dieci nuovi centri di detenzione, e le restrizioni di cui sopra. L'opposizione è tiepida, a dir poco ( d'altronde le responsabilità in materia iniziarono proprio dalla cosiddetta 'Turco-Napolitano'). Immediato ilcomunicato dell'Arci: la costruzione di nuovi dieci Cie non ha alcuna giustificazione. È solo «propaganda», utile solo ad «orientare l'opinione pubblica verso la criminalizzazione degli immigrati», creando solo humus per forme di razzismo, dice Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell'Arci. «Non si capisce - dice - la motivazione di Maroni. Non è che con altri Cie ci saranno più espulsioni. Gli sbarchi sono aumentati ma i Cie non sono fatti per chi sbarca ma per chi deve essere espulso ed in attesa di identificazione. La maggior parte delle persone presenti nei Cie sono ex detenuti e in molti ci sono posti liberi». Inoltre, «la percentuale delle persone espulse tramite i centri, rintracciate irregolarmente non supera il 4 percento».

Angelo Miotto

Sudafrica, la vittoria di Pirro

Finita la guerra tra Mbeki e Zuma, il Paese si interroga sul suo futuro

 

 

 

scritto da

Matteo Fagotto

 

 

 

Si è conclusa martedì, con le dimissioni in massa dal governo di tredici tra ministri e viceministri, la lotta per il potere tra Thabo Mbeki e Jacob Zuma. Il presidente sudafricano, costretto lo scorso sabato a dimettersi sotto le pressioni dell'esecutivo dell'African National Congress, abbandona la partita dopo nove anni di dominio della scena politica. L'aver sottostimato le minacce provenienti dall'ala sinistra del partito e il non aver rispettato le regole da lui stesso imposte gli sono stati fatali.

  

Thabo MbekiIn realtà, la condanna a morte sulla carriera politica di Mbeki era stata già emessa lo scorso dicembre, al congresso dell'Anc di Polokwane, dove l'allora presidente aveva dovuto cedere la guida del partito proprio all'arcirivale Zuma. Fino al 2005 braccio destro di Mbeki, quello stesso giorno di dicembre Zuma coronava il suo sogno di tornare al potere, dopo i processi per violenza sessuale e corruzione (entrambi terminati senza esito) che ne avevano minato la carriera politica. Ironia della sorte, Mbeki è stato costretto a dimettersi proprio per presunte interferenze sull'operato della giustizia per favorire una condanna di Zuma. Ma è lecito far dimettere un capo di stato per dei sospetti non suffragati da prove? "E' la stessa cosa che Mbeki fece quando, nel 2005, cacciò Zuma dalla vicepresidenza dell'Anc e del Paese per le sue vicende legali", rende noto a PeaceReporter Pamela Masiko-Kambala, ricercatrice politica presso l'Institute for Democracy in South Africa.

 

La caduta di Mbeki è un evento epocale per la giovane democrazia sudafricana: l'ex-braccio destro di Nelson Mandela, l'artefice del miracolo economico del Paese lascia un Sudafrica più ricco, ma anche molto più disequilibrato socialmente rispetto a dieci anni fa. Se la prosperosa classe media nera deve le sue fortune a Mbeki, non così la pensa la maggioranza della popolazione che ancora vive in condizioni di povertà, e che ha visto in Zuma il suo eroe. "L'aver sottostimato l'ostilità dell'ala sinistra del Parlamento, in particolare dei sindacati e del partito comunista alleati dell'Anc, è stato fatale per Mbeki", spiega a PeaceReporter Ebrahim Fakir, vicedirettore del Centre for Policy Studies. I meriti di Mbeki vanno oltre il campo economico. Il presidente ha dotato il Sudafrica di un sistema di leggi funzionante e di una struttura istituzionale che prima il Paese non aveva. Ma si è progressivamente alienato dalla popolazione, arrivando a non rispettare le stesse regole da lui imposte. "Ha mantenuto al potere un capo di polizia coinvolto in vicende giudiziarie, ha costretto alle dimissioni un procuratore generale, il cui potere è indipendente da quello politico", prosegue Fakir. "Tutti errori che l'opinione pubblica non gli ha perdonato".

 

Jacob Zumaalt="Jacob Zuma" title="Jacob Zuma" v:shapes="_x0000_s1033">Zuma saprà fare di meglio? Il prossimo leader sudafricano è visto come un animale politico, un populista che ha fatto carriera sfruttando le debolezze di Mbeki, ma che dovrà ora reggere alla prova dei fatti. La mancanza di un programma politico che vada oltre le generiche promesse ai poveri fa temere che Zuma non abbia un chiaro disegno per guidare il Sudafrica lungo uno dei momenti cruciali della sua storia. Tra due anni ci saranno i Mondiali di calcio, un'occasione irripetibile per mostrare al mondo la faccia del nuovo Sudafrica, come avvenuto per le Olimpiadi di Pechino della scorsa estate. Un appuntamento che la nazione arcobaleno non può permettersi di mancare.

 

Iraq, il buco nero della ricostruzione

Ex funzionario del governo: sottratti o stornati 13 miliardi di dollari

 

Tredici miliardi di dollari destinati alla ricostruzione rubati o spariti nel nulla. L'entità delle frodi all'interno del governo iracheno, che avrebbe stornato o sottratto l'ingente somma con un complesso sistema di corruzione, è stata svelata da Salam Adhoob, ex capo investigatore della Commissione per l'integrità pubblica, durante un'audizione alla Commissione politica del Partito democratico Usa. "Molti progetti non erano necessari, molti altri non sono stati realizzati. Miliardi di dollari versati nelle casse dei ministeri sono spariti", ha detto Adhoop, dopo aver lasciato il Paese per motivi di sicurezza. Trentadue suoi colleghi sono stati assassinati.

 

Moschea a Baghdad"Corruzione diffusa". Il funzionario della Commissione per l'integrità pubblica racconta di aver riportato la notizia delle frodi all'Ispettorato generale Usa per la ricostruzione in Iraq. La portavoce dell'Ispettorato, Kristine Belisle ha dichiarato che 'il lavoro di Adhoob viene seguito attivamente'. Adhoob è uno dei tre funzionari iracheni ad aver testimoniato ieri di fronte alla Commissione democratica. Anche Abbas S. Mehdi, ex dirigente dell'Agenzia per gli investimenti, ha parlato di 'diffusa corruzione', mentre un altro iracheno, che ha testimoniato in video con voce modificata per motivi di sicurezza, ha raccontato di legami tra funzionari governativi e membri di al-Qaeda per rubare petrolio dalla raffineria di Baiji, a sud-ovest di Kirkuk, e rivenderlo al mercato nero.

 

Poliziotti iracheniForniture difettose. Adhoob ha lavorato tre anni alla Commissione, ascoltando le testimonianze di 200 persone, ed è stato costretto a lasciare il Paese a cause delle ripetute minacce di morte. Il sistema messo in piedi dai funzionari corrotti - secondo il suo racconto - si basava principalmente su due società di facciata create dal ministero della Difesa. Le società avrebbero dovuto comprare aerei, blindati, armi e altre attrezzature con fondi americani per 1,7 miliardi di dollari. Le società vennero pagate, ma in alcuni casi consegnarono solo 'una piccola quantità' dei materiali e, in un caso, recapitarono una partita di giubbotti antiproiettile difettosi che non vennero mai usati.

 

Ostaggi rapiti da terroristialt="Ostaggi rapiti da terroristi" title="Ostaggi rapiti da terroristi" v:shapes="_x0000_s1036">Legami con al-Qaeda. Le società applicarono sovrapprezzi a elicotteri militari e cercarono di vendere apparecchi con più di 25 anni di servizio. Invece di chiedere la restituzione dei pagamenti, sempre secondo Adhoob, il ministero della Difesa rinegoziò i contratti con le due società, accordandosi per la vendita di bagni chimici e cucine che non vennero mai consegnati. Alcune delle indagini dell'agenzia conducono alla scoperta di 'progetti fantasma' mai realizzati, o casi di lavori eseguiti ben al di sotto degli standard di qualità richiesti. In un altro caso, 24,4 milioni di dollari furono spesi per una centrale elettrica nella provincia di Niniveh che non fu mai costruita. Infine, alcuni dei fondi sarebbero stati stornati dal ministero della Difesa ad al-Qaeda e depositati in conti correnti in Giordania e altrove.

Luca Galassi

Lettera aperta di un papà preoccupato

Lettera aperta al sindaco Letizia Moratti di un padre preoccupato. E un pesante interrogativo su istituzioni e razzismo

 

 

 

Abdul Guiembre, ucciso a MilanoAbdul Guiebre, cittadino italiano, è stato ucciso domenica mattina a colpi di spranga in Via Zuretti, poco distante dalla stazione centrale di Milano. Aveva rubato, con due amici, dei dolciumi in un bar. Quei dolciumi hanno scatenato  un inseguimento dei gestori dell'esercizio. Poi le bastonate e le sprangate. Abdul, 19 anni, è rimasto a terra. Gli arrestati, padre e figlio, nel corso del pestaggio gli urlavano "negro di merda".  

 

 

Gentile signor Sindaco,

 

        Sono un papà preoccupato. Mio figlio ha 10 anni da pochi giorni. Sono preoccupato come tanti padri per quello che potrebbe succedergli quando tra qualche anno uscirà la sera; l’alcool, la droga, l’auto. Quando torni? Stai attento, non fare stupidaggini. Ti fidi, è tuo figlio…Non puoi mica rinchiuderlo perché hai paura. Ma se diventare grandi non è facile, vederli crescere fa anche un po’ paura.

Ma oggi sono preoccupato perché il mio ragazzo ha la pelle scura.

 

Guardo le foto di Abdul Guiebre sui giornali e gli occhi si spostano su quelle di mio figlio, qui sulla mia scrivania. Come sarà tra 5 o 6 anni? Ma soprattutto cosa avranno già sentito le sue orecchie?  Comincia a succedere già oggi. Quest’estate in spiaggia, mentre lui giocava con altri bambini, un signore scocciato gli ha detto negro di merda. Ha fatto finta di non sentirlo; ma solo finta, perché poi me ne ha parlato e mi ha detto che ha pensato che quel signore fosse uno stupido ignorante.La cosa che mi ha fatto più male è che ho capito che si sta abituando alla stupidità, all’ignoranza. La prima volta che era successo che qualcuno lo apostrofasse con riferimenti al suo colore era stato un bambino: “Sei marrone come la cacca”. Erano stati pianti e lacrime. Qualche anno prima un tale l’aveva chiamato Bin Laden, ma per lui appena arrivato dal Brasile era una delle tante cose nuove e incomprensibili che gli stavano capitando per la prima volta, come la neve, gli spaghetti e o mia bela madunina

 

Stasera tornerò a casa e gli racconterò di Abdul, leggeremo insieme il giornale e cercherò di spiegargli che cosa è successo. Ma non sono tanto sicuro di riuscirci. Perché dovrei dirgli che oggi ci sono persone che hanno paura di quelli con la pelle scura come la sua. Ma la colpa, amore mio, non è del colore della pelle, piuttosto di quello che quelle persone hanno nella testa e nel cuore. E a quelle persone bisogna spiegare che il colore della pelle non c’entra. Ma non basta che glielo spieghiamo noi, il compito è soprattutto di chi ci governa. E a quel punto mi chiederà perché non lo hanno ancora fatto. Se lo avessero fatto, forse quel ragazzo sarebbe ancora vivo.

 

Sindaco Moratti, le giro questa domanda di mio figlio. Perché non lo avete fatto?

 

Marco Formigoni

 

Cessate il fuoco

Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n. 36 - 2008 dal 11/09/2008 al 17/09/2008

 

Nell'ultima settimana, in tutti i Paesi in guerra, sono morte almeno 1041 persone

Iraq
Nell'ultima settimana sono morte almeno 196 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 9.134

Sri Lanka
Nell'ultima settimana sono morte almeno 148 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 6.962
 
Afghanistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 116 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 4.624

Pakistan Talebani
Nell'ultima settimana sono morte almeno 439 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 3.336

Somalia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 6 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.041

India Nordest
Nell'ultima settimana sono morte almeno 28 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 521

Turchia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 482

India Naxaliti
Nell'ultima settimana sono morte almeno 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 435

Nord Caucaso
Nell'ultima settimana sono morte almeno 21 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 441

Israele - Palestina
Nell'ultima settimana sono morte almeno 14 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 430

India Kashmir
Nell'ultima settimana sono morte almeno 42 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 426

Thailandia del sud
Nell'ultima settimana sono morte almeno 10 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 279

Nigeria
Nell'ultima settimana è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 227

Filippine Npa
Nell'ultima settimana sono morte almeno 6 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 199

Colombia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 175

Burundi
Nell'ultima settimana sono morte almeno 4 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 129

Nepal
Nell'ultima settimana è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 54

Bangladesh
Nell'ultima settimana è morta almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 37

 

 

CLIMA: DA METANO ARTICO PROSSIMA CATASTROFE ECOLOGICA

(ANSA) - LONDRA - Milioni di tonnellate di metano - un gas 20 volte piu' dannoso dell'anidride carbonica per il suo contributo all'effetto serra - si apprestano ad 'esplodere' nell'atmosfera, rischiando di provocare una catastrofe ecologica. E' questo l'allarme lanciato oggi sulle pagine dell'Independent. Il quotidiano britannico e' stato il primo a parlare con gli scienziati che hanno raccolto le prove che lo scioglimento dei ghiacci e del permafrost nella regione artica sta permettendo agli enormi depositi di gas metano sottostanti di liberarsi nell'atmosfera, replicando una dinamica che gia' in passato aveva causato drammatici cambiamenti del clima.

Secondo quanto scrive oggi il giornale, un'equipe di scienziati che ha navigato lungo l'intera costa settentrionale della Russia ha rilevato concentrazioni estremamente alte (a volte 100 volte superiori ai livelli normali) di metano in diverse aree di parecchie migliaia di chilometri quadrati della Siberia. Negli ultimi giorni, inoltre, i ricercatori hanno visto il mare ribollire a causa del gas che e' riuscito a attraversare lo strato sottomarino di permafrost, ora in fase di scioglimento. ''In precedenza, avevamo documentato livelli elevati di metano gia' sciolto nell'acqua. Ieri, per la prima volta, abbiamo trovato un punto in cui l'emissione di metano era cosi' intensa che il gas non aveva il tempo di sciogliersi nell'acqua e giungeva in superficie sotto forma di bolle'', ha scritto qualche giorno fa in un'email Orjan Gustafsson, uno degli studiosi della spedizione scientifica a bordo della nave russa 'Jacob Smirnitskyi'. Quanto registrato dagli studiosi sarebbe l'inizio di un ciclo devastante: la fuoruscita di metano accelererebbe esponenzialmente il surriscaldamento globale provocando a sua volta lo scioglimento di altro permafrost e di conseguenza liberando nell'atmosfera altro metano ancora: con il risultato di innescare un meccanismo inarrestabile.

I risultati preliminari raccolti dagli studiosi a bordo della 'Jacob Smirnitskyi' verranno pubblicati dalla American Geophysical Union dopo essere statu elaborati e studiati da Igor Semiletov dell'Accademia delle scienze russa. E' dal 1994 che Semiletov controlla i livelli di metano che fuoriescono dal permafrost: ma mentre negli anni Novanta non aveva mai rilevato livelli elevati del gas, a partire dal 2003 ha trovato diverse ''sorgenti''. Negli ultimi decenni la temperatura delle zone artiche e' salita di circa 4 gradi centigradi, facendo diminuire in maniera notevole l'estensione delle aree coperte da ghiacci anche durante l'estate. Secondo gli scienziati la perdita della coltre di ghiaccio rappresenta un'ulteriore spinta per un surriscaldamento globale sempre piu' rapido, dato che l'oceano assorbe piu' calore di quanto invece viene riflesso dalla superficie ghiacciata. (ANSA).
 

Paradigma Mariastella

Il ministro Gelmini è l'emblema della nuova ideologia di destra, portatrice di una modernizzazione reazionaria

Mariastella Gelmini

Più di Brunetta, e più di Tremonti, il ministro Mariastella Gelmini impersona lo spirito autentico del governo Berlusconi. La trentacinquenne Gelmini campeggia su copertine e fotografie agghindata in abiti colorati, in uno stile che ricorda gli anni Cinquanta, a cui gli occhiali da vicepreside aggiungono un tocco 'vintage'.

Ma ciò che più interessa, e la rende un emblema della nuova ideologia di destra, è la sua azione e le idee che la ispirano. Il ministro Gelmini infatti è la portatrice dell'autentico pensiero che anima il governo, già identificato come portatore di una modernizzazione reazionaria (o se si preferisce di una restaurazione modernizzatrice: sempre di ircocervo si tratta).

Per questo la Gelmini va presa alla lettera. E alla lettera vanno presi i pilastri della sua opera. Per dire, il recupero del grembiule e del voto in condotta non sono semplici proclami demagogici: costituiscono gli indizi di un metodo, secondo il quale problemi complessi si risolvono con operazioni semplici, fra gli applausi di una società vecchia e stanca, che rimpiange la propria modesta gioventù.

Chi scrive ha avuto la ventura di frequentare la scuola materna e le elementari in una provincia bianca degli anni Cinquanta, dove i maestri comandavano 'mani in prima' e 'mani in seconda' ('in prima' dovevano essere appoggiate sul banco; 'in seconda' portate dietro la schiena). All'asilo, le suore punivano i bambini cattivi con castighi graduali che cominciavano con la pacca della riga da sessanta centimetri sul palmo della mano, potevano passare al cerotto sulla bocca e giungere a legare i troppo vivaci alla sedia con una fune grossa due centimetri.

Perché non recuperare queste usanze? Solo perché non lo consente il buonsenso? Ma il buonsenso non è una categoria politica, l'importante è reagire al "nullismo"

, come lo chiama Tremonti, del Sessantotto, ripristinare il principio di autorità, recuperare una società ordinata. E se questo non basta, sarà bene applicare integralmente tutte le soluzioni o le fissazioni del ministro Gelmini: a cominciare dall'eccellente idea di tornare al maestro unico (o per meglio dire alla maestra unica, vista la composizione del corpo insegnante alle elementari).

La polemica contro il 'modulo', cioè contro la riforma che portò alle équipe coordinate di insegnanti è un vecchio tema di destra, che si è sempre nutrito di considerazioni in parte economiche e in parte filosofiche. Certo, tre insegnanti al posto di uno costano di più, anche se non tre volte di più, e possono apparire una soluzione corporativa alla crisi demografica, secondo lo slogan 'meno bambini, più maestri'.

Le critiche filosofiche invece hanno sempre preso di mira il fatto che il 'modulo' rappresenterebbe un attentato alla libertà d'insegnamento e un attacco gravissimo alla psicologia degli alunni, disorientati dalla varietà delle figure di riferimento.

Nessuno dei fautori del ritorno all'insegnante unico, in politica, ha mai chiesto che si procedesse a valutazioni empiriche sui risultati della scuola elementare, e a confronti con la scuola primaria almeno europea, sui metodi, sulle peculiarità delle pedagogie nazionali. Magari si scoprirebbe che il 'modulo' è una schifezza, ma finora ha funzionato. Magari l'Europa è più avanti, è più indietro, è più di lato, ma l'insegnante multiplo non l'abbiamo inventato noi.

Invece no. Ciò che importa è trasmettere l'idea di un proficuo ritorno al passato, all'ordine, al merito (si fa per dire, naturalmente: sappiamo che la meritocrazia, come la concorrenza, si applica agli altri). È la restaurazione selettiva, rivolta preferibilmente verso inemici di classe, che per il momento potrà piacere a un paese vecchio mentalmente e provinciale culturalmente, che crede di poter riassaporare i metodi di una tradizione già da un pezzo in frantumi.

Illusioni. Illusionismi. Il tentativo di far credere che i problemi si risolvono a partire dalla coda, guardando a un tempo che non esiste più, quando si faceva la buona azione quotidiana e i dodicenni non compravano la cocaina all'angolo di strada. E allora avanti, c'è modo di fare di più e meglio: abolire la sciagura famigliare del divorzio, tornare all'adulterio punito con il carcere.

E quanto alla scuola, ridateci i meravigliosi professori di 'Amarcord' con i loro tic, quello là che vuol tenere intatta la cenere della sigaretta, quella lì che scandisce "la pro-spet-ti-va!". Tutto stupendo, anche secondo il sessanta per cento degli italiani che nei sondaggi mostrano di gradire: ma noi, noi anime prave, che cosa abbiamo fatto di male, per meritarci tutto questo?

 

Donne ebree, la doppia persecuzione del fascismo

Negli archivi del ministero dell'Istruzione ritrovati documenti inediti sulle discriminazioni messe in atto dopo le leggi razziali

di Benedetta Fallucchi

L’Italia del 1938. L’Italia delle leggi razziali. Con una serie di provvedimenti, tra l’estate e l’autunno, prendono forma le disposizioni del regime nei confronti dei cittadini ebrei. Tra questi uno dei più importanti è il Regio decreto legge del 5 settembre, “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista”. Per una strana ironia della sorte, porta la stessa data anche il Decreto legge che disciplina la presenza delle donne all’interno degli uffici pubblici e privati (il n.1514). Il personale femminile non deve superare il 10 per cento degli occupati. Le impiegate in eccedenza rispetto alla quota consentita verranno poste in pensionamento anticipato o licenziate.

Doppia persecuzione
Il 6 settembre 1938 per un maschio ebreo la vita è diventata quasi impossibile – specialmente per coloro che lavorano nell’insegnamento. Per una donna ebrea, del tutto. Vittima di una duplice discriminazione: in quanto ebrea e in quanto donna. Nonostante il ritardo della storiografia italiana, la condizione femminile durante il fascismo è stata abbastanza esplorata. Si è evidenziato a più riprese l’atteggiamento ipocrita e contraddittorio del regime verso le donne. Da un lato spinte alla modernizzazione, al coinvolgimento attivo come cittadine e supporter, dall’altro relegate a un ruolo che riconosce loro centralità quasi esclusivamente per fini riproduttivi. In questo senso anche la legislazione di tutela per le donne incinte e per le madri viene ad assumere il carattere, come è stato notato, di una “protezione discriminatoria”. Durante il fascismo le aspirazioni occupazionali delle donne trovano progressivi sbarramenti. Si creano immagini stereotipate della donna, dalla mondina alla segretaria, legate all’impossibilità materiale di seguire percorsi differenti rispetto a quelli strettamente consentiti dalla legge. La strada è segnata da passaggi stabiliti: dalla creazione di scuole per sole donne fino alla tassonomia delle professioni più “consone” al genere femminile. Tanto che “è un dato di fatto che il lavoro stesso costituisce per la donna non una meta bensì una tappa della sua vita, da risolversi prima possibile con il rientro nell’ambiente domestico” (Primo convegno nazionale del lavoro femminile commerciale, 1940). Com’è evidente, le più danneggiate saranno coloro che cercheranno di intraprendere percorsi occupazionali di alto livello: all’interno delle università o nell’esercizio di professioni che sono appannaggio quasi esclusivo degli uomini. In questo senso un aiuto per illuminare meglio le residue zone d’ombra proviene da una ricerca condotta da Sandra Riccio e dal progetto teatrale da questa germogliato (Intanto le donne, di Maria Luisa Bigai). Cominciamo dall’inizio. Sandra Riccio collabora dal 2003 al 2006 a un progetto di ricerca per l’Università di Berlino sulle donne e le libere professioni nel Novecento, occupandosi del materiale relativo all’Italia. Si imbatte in 552 faldoni, stipati in un sotterraneo del ministero dell’Istruzione. Sono le domande di abilitazione alla libera docenza nel ventennio 1930-1950. Nessuno ha mai aperto quei fascicoli. Eppure raccontano molte cose. Il campo si restringe e l’analisi si fa mirata sulle donne nell’università italiana durante il fascismo. Emergono così varie storie, di donne italiane ed ebree, le loro vittorie e sconfitte nella lotta alla discriminazione di genere (e, come si diceva allora, di “razza”).

La riforma Gentile
Su 10mila candidati che fanno richiesta per l’abilitazione, soltanto 310 sono donne (poco più del 3 per cento). Inoltre le richieste di abilitazione hanno quasi sempre a che fare con discipline scientifiche. In qualità di ministro dell’Istruzione, Giovanni Gentile si era infatti premurato di escludere le donne dall’insegnamento di materie umanistiche, lasciando loro le vili scienze, come matematica, fisica e scienze naturali. Anche con un numero di titoli superiori rispetto a quello dei colleghi maschi, le probabilità per una donna di veder accettata la propria candidatura sono nettamente inferiori. Oltre all’iscrizione al partito, prerequisito che va al di là dell’appartenenza di genere, le candidate devono anche tenere una condotta morale di specchiata virtù. Una lettera del prefetto accompagna le domande delle donne, specificando variabili economiche e familiari, la condizione – se nubile o sposata – e il comportamento pubblico. C’è chi per questo non potrà essere ammesso. È il caso di Maria Accascina, che nel 1939 fa richiesta per la libera docenza di Storia dell’arte medievale e moderna. Ma, secondo il prefetto, “la sua condotta morale è alquanto discussa in qualche ambiente dove sono note relazioni intime da lei coltivate nel passato”. Il che significa che la dottoressa ha un comportamento improprio. Tanti i nomi, tante le storie e diverse le motivazioni che impedirono o permisero l’accesso alla libera docenza. Come Teresa Labriola, figlia del filosofo Antonio e fervida seguace del regime, la prima donna avvocato nel 1919, che pure non riuscì ad accedere all’insegnamento e il massimo che ottenne fu di essere ammessa nella terna finale dell’esame. O come Ginestra Amaldi, a cui Orso Maria Corbino non concederà di continuare a svolgere attività di ricerca poiché contrario alla presenza di donne all’Istituto di Fisica di Via Panisperna. Ma, come detto, colpiscono in modo particolare le vicende delle donne ebree. Perché nei documenti, spesso del dopoguerra, le loro vicissitudini sono in controluce, hanno il sapore del dopo, degli spazi bianchi, del vuoto – anche documentale – prodotto dalle leggi razziali. Ad esempio: Angelina Levi aveva vinto una prima battaglia, come donna, nel 1929, ottenendo l’abilitazione alla docenza di Farmacologia e Farmacognosia. Ma dalla lettera indirizzata al ministero veniamo a sapere che, nel dopoguerra, in seguito alle leggi razziali e all’occupazione nel 1943 della sua abitazione da parte delle Brigate nere, rischia di perdere l’insegnamento: gli attestati che comprovano la sua abilitazione sono andati smarriti.

Il suicidio di Enrica Calabresi
Stessa sorte che toccò a Enrica Calabresi, abilitata alla docenza in Zoologia nel 1924, il cui nome, a seguito delle leggi razziali, scompare dalla lista dei liberi docenti dell’Università di Firenze, come si ricostruisce da una lettera del 1956 dal ministero al rettore. Un riconoscimento troppo tardivo, però. Enrica, pur avendo perso il lavoro, aveva voluto rimanere nella sua città, Firenze. E quando nel 1944 l’andarono a prelevare nella sua abitazione, decise che, piuttosto che cadere nelle mani dei nazisti, si sarebbe data la morte da sé. E lo fece: nella notte tra il 19 e il 20 gennaio, con una fiala di fosfuro di zinco. Forse si può chiudere questa carrellata e dire che oggi le cose sono un po’ diverse, affermare – utilizzando il titolo dell’autobiografia di Margherita Sarfatti, celebre intellettuale ebrea nonché amante del Duce e primo demiurgo del mito di Mussolini, poi esule dall’Italia a causa delle leggi razziali – che è Acqua passata. Ma qualche dubbio rimane. Raccontano Sandra Riccio e Maria Luisa Bigai che, nella ricerca di fondi per lo spettacolo teatrale, hanno incontrato alcune (donne, per di più) che hanno bollato il loro lavoro come “femminista”, quindi di parte. Perplesse, non hanno potuto far altro che replicare: “Veramente noi lo pensavamo come un progetto di storia!”.

 

 

 

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