28 ottobre

Sudafrica, è guerra tra poveri
Nelle baraccopoli riesplodono le violenze tra comunità. Cronaca del fallimento di un Paese
 
scritto da
Matteo Fagotto
Duecento lettere. Duecento avvisi di morte recapitati ad altrettanti negozianti somali della provincia sudafricana di Western Cape. O chiudete i vostri negozi entro due settimane, o ne subirete le conseguenze. Ancora scioccata delle violenze xenofobe che lo scorso maggio uccisero almeno 65 immigrati, la comunità somala chiede aiuto alle autorità, che per il momento tacciono. Dall'altra parte della barricata, milioni di sudafricani indigenti, che non vogliono vedersi togliere il pane di bocca e sono disposti a uccidere pur di preservare le loro miserie dalla concorrenza degli stranieri. In mezzo, un Paese incapace di proteggere gli uni e di garantire un futuro decente agli altri. E' la storia di un fallimento chiamato Sudafrica.
 
Maggio 2008, una poliziotta allontana un bambino dalla zona degli scontriHa la voce rassegnata Mohammed Hirsi, il portavoce nazionale della comunità somala, mentre racconta a PeaceReporter l'aggressione subita lo scorso maggio. "Una folla inferocita è entrata nel mio negozio, distruggendo tutto da cima a fondo", ricorda. "Ho perso ogni cosa. Ho dovuto ripartire da zero. E ora la storia si ripete". Da anni vittima di violenze e rappresaglie che hanno provocato centinaia di morti, la comunità somala è tornata nel mirimo degli abitanti delle townships, le baraccopoli locali che circondano Città del Capo. Stanchi di subire la concorrenza dei somali, i negozianti di Khayelitsha hanno deciso di cacciarli, con le buone o con le cattive. Negli ultimi mesi, almeno sei somali sono stati uccisi mentre erano al lavoro. Dai loro negozi, però, non è stato rubato nulla. Un messaggio fin troppo chiaro. "Ma inquadrare queste tensioni come attacchi di xenofobia non coglie quello che è il problema principale: la competizione per un numero limitato di risorse, in un ambiente povero come quello delle townships, spiega a PeaceReporter Abdul Fattaag Carr, rappresentante del Muslim Judicial Council, un'associazione religiosa che fornisce assistenza agli stranieri vittime di violenze.
 
Tra tutte le comunità del Sudafrica, quella somala vanta il triste primato delle maggiori violenze subite. Giunti negli anni '90 a causa della guerra civile in patria, i somali sono stati tra i primi a stanziarsi in un Paese ancora povero e alle prese con gli strascichi dell'apartheid. Finiti nelle township assieme alle classi meno abbienti, col tempo i somali hanno creato una rete economica florida, che si appoggia sui forti legami all'interno della comunità. Ma cosa succede quando a pagarne le conseguenze sono i più poveri tra i poveri? "Mi piange il cuore a vedere gente che non ha i soldi per comprare un pezzo di pane o mandare i propri figli a scuola", spiega a PeaceReporter Mandisi Njoli, segretario della Camera di Commercio federale di Khayelitsha. "Nelle township non ci sono regole, la concorrenza è selvaggia. Gli stranieri vengono qui e aprono le attività, senza documenti e senza un accordo con le comunità locali. Tutti i negozi sono gestiti da loro, mentre la gente del posto muore di fame".
 
Immigrati raccolgono quel che resta della loro casa distruttaSolo nella provincia di Western Cape, le violenze di maggio hanno fatto 20.000 sfollati. Di questi, ancora 1.400 vivono nei campi allestiti dal governo, che ha metà settembre ha chiuso la maggior parte delle strutture di accoglienza. Gli immigrati che non sono scappati dal Paese hanno dovuto far ritorno alle proprie case, o a quello che ne rimane. Molti senza più un lavoro o una prospettiva economica, alla mercé di una popolazione che li vede come nemici. Se da maggio i morti sono drasticamente diminuiti, è solo perché il problema è stato nascosto sotto il tappeto, ma le ceneri covano ancora.
 
"Se il governo avesse fatto qualcosa prima, le violenze di maggio si sarebbero potute evitare", continua Njoli. La sua frase è una sinistra minaccia per il futuro. Impegnate nel raccogliere i cocci delle lotte fratricide all'interno dell'African National Congress, le autorità non paiono intenzionate a risolvere il problema. Confinata nelle township, la lotta tra somali e sudafricani rimarrà un conflitto tra poveri, lontano dalle telecamere e dai quartieri per ricchi di Città del Capo. Divisi da un destino che li vede impegnati in una lotta per la sopravvivenza, Hirsi e Njoli sono d'accordo solo su una cosa: il fallimento di un Paese che, 14 anni fa, era considerato il faro della democrazia africana. "Mio padre era un militante dell'Anc. Ha dato la sua vita per questo Paese, e cosa abbiamo ottenuto?", conclude il commerciante di Khayelitsha. "Abbiamo solo sostituito l'apartheid tra bianchi e neri con quello tra ricchi e poveri".
 
 
 Georgia, attenti all'Abkhazia
Dopo la guerra in Ossezia, si rischia un altro conflitto
Spentisi i riflettori dei mass media sul conflitto in Ossezia del Sud, la Georgia è ripiombata nel dimenticatoio. Ma questo non significa che tutto sia finito.
Se sul fronte sudosseto la tregua sembra reggere, rischia invece di riesplodere l'altro conflitto separatista, quello riguardante la ben più estesa e strategica regione dell'Abkhazia.

Il presidente abkhazo Sergei BagapshBagapsh: "Risponderemo alle provocazioni georgiane". Sabato sera, colpi di mortaio sparati dal villaggio georgiano di Ganmukhuri  hanno colpito una postazione delle milizie abkhaze nel villaggio di Pichori, nel distretto di Gali. Un militare separatista è rimasto gravemente ferito. E' seguito un violento scontro a fuoco durato cinque minuti. "Oramai capita ogni giorno", ha dichiarato il presidente abkhazo Serei Bagapsh. "Sul confine con la regione di Gali i georgiani hanno lanciato un'operazione terroristica di provocazione su larga scala. Ma vedo che gli osservatori europei non agiscono. Ma d'ora in avanti risponderemo a questi attacchi con tutta la forza a nostra disposizione, carri armati compresi".

La regione calda di GaliUna pericolosa escalation di attacchi e contrattacchi. L'attacco georgiano di sabato è stato probabilmente una rappresaglia per l'attentato che al mattino aveva ucciso il sindaco del villaggio georgiano di Muzhava, nel distretto di Tsalenjikha, a ridosso del confine amministrativo con l'Abkhazia. Nell'esplosione era rimasto ucciso anche un altro civile georgiano.
Un'azione che, a sua volta, potrebbe essere stata ordinata in risposta agli 'omicidi mirati' compiuti in Abkhazia, secondo i separatisti, da unità speciali dell'esercito georgiano. Venerdì un amministratore locale abkhazo era stato ucciso in un agguato nel villaggio di Dikhazurga, nel distretto di Gali. E mercoledì, a Gali città, era stato assassinato il capo dell'intelligence militare abkhaza assieme ad altre due
persone.
 
 
IL PENTAGONO Mano libera ai militari. Convocata a Damasco la rappresentante Usa
«No comment», e Bush fa finta di niente
Matteo Bosco Bortolaso
NEW YORK
 
Dalla Siria al Pakistan, gli Stati Uniti possono intervenire senza dover giustificare niente a nessuno. Sembra questa la linea adottata da Washington, che nel weekend ha dato il via libera ad un'operazione al confine iracheno-siriano mirata, probabilmente, a presunti esponenti di al Qaeda.
Un raid simile alle recenti incursioni americane anti-taleban al confine tra Afghanistan e Pakistan. In teoria Islamabad è un alleato, ma è troppo debole per intervenire contro i presunti terroristi. E quindi ci pensa Washington. «Le questioni sono passate nelle nostre mani», ha ammesso un ufficiale americano alla Associated Press, chiedendo di rimanere anonimo. In pubblico nessuno, dalla Casa Bianca al Pentagono, ha voluto parlare del raid. Dana Perino, portavoce del presidente George W. Bush, si è trincerata dietro un «no comment». Idem per il collega del dipartimento della difesa, Bryan Whitman. E pure per quello del dipartimento di Stato, Sean McCormack, che si è limitato a dire che Maura Connelly, diplomatica americana e incaricata d'affari in Siria, è stata convocata dal ministero degli esteri di Damasco.
«Lei si è presentata, ha ascoltato quanto i siriani avevano da dire, è stata informata che vi erano state attività ad Abu Kamal, località vicina al confine tra Iraq e Siria - ha detto il portavoce - oltre a questo, non ho altri commenti da fare».
Ma qualcuno al Pentagono - chiedendo l'anonimato alla CNN - ha detto che l'operazione è stata «un successo» perché ha colpito Abu Ghaduya, un importante trafficante d'armi in contatto con al Qaeda. «Quando si è di fronte ad un'occasione importante, bisogna coglierla - ha detto - è esattamente quanto le truppe americane aspettavano, in particolare quando si tratta di combattere contro stranieri che entrano in Iraq e minacciano le nostre forze armate».
Giorni fa i responsabili militari in Iraq avevano avvertito che l'esercito stava controllando sempre più da vicino il confine tra Iraq e Siria, il quale sarebbe la porta d'entrata in Iraq per molti combattenti stranieri. Secondo fonti di intelligence, ogni mese una ventina di uomini cercano di infiltrarsi in territorio iracheno. Un anno fa erano molti di più, forse un centinaio al mese.

 
 
 
Guerra senza frontiere
Stati Uniti all'attacco in tutto il mondo
Il raggio d'azione delle forze armate Usa non conosce più confini. In nome della guerra 'globale' al terrorismo, gli Stati Uniti - mai come ora - colpiscono in ogni angolo del mondo: dall'Iraq all'Afghanistan, dalla Siria alla Somalia, dalle Filippine al Pakistan - dove dall'inizio dell'anno gli Usa hanno ucciso oltre 350 persone in più di trenta raid aerei.

Caccia UsaIraq, Afghanistan, Filippine e Somalia. Nonostante i nostri giornali e telegiornali non parlino più, in Iraq e in Afghanistan ogni giorno i caccia statunitensi F-15 ed F-16 e i bombardieri B-1 sganciano tonnellate di bombe: una media giornaliera di 40 raid in Iraq e 60 in Afghanistan.
Nessuno parla nemmeno del quotidiano impegno delle forze speciali Usa nel sud delle Filippine contro i locali gruppi ribelli islamici legati ad Al Qaeda, o delle giornaliere operazioni di pattugliamento aero-navale condotte dalle forze Usa in Somalia e spesso accompagnate da attacchi aerei mirati (l'ultimo lo scorso 1° maggio).

Proteste antiUsa in PakistanSiria, ma soprattutto Pakistan. Se l'attacco condotto domenica in Siria da un commando di truppe aviotrasportate Usa ha suscitato un certo scalpore mediatico (ma nemmeno poi tanto), nessuno si scandalizza invece per l'incredibile serie di bombardamenti statunitensi in Pakistan: 32 raid da gennaio, 16 solo negli ultimi due mesi. Bombardamenti per lo più missilistici (e un'azione di commando condotta lo scorso 3 settembre) che solo quest'anno hanno causato la morte di 301 civili, 36 terroristi e 18 militari pachistani. Islamabad protesta, ma questo non cambierà i sempre più spregiudicati piani militari statunitensi. 
 
PERUGIA Il Gip dispone nuovi accertamenti sulla morte in carcere dell'uomo, un anno fa
Si riapre il caso Bianzino
Fino al giorno prima per il medico stava bene. Giallo sulla cella aperta
Emanuele Giordana
 
Per la magistratura di Perugia il caso di Aldo Bianzino non è chiuso. Il giudice per le indagini preliminari Massimo Ricciarelli ha infatti ordinato al pubblico ministero Giuseppe Petrazzini ulteriori accertamenti medico legali che possano fare chiarezza sull'oscura vicenda di una morte di carcere. Una notizia che riaccende il filo della speranza nei famigliari dell'ebanista di Pietralunga che, arrestato per detenzione di erba, entrò con la sua compagna nel carcere di Capanne il 12 ottobre di un anno fa per uscirne senza vita due giorni dopo.
Dopo la sua morte, l'indagine aveva fatto decidere a Petrazzini per l'archiviazione: Aldo è morto per cause naturali, un aneurisma scoppiato all'improvviso che ne ha causato il decesso. Una bomba a tempo di cui risponde solo la natura. Ma la famiglia di Aldo, e in particolare la compagna Roberta Radici, non si dà per vinta. Per i genitori di Bianzino, i suoi figli, gli amici, la verità sembra troppo lontana per accettare l'archiviazione e, al più, un risarcimento danni in sede civile. A luglio l'avvocato Massimo Zaganelli presenta una corposa memoria facendo opposizione all'archiviazione. Ad agosto si viene a sapere che il Gip, che avrebbe potuto rifiutarla, l'ha invece accolta: studia le carte e, evidentemente, resta colpito da una ricostruzione in cui l'indagine appare, secondo i familiari di Aldo, lacunosa e con molti interrogativi, a cominciare da un fegato spappolato, come strappato via dalla sua sede naturale. Il 17 ottobre il Gip convoca il Pm e le parti, ossia i legali della famiglia. E infine scrive la sua ordinanza che riapre i giochi.
Non si limita il Gip a chiedere ulteriori accertamenti medico legali e ad esigere dunque un'indagine più completa ma auspica anche che il magistrato inquirente utilizzi nuove figure professionali per vederci più chiaro: professionisti esterni con cui setacciare tutte la sequenza di quei giorni che lasciarono nel corpo di Aldo almeno un segno evidentissimo sul suo fegato. Quali potranno essere questi nuovi consulenti? Forse internisti o esperti di rianimazione ma forse anche neurochirurghi in grado di capire, se effettivamente Aldo morì di aneurisma (una sorta di sacca che si forma nel tessuto arterioso), cose ne provocò lo scoppio proprio quella notte. Ma c'è di più. Il Gip consiglia nuove escussioni dei testi già sentiti una prima volta, forse allargando il giro delle testimonianze: gli uomini della penitenziaria, i responsabili del carcere, i medici che visitarono Bianzino appena morto, gli altri detenuti. Ad esempio il dottore del carcere che lo visitò il giorno dopo il suo arresto trovandolo calmo e in buona salute. E che non fu mai interrogato. Ma questa è materia del Pm cui spetta, seguendo le indicazioni del Gip, ricostruire nuovamente l'oscura vicenda consumatasi nel silenzio assordante di una morte «normale», mentre i riflettori della cronaca si erano ormai accesi - e ancora continuano ad esserlo - su un giallo certamente più eccitante per la cronaca: l'omicidio della povera studentessa britannica Meredith Kercher, avvenuto solo qualche giorno dopo e da allora caso nazionale ben oltre le mura del carcere di Capanne di Perugia.
Ma di giallo ce n'è purtroppo parecchio anche nel caso di Aldo Bianzino, a cominciare proprio dai detenuti. Sembra che nel video girato dal sistema a circuito chiuso del carcere appaia aperta la porta di una cella. I detenuti negano che fosse una delle loro e i legali di parte sono convinti che si trattasse di quella di Aldo. Che fu trovato praticamente nudo in corridoio dai suoi soccorritori arrivati troppo tardi. La dinamica resta gravata da una nebbia fittissima e troppe cose non tornano, dal suo stato di salute all'ingresso in carcere, al momento della rianimazione fino alle prime perizie che subito riscontrarono l'anomalia delle lesioni al fegato, che fu liquidata come un massaggio cardiaco troppo vigoroso. Per la famiglia di Aldo la ricerca della verità non è solo un modo di rendere giustizia al compagno, al figlio o al padre. Ma anche una maniera per evitare che si ripetano in Italia casi controversi come quello di Manuel Eliantonio, deceduto in luglio nel carcere di Marassi a Genova, o di Marcello Lonzi, «trovato morto», col volto pieno di ecchimosi, l'11 luglio 2003 nella sua cella a Livorno.
 
  Inguscezia fuori controllo
Guerriglia islamica sempre più scatenata
"In Inguscezia è ormai in corso una guerra civile". Parola di Alexei Malashenko, analista politico del Carangie Center di Mosca.
Il conflitto tra guerriglia indipendentista islamica e forze di sicurezza federali russe in questa piccola e poverissima repubblica russa - stretta tra la Cecenia, l'Ossezia del Nord e le cime del Caucaso - è sempre più violento. Sparatorie, attentati, imboscate, omicidi e rapimenti fanno ormai parte della vita quotidiana della popolazione ingusceta.

Forze speciali russe a NazranUna repressione controporducente. Il Cremlino si illudeva che la durissima repressione militare seguita al clamoroso attacco dei ribelli contro la capitale Nazran nel giugno 2004 avrebbe piegato i mujaheddin dell'emiro 'Magas', nome di battaglia di Magomed Yevloyev, comandante della Ingush Jamaat. Invece la mano pesante delle truppe russe contro chiunque fosse sospettato di legami con i ribelli (persecuzioni, torture, esecuzioni extragiudiziali, sparizioni), combinata alla frustrazione di una popolazione locale stremata dalla povertà, dalla disoccupazione (al 75 percento) e dalla spaventosa corruzione del governo locale del presidente Murat Zyazikov, ha spinto molti giovani ad andare nei boschi per unirsi ai ribelli.

IngusceziaAnche l'opposizione nel mirino. L'invio, l'anno scorso, di 2.500 soldati delle forze speciali per contrastare la guerriglia ha solo peggiorato la situazione. Quest'anno il numero degli attacchi contro militari russi, politici locali e strutture governative è aumentato esponenzialmente. Uno stillicidio che, da gennaio a oggi, a causato almeno 150 vittime (in Inguscezia vive solo mezzo milione di persone). Dopo che il 31 agosto scorso la polizia ha assassinato il principale esponente dell'opposizione locale (che per puro caso si chiama come il leader dei ribelli), l'escalation è stata drammatica.

Magas con i suoi uomini"Situazione virtualmente fuori controllo". Solo negli ultimi dieci giorni i guerriglieri dell'emiro Magas hanno occupato due villaggi (16 ottobre), hanno ucciso in due imboscate a colpi di lanciarazzi diversi soldati russi, addirittura 50 secondo alcune fonti locali (18 ottobre), e giovedì scorso hanno fatto irruzione in un locale rapendo tre poliziotti e una dozzina di civili: sembra che li abbiano portati in Cecenia per poi usarli per uno scambio di prigionieri.
"La sitauzione qui in Inguscezia - ha dichiarato alla Reuters Timur Akiyev, direttore della sede locale di Memorial - è virtualmente fuori controllo". 
 

28 ottobre

 

Doppio e nero

di Roberta Carlini

Operaio e cameriere. Archeologo e assistente sociale. Negli ultimi tre anni è aumentato del 40 per cento il numero degli italiani che ha un secondo impiego. E molto spesso nel sommerso

Precari del pubblico impiego protestano contro il lavoro nero

La doppia vita, per necessità. Otto ore a tagliare lastre di metallo in un capannone, altre tre o quattro tra i tavoli di una pizzeria. Cinque giornate nella bottega di barbiere, due a raccogliere l'uva o le olive, nel weekend. Oppure: mezza vita da archeologo, l'altra metà da assistente sociale. O ancora: traduttrice di giorno e di notte, sotto contratto in ufficio e in nero al computer di casa. E dottori di ricerca che la sera arrotondano al pub, postini che appena smontano vanno a fare gli istruttori in palestra, il classico lavoretto dell'infermiera che fa le iniezioni a domicilio e quello moderno del webmaster che arrotonda in Rete il reddito mai sufficiente del lavoro principale. È il secondo lavoro oggi, ai tempi della crisi e della flessibilità. Che hanno fatto tornare a galla un fenomeno sommerso, da sempre presente nell'economia e nella società italiana, imprimendogli un ritmo galoppante. Ed estendendolo a tutti i settori del lavoro e dell'economia: vecchi e nuovi, manuali e intellettuali, obsoleti e trendy.

Meccanici a metà "Prima lo facevo per avere quei due soldi in più: per andare in vacanza, comprare qualcosa per me. Adesso no, adesso il secondo lavoro mi serve per arrivare alla fine del mese". Vincenzo ha 36 anni e lavora in una media azienda metalmeccanica, dalle parti di Parma: otto ore al giorno su cinque giorni, "una settimana ho il turno al mattino, un'altra al pomeriggio". Il suo secondo mestiere è quello di cameriere: "È quello che facevo da ragazzo a Napoli, prima di venire su a lavorare. Lo so fare bene, mi chiamano sempre". E quando lo chiamano, Vincenzo va: la sera se ha il turno in fabbrica al mattino, altrimenti nei fine settimana. "Pagano abbastanza bene, ovviamente in nero: sono 100 euro per servizio. A fine mese, mi trovo in tasca 6-700 euro in più". Non che ci sia da scialare, però almeno così arriva dignitosamente a fine mese, sfiorando i 2 mila euro netti e lavorando praticamente sempre: "Abbiamo il mutuo da pagare, anche la mia compagna lavora ma senza gli extra non ce la faremmo. Per ora niente figli".

Ugo, che ha qualche anno più di lui e un figlio all'università, ricorda una figura in auge nel passato: "Io sono un metalmezzadro". Sette ore e mezzo in fabbrica, nel pieno della Food Valley parmense, e tutto il resto del tempo a curare un campo che ha in affitto, dove tira su produzioni biologiche e dove ha anche la casa: "Anzi, a dire il vero il mio primo lavoro era quello dell'agricoltore. Ma non potevo viverci, da una quindicina di anni ho cominciato a fare lo stagionale in fabbrica, per periodi via via sempre più lunghi, fino a entrarci a tempo pieno". Ma ha conservato il suo campo. E la sua passione: "Per me quello dell'agricoltore è il lavoro più bello del mondo. Ma come si fa a viverci? Quando va bene, ne cavo 5 mila euro in un anno". Che vanno ad aggiungersi a quelli della fabbrica, del 'primo lavoro' che comunque non basta: "1.300 euro per 13 mensilità. Qui non bastano a nessuno, chi può ne fa un altro, quelli che non hanno altri lavori li vedi tutti lì il sabato, a fare gli straordinari, finché ci sono". Ugo preferisce la campagna: "È un lavoro duro, e non sai mai quello che avrai. Una grandinata fuori stagione, e tutto il guadagno se ne va. Però preferisco questo, a fare più ore là dentro".

Vincenzo e Ugo hanno un buon punto di osservazione su quel che succede nelle loro fabbriche, in quello che è stato e resta uno dei distretti più dinamici della media impresa italiana: "Si teme il peggio, si comincia a parlare di cassa integrazione e mobilità". Tra i tavoli della sua pizzeria, Vincenzo ha cominciato a vedere facce nuove: "L'altro giorno è venuto a lavorare uno che ha una sua attività commerciale qui vicino, sì, uno che ha un negozio suo e la sera deve arrotondare in pizzeria". Ugo azzarda una statistica: "Crisi o non crisi, il doppio lavoro è una realtà. Da quel che vedo io, da noi almeno il 30 per cento degli operai fa un secondo lavoro".

Numeri al galoppo La stima di Ugo è molto vicina a quella delle poche statistiche ufficiali che ci sono in materia di secondo lavoro. Qualche tempo fa l'Eurispes ha parlato di 6 milioni di doppiolavoristi, tra i soli lavoratori dipendenti: il 35 per cento. All'Istat, nella casa di tutti i numeri, ci vanno con i piedi di piombo. Però tutto conferma che siamo nell'ordine dei milioni e che in buona parte queste attività sono nascoste al fisco e sfuggono alle rilevazioni statistiche. Alcuni dati arrivano dalla Direzione centrale di Contabilità nazionale, che fornisce stime e analisi sull'economia sommersa e il lavoro irregolare. Un buon indicatore, spiega Antonella Baldassarini, che si occupa di tali tematiche all'Istat, è il rapporto tra posizioni lavorative e occupati: se in un settore ci sono più posizioni lavorative che occupati, è perché alcuni occupati svolgono doppio o triplo lavoro. Nella media italiana, nel 2007 a ogni 100 occupati corrispondevano 120 posizioni: in numeri assoluti, le doppie (o anche triple) posizioni sono più di cinque milioni, secondo i dati Istat. Che permettono anche di vedere dove è più diffuso il secondo lavoro. A partire dall'agricoltura, dove a 100 occupati corrispondono 188 'posti': un fenomeno antico, rivitalizzato però negli ultimi tempi con la partecipazione degli italiani alle campagne stagionali e anche con la diffusione degli orti per l'autoconsumo.

Forte la presenza delle posizioni plurime anche negli alberghi e nei ristoranti, nei servizi domestici, e tra i padroncini dei trasporti e i nuovi lavori delle comunicazioni. Ma attenzione, precisano all'Istat: questi sono i settori dove si svolge il secondo lavoro, niente ci dicono sulla provenienza del lavoratore 'bioccupato' (per usare il termine coniato dal sociologo Luciano Gallino, che tempo fa mise sotto la lente il fenomeno): il quale può venire da tutti i settori, pubblici e privati. "In molti casi il secondo lavoro avviene solo un po' più in là, in un'altra azienda dello stesso comparto, in altri no", commenta Gallino. "E comunque, dai tempi di quelle antiche ricerche a oggi, una cosa è certa: il secondo lavoro continua a prosperare".

Ma altri indizi dai dati dell'Istat ci dicono qualcosa di più. Nei complicati calcoli sulla produzione e il lavoro effettivi (comprensivi dunque di tutto il sommerso) l'Istat ha calcolato anche un forte aumento delle ore lavorate nella seconda attività: passate dal 5,6 al 6,9 per cento del monte ore lavorato complessivo in quindici anni. Non solo. Negli ultimi mesi, pare che ci sia stata una vera e propria corsa al secondo lavoro. Passando dalle stime aggregate dei contabili nazionali alle risposte date dal campione sul quale l'Istat fa la sua Indagine trimestrale sulle Forze di lavoro, si possono tirare fuori numeri interessanti: dal 2005 a oggi, la percentuale di coloro che dichiarano di svolgere una seconda attività cresce costantemente. In tre anni, si calcola un aumento del 39 per cento, particolarmente sensibile nei primi sei mesi di quest'anno.

Il doppio precariato Un effetto dell'aumento dei prezzi, dell'emergenza domestica della quarta (se non terza) settimana e della crisi finanziaria globale? O l'effetto di un cambiamento più profondo, quello che ha man mano ridimensionato la stessa idea del 'primo lavoro', il pianeta centrale attorno al quale come satelliti stanno i lavoretti in nero? Prendiamo il commercio, la grande distribuzione, dove regna il lavoro part time. "Qui il problema non è il secondo lavoro, è trovarsi un secondo part-time per mettere insieme almeno un salario", ti spiegano alla cassa di qualsiasi supermercato. Cosa non facile, perché gli orari sono spezzettati e flessibili, variano da una settimana all'altra. Così molti si riciclano in lavori serali e notturni, dal pub alle pulizie. Ancora più complicata è la definizione del secondo lavoro nel vasto mondo degli atipici. "Tra tutti i collaboratori a progetto e le partite Iva, solo il 10 per cento dichiara all'Inps di avere più di un committente durante l'anno", dice Patrizio Di Nicola, sociologo del lavoro, che cura il Rapporto sui parasubordinati per Nidil-Cgil. In teoria, gli atipici sarebbero più fedeli al primo lavoro del classico lavoratore dipendente a tempo indeterminato. Ma non è così, e anche qui il nero dilaga: "Basta guardare i redditi: se un collaboratore a progetto in media guadagna 12-13 mila euro l'anno, e ha un'età tra i 35 e i 40 anni, è chiaro che per vivere deve fare anche qualcos'altro".

È il caso di Francesco, archeologo romano di 33 anni. "A dire il vero quello da archeologo è il mio secondo lavoro. Perché il primo, quello che mi dà la sicurezza per vivere, è il mio lavoro da educatore in una casa famiglia". In una casa famiglia (le microstrutture che hanno sostituito i vecchi istituti per minori abbandonati o affidati ai servizi sociali) c'è da fare sempre: aiutare i ragazzi a fare i compiti, a preparare un esame, accompagnarli a scuola o da qualche altra parte, a volte dormire. "I colleghi mi aiutano con i turni, così posso combinarli con l'altro lavoro, quello per la Sovrintendenza". Da educatore, Francesco è pagato con uno stipendio fisso: 900 euro al mese, netti. Da archeologo, è un professionista con partita Iva, dai 120 ai 180 euro, pagato a giornata come gli edili. "Ma al contrario degli edili non abbiamo cassa integrazione né altro". Insomma, "ho due lavori tutti e due precari". Come la sua collega Antonella, che ha una laurea e un dottorato di ricerca già concluso, e che per due anni ha passato la mattina in cantiere a scavare e il pomeriggio presso una società che fa la ricostruzione tridimensionale di monumenti antichi: almeno lei lavorava in campi contigui. Adesso invece "il mio secondo lavoro è a scuola, insegno italiano tre ore a settimana".

Non che il doppio lavoro intellettuale riguardi solo i precari. Il problema, più che la stabilità del posto, è il livello del reddito. Anna per esempio ha un contratto a tempo indeterminato con una società per la quale traduce dall'inglese e dallo spagnolo: netto in busta paga, 1.250 euro al mese. La metà vanno in affitto. Dunque, "lavoro di notte e nei weekend, faccio traduzioni da free lance". Nel mondo delle traduzioni, la tariffa si calcola per parola: "Mi pagano anche meglio, fino al triplo per parola tradotta, ma il primo lavoro mi serve per avere un minimo di sicurezza". Il secondo per avere 4-500 euro in più al mese. E, in alcuni casi, anche qualche soddisfazione in più. Nicola, che fa il webmaster e dunque dovrebbe stare nella parte alta delle classifiche del lavoro, quelle del nuovo che avanza, la spiega così: "Ho un contratto a progetto con un ministero, lungo e abbastanza buono. Ma in ogni caso non supero i 1.500 euro al mese. E mi resta del tempo per lavorare in proprio, progettare siti, per esempio: lo faccio non solo perché mi serve, ma anche perché in questi lavori sono più libero, posso esprimere una visione grafica, un'idea mia". Non è un caso se, nella classifica dell'Istat, è proprio nel settore 'comunicazioni e trasporti' il record delle posizioni lavorative: quasi il doppio degli occupati.

 

Cessate il fuoco

Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n. 41 - 2008 dal 16/10/2008 al 22/10/2008

Nell'ultima settimana, in tutti i Paesi in guerra, sono morte almeno 860 persone

Afghanistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 227 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 5.316

Algeria
Questa settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 213

Iraq
Nell'ultima settimana sono morte almeno 163 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 9.739

Israele-Palestina
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 458

Pakistan Talebani
Nell'ultima settimana sono morte almeno 211 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 4.414

Sri Lanka
Nell'ultima settimana sono morte almeno 126 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 7.962

India Nordest
Nell'ultima settimana sono morte almeno 26 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 613

India Naxaliti
Nell'ultima settimana sono morte almeno 16 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 466

Thailandia del sud
Nell'ultima settimana sono morte almeno 12 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 308

Filippine Milf
Nell'ultima settimana sono morte almeno 11 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 494

Nord Caucaso
Nell'ultima settimana sono morte almeno 11 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 493

India Kashmir
Nell'ultima settimana sono morte almeno 7 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 509

Pakistan Balucistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 7 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 221

Filippine Npa
Nell'ultima settimana sono morte almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 231

Colombia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 253

Somalia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 4 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.242

Uganda
Nell'ultima settimana sono morte almeno 7 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 144

Nigeria
Nell'ultima settimana sono morte almeno 10 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 225

Sudan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 8 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 929

Rep. Dem. Congo
Nell'ultima settimana sono morte almeno 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 308

Turchia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 548

 

Palermo, consulenze ai principianti. Condannato il sindaco

Palermo è un'altra città che certamente non brilla per efficenza dei servizi comunali. Ma anche lì ogni occasione pare buona per buttare un po' di soldi. C'è un progetto da fare? Perché affidarsi ai tecnici del municipio se si possono ingaggiare dei consulenti esterni? Una soluzione accettabile solo nel caso di nomi di grido o problemi particolarissimi da affrontare. Il guaio è che quasi sempre gli incarichi finiscono invece a personaggi sconosciuti ai più e molto legati ai pochi che contano in comune.
L'ultimo caso riguarda Palermo dove la Corte dei Conti ha condannato il sindaco Diego Cammarata (Pdl) a risarcire 200 mila euro. Secondo i giudici, i dieci incarichi assegnati nel 2004 per il recupero dell'area dei Mercati Generali e dell'ex Chimica Arenella erano assolutamente inutili. In sintesi, gli incarichi per un valore di 300 mila euro sarebbero stati assegnati senza rispettare criteri. Una pioggia di euro su figure che non avrebbero i requisiti minimi per occuparsi di questa materia: praticamente dei principianti. I giudici sostengono che sarebbe bastato dare un'occhiata ai curriculum per rendersene conto. Infatti le consulenze sarebbero andate anche a ingegneri e architetti praticamente inesperti: la cui «durata minima dell'esperienza professionale» è «insussistente».
Alcuni, poi, non c'entravano nulla con l'opera inchiesta. Cammarata ha scaricato tutto su Federico Lazzaro, dirigente dell'urbanistica. Ma i magistrati contabili non gli hanno creduto: il sindaco dovrà risarcire 200 mila euro, Lazzaro altri 100 mila. Il tutto per la «leggerezza gestionale e la condotta gravemente colposa».

 

Finanza alla Milanese, il Comune brucia 300 milioni

Chi è stato? Basterebbe rispondere a questa domanda per aiutare i cittadini milanesi e tutti gli italiani a capire come viene speso il denaro pubblico. Chi è stato nel 2005 a decidere di impegnare il Comune di Milano in un derivato, ossia in uno di quei prodotti finanziari che si sono trasformati in mostri divorando le casse di chi li aveva sottoscritti? Secondo le denunce del Pd, il derivato su un prestito obbligazionario di 1.685 milioni di euro ha già provocato 300 milioni di euro di perdite. Invece le banche (Deutsche, Depfa, Ubs, JpMorgan) si sarebbero assicurate - secondo la stessa fonte - tra i 73 e gli 85 milioni di commissioni occulte. Ieri, dopo una lunga assenza, anche il sindaco Letizia Moratti si è presentata in consiglio comunale per rispondere alle interrogazioni sullo scandalo derivati. Ha detto che "i derivati sono utilizzati da centinaia di istituzioni". Giusto. Ma sindaci come quello di Marsala, che hanno suicidato le loro finanze a colpi di derivati, si sono potuti difendere con la scarsa competenza finanziaria dei loro uffici. Milano non disponeva di tecnici in grado di valutare in modo più accorto la situazione? Letizia Moratti ha dato sfoggio di competenza, sostenendo che non era giusto parlare di minusvalenze poichè i derivati scadono nel 2035. E annunciato che nominerà un collegio di consulenti legali per studiare come reagire al mostro derivato. Meglio tardi che mai. Le minusvalenze lo scorso anno erano di 170 milioni, quest'anno di 300. E il prossimo? E non sarebbe il caso di licenziare i responsabili di questa scelta disastrosa: tanto le quattro banche beneficiate difficilmente gli negheranno la loro riconoscenza...

 

Regione Campania, 200 mila euro per la gita americana

Ma la Regione Campania non è quella con i conti in situazione disperata? Quella dove la gestione dei rifiuti è commissariata da un decennio? Quella dove la sanità pubblica solo nel 2008 ha prodotto un extrabuco di 300 milioni di euro che si sommano ai miliardi degli anni scorsi? L'ultimo degli assessori bassoliniani, quel Claudio Velardi chiamato a risollevare l'immagine di un terra travolta da immondizia e criminalità, non deve essersi accorto della situazione finanziaria che lo circonda. Forse l'ex spin doctor dalemiano e fondatore di una lanciatissima società di comunicazione è ancora rimasto ai fasti del rinascimento partenopeo. Così per una trasferta ufficiale della Regione Campania a Washington sono stati stanziati duecentomila euro. Certo, ben poca cosa rispetto allo sfarzo delle tournè transoceaniche di Sandra Lonardo Mastella, tutt'ora presidente del consiglio campano nonostante l'arresto e le accuse confermate da tutti i tribunali. Ma una cifra comunque elevata.

Nel suo blog Velardi parla di "un persistente, sordo pregiudizio sui fondi impiegati nella promozione istituzionale". E fornisce la lista delle spese previste per la trasferta di 3 giorni. Onore alla trasparenza. L'elenco però aumenta le perplessità. Ci sono dieci voli andata e ritorno Roma-Washington: 25 mila euro. In pratica, 2500 euro a testa: biglietto di business senza sconti. Poi ben 1500 euro per i trasferimenti dall'aeroporto alla capitale americana: 150 euro a testa, una cifra molto alta per le tariffe delle Limousine con autista. Quindi 16.890 uro per l'albergo della delegazione ufficiale, dello staff del ristorante Don Alfonso e per gli ospiti. Andiamo all'alimentazione. Sono previsti 36 mila euro per offrire una cena di gala: quanto basta a sfornare 500 menù da 72 euro l'uno. Poi c'è il dinner della Niaf, la potente organizzazione italo-americana: il tavolo richiede un contributo di 70 mila euro. Ma le due mangiate non bastano e così vengono stanziati altri 5000 euro di pasti per delegazione e ospiti: forse il jet lag mette appetito... E pensare che Velardi nel blog lamenta di avere "le viscere che bofonchiano" per una recente indisposizione.

Veniamo ai gadget. Per gli ospiti d'onore 50 cravatte e 25 foulard: 7500 euro. Fanno cento euro a pezzo. Si spera almeno che siano Marinella. E sorpende che la Regione non sia riuscita nemmeno a farsi fare uno sconticino. Prezzo da boutique anche per i 3.500 magneti omaggio, costati 4 euro e mezzo cadauno. Ci sono poi 2.000 magliette da 5 euro a mezzo l'una, quelle sì economiche. Infine la pubblicità. Poteva un evento del genere non venire propagandato? Bene, altri 24 mila euro. Per comprare una pagina su una testata di Washington? Per far uscire qualcosa su un settimanale statunitense? No, i soldi vanno al quadrimestrale Italy Italy, edito da una società di Magliano Romano: un periodico in inglese, spesso distribuito come allegato nelle edicole italiane e venduto solo in abbonamento nel Nord America.
Velardi, parlando delle missioni all'estero, sul suo blog parla di "esercizi gratuiti di cafoneria, imbarazzanti foto ricordo (ne ricordo una di Occhetto a Manhattan…), dichiarazioni fuori luogo. Insomma, il sospetto generale e preventivo è comprensibile". Come dargli torto?

 

Uganda, la 'rosa' di Kireka

Il coraggio di una donna nello slum dove per vivere si spaccano pietre

Scritto da Antonella Sinopoli

Spaccare pietre per vivere. Un mestiere duro, pesante, inumano. Se a farlo è una donna la fatica triplica, diventa insostenibile, diventa quotidiano inferno. Se a farlo sono donne affette dall’HIV lo sforzo diventa indescrivibile.
Eppure esistono luoghi dove una donna, tante donne, da mattino a sera spaccano pietre. Donne affette dall’HIV che fanno questo per sopravvivere, per i loro figli, perché la loro vita è questa. E basta. Le abbiamo incontrate a Kampala, capitale dell’Uganda, nel quartiere di Kireka. Nello slum di Kireka. Si dice che siano oltre 6 mila le persone che ci vivono, ma avere un numero certo in una realtà come quella di una baraccopoli è molto difficile. Una cosa è certa: viverci è una sfida giornaliera, una sfida fatta di necessità primarie (mangiare, bere, curarsi) che qui sono emergenza; una sfida contro un futuro già segnato a cui però molti non accettano di arrendersi. A non accettarlo questo destino a Kireka sono coloro dalle quali potresti aspettarti, in una situazione del genere, solo una reazione di rassegnazione: le donne appunto. Quelle che, con mezzi rudimentali, stanno sedute in terra tutto il giorno a spaccare pietre. Quelle malate che non sanno quanto ancora rimane loro da vivere. Eppure qui a Kireka le donne sono protagoniste assolute, e prova che un cambiamento è sempre possibile. Anche nelle situazioni più disperate. Prova che speranza, forza, fede a amore per la vita possono capovolgere un futuro che sembrava segnato.

Kireka è noto come il quartiere Acholi, la maggior parte dei suoi abitanti infatti appartengono all’etnia del Nord Uganda. Sono qui da anni, molti dei bambini sono nati qui e non hanno mai conosciuto la terra di origine dei loro genitori. In migliaia sono fuggiti dalla guerra civile che per un ventennio ha insanguinato i loro villaggi. A Kitgum, Pader, Gulu, hanno lasciato i loro poveri averi, ma almeno hanno salvato la vita e messo al sicuro i loro figli dal pericolo costante di assalti e rapimenti da parte dei ribelli del Lord’s Resistance Army, che li avrebbero poi costretti ad impugnare le armi. Destino di moltissimi che invece non sono fuggiti. Qualcuno in una vita migliore, nella capitale Kampala, ci aveva sperato, ci aveva creduto. Ma le cose, si sa, nel continente africano non sono mai facili. Dovunque. E, come si sa, il peso maggiore di sacrifici, lavoro, impegno da queste parti spesso ricade sulle donne.

Il “vantaggio” di Kireka è di trovarsi ai margini di una cava di pietra che è stata di fatto inclusa nei confini dello slum. Una fonte di guadagno sicuro in cambio di un lavoro massacrante. Guadagno? Per dieci chili di pietrisco le aziende costruttrici locali pagano qualcosa come 100 scellini ugandesi. Circa 4 centesimi di euro. Uno sfruttamento di cui nessuno lamenta l’esistenza, una condizione di cui nessun sindacato assume la denuncia e la difesa. Cose che qui non esistono. Cose di un altro mondo. Un mondo sconosciuto. E queste donne, affette dall’HIV o già con la malattia conclamata, di mondo conoscono solo questo. Il mondo di Kireka, a spaccare pietre in mezzo alla polvere, con i bambini legati alle spalle. E poi quando il sole cala e non c’è più luce, a dormire in baracche fetide, senz’acqua e, manco a parlarne, servizi igienici. Eppure a Kireka queste donne hanno incontrato Rose. Una donna, come loro, che ha rivoluzionato il modo di intendere e vivere la loro esistenza. Rose Busingye è una donna ugandese, infermiera e ostetrica che ha studiato in Italia dove conserva tanti amici. Ha 39 anni e per le donne di Kireka è diventata madre, sorella, amica, medico. Lì a Kireka, con l’aiuto di persone di buona volontà, ha fondato il Meeting Point International, una ONG che sostiene soprattutto bambini orfani, ammalati o con famiglie in gravi difficoltà e donne (mamme) affette dal virus dell’HIV. Un impegno gravoso, incessante, difficile. In Uganda, secondo i dati forniti dall’WHO (World Health Organization) l’aspettativa di vita è di 49 anni per gli uomini e 51 per le donne, l’AIDS è la principale causa di morte, insieme a malaria, tubercolosi e diarrea (l’incidenza dell’HIV tra gli adulti dai 15 anni in su è di 6.304 su 100 mila - dati 2005); l’accesso all’acqua potabile nelle aree rurali è pari solo al 55 percento con punte minime del 25 percento in alcuni distretti (Dipartimento internazionale per lo Sviluppo), e lo stesso Ministero di Genere, Lavoro e Sviluppo sociale dell’Uganda ha reso noto che la popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà è pari al 38 percento (stime 2004).
In questo contesto di difficoltà estreme, il principio di partenza di Rose è stato: le persone non sono la loro malattia, ma hanno dentro un valore e la loro vita vale più della loro malattia.

Le donne di Kireka, ammalate e destinate a spaccare pietre e a morire di AIDS allora hanno capito e hanno capovolto la loro vita. Il fatto di sentire che qualcuno dava loro valore ha dato loro la forza necessaria, e da questa forza sono nate iniziative eccezionali. Come diventare imprenditrici di se stesse, attraverso la realizzazione di collane e bracciali in carta colorata riciclata che oggi vengono vendute nei migliori negozi del paese (ma se vi capitasse di andare a Kampala acquistateli da loro, vi costeranno meno e loro guadagneranno di più). Una iniziativa grazie alla quale oggi, alcune di loro hanno la possibilità di appaltare il lavoro di spaccapietre e quindi fornire lavoro (seppur povero) ad altre donne bisognose. Come fondare una squadra di calcio, tutta rigorosamente al femminile, il cui capitano è stata soprannominata Ronaldo in onore alla passione che lei nutre per il calciatore brasiliano. Ma c’è un altro principio che Rose ha trasmesso a queste donne, quello dell’appartenenza gli uni agli altri come una grande famiglia. Spinte da questo sentimento, le donne di Kireka, hanno superato la loro condizione di dipendenza dagli aiuti di altri, ma anche quella di necessità, e si sono esse stesse trasformate in donatrici. All’epoca dello tsunami hanno raccolto del denaro da inviare ai paesi colpiti e all’indomani dell’uragano Katrina, che ha distrutto New Orleans e ucciso quasi duemila persone, sono riuscite a raggiungere e spedire la somma di mille dollari. Un gesto spontaneo, di solidarietà tra bisognosi, che ha valso a queste coraggiose il Vision Award da parte della New York Women’s Foundation. Per quell’occasione, qualche mese fa, una rappresentanza di cinque donne è stata invitata nella Grande Mela. Nessuna di loro aveva mai preso un aereo, nessuna aveva mai viaggiato oltre il tragitto dal Nord del Paese alla capitale. Ma lì, in un mondo totalmente nuovo, non si sono lasciate intimorire e ad un giornalista che chiedeva loro come avessero potuto fare un gesto simile, così povere e bisognose di tutto, una delle cinque, Margareth, ha risposto: “il cuore dell’uomo è internazionale, non ha razza, non ha colore e si commuove alle necessità degli altri. Anche le persone in America ci appartengono e noi apparteniamo loro, perché non si appartiene né alle cose, né al lavoro”. È con questo spirito che le donne di Kireka vivono. Oggi la possibilità di ricevere, grazie all’impegno di Rose, il trattamento antiretrovirale, ha permesso loro di vivere meglio, di vivere di più, di guardare ad un futuro anche un po’ più lontano. Ma forse è anche uno stile di vita improntato alla generosità e alla gioia che ha migliorato lo stato di salute di queste donne e dei loro figli. Se provate ad andare a Kireka, soprattutto al giovedì, giorno dedicato all’accoglienza, vedrete queste donne danzare, cantare e suonare le percussioni tradizionali. Oppure recitare perfomance in cui mettono in scena la loro stessa vita, prima e dopo aver incontrato Rose. Sarete travolti da un'esplosione di gioia, dalla loro grande vitalità, dall’entusiasmo di esserci, e di condividere un giorno di festa insieme con voi.

 

Guerra sporca in Helmand

La Nato, sempre più in difficoltà, ricorre agli àscari

La provincia meridionale di Helmand, epicentro della produzione afgana di oppio ed eroina, è il fronte più caldo della guerra tra le forze d'occupazione della Nato e la guerriglia talebana. Quello dove i talebani sono più forti e dove le truppe occidentali, e quelle governative afgane, sono in maggiore difficoltà.

I talebani all'attacco. L'11 ottobre, per la prima volta dall'inizio della guerra nel 2001, la guerriglia ha attaccato la capitale provinciale, Lashkargah.
I talebani si sono mossi in forze dalla loro nuova roccaforte, la sperduta oasi di Baramchà, nel mezzo del Deserto della Morte, vicino al confine con il Pakistan. Sono penetrati fino alla periferia della città attraverso il distretto rurale di Nad Alì, subito a ovest di Lashkargah, che avevano già conquistato all'inizio del mese. Hanno bombardato con razzi e artiglieria leggera i palazzi governativi del centro, ingaggiando violenti combattimenti con l'esercito afgano. Solo l'intervento delle forze britanniche e dell'aviazione Usa ha scongiurato la presa della città.
Pochi giorni dopo i talebani hanno sferrato una massiccia offensiva anche più a nord, vicino alla cittadina di Grishk, costringendo le truppe Nato danesi e quelle governative afgane ad abbandonare le loro basi nei villaggi di Attal e Barakzai. Ora si teme un attacco talebano contro il vicino centro urbano di Sangin, difeso da settecento marines britannici.

Gli àscari della Nato. In attesa di rinforzi, le truppe della Nato, ormai assediate dai talebani nelle cinque città della provincia (Lashkargah, Grishk, Sangin, Musa Qala e, a sud, Garmsir), si affidano ai bombardieri americani e alle milizie private dei signori della droga locali che si sono venduti alla Nato. La più quotata è quella di Abdul Wali Khan, detto 'Koka', che dopo aver passato 14 mesi nella prigione Usa di Bagram per i suoi legami con la resistenza talebana, due anni fa è stato arruolato dai generali inglesi assieme ai suoi 220 uomini per combattere contro i talebani. I miliziani di Koka, con indosso la divisa della polizia afgana, hanno combattuto la resistenza compiendo stragi di civili e terrorizzando gli abitanti dei villaggi sotto il loro controllo (violenze, stupri, rapimenti, estorsioni). Tutti lo sanno, ma chiudono un occhio. "Gli uomini di Koka - ha dichiarato al Times di Londra uno dei loro addestratori, il sergente Don Wilson del 2° battaglione dei marines del Reggimento Reale di Scozia - non sono certo dei vigili urbani, ma la gente li rispetta e i talebani li temono".

Enrico Piovesana

 

UN CLIMA ALLA SARKOZY

Massimo Serafini

Chiedo ai «climalterati» ministri, Brunetta, Scajola e Prestigiacomo di astenersi dalla quotidiana dichiarazione in difesa delle imprese italiane, che andrebbero in rovina se costrette a spendere soldi per applicare la direttiva Ue sul clima.
Le vostre dichiarazioni emanano un fetore insopportabile dopo la notizia che, a Taranto, un tredicenne, Patrizio Sala, sta morendo di cancro per le emissioni di diossina, di una di quelle aziende che voi difendete. Quella che in questi anni ha ricattato lavoratrici e lavoratori, il sindacato, l'intera popolazione di Taranto obbligandoli a scegliere fra occupazione e risanamento ambientale. La stessa musica che ci fate ascoltare contro la direttiva sul clima: se obbligate a ridurre i gas serra le aziende chiudono e se ne vanno. A tornado e scioglimento dei ghiacciai, all'aria e all'acqua avvelenate ci si penserà.
Oggi fate silenzio, ascoltate la protesta di una città avvelenata e magari interrogatevi sul perché un uomo di destra come voi, Sarkozy, denuncia l'irresponsabilità della vostra posizione.
Anche noi, «tifosi» dell'Europa, che godiamo quando bacchetta Berlusconi - visto che noi non ci riusciamo - domandiamoci: è sufficiente sperare che sia l'Europa a piegare Berlusconi e il suo «pattino di Varsavia», oppure serve far crescere qui una mobilitazione sociale su un progetto di politica economica, energetica e industriale capace di realizzare le famose «3x20» su emissioni, efficienza e rinnovabili? Limitarsi al tifo ci lascia solo guai e macerie e tanti Patrizio Sala da sacrificare sull'altare della «competitività».
Ci sono le condizioni politiche e sociali per costruire questa mobilitazione? Le difficoltà sono enormi, quotidianamente questo giornale ne parla. Proviamo anche a dire cosa serve per uscirne. Almeno due fatti: uno politico uno sociale.
Il nodo politico sul clima è la scelta del Pd: è prevalente, nel principale partito di opposizione, la posizione espressa da Fassino, attenta alle posizioni di Confindustria, oppure quella dei suoi ambientalisti che stanno con l'Europa? La manifestazione del 25 è una buona occasione per comunicare al paese quale delle due il Pd intende scegliere. E, poi: la sinistra, che ha fatto il corteo dell'11 ottobre, affida la verifica della sua ritrovata vitalità contribuendo alla mobilitazione in difesa della direttiva sul clima?
Sul piano sociale invece determinante è ottenere dai sindacati l'indisponibilità a subire il ricatto di Confindustria. Difesa dell'occupazione, migliori condizioni di lavoro e salario si ottengono assumendo la riconversione industriale che la direttiva sul clima sollecita e non rifiutandola.
Altrettanto decisivo è contaminare la lotta degli studenti se si vuole realizzare una mobilitazione sul clima, ma anche ottenere il coinvolgimento in essa di ricercatori, scienziati, intellettuali per risanare i «pozzi avvelenati» dal consumismo dissipativo.
Non è facile, ma proviamoci per non essere costretti solo a tifare per Sarkozy.

 

In pensione il fondo privato

Argentina, la Kirchner nazionalizza i fondi pensione gestiti dai privati. E' solo l'ultima mazzata alla vecchia politica di Menem che aveva privatizzato di tutto e di più

Il governo argentino della presidente Cristina Kirchner sembra proprio non aver avuto scelta: basta con il sistema di assistenza e pensioni private voluto dall'ex presidente Menem nel 1994. Adesso si procederà con la nazionalizzazione dei fondi pensionistici. Dopo la diffusione della notizia in Argentina c'è stato un sostanzioso calo delle borse.

Una notizia bomba che arriva come un fulmine a ciel sereno e che lascia anche abbastanza perplessi. Ma tant'è. Troppo alti i rischi, secondo la Kirchner, per i dieci milioni di sottoscrittori che avevano affidato il loro futuro al “privato”. Soprattutto perchè i fondi erano nelle mani delle banche. In particolare in alcuni importanti istituti europei. Come nel caso del Bbva (Banco di Bilbao) che forse, secondo alcuni quotidiani argentini, sarà l'unico che perderà interessi rilevanti. Infatti il volume d'affari dei fondi pensione privati si aggirerebbe, secondo i dati emersi negli ultimi giorni, intorno ai 22 miliardi di euro. Una cifra davvero considerevole.

Ritorno al passato. I fondi dal privato entreranno in un fondo pubblico che avrà regole uniche per liquidazioni e pensioni, appunto sotto controllo statale. Una spallata definitiva alla vecchia politica di Menem che ha privatizzato praticamente tutto quello che gli passava per le mani, senza fare i conti con i possibili danni futuri. Cosa che sembra invece aver bene in mente la Kirchner. La sua decisione, infatti, “era necessaria per contrastare l'impatto negativo che la crisi finanziaria mondiale ha avuto sulle pensioni”, come ha ricordato al Congresso in un progetto di legge. Non solo. Secondo la presidente argentina è finita “l'epoca politica del saccheggio” portata avanti senza troppi scrupoli dagli amministratori degli anni '90.

Dati. Il settore pensionistico privato riguardava quasi 10 milioni di sottoscrittori per un giro d'affari che si aggirava intorno ai 22 miliardi di euro. Adesso le cose cambieranno e quei lavoratori che avevano deciso di affidare il fondo pensione al privato si andranno a sommare ai quasi 5 milioni di affiliati al sistema pensionistico pubblico. Tutto questo, all'unico scopo di difendere i pensionati, andrà a formare un regime statale unico nominato Sipa (Sistema Previsional Argentino). Dunque, se nell'ultimo anno l'Administradoras de Fondos de Jubilaciones y Pensiones (Afjp, il sistema pensionistico privato), ha accumulato perdite intorno al 20 percento, potrebbe accadere che in futuro non sia in grado di pagare le pensioni. Già oggi circa 500 mila persone che avevano in passato aderito ai programmi privati si ritrovano nelle tasche meno soldi. Proprio per questo motivo sarebbe intervenuto lo Stato.

Polemiche. La notizia come già detto, è arrivata così di punto in bianco. E ha generato subito polemiche soprattutto nei banchi dell'opposizione che ha subito accusato la presidente di voler utilizzare i fondi statalizzati (si parla di 30 miliardi di dollari) per fini politici. E hanno fatto sapere di essere pronti a dare battaglia. Come ha detto la rappresentante di Coalicion Civica, Elisa Carrio: “Il problema è l'intenzione del governo. Una cosa è una riforma seria, un'altra è usare scuse per impossessarsi di quella somma”.
Alessandro Grandi

Condannati a rivivere il passato

"No alla dittattura dell'Occidente. Nessuno ci comprerà per pochi euro". La rabbia della gioventù di Belgrado.

Gianluca Ursini

“NE DAMO KOSOVO”, si legge a caratteri cubitali in un graffito in Skladarskjia, il viottolo acciottolato dove la sera i belgradesi si ritrovano a bere sotto i pergolati dei caffè turchi la birra nazionale “Jelen Pivo”, in questa sorta di piccola Montparnasse balcanica.
“Non vi daremo mai il Kosovo” è un sentimento condiviso, anche dai serbi moderati e dalla maggioranza silenziosa che assiste da 85 giorni alle manifestazioni quotidiane del movimento nazionalista “1389” in Republiki Trg (Piazza Repubblica), dove un centinaio di ragazzi e di vecchi nostalgici del regime titino si riunisce per gridare “Prezir Diktaturij”, “fermiamo la dittatura” di Unione europea e liberali. Un sentimento condiviso dai serbi che in questi giorni minacciano di mettere a ferro e fuoco Podgorica, la capitale montenegrina 500 chilometri più a Sud; il Srpsko Narodna Partja (partito Popolare Serbo) con il partito Democratico Serbo e il “Srpsko Tiket” promettono di far cadere il governo del premier Milo Djukanovic se non ritira il riconoscimento del Kosovo che ha fatto infuriare la comunità serba in Crna Gora, pur sempre un terzo della popolazione. Il leader della protesta e del partito popolare serbo, Andrjia Mandic, sta facendo uno sciopero della fame, in attesa che Djukanovic dia una risposta all'ultimatum in scadenza ieri, per ritirare il riconoscimento, venire a rispondere al parlamento di Podgorica e indire un referendum di consultazione popolare sul riconoscimento di Pristina.

Mladic? Ve lo scordate. Igor Marinokovic è un ragazzone di 26 anni, alto 1.90 e 100 chili di peso, il ritratto dell'esuberanza serba, il corpo segnato dalla psoriasi nervosa, vestito come un rockettaro grunge, con una maglietta verde militare col faccione di Ratko Mladic a grandezza naturale. “Gde je znamo... ali da ne damoi...” si legge sulla t-shirt: “sappiamo dove si trova.. ma non ve lo daremo mai!” Igor è il portavoce del ``movimento 1389`` che si riunisce di fronte al Centro culturale di Piazza Repubblica dal 22 luglio, giorno dell`arresto di Radovan Karadzic. Un luogo carico di memoria per i serbi, dalle riunioni del 1998 di Vuk Draskovic, che da destra cercò d'assestare il colpo mortale al decrepito regime di Milosevic, fino alle riunioni del 2000 di `Otpor`, il movimento pro europeo sponsorizzato dalla “Open Society” di George Soros.
Anche sabato scorso si erano ritrovati qui in quattro gatti, meno di 300, mentre l'attenzione dei reparti di “Gendarmarija” radunati in assetto antisommossa con le giubbe rinforzate anti urto che li fanno sembrare soldati di “Star Wars” erano più concentrata sugli scontri tra ultras della Stella Rossa e i tifosi in trasferta a Belgrado per il match Serbia-Lituania, qualificazioni Mondiali.

Serbi, socialisti e fascisti. “Anti-Fa!! Anti-Fa!!” Le bandiere rossonere dell'anarchia sventolano in una dolce serata di fine settimana belgradese, sul corso di Terazjie la tensione si tocca con mano, i negozi dello shopping con le griffe italiane chiudono le serrande, mentre scorrono i 3 mila autoconvocati del gruppo `Nje Nazismu`` per chiedere una Serbia democratica, vicina a Bruxelles e stanca di guerre etniche. Un gruppuscolo di nazionalisti con la testa rasata saluta a braccio teso e inneggia alle milizie `cetniche` del generale “Giga” Draza Mihajlovic, che combatté nel 1944 per la liberazione della Serbia a fianco delle armate pro tedesche. Dal corteo guidato dagli anarchici, che sorprendentemente tengono alte anche bandiere a 15 stelle dell'Unione europea, partono molti fischi e grida d'offesa, ma si evita lo scontro. Da mercoledì 8, quando l'Assemblea Generale dell'Onu ha rimesso alla Corte Iinternazionale di Giustizia il caso dell'indipendenza del Kosovo, per valutare “se corrisponda ai criteri del diritto internazionale”, qui nella capitale di un piccolo paese chiamato Serbia e che un tempo era capitale federale di una grande entità chiamata Jugoslavjia, c'è una manifestazione al giorno: da sinistra contro “i fascisti che hanno trascinato il mio paese in 10 anni di guerre” (urla tra i fischi della manifestazione Miljana Filipovic, studentessa di lingua spagnola, sotto gli emblemi del partito del presidente Tadic), e da destra i movimenti pro nazisti che chiedono di “sterminare i musulmani albanesi”, con la polizia che regolarmente interviene a proibire i loro presidi. Il corteo anti fascista si e' svolto senza scontri sabato, mentre lunedì i gruppuscoli di estrema destra hanno dato luogo a scontri che hanno avuto molto risalto sui media serbi, come la tv 'B92': “Il nostro Paese sta deragliando verso il fascismo?” era la domanda più ricorrente dei giornalisti

L'Occidente non ci interessa. A mantenere il controllo della centralissima Republiki Trg e della passeggiata di Terazjie rimangono solo loro, i ragazzi che sono rimasti al 1389, l'anno della battaglia di Kosovo Poljie, quando l'esercito serbo guidato dal principe Lazar arginò, immolandosi, l'avanzata delle forze ottomane verso il cuore dell'Europa. “Non ce ne frega niente dell'accordo tra Fiat e Zastava: le compagnie occidentali vogliono solo fare affari qui perché col 44 percento di disoccupazione possono offrire salari da fame, più bassi dei 200 euro di media che percepisce un operaio serbo. E le altre multinazionali europee che arrivano qui vogliono solo fare affari perché i russi da un anno ci hanno offerto un trattato di libero commercio e le nostre merci non pagano dazio per arrivare in dogana a Mosca - ribatte preciso Marinkovic a chi gli chiede se quelle bandiere pro-europee non siano più attuali delle loro che chiedono il ``Kosovo je Srbjia`` e inneggiano a “Radovan Karadzic presidente” - Che cosa ci dà l'Unione europea? Assolutamente niente. Repubblica Ceca e Ungheria erano diventate ricche prima dell'adesione alla Comunità e noi ci rimetteremmo soltanto. Non ci conviene entrare in Ue e Nato, tanto più se dobbiamo consegnare i nostri eroi al tribunale internazionale dell'Aja. Esiste qui in Serbia il “Specialny Zud za Ratneslocina”, il tribunale speciale per i crimini di guerra. “Giudicheremo noi Ratko Mladic e Goran Hadzic, il presidente della Repubblica Srpska di Krajina. All'Aja non li vedrete mai”. Mai all'Aja.

Giustizia a senso unico. “Per quale motivo il generale Ratko e Goran dovrebbero andare all'Aja? - si intromette furioso Vladimir Miskovic del settimanale “GeoPolitika” - per dei processi farsa come sono stati quelli di Slobodan Milosevic e come sarà questo a Karadzic? Che ci dite voi europei delle sentenze ridicole a Haradinaj, l'ex premier kosovaro assolto all'Aja nonostante le sue milizie avessero cacciato i nostri connazionali serbi dai villaggi ora in mano agli albanesi? Fateci i nomi di criminali di guerra bosniaci e croati processati all'Aja. Quella Corte e' solo una truffa, ha come principale obiettivo noi serbi. Che ne e' stato di Naser Oric, il signore della guerra musulmano che nei dintorni di Srebrenica tra il '92 e il '95 ha sterminato 3mila serbi? (statistiche smentite dalle Nazioni Unite e dalla Kfor, forza d'interposizione Nato, ndr). Perché nei vostri media europei non parlate di queste cose? Perché non parlate del generale dell'esercito bosniaco Rastin Delic, un musulmano che ha fatto sparare sui villaggi serbi, ma che all'Aja e' stato scagionato perché il fatto non può essere provato? Noi abbiamo processato i nostri criminali di guerra: in questi giorni ci saranno le sentenze contro i comandanti dei gruppi paramilitari “Zvte Osce” e “Skorpions”, che uccisero in Bosnia intorno al 1995, e saranno tutte condanne a minimo 30 anni. Quando vedremo anche un bosniaco musulmano o un croato processato all'Aja per i crimini contro le minoranze serbe, smetteremo le nostre bandiere “No je NATO” e potremo aderire all'Ue".

 

Protesta pacifica soffocata nel sangue

L'Esmad spara sui manifestanti Nasa che occupavano la Panamericana fra Cali e Popoyan: 2 morti e decine di feriti

Simone Bruno

A María-Piendamó, ne cuore del Cauca, si sono concentrati 20.000 indigeni tra cui moltissimi bambini, donne e anziani e in maniera collettiva hanno deciso di occupare la Carretera Panamericana per attirare l’attenzione internazionale e nazionale sulla loro situazione. Questa strada unisce Cali a Popayan e la Colombia con L’Ecuador ed è di vitale importanza.

Il bastone della pace. I Nasa non usano armi, ma sono protetti da una Guardia Indigena munita di un simbolico bastone colorato simbolo di comando, che da sempre fa parte della loro cultura. Guardia possono essere tutti: bambini, donne, uomini, vecchi e giovani. Solo con questo si sono riversati in due punti equidistanti dall’ entrata della Maria per bloccare la strada. Dopo pochi minuti sono arrivati gli Esmad (squadroni antisommossa della polizia) che hanno attaccato con gas e manganelli. Gli indigeni hanno resistito eroicamente fino a quando la polizia ha cominciato a usare fucili a pallettoni e granate non convenzionali composte da polvere da sparo, schegge, chiodi e pezzi di vetro.

Due morti e settanta feriti. Il bilancio solo nel primo giorno di scontri è di settanta feriti e due morti, tra cui Ramos Valencia il cui cranio è stato trapassato da parte a parte da un proiettile. Insieme al piombo sono piovute le accuse presidenziali, echeggiate dal governatore del Cauca Guillermo González Mosquera e dal capo della polizia Oscar Naranjo Trujillo (ex zar antidroga, costretto alle dimissioni dopo che suo fratello è stato arrestato per narcotraffico in Germania), secondo le quali gli indigeni erano armati e istigati dalla guerriglia, mentre l’ Esmad non aveva armi da fuoco.

Le verità. I mezzi di comunicazione colombiani, dimenticando una cosa elementare come verificare le notizie, hanno subito stigmatizzato la protesta facendo da eco alla rabbia presidenziale. Nella Maria non c’è stata istigazione, ma un processo decisionale che viene dal basso e di cui i governatori indigeni non sono che portavoce. Gli indigeni non avevano armi da fuoco, che invece impugnavano i poliziotti, come dimostrano i morti e i feriti, come dimostra il cranio esploso Ramos Valencia e la carne lacerata di altre decine di persone.

Colpa delle Farc. La criminalizzazione della protesta è un esercizio molto comune in Colombia, dove le Farc si trasformano nella scusa perfetta per attaccare i movimenti sociali. Per il presidente i guerriglieri sono: gli studenti, i tagliatori di canna, i giudici, i trasportatoti, i professori, gli Indigeni e i contadini. Se davvero fosse così allora vorrebbe dire che la sua politica di seguridad democratica è un fallimento totale dato che la guerriglia si sarebbe infiltrata in tutto il paese.

Reali sono altre cose. Chi accusa il movimento indigeno è un governo che conta 60 parlamentari coinvolti nello scandalo della Parapolitica. Scandalo che lo stesso governo cerca di insabbiare come confessa José Miguel Vivanco direttore per le Americhe di HRW che ha dichiarato: “L’esecutivo è arrivato a estremi non conosciuti in America Latina per screditare una corte (Corte Suprema di Giustizia) che sta processando a più di 60 congressisti, quasi tutti del governo, per paramilitarismo”. Oppure l’ex governatore del Cauca Juan José Chaux Mosquera, che era uso criminalizzare gli indigeni Nasa e che alla fine del suo mandato è stato premiato dal presidente Uribe con l’ambasciata della Repubblica Domenicana. Incarico a cui è stato costretto a rinunciare una volta rese note alla opinione pubblica le sue frequentazioni. L’ex governatore si incontrava nel palazzo di Narì (nomignolo con il quale nelle intercettazioni telefoniche i paramilitari si riferiscono, mostrando una certa familiarità, al palazzo di Nariño, sede presidenziale) con esponenti di noti paramilitari per contrattare il loro silenzio.

 

Se scoppia la bomba card

di Enrico Pedemonte e Paolo Pontoniere

Diecimila dollari è il debito che ogni famiglia americana ha accumulato usando le carte di credito. Ora che le banche alzano gli interessi e rivogliono i soldi, un modello di vita cambierà

Immaginate di ricevere una lettera dalla banca che vi comunica un aumento del tasso di interesse sul vostro debito dall'8 al 26 per cento. Con poche righe di spiegazione: "Caro cliente, a causa del cambiamento delle condizioni del mercato...". Negli Stati Uniti sta accadendo ai clienti di molte società di carte di credito americane, per esempio quelli di Adventa, che ha portato i tassi di interesse a livelli mai raggiunti prima.

Così, dopo la bolla dei mutui subprime, sta per esplodere quella delle carte di credito. Un'altra anomalia americana destinata ad andare in pezzi in questo clima da resa dei conti dove tutti i nodi di una finanza senza regole stanno venendo al pettine. Alla fine del 2007, ogni famiglia americana aveva verso le carte di credito un debito medio di 9.840 dollari, in crescita continua da anni. Il debito complessivo supera ormai i 2.400 miliardi di dollari, una somma enorme che rischia di sommergere le grandi banche che emettono le carte, in prima fila Bank of America, J. P. Morgan Chase, Citigroup. Mentre Visa, American Express e MasterCard hanno visto il loro valore in Borsa dimezzato negli ultimi tre mesi. Gli esperti già prevedono nuovi stanziamenti del ministero del Tesoro per coprire i buchi che potrebbero trascinare diverse banche nel vortice della bancarotta.

Non si tratterà di semplici salvataggi finanziari. In una società dove il consumatore ha in media quattro carte di credito in tasca (ma uno su dieci ne ha una dozzina) i cambiamenti in corso rappresentano la crisi di uno stile di vita che ha dominato la scena fin dalla fine degli anni Settanta. Negli ultimi decenni la crescita dell'economia americana è stata basata su tre capisaldi: il petrolio a basso costo, il credito facile per acquistare la casa e la possibilità di ottenere un numero crescente di carte di credito su cui poter frazionare i propri debiti. Queste tre cose si tenevano insieme l'una con l'altra. Gli americani compravano case sovradimensionate - soprannominate McMansion - spesso in lontani sobborghi, e riuscivano a pagare i mutui, all'inizio molto vantaggiosi, usando due leve: da una parte aumentavano il proprio debito sulle carte di credito, dall'altra rifinanziavano il debito grazie alla continua crescita del valore delle case. Ma improvvisamente tutti e tre i pilastri di quel castello sono crollati in una drammatica sequenza.

Prima è arrivato l'aumento del prezzo del petrolio a rendere le McMansion sempre più dispendiose: improvvisamente milioni di famiglie non riescono più a pagare le bollette. Poi l'esplosione della bolla dei mutui subprime ha fatto precipitare il prezzo delle case, mandando molte famiglie in bancarotta. Ora è la volta delle carte di credito: un numero crescente di americani non è più in grado di pagare un debito che per oltre due milioni di famiglie supera i 20 mila dollari. Secondo la Federal Reserve, solo negli ultimi tre mesi il 37 per cento delle banche ha alzato gli interessi dal 6-10 per cento al 24-26 per cento, un tasso da strozzinaggio. Il risultato è che il 60 per cento delle famiglie americane non riesce a saldare il conto della carta di credito a fine mese e continua a spendere più di quello che guadagna. Si tratta di una bomba che sta ormai per esplodere.

Innovest Strategic Value Advisors, una società di ricerca, sostiene che per le banche le perdite delle carte sui crediti inesigibili ammontavano nel 2007 a 22,6 miliardi di dollari e, alla fine di quest'anno, arriveranno a 41,5 miliardi. Già nel marzo 2008 il numero di privati che hanno dichiarato bancarotta era cresciuto a 871 mila, il 36 per cento in più rispetto all'anno precedente. Ma ci sono segnali che la situazione stia peggiorando ancora. E questo - secondo la American Bankers Association - spinge due terzi delle banche a ridurre le linee di credito ai clienti visto il deteriorarsi della situazione economica di milioni di famiglie. È l'economia basata sulla plastica che si sta sgonfiando.

Gary McBride, analista di Bankrate.com, prevede che sui consumatori si stia per abbattere una raffica di protesti di dimensioni storiche da parte delle carte di credito: "Si tratta di un debito di oltre un migliaio di miliardi di dollari destinato a compromettere ulteriormente la precaria situazione di istituti come Bank of America, Capital One e di altri, come Providian e Washington Mutual, che sono stati recentemente assorbiti da JP Morgan e Wells Fargo". Dean Baker, esperto del Center for Economic and Policy Research, è ancora più pessimista: "Prevedo un'ondata di fallimenti bancari che aggraverà l'economia internazionale. Il crac delle carte di credito rischia di avere pesanti conseguenze sulla Bank of America. E molte piccole banche finiranno in bancarotta".

McBride prevede che a livello internazionale questa nuova crisi avrà un impatto molto diverso da paese a paese: "In Gran Bretagna avrà conseguenze simili a quelle previste sul mercato Usa, assai meno in altri paesi europei che, come l'Italia, non fanno ricorso all'indebitamento personale in maniera così massiccia. Anche in certi paesi asiatici il problema è preoccupante, specie in Giappone, in Corea e in Cina, dove negli ultimi anni il debito verso le carte di credito sta crescendo esponenzialmente".

È probabile che questa crisi avrà un'influenza profonda sul tenore di vita e sulle abitudini di consumo di molte famiglie americane che in passato hanno usato le carte di credito per permettersi consumi al di sopra delle proprie possibilità. È una fase storica che si chiude. Fino alla metà degli anni Settanta le famiglie Usa risparmiavano in media il dieci per cento del loro reddito. Ma la spinta ai consumi esplosa all'inizio degli anni Ottanta ha progressivamente annullato la capacità di risparmio, che oggi è prossima a zero. I primi segnali di un'inversione di rotta sono già evidenti. In agosto, per la prima volta dopo dieci anni, i prestiti chiesti dagli americani sono scesi del 3,7 per cento: "La tenaglia del credito obbligherà gli americani a limitare i consumi", dice Frank Badillo, economista alla TNS Retail Forward, società di ricerche di mercato: "Stiamo per assistere a cambiamenti radicali nel comportamento dei consumatori".

Si tratta di una mutazione che nel breve termine avrà certamente un effetto negativo sull'economia americana. La minore propensione al consumo è destinata a favorire una inevitabile recessione e a rimodellare intere industrie, per esempio quella automobilistica, ormai orientata verso le piccole cilindrate a basso consumo. Ma Ruth Susswein, analista di Consumer Action, una organizzazione di difesa dei consumatori, è convinta che molte banche nel settore delle carte di credito finiranno presto sotto il controllo della Federal Reserve e che questo avrà un effetto positivo sul mercato: "Molte linee di credito saranno tagliate e i consumatori dovranno imparare a usare di più il denaro contante. Da un lato questo provocherà un calo dei consumi ma dall'altro farà aumentare la propensione al risparmio", dice Susswein.

Per capire la portata di questa rivoluzione basti pensare che dopo l'11 settembre, con il paese ancora sotto choc, il presidente Bush invitò gli americani a tornare nei negozi a fare acquisti, indicando nel consumo la prima medicina anti-crisi. Sono passati sette anni e quella medicina è risultata tossica. La corsa al debito non si è più fermata, sia a livello dei comportamenti privati sia in quelli pubblici.

Alcune settimane fa il contatore luminoso del debito pubblico, inaugurato nel 1989 a Times Square, nel cuore di New York, ha superato i 9.999 miliardi di dollari e non aveva più caselle luminose su cui espandersi. E improvvisamente fare debiti non è più considerato una virtù ma è diventato un sintomo di malattia. Non è un caso se i sondaggi elettorali fanno prevedere la vittoria di Obama alle elezioni del 4 novembre. A 28 anni dall'avvento dell'era reaganiana forse la società americana è pronta a una svolta. La crisi delle carte di credito è il simbolo più forte di questo cambiamento

 

21 ottobre

 

Ricordo di Vittorio Foa

Una lezione di generosità

di GIORGIO BOCCA

Quando sento parlare di buoni maestri penso subito a Vittorio Foa, il migliore e il più presente negli anni dei miei buoni maestri. L'ho conosciuto leggendolo nel gennaio del '44, appena arrivato nelle Langhe dalla Val Maira con la anabasi partigiana dalla montagna alle colline del vino. Una staffetta ci portò da Torino l'ultimo quaderno di Giustizia e Libertà.

Aveva la copertina rossa e in nero la spada di Giustizia e Libertà. Era un articolo sulle alleanze orizzontali necessarie alla Resistenza, le alleanze ostiche alla nostra formazione elitaria, dei pochi ma buoni. Quella lezione di intelligenza e di modestia ci arrivò nel momento giusto, della euforia combattentistica e della superbia. Un quadro lucido della situazione, un richiamo alla realtà. Lo stesso modo di vedere il mondo, senza retorica ma senza rassegnazione degli altri maestri del liberal socialismo, da Gobetti a Bobbio, dai Galante Garrone ai Rosselli, dai Valiani ai Parri. Vittorio Foa ci è stato maestro di generosità e di fedeltà intellettuale, di antifascismo solidale e intransigente, il necessario ma sempre legato alla ragione.

Ho avuto come compagni di viaggio nella politica e nella cultura due intellettuali di stampo giellista: Paolo Spriano e Vittorio Foa. Il primo era diventato lo storico del Partito comunista, il secondo il dirigente della Cgil legata al Partito comunista. Li ho seguiti per anni nella burrascosa vicenda delle fazioni e delle passioni politiche e la mia stima in loro è durata e cresciuta per la loro fedeltà alla ragione, per la capacità rara di restarle fedeli se occorreva con "l'astuzia dell'intelligenza".

La prova migliore di Spriano fu la storia del Partito comunista dove tutto ciò che si doveva sapere fu indicato anche se non gridato e per Vittorio la visita del sindacato all'Unione Sovietica e la relazione critica che ne seguì, precisa anche se non gridata. Ciò che faceva di Vittorio una persona amata da tutti coloro che lo conoscevano era la sua curiosità disinteressata, la sua fedeltà a una ragione ragionevole.

Nonostante la galera fascista e le faziosità di cui soffrì anche l'antifascismo non rinunciò mai a cercar di capire i diversi, non sacrificò i sentimenti e l'ironia al disprezzo e alla condanna. Fu sempre un amico, un padre, un compagno comprensivo. Mi incantarono i suoi ultimi libri, specie i ricordi di montagna, così come mi aveva colpito il suo saggio sul quaderno di GL, il suo saper restare uno che sa ridere, come quando della politica giovanile ricordava il fastidio di sua madre per quelle montagne di Courmayeur piene di neve e di antifascisti.

Vittorio e la sua famiglia passavano le vacanze a La Salle in Valle d'Aosta. Vittorio non era più in grado di camminare ma si faceva portare in auto fino al Piccolo San Bernardo per le montagne in cui aveva camminato da ragazzo e che ricordava tutte perfettamente per nome. Anche quello un modo del suo essere fedelmente affettuoso.

 

20 ottobre

 

Cosa resta in busta paga

di Paola Pilati

Chi ci rimetterà con il nuovo modello contrattuale? Come saranno calcolati gli aumenti anti-inflazione? Lo Stato risarcirà i dipendenti? Tutti gli scenari della riforma che cambierà gli stipendi

Emma vacci piano, ammoniscono dalla Fiat. Guglielmo dove ci stiamo cacciando?, chiedono allo stato maggiore del Pd. Preoccupata dalla minaccia di un accordo separato sul nuovo contratto lanciato dalla volitiva presidente della Confindustria Emma Marcegaglia, l'ala nobile degli imprenditori ha raccomandato prudenza. E altrettanto hanno fatto i vertici del centrosinistra all'indirizzo della Cgil, sul cui segretario Epifani continuano a piombare le ansiose telefonate di Veltroni, Franceschini, Enrico Letta. Anche Cisl e Uil, nel frattempo, hanno abbassato i toni, e aderendo allo sciopero unitario sulla scuola hanno lanciato un segnale inequivoco: firmare da soli per sancire le nuove regole dei contratti sarebbe un suicidio. Soprattutto a queste condizioni. Quel che infatti il sindacato non ha chiarito, e che gli industriali non hanno interesse a fare, è chi vince e chi perde in questa partita. Come si tradurranno le nuove regole per le varie categorie di lavoratori. E come cambierà il rapporto di potere in fabbrica nel triangolo padrone-sindacato-operaio. Vediamo di capirlo.

Addio rituali La Banca d'Italia ha detto di no: interpellata da viale dell'Astronomia per confezionare le previsioni di andamento dell'inflazione su cui far muovere i contratti, non se l'è sentita. Sarà un altro istituto a farle (l'Isae?) e avrà una bella responsabilità. Sarà questa, infatti, l'unica benzina sicura che farà muovere gli stipendi per i tre anni del contratto nazionale. Niente più fumose riunioni su complicate piattaforme rivendicative, che magari andavano avanti per mesi: i rinnovi saranno quasi degli incontri notarili. Presa d'atto degli aumenti previsti, e via. La discussione potrà riguardare la cosiddetta parte normativa: orari, progressioni di carriera e simili, verosimilmente anch'essi sempre più esigui. I pugnaci sindacalisti di rango nazionale, abituati a incontrarsi-scontrarsi con i vertici dell'imprenditoria, vanno incontro a una perdita di ruolo da lettino dell'analista.

Quale inflazione? "Garantiamo un recupero sostanziale della perdita di potere d'acquisto", assicura il direttore generale Confindustria Maurizio Beretta, "ed è una copertura dall'inflazione maggiore di quella attuale". Nell'avverbio 'sostanziale' c'è la dinamite che sta facendo deflagrare i rapporti nella trattativa. In quell'inflazione sarà registrato l'effetto delle materie prime alimentari importate (esempio: il grano), ma tolto l'effetto dei prezzi dell'energia. In sostanza, si sceglie una via di mezzo tra l'inflazione programmata per restare nei limiti imposti dalla Bce (l'1,7 per quest'anno), quella effettiva che sarà più alta, e quella senza energia: il 2,6. "In questo modo il cittadino paga i rincari del petrolio in bolletta e anche nello stipendio", protesta Agostino Megale, segretario della Cgil che guida l'Ires, l'ufficio studi di Corso d'Italia, e ricorda che in base ai suoi conti le buste paga non hanno mai recuperato i 1.900 euro di potere d'acquisto persi tra il 2002 e il 2003 per via di una inflazione più alta del previsto.

Chi vince, chi perde In simili diatribe, non è facile ai comuni mortali vederci chiaro. Con la proposta confindustriale, tra il 2008 e il 2011 ci sarà una perdita per gli stipendi di 1.914 euro, accusano dalla Cgil. Niente affatto, ci sarà un aumento di 2.503 euro, ribadiscono gli industriali. E via con stime brandite come spade: l'inflazione del 2009 sarà del 3,2 per il sindacato, del 2,5 per la Confindustria. La realtà è che il meccanismo funziona come una scommessa."Diamo i soldi dell'inflazione futura in anticipo", fa notare Luca Paolazzi, direttore dell'Ufficio studi dell'organizzazione imprenditoriale, "e questo di fatto è quasi un meccanismo di scala mobile", afferma. E se le previsioni si rivelano sbagliate? "Ci sarà chi vince e chi perde", spiega Paolazzi, "ma non ha senso chiedere un recupero a posteriori".

Attacco al punto Ma è da un altro meccanismo, più esoterico di quello della contingenza, che arrivano guai peggiori. A metà 2009, quando andranno a rinnovare il contratto con le nuove regole (sempre cha passino), se ne accorgeranno per primi gli alimentaristi: il valore punto sarà stato decapitato dai 17 euro attuali a 14,5. A ruota seguiranno i metalmeccanici con 2,20 euro in meno, da 17,55 a 15,35 (vedi grafico a pagina 151). E che cosa è il valore punto? È la base su cui calcola la crescita dell'inflazione. E poiché ogni categoria ha il suo, questo vuol dire che l'inflazione ha un peso diverso nelle buste paga di un chimico e, poniamo, di un lavoratore del commercio. Il valore punto differenziato stabilisce una gerarchia operaia? Nessuno lo ammetterà mai. Di fatto la Confindustria non punta a uniformarli, ma a decurtarli sì, e propone tagli che vanno dal 10 al 30 per cento. Chi ci rimetterà di più? "I lavoratori del settore pubblico e quelli dei trasporti", afferma Susanna Camusso, segretario della Cgil che segue la trattativa. E questo perché, mentre nell'industria il valore punto si è costruito inglobando mille voci della retribuzione che hanno rimpinguato la paga-base, per il pubblico questo non è mai avvenuto: il 30 per cento della paga di statali e addetti ai trasporti è fatto di voci accessorie che il ministro della Funzione Pubblica Renato Brunetta non vede l'ora di rasoiare. Il risultato, per tutti, sarà una riduzione del salario. Ciò che si conquista con un meccanismo di inflazione più ricco di adesso, si perde per quest'altro verso.

Troppo piccoli per contare "Vogliamo diffondere la cultura della contrattazione", affermano in Confindustria. "Dove sta la fregatura nella proposta degli imprenditori? Nel fatto che sarà molto difficile fare gli integrativi aziendali", ammette, onestamente, la segretaria dell'Ugl Renata Polverini. Il primo dei problemi che il nuovo sistema solleva è proprio questo: oggi la contrattazione decentrata si fa solo in una impresa su dieci, ed è più diffusa solo tra le grandi imprese (quattro su dieci).

Domani, i soldi ottenuti a livello aziendale a fronte di un aumento della produttività, dovranno diventare il perno del sistema, il modo in cui l'imprenditore riconoscerà ai propri dipendenti una parte della crescita dei profitti. "Ma le parti lo sanno bene che nelle piccole imprese i sindacati non ci sono e che i padroni non hanno nessuna intenzione di farli entrare", osserva Marco Leonardi, ricercatore del dipartimento studi del lavoro alla Statale di Milano. E allora, come si distribuiranno i soldi?

Vuoi l'aumento? Produci Non puoi distribuire quello che non produci. Sacrosanto. E come la ottieni questa produttività? "Secondo me è legata al numero di ore lavorate", esemplifica Federica Guidi, presidente dei Giovani: "Si deve lavorare di più, per esempio arrivando alle 40 ore effettive". Provvedimento che nella Ducati, la fabbrica di famiglia, stanno implementando con macchinette del caffè che si spengono per non far allungare la pausa oltre i 10 minuti. E che altro? "C'è qualche permesso di malattia retribuito di troppo; e, diciamolo, maturare 32 giorni di ferie dopo solo un anno e qualche mese di assunzione è tanto". C'è chi osserva, però, che la produttività non dipende solo dal lavoratore: "Può essere vero per la pubblica amministrazione,"dicono gli economisti Giuseppe Ciccarone e Enrico Saltari sul sito di analisi economica e giuridica Nelmerito. com: "Nell'industria è strettamente legato all'investimento in progresso tecnico". Insomma, dipende anche dal padrone.

Buio a mezzogiorno Nel Sud si firmano contratti solo in cinque aziende su cento. Molte aziende metalmeccaniche, tessili, alimentari, sono destinate a non essere neppure sfiorate dallo scambio produttività-quattrini. Riceveranno, in cambio, un 'premio di mancata contrattazione'. "E volete sapere come lo pagheranno?", si infuria Megale: "Con la scrematura del valore punto. Tolgono i 2,2 euro al punto di un milione e seicentomila metalmeccanici, e si ritrovano con le risorse per il premio: è un'ingiustizia".

Ma dov'è Pantalone? Qui ci vuole il governo. Che metta sul piatto dei soldi, che spenda per sgravi fiscali ai lavoratori dipendenti. Non bastano gli sconti che si è già detto disponibile a fare sugli aumenti aziendali: su questa parte della retribuzione si applicherà una aliquota del 10 per cento. Ma solo fino a 3.000 euro annui e per buste paga fino a 30 mila euro. Questo meccanismo è il cuore della proposta confindustriale, e già trasforma di fatto l'erario in una 'spalla' degli industriali. Ora vuole qualcosa anche l'opposizione. Il segnale è arrivato da Massimo D'Alema: "Abbozzo un piano", ha lanciato all'indirizzo della Marcegaglia durante il convegno caprese dei giovani di Confindustria: "Allentare il fisco sui redditi fino a 50 mila euro". Evocato come il mago della lampada che esce fuori strofinandola, per ora il ministro dell'Economia Giulio Tremonti, detentore dei cordoni della borsa, non si è palesato. Ma il tam tam su un salvifico intervento si sta propagando. L'idea più gettonata è quella di dare la possibilità anche ai lavoratori dipendenti di detrarre le spese di produzione del reddito, vuoi la benzina vuoi l'abbonamento al treno, quando pagano l'Irpef. Un'operazione da uno, due miliardi di euro? Forse è per questo che il mago resta nella lampada.

 

Pakistan, un'escalation per McCain

Forze Usa sempre più attive nelle Aree Tribali

Le elezioni presidenziali negli Stati Uniti si avvicinano, e l'amministrazione repubblicana uscente è decisa a ottenere qualche clamoroso risultato nella Guerra al Terrorismo da poter spendere nella campagna elettorale di McCain come asso nella manica dell'ultimo minuto. Nel mirino del Pentagono c'è l'obiettivo mediatico per eccellenza: Al-Qaeda. Non potendo puntare su Osama Bin Laden (oramai da tutti dato per morto) la scelta cade necessariamente sul numero due dell'organizzazione, il medico egiziano Ayman Al-Zahahiri, che se ne sta nascosto da anni sulle montagne delle Aree Tribali pachistane (Fata), al confine con l'Afghanistan.

Un intervento sempre più diretto. L'urgenza di ottenere questo obiettivo politico spiegherebbe, secondo i principali giornali pachistani, l'escalation dell'intervento militare statunitense in Pakistan delle ultime settimane.
Un intervento sempre più diretto e sempre meno delegato alle forze armate di Islamabad, poco affidabili in quanto costrette con il ricatto a combattere in casa propria una guerra di cui farebbero volentieri a meno. La settimana scorsa il ministro della Difesa pachistano Kamran Rasool ha pubblicamente ammesso che il Pakistan non ha altra scelta se non eseguire gli ordini di Washington, perché altrimenti il Paese (da mesi in preda a una gravissima crisi economica, ndr) collasserebbe nel giro di tre giorni senza il sostegno finanziario statunitense.

Prossimo obiettivo: Nord Waziristan. Dopo due mesi di guerra, costati migliaia di morti e mezzo milione di profughi, l'esercito pachistano non è ancora riuscito a riprendere il controllo dell'area tribale di Bajaur. Ciononostante, secondo la stampa locale, i generali pachistani hanno ricevuto l'ordine di preparare una nuova offensiva in Nord Waziristan, dove secondo la Cia sono rifugiati Al-Zawahiri e compagni.
Ma questa volta, vista la necessità di ottenere risultati rapidi, gli Stati Uniti non lasceranno fare ai pachistani e scenderanno direttamente in campo. Non solo intensificando i raid missilistici dei droni 'Predator' contro i presunti covi di Al-Qaeda (già diventati di frequenza quasi quotidiana), ma anche agendo direttamente sul terreno dalle nuove basi operative Usa allestite in zona.

Usa basati tra Tarbela e Hasanpur. A fine settembre, trecento militari delle forze speciali Usa sono arrivati nel quartier generale della Special Operation Task Force pachistana sul lago di Tarbela, una ventina di chilometri a nord di Islamabad. Ufficialmente si tratta di consiglieri militari con compiti di addestramento. Come centro operativo delle attività delle forze Usa in Pakistan sarebbe stato scelto il vicino aeroporto di Hasanpur, poco più a valle, che nelle scorse settimane è stato sottoposto a lavori di ingrandimento, con miglioramenti alla pista e costruzione di nuovi hangar, bunker ed edifici. Tutto farebbe pensare a qualcosa di più di un semplice centro di addestramento.

Enrico Piovesana

La gelata che verrà

di Luca Piana

Il caro-mutui e la paura del futuro inducono i consumatori a spendere sempre meno. Con effetti pessimi sulle imprese. E quindi sull'occupazione. Colloquio con Luigi Guiso

Le crisi finanziarie non restano mai circoscritte. Quasi immediatamente dilagano al resto dell'economia per una ragione evidente: le banche diventano più riluttanti nel concedere prestiti e, anzi, assorbono la liquidità che sono in grado di reperire per ricostituire le loro riserve... Luigi Guiso, professore di Economia all'European University Institute di Firenze, non ha dubbi. Il tracollo dei mercati finanziari e delle banche in particolare ha già contagiato l'economia reale, in Europa come in Italia. "Il ruolo delle banche", spiega l'economista in questa intervista a 'L'espresso', "consiste nel raccogliere denaro a breve termine e investirlo con un orizzonte temporale più lungo, prestandolo alle imprese e alle famiglie. Il sistema funziona grazie al fatto che i clienti, in situazioni normali, non si presentano tutti insieme a ritirare i risparmi depositati. Ogni giorno, però, gli istituti hanno bisogno di ulteriori risorse che si prestano l'un altro: nelle ultime settimane non è più accaduto perché nessuna banca si fida delle altre".

Con quali conseguenze?
"Le misure sono diverse. Fra queste, la riduzione dei prestiti erogati e l'adozione di criteri più stringenti nella selezione della clientela".

Aumentano anche i tassi d'interesse?
"Certamente. Se circola meno denaro, quel poco che c'è costa di più e procurarsi capitali diventa più oneroso. Pertanto le aziende che stavano programmando investimenti da finanziare a debito sono costrette a rinviarli o perché non riescono a ottenere i capitali necessari o perché questi costano troppo. E la maggiore cautela delle banche si traduce in un immediato freno dell'economia".

Il fenomeno è già in atto?
"I segnali si vedono da tempo. Prendiamo le vendite di automobili. Il forte calo a cui stiamo assistendo dipende in parte dal fatto che molti italiani avevano già cambiato auto negli ultimi anni, in parte dal deterioramento delle prospettive di reddito. Il calo però è aggravato anche dal fatto che oggi indebitarsi per acquistare una vettura costa di più in conseguenza della crisi finanziaria. Le famiglie ci pensano due volte prima di comprarne una nuova e attendono tempi migliori. E lo stesso si può dire per altri beni durevoli come, ad esempio, gli elettrodomestici o i mobili da arredamento".

Si dice spesso che il credito bancario sia, per molte aziende italiane, l'unica forma di finanziamento. Soffriranno la crisi più delle concorrenti straniere?
"Non è immediato stabilire a priori chi sarà più colpito perché oggi non è facile raccogliere capitale in Borsa anche per le imprese quotate, come ad esempio fanno di norma nei paesi anglosassoni. È vero però che l'elevata dipendenza delle imprese italiane dal credito bancario costituisce anche oggi un handicap, tenuto conto che l'epicentro della crisi finanziaria coinvolge le banche in modo diretto. Oggi, forse più che in altre circostanze, imprese che possono emettere anche obbligazioni, possono riuscire a smussare l'impatto della crisi".

Un'altra critica che viene fatta spesso alle banche è quella di non saper finanziare le imprese davvero innovative e meritevoli. Un ulteriore svantaggio, in tempi di credito difficile?
"Paradossalmente la relativa arretratezza del sistema finanziario italiano e la tendenza delle banche a finanziare solo chi è dotato di adeguate garanzie patrimoniali, oggi può apparire un punto di forza, perché i bilanci degli istituti sono più protetti. Ma a lungo andare non è di grande aiuto per l'economia un sistema creditizio che si rifiuta di prendere rischi perché non li sa valutare accuratamente e non finanzia quanto dovrebbe le aziende innovative".

In generale ritiene che l'Italia potrà essere colpita dal rallentamento in atto dell'economia mondiale in misura più profonda del resto d'Europa?
"I dati dicono che stiamo pagando un prezzo superiore. Negli ultimi dieci anni il tasso di crescita dell'economia italiana è stato inferiore di un punto percentuale rispetto alla media dell'Unione monetaria europea. Ora il divario si è allargato, raggiungendo l'1,5 per cento circa".

Per quali motivi?
"La crisi finanziaria e la finanza in generale c'entrano poco. La ragione della tendenza a crescere sistematicamente meno della media europea va cercata in un insieme di fondo: scarsità di innovazione tecnologica, di infrastrutture adeguate, di regole certe per chi investe, di una giustizia civile dai tempi accettabili, tutti fattori che tengono alla larga i grandi investimenti. Il rallentamento congiunturale più rapido riflette una maggiore esposizione dell'Italia agli choc che oggi causano la frenata, come la maggior dipendenza dal petrolio".

In tempi di crisi si dice che a soffrire di più siano i lavoratori dipendenti dai redditi più bassi.
"Non è così semplice fare affermazioni su categorie ampie. In linea di massima i lavoratori dipendenti del settore privato rischiano di più, perché possono essere licenziati con maggiore facilità e perché i contratti a termine possono non essere rinnovati. Ma anche i lavoratori autonomi devono far fronte a una diminuzione dell'attività: ci sono situazioni molto eterogenee, anche a seconda di quanti risparmi o debiti ha accumulato ciascun individuo".

I più malmessi sembrano dunque i lavoratori dipendenti con contratto a termine e mutuo a tasso variabile.
"Non vorrei nemmeno essere nei panni di un negoziante che ha sottoscritto anche lui un mutuo ingente a tasso variabile".

I lavoratori autonomi hanno però maggiori chance di evadere il fisco, una bella garanzia contro il carovita.
"Che però vale anche nei momenti buoni. Non credo sia una discriminante per sopravvivere meglio in tempi di crisi: tutti rischiano di pagare un prezzo pesante".

La Banca centrale europea ha scelto di non abbassare subito i tassi. Perché?
"Al momento ci sono ancora rischi sul fronte dell'inflazione. In prospettiva questi timori dovrebbero attenuarsi, anche per effetto del rallentamento del prezzo del petrolio. Sono fattori che si chiariranno nelle prossime settimane".

Crescita ferma, tassi elevati, prezzi in tensione: la crisi sembra grave.
"Per il momento possiamo parlare di un forte rallentamento dell'economia. Se sarà recessione dipenderà da come evolve la crisi finanziaria: se dovesse ampliarsi, non arriverà più credito all'economia e potrebbero esserci effetti molto seri. La disoccupazione è già in aumento: se la crisi non dovesse fermarsi, potremmo perdere un numero molto elevato di posti di lavoro".

 

Va in onda il test di paternità

Il Maury Show è "il peggior programma in tv", ha detto un critico Usa. Ma con i suoi drammi familiari ben oltre il cattivo gusto, rimane popolare

Va in onda da anni su una delle tante tv via cavo, ma la prima volta che lo vedi non puoi rimanere impassibile di fronte al Maury Show. Più trash del suo predecessore Jerry Springer, il pioniere delle diatribe familiari urlate in televisione, il conduttore porta davanti alle telecamere storiacce di famiglie in via di disfacimento, ma il suo piatto forte è la sezione “I nostri sette bambini hanno bisogno del loro padre... fai il test!”. Che consiste appunto nel mettere alla gogna televisiva un padre che nega di esserlo, una madre disperata, e una busta che contiene il risultato del test del Dna sul figlio in questione. Con contorno di pianti, esultanze, parolacce coperte dal “beep”, fischi e applausi del pubblico, e non sempre con un lieto fine.

Qualche giorno fa mi sono imbattuto in una puntata dello Show, “gustandomi” tre di questi casi. Nel primo, una coppia insieme da sette anni era divisa sulla paternità del loro secondo figlio, un piccolo di due. Secondo l’uomo, il bambino aveva la testa troppo grossa e non gli somigliava per niente. Ma l’apertura delle busta gli ha dato torto, e la coppia si è riconciliata per gli applausi del pubblico. Nel secondo caso, il padre voleva togliersi il dubbio sulla figlia di sei mesi: nel periodo del concepimento, intorno alla madre gironzolava un ex fidanzato, e lui voleva chiarire la questione una volta per tutte. Anche in questo caso, il test del Dna ha confermato che la piccola era figlia della coppia, che si è sciolta in lacrime con un abbraccio liberatorio.

L’ultima storia non è però finita col “vissero felici e contenti”. Il caso era quello di un uomo che ha abbandonato la fidanzata pochi giorni dopo il parto, convinto che lei fosse già incinta quando ebbero il primo rapporto. Dopo il voto del pubblico, il conduttore ha aperto la busta e stavolta aveva ragione il (non) padre. Alla scoperta della verità, la donna è scappata nei corridoi dietro le quinte, singhiozzando incontrollabile e ripetendo di non sapere chi è il padre. L’uomo, dopo aver esultato con ripetute urla di gioia, è andato a consolarla per un momento, e l’ha poi lasciata lì tornando a festeggiare davanti alle telecamere, danzando come un rapper.

E’ chiaro che i casi potrebbero benissimo essere inventati, o i litiganti attori che prestano le facce a storie vere. Ma la banalizzazione dei sentimenti, e il cattivo gusto nel metterli in scena davanti al pubblico-giuria, ha provocato una pioggia di critiche sul conduttore Maury Povich, accusato anche di perpetuare gli stereotipi su afro-americani e ispanici: dato che spesso storie del genere coinvolgono persone di basso livello socio-economico, è chiaro che le minoranze vi siano più rappresentate. Tutte ragioni che hanno portato un critico televisivo americano a definire il Maury Show “il peggior programma che si vede in tv”. Ma ha comunque un’audience di 3,5 milioni di persone, quanto il David Letterman Show. E se il trash dello Jerry Springer Show sembrava una cosa che può succedere “solo in America”, e poi ha invece ispirato diverse trasmissioni italiane, chissà che presto non vedremo anche sui nostri schermi l’apertura di una busta con il verdetto di paternità.

Alessandro Ursic

 

Fascisti per caso

di Elena Stancanelli

Chiedono ordine e rigore. Cancellano saluti romani e svastiche. Tifano Obama. Come cambia Forza Nuova nell'era della destra

Il quinto Campo d'Azione di Forza Nuova si svolge fuori e dentro una palazzina occupata sulla Via Tiberina, dalle parti di Prima Porta, a nord di Roma: Casa Montag. Guy Montag è il protagonista di 'Farhenheit 451'. Il vigile del fuoco che si ribella ai roghi dei libri e si unisce alla resistenza. Tradizionalmente non un loro eroe. "Noi amiamo molto Orwell", spiega un tizio dall'accento padano. E amate anche Bradbury, verrebbe voglia di replicare, dal momento che 'Farhenheit 451' non è di Orwell, ma dello scrittore americano? Brutti sporchi e cattivi. Poco inclini a perder tempo coi libri e la cultura, avversi alla complessità e alla riflessione. Ma il raduno dei camerata forzanovisti - "fratelli forzanovisti" come li definirà nel suo intervento Roberto Fiore con ineffabile eufemismo - non è soltanto questo. Anzi, è soprattutto un'accolita di entusiasti membri di un club misterioso, una società segreta che si vela e si rivela, grazie a un'abile regia interna. Quello che colpisce è questa sensazione di forza. Trattenuta, sorniona. Sembra quasi che tutti loro siano a conoscenza di un segreto che li unisce. Qual è il segreto che condividono i ragazzi di Forza Nuova, che cosa li rende euforici?

Il duo Anna Lami (ufficio stampa) e Martin Avaro (dirigente nazionale e protagonista degli scontri di aprile scorso alla Sapienza), è addetto all'accoglienza. Martin ha 29 anni e l'aria di chi si è appena asciugato i capelli dopo aver fatto 80 vasche: sano, biondo, pariolo. Porta jeans e Clarks marroni e, illustrando il programma del Campo, dice: "Stasera suonano le Innocenti Evasioni, gruppo che fa cover di Lucio Battisti, cantante di destra. Come Mina e Max Pezzali e Laura Pasini. E anche De Rossi e Buffon". Tira via subito il panno e scopre il Pantheon, l'affresco con le figurine dei santi. Non c'è più alcun dubbio. Non è più il tempo delle estenuanti discussioni sulla copertina de 'Il mio canto libero', per decidere se quelle mani alzate fossero o no una metafora del saluto romano. A Cesare quel che è di Cesare.

"Noi non abbiamo pregiudizi. La mia canzone preferita", interviene Anna Lami, "è 'Anime Salve' di De Andrè". Il film preferito di Martin è 'C'era una volta in America'. "Sono quelli di sinistra ad avere un sacco di fissazioni, l'antifascismo per esempio. Noi non siamo anticomunisti. Noi non siamo anti niente". Non siete neanche anti-immigrati? "Siamo anti-immigrazione", precisa Anna, "non anti-immigrati. È l'immigrazione che crea il razzismo. La nostra idea è che le frontiere debbano essere chiuse, punto e basta". E Schengen? "Siamo anti-Schengen". E l'asilo politico? "Siamo anti-asilo politico, è una truffa". Anche il papa ha parlato di accoglienza. "Noi siamo a favore del papa. Noi siamo cattolici, ma in questo caso non siamo d'accordo". Cioè siete anti-accoglienza. "Esatto".

Al Campo d'Azione, complice anche un clima inclemente, non ci sono molte attività. Un maestro d'arme insegna blandamente a incrociare gli spadoni, qualcuno improvvisa una gara di tiro con la mazzafionda. Michele, Lorenzo e altri tre o quattro ragazzi arrivano da Milano. Con loro una delle poche femmine, una ragazzina di 16 anni con bellissimi occhi azzurri. "Li ho conosciuti nel mio quartiere, Chiaravalle", racconta: "Intorno alle nostre case erano cresciuti quattro campi nomadi abusivi. C'erano furti e tensione, ma nessuno ci ascoltava. Quelli di Forza Nuova sono venuti, e sono rimasti con noi. Facevano dei presìdi con noi, parlavamo con le istituzioni al posto nostro. Alla fine sono riusciti a farli sgombrare. Per questo sono qui".

"Dobbiamo raccontare balle ai nostri genitori per frequentare Forza Nuova", dice Michele, figlio di un antifascista. "E tutto per colpa dei giornali, che ci dipingono come dei mostri. Io sono di Forza Nuova per reazione, per rabbia contro la sinistra. A scuola, quelli di sinistra facevano le occupazioni soltanto per fare bordello, e farsi le canne. Io ho bisogno di regole e ordine". Voi non vi fate le canne? "No. Beviamo birra". Il bar del campo d'Azione vende infatti solo birra, litri e litri di birra. Devono aver ereditato questa abitudine dall'Inghilterra, da mods, skinheads e i vari gruppi della controcultura working class anni Settanta.

Nel giardino dietro al bar i camerata più arditi, tra questi una numerosa falange da Piacenza, hanno piantato la tenda sfidando il freddo e l'umido. Indossano giubbotti, occhiali Ray-Ban a goccia, jeans e felpe scure. Non sono tanto diversi dai colleghi della sinistra militante, i gruppi Rash per esempio (gli skinheads di sinistra), si vestono quasi nello stesso modo. E forse condividono anche alcune passioni, gli indiani d'America, Bobby Sands e gli attivisti dell'Ira, 'Braveheart', 'Balla coi lupi', 'Trecento'... "Non abbiamo tatuaggi, non mostriamo svastiche", incalzano. Ma chi siete allora? "Siamo persone normali, contrarie alla violenza". Siete razzisti? "No. La Lega è razzista. Che fa entrare gli immigrati come mano d'opera a basso costo per le imprese del Nord e poi li tratta come bestie, vietando loro di avere un posto dove pregare". Siete xenofobi? "No". Siete fascisti? "Siamo nati dopo la caduta del muro di Berlino, lo capite da soli...". Cosa?

Nel reparto merchandising ci sono le fibbie col duce e i fasci. Sulle felpe, delle quali si occupa personalmente Martin Avaro, c'è scritto 'Giovinezza in marcia', 'X Mas', 'El Alamein', 'Mussolini', 'Arditi'. Ma anche 'Bush's war for oil', o 'Arancia meccanica'. Tra i libri 'Cuori neri' di Telese e i sempiterni Julius Evola e Drieu de La Rochelle. I dischi più venduti sono quelli degli Hobbit e i 270 bis di Marcello de Angelis, ma l'unico vero culto musicale della destra estrema rimane Massimo Morselli, il De Gregori nero. Fondatore insieme a Roberto Fiore di Forza Nuova.

L'intervento di Roberto Fiore è l'evento più atteso del Campo. Ci saranno 200 persone ad ascoltarlo, tutti giovanissimi, quasi tutti maschi. Fiore ha 11 figli e una leggera zeppola. Sale sul palco insieme a Gianni Correggiari (vice-segretario nazionale) a Dimitri Zafeiropoulos, editore, in rappresentanza della Grecia e Gerhard Kurzman, deputato del Fpo, partito di estrema destra che ha preso quasi il 30 per cento dei voti alle ultime elezioni in Austria e viene accolto come un eroe. Fiore auspica un ritorno all'agricoltura contro l'effimera e fallace finanza, e delinea una cordata di alleanze tra partiti europei di estrema destra che comprende anche Spagna, Portogallo e la Russia di Putin. Il deputato austriaco, che fino a quel momento aveva sorriso, al nome di Putin ha un sobbalzo. "No, Putin no", dice. Intanto al Campo arriva il principe Ruspoli, e Fiore ne approfitta per chiedere per lui un applauso. Conclude Dimitri, che indossa un completo giacca-camicia-cravatta all black e ha uno sguardo torvo da dispeptico. Senza alzare la voce, senza alzare neanche lo sguardo dice: "Tenetevi pronti, camerati. I tempi stanno per cambiare. Nel 1929, dopo una crisi economica identica a quella che stiamo vivendo, tutto è cominciato". La folla esulta, applaude e poi si disperde.

"Adesso basta": il duo Anna Lami e Martin Avaro ci congeda alle otto di sera. "Durante i concerti capita che qualcuno beva una birra in più e potrebbe dire o fare cose che potrebbero essere interpretate male". Non una parola in più. Salutano e tornano dentro, nell'inaccessibile. Qual è il segreto che condividono i ragazzi di Forza Nuova, che cosa li rende euforici? Sono convinti che il loro club stia per essere promosso in serie A, che rischi addirittura di vincere lo scudetto. Per questo sono diventati cauti. La loro ascesa dovrà essere accompagnata da una tifoseria presentabile: via le svastiche, via i saluti romani e basta 'Negri ai forni'. Basta anche con Céline. Martin, per esempio, sta leggendo 'Durante' di Andrea De Carlo. E alle elezioni americane chi votereste, chiedo mentre si allontanano. "Obama, è ovvio". Ma voi odiate il multi-culturalismo, voi ritenete fallito il modello americano, Obama è nero... "Quello è più bianco di me e te", spiegano: "Quello è bianco dentro". I tempi stanno per cambiare...

 

Cessate il fuoco

Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n. 39 - 2008 dal 03/10/2008 al 09/10/2008

Nell'ultima settimana, in tutti i Paesi in guerra, sono morte almeno 742 persone

Iraq
Nell'ultima settimana sono morte almeno 111 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 9.422

Sri Lanka
Nell'ultima settimana sono morte almeno 182 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 7.615

Afghanistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 156 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 4.949

Pakistan Talebani
Nell'ultima settimana sono morte almeno 125 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 3.808

India Kashmir
Nell'ultima settimana sono morte almeno 25 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 486

Filippine Milf
Nell'ultima settimana sono morte almeno 15 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 457

Nord Caucaso
Nell'ultima settimana sono morte almeno 11 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 470

India Nordest
Nell'ultima settimana sono morte almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 573

Filippine Npa
Nell'ultima settimana sono morte almeno 6 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 221

Thailandia del sud
Nell'ultima settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 296

India Naxaliti
Nell'ultima settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 444

Somalia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 19 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.221

Uganda
Nell'ultima settimana sono morte almeno 4 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 136

Nigeria
Nell'ultima settimana sono morte almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 213

Sudan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 908

Rep. Dem. Congo
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 278

Colombia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 8 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 221

Turchia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 53 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 543

 

Firenze, l'uomo pagato per contare le rastrelliere

In un vecchio film, Totò truffava un disoccupato assumendolo per censire i piccioni di piazza San Marco. E forse è a quello che si sono ispirati i dirigenti di Palazzo della Signoria nell'assegnare una delle consulenze più folli degli ultimi anni. Il Comune di Firenze, guidato da Leonardo Domenici, ha pagato un professionista esterno per contare le rastrelliere delle biciclette. Avete letto bene: uno specialista per «il monitoraggio dello stato delle rastrelliere» dove si parcheggiano i velocipedi. Compenso per la missione: ben 12.600 euro. Possibile che tra tutti i dipendenti del municipio fiorentino non ci fosse nessuno per svolgere lo stesso lavoro? La vicenda, che risale al dicembre 2003 ed è stata rivelata dal "Corriere di Firenze", è emersa grazie a un'inchiesta della Finanza. Adesso la Corte dei Conti ha chiesto spiegazioni al dirigente del Comune: la magistratura vuole sapere come è possibile che nessun dipendente fosse in grado di portare a compimento lo stesso censimento. Il funzionario nel mirino non è un travet qualunque, ma l'ex presidente dell'ordine degli architetti. A proposito, la Guardia di Finanza ha trovato anche un'altra consulenza sorprendente: un dossier sullo stato dei bagni pubblici. Impresa per cui un professionista esterno ha ricevuto tremila euro. Almeno in questo caso, si può letteralmente parlare di soldi buttati nel gabinetto.

 

9 ottobre

 

E' la denuncia dell'ANMIL, l'Associazione dei mutilati e invalidi
Nuovo appello del Quirinale: "Si leva un indignato 'Basta'!"

Morti bianche, tre vittime al giorno
Napolitano: "Applicare le norme"

ROMA - Ogni giorno, in Italia, tre persone muoiono sul lavoro e 27 rimangono invalide in modo permanente. Nel 2007 le morti bianche, secondo i dati dell'Inail, sono state circa 1.200 e oltre 800 mila gli invalidi. Dati ripresi dall'Anmil - l'Associazione nazionale fra i mutilati e invalidi del lavoro - in occasione della cinquantottesima Giornata nazionale per le vittime degli incidenti sul lavoro, che si celebra oggi. Cifre che testimoniano la gravità del fenomeno, una delle principali cause di morte e con "quasi il doppio dei decessi rispetto agli omicidi".

Una giornata, si sottolinea all'Anmil, per richiamare l'attenzione delle istituzioni, delle forze sociali e dei mezzi di informazione sulla questione. Ma anche occasione "per denunciare le condizioni di vita drammatiche" degli invalidi e dei superstiti delle vittime", per i quali è necessario arrestare la deriva assistenzialistica verso cui il sistema si sta spingendo negli ultimi anni. "Basti pensare al fatto che una vedova percepisce in media una rendita di appena 700 euro al mese". Per l'Anmil, allo stesso tempo, deve però "essere un impegno condiviso da tutti quello di arginare il fenomeno degli infortuni sul lavoro, con una vera e responsabile applicazione delle norme per la prevenzione, sia da parte delle aziende che dei lavoratori"

Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha inviato al presidente dell'Associazione nazionale mutilati ed invalidi sul lavoro, Pietro Mercandelli, un messaggio in cui afferma: "Desidero rivolgere il vivo apprezzamento per il costante impegno associativo a favore della prevenzione nei luoghi di lavoro, della tutela dei lavoratori infortunati, dell'assistenza delle famiglie delle vittime e della sensibilizzazione dell'opinione pubblica. I preoccupanti dati diffusi dall'Anmil e le stesse tragiche cronache di questi giorni confermano quanto cruciale sia la questione della prevenzione sul lavoro. Si è levato naturalmente un indignato 'basta', sinceramente condiviso, di fronte a tragedie che, per la loro dimensione, suscitano il clamore dei media e il coinvolgimento dell'opinione pubblica".


"La realtà quotidiana - ha aggiunto il Capo dello Stato - ci ripropone casi drammatici (persino ripetitivi nella loro dinamica), storie personali e familiari di dolore e sofferenze che la vostra Associazione, insieme a tante altre espressioni del volontariato e delle istituzioni, aiuta ad affrontare con un impegno concreto di solidarietà che è giusto riconoscere e valorizzare. C'è indubbiamente, anche un problema di risorse: è decisivo qualificare quelle disponibili perchè si investa in formazione ed informazione, si persegua con determinazione l'obbiettivo dell'abbattimento degli incidenti sul lavoro, si rafforzino le tutele dei lavoratori e si sostengano le famiglie delle vittime sul lavoro".

Il Presidente della Repubblica ha poi concluso dicendo: "Particolare significato assumono le numerose iniziative promosse in ambito scolastico per una più diretta presa di coscienza da parte dei giovani che si affacciano al mondo del lavoro. E' doveroso tenere viva l'attenzione al fenomeno, non demordere nell'allarme sulla sua gravità sociale, applicare e migliorare le norme legislative. E' questo un obbiettivo di civiltà che dobbiamo al sacrificio dei tanti caduti, mutilati ed invalidi sul lavoro".

Per il governo è intervenuto il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi: "Nonostante le statistiche ci dicano che continuano a scendere gli infortuni mortali sul lavoro, dobbiamo mantenere alta la guardia rispetto a un fenomeno che ha una dimensione intollerabile in un paese moderno. Dobbiamo guardare bene alle caratteristiche degli infortuni - ha aggiunto il ministro - a quel quasi 60 per cento di infortuni sulla strada che richiamano tutta la nostra responsabilità perché ci sia maggiore sicurezza sulle strade, quanto più per le persone che le sfruttano per ragioni di lavoro, così come dobbiamo guardare alla dimensione della piccola impresa, dell'agricoltura, dei cantieri in particolare quelli abusivi che sono luoghi di pericolo immanente per la salute e la sicurezza delle persone. La scelta vera che noi vogliamo fare è quella di alzare molto il livello della capacità della persona di tutelare la propria salute nel luogo di lavoro".

Quando un giornalista gli ha chiesto se si possono aumentare i controlli nei cantieri, il ministro ha risposto che "si può fare integrando ancor più le capacità ispettive centrali e locali e chiamando al tempo stesso in gioco, come chiedono, le parti sociali con forme di collaborazione tra di esse che già ci sono e vanno incoraggiate in modo che, accanto al controllo delle istituzioni, ci sia anche il cono di luce garantito delle organizzazioni rappresentative dei lavoratori e delle imprese"

L'associazione Articolo21, che ha promosso assieme a Cesare Damiano la "carovana per un lavoro sicuro", esprime un profondo ringraziamento al presidente Napolitano, che torna a far sentire la sua voce contro quell'autentica strage quotidiana che si consuma in tanti luoghi di lavoro. "Ci auguriamo - affermano Damiano e Giulietti - che questo appello sia raccolto e che siano davvero applicate le normative che erano state fortemente volute dal governo Prodi.

 

3 ottobre

 

I costi della crisi per le famiglie

Ancora nuovi record, ancora un pesante pedaggio per le famiglie che pagheranno sempre più care le rate dei mutui. Ieri, infatti, i tassi interbancari hanno segnato nuovi record sulla scia della crisi che ha travolto i mercati finanziari. L'Euribor a tre mesi è volato al 5,37%, il livello più alto dal 1994. L'equivalente a una settimana tocca invece i massimi da sette anni al 4,98% mentre quello a sei mesi registra un nuovo picco, il più consistente negli ultimi 14 anni, al 5,43%.
Intanto molte organizzazioni cercano di aggiornare i conti su quanto costerà alla famiglia media italiana l'esplosione della crisi finanziaria. Secondo uno studio di Federconsumatori e Adusbef presentato ieri, viene stimato un costo di 1.672 euro annui ad ogni famiglia italiana. Le ricadute dirette saranno pari, secondo i consumatori, a circa 420 euro per gli investimenti in borsa - ipotizzando anche percentuali minime di operazioni di vendita per svariate cause ed interessi, pari al 5% - con perdite sui titoli venduti dal 30 al 35 %. Le perdite legate all'acquisto di prodotti finanziari tossici ammonteranno invece a 6 miliardi di euro, circa 280 euro a famiglia.
Per quanto riguarda, invece, gli effetti indiretti della crisi, legati alle dinamiche recessive e all'aumento del costo del denaro, le associazioni dei consumatori prevedono un calo del Pil di almeno un punto percentuale, con una ricaduta complessiva di circa 15 miliardi di Euro, pari a una perdita di ricchezza di 652 Euro per ogni nucleo familiare. Il nuovo incremento dell'Euribor costerà 40 euro all'anno ad ognuna delle 3 milioni e 200 mila famiglie che hanno contratto mutui a tasso variabile. I maggiori tassi sui prestiti costeranno invece 160 euro in più a famiglia. Gli effetti della crisi sull'inflazione saranno invece pari a 0,4 punti percentuali, una spesa aggiuntiva in beni di 120 euro a famiglia.

 

Sicilia, l'abbuffata di Scoma e le clientele degli altri big
Ironia della sorte: il recordman dei favoritismi ha la delega alla Famiglia

Posti per sorella, cugino e cognata
ecco l'assessore di Parentopoli

di ATTILIO BOLZONI e EMANUELE LAURIA

PALERMO - Figlio di un sindaco democristiano della Palermo spudorata degli anni '70, votatissimo, ammanicato, sempre candidato a tutto, come assessore alla Famiglia onestamente non poteva fare di più e di meglio. Specialmente per la sua famiglia: quella di sangue e quella politica.. Negli abissi della Regione siciliana c'è un onorevole che - quando si tratta di parenti - non resiste al fortissimo richiamo.

Questo è il piccolo vizio di Francesco Scoma, figlio di Carmelo. Nella hit parade dell'intreccio politico-familistico di Palermo lui batte tutti. Li vuole tutti accanto a sé. Vicini, piazzati e sistemati, intruppati, mischiati fra il suo ufficio di gabinetto e gli altri staff, congiunti suoi e congiunti di altri potenti, tutti insieme come una grande famiglia all'assessorato alla Famiglia. In quella trama di complicità che è la Regione siciliana, nomina dopo nomina e incarico dopo incarico, l'onorevole del Popolo della Libertà - classe 1961, eletto per la quarta volta all'Assemblea - si sta rivelando il personaggio simbolo dei favoritismi che si ordiscono nel governo guidato del catanese Raffaele Lombardo.

E' in cima alla lista l'assessore Scoma, il number one. Anche per il nome che porta. Nel suo quartier generale, di Francesco Scoma non ce n'é uno ma ce ne sono due. L'altro è suo cugino. Preso da un altro ufficio regionale, remunerato con indennità aggiuntiva e sistemato alla Famiglia. Dove, esattamente? Al "controllo strategico" dell'assessorato. Un parente che controlla l'altro a spese del contribuente. Una sorella di Scoma, Antonella, è stata assunta nello staff dell'assessore alla Presidenza della Regione Giovanni Ilarda. Una cognata, Deborah Civello, ha trovato un posticino nello staff del presidente del parlamento Francesco Cascio. La signora era già scivolata un paio di anni fa in uno scandalo - 448 assunzioni senza concorso nelle municipalizzate di Palermo - che aveva provocato anche l'apertura di un'inchiesta giudiziaria. Deborah era entrata all'Amia, l'azienda ambientale.
Ma nell'assessorato alla Famiglia Francesco Scoma non ha favorito soltanto suoi consanguinei. Ha messo dentro pure quelli di tutti i suoi amici ai quali probabilmente non può dire di no. A cominciare dal suo padrino politico, il presidente del Senato Renato Schifani. La sorella, Rosanna Schifani, il 6 giugno del 2008 è stata nominata per chiamata diretta "componente della segreteria tecnica" dell'assessore Francesco Scoma. Già dipendente regionale dal 1991 con qualifica di "istruttore direttivo", la signora Rosanna ha avuto in busta paga - nel passaggio allo staff di Scoma - un'indennità di 14 mila euro lordi l'anno. Ma deve rinunciare agli straordinari che prendeva prima. Intanto, nell'ufficio di gabinetto dell'assessore alla Famiglia, come "esterno", è entrato anche uno degli assistenti di Schifani. Si chiama Giuseppe Gelfo. E pure Danila Misuraca, sorella del parlamentare del Pdl Dore. E anche Stefano Mangano, a lungo segretario particolare del sindaco di Palermo Diego Cammarata.

Una bella infornata di parenti in quella Regione dove Lombardo ha addirittura litigato con il predecessore Cuffaro sulle spese folli, ha promesso "interventi per rimuovere eventuali anomalie" e dichiarato guerra agli sprechi: 39 milioni di euro l'anno per mantenere gli uffici di gabinetto, 818 milioni per pagare i 21.104 dipendenti, 75 mila euro l'anno per liquidare lo stipendio di un dirigente "esterno".

Cambiano i governi ma alla Regione si aggirano i soliti noti. Un altro campione della Parentopoli è l'assessore al Bilancio Michele Cimino. Un'altra storia di cugini: Rino Giglione è il suo capo di gabinetto. Un altro, Maurizio Cimino, è il direttore della Protezione civile di Agrigento. E un terzo, Simone Cimino, è alla testa di una società che - in partnership con la Regione - si occupa di fondi finanziari. "Non ci vedo nulla di strano, è giusto che in uno staff ci siano uomini di fiducia", garantisce l'assessore.

E allora, per lui, nulla di strano che in quest'altra grande famiglia che si è ricomposta al Bilancio ci siano anche due uomini del sottosegretario alla Presidenza Micciché. Il primo è suo cognato Pietro Merra, il secondo il suo ex autista Ernesto Devola. La ragnatela delle parentele si spande dappertutto. Il figlio del sindaco Diego Cammarata - Piero - è dipendente a contratto della spa regionale e-Innovazione, il fratello dell'ex governatore Totò Cuffaro è vicedirettore dell'Agenzia dell'impiego, Francesco Judica che è il cognato del governatore Lombardo è manager all'Asl di Enna, l'assessore ai Beni Culturali Antonello Antinoro ha nel suo ufficio di gabinetto anche Antonella Chiaramonte (sorella del cognato), mentre l'assessore regionale ai Lavori Pubblici Luigi Gentile ha nominato suo cognato Carmelo Cantone segretario particolare.

Un elenco infinito. Che continua con i parenti del ministro di Grazia e Giustizia. Angelino Alfano non ha soltanto la cugina Viviana Buscaglia nello staff dell'assessore all'Agricoltura, ma ha anche il cugino Giuseppe Sciumé vicedirettore generale all'Azienda Trasporti. Tutti sbandierano lunghi curriculum, ma chi lo toglie dalla testa a migliaia di disoccupati siciliani che siano miracolati per meriti di parentela?

Come scrivevamo all'inizio di questo articolo l'emblema dello sconcio familistico alla Regione siciliana tocca però all'assessore alla Famiglia, quello che nella passata legislatura ha toccato un altro record: il numero delle missioni all'estero. Risultavano otto, nel settembre del 2007: 4 a Bruxelles, 2 in Spagna, 1 a Washington, 1 a Parigi.

Nel governo Francesco Scoma è dal 2004, in politica da sempre. Suo padre Carmelo è stato sindaco di Palermo dal gennaio del 1976 all'ottobre del 1978, erano gli anni del dominio finale di Vito Ciancimino e anche lui - Scoma padre - fu coinvolto negli affari sui "grandi appalti" della città, quindici anni di spadroneggiamento sempre delle stesse imprese. Da assessore, Scoma figlio è diventato famoso per la sua spasmodica voglia di candidarsi ovunque. Alla vigilia delle ultime elezioni regionali era praticamente in corsa dappertutto. Alla Presidenza della Provincia (dove aveva promesso ad almeno una trentina di amici il posto di assessore), al parlamento, alla Presidenza dell'Assemblea.

Quando è divampato nelle scorse settimane lo scandalo di Parentopoli, intervistato da "Viva Voce" di Radio 24 è caduto dalle nuvole: "Allora vogliamo dire che essere familiari di politici sia un reato?". L'altro giorno Scoma, che è anche assessore agli Enti Locali, ha preparato un disegno di legge contro i privilegi nei comuni. Tagli, gettoni di presenza al posto degli stipendi, stop al cumulo per sindaci e presidenti di Provincia con il doppio incarico di deputato. Insomma, un bel repulisti. Poi, all'articolo 15 del suo provvedimento, una piccola smagliatura: le ispezioni nei Comuni dalle gestioni allegre, d'ora in poi, potranno essere fatte anche da professionisti esterni alla Regione. E a spese degli enti controllati. Sarà naturalmente Scoma, in persona, a scegliere gli ispettori. Qualcuno sospetta che l'assessore alla Famiglia abbia qualche altro cugino.

 

Bugie biocombustibili

Luca Fazio

Il dibattito sui biocombustibili si era infiammato un anno fa quando Jean Ziegler, relatore Onu sul diritto all'alimentazione, disse senza tanti giri di parole che l'uso dei terreni agricoli per creare benzina è «un crimine contro l'umanità». Con toni più pacati, ma altrettanto allarmanti, oggi è la Food and Agricolture Organization (Fao) a puntare il dito contro quello che veniva spacciato come l'eco-business del secolo, grazie ai finanziamenti pubblici miliardari che avrebbero dovuto salvare il pianeta dai gas climalteranti. Perché oggi, dopo aver prodotto 52 miliardi di litri di bioetanolo e 10 miliardi di litri di biodiesel solo nel 2007 (il 2% del consumo mondiale per il trasporto), i conti non tornano. Lo sostiene la Fao che ieri, presentando il suo rapporto annuale su «Lo stato dell'alimentazione e dell'agricoltura», ha invitato i paesi (ricchi) a «rivedere» le politiche e i sussidi relativi alla produzione di biocombustibili. Una marcia indietro indispensabile per mantenere l'obiettivo della sicurezza alimentare, per proteggere i paesi poveri, per promuovere lo sviluppo rurale e per assicurare la sostenibilità ambientale.
Una bocciatura su tutta la linea. I biocarburanti - questa l'accusa - mettono a rischio il diritto al cibo incidendo sull'aumento dei prezzi delle materie agricole (e gli effetti si sono sentiti anche dalla nostre «ricche» parti) e non sempre contribuiscono alla diminuzione delle emissioni di gas serra; inoltre, i sussidi e le barriere commerciali adottate dai paesi Ocse creano un mercato artificiale che esclude i paesi in via di sviluppo. E tanto per smascherare la grande menzogna, la Fao sostiene che i biocombustibili riusciranno a garantire solo percentuali poco significative di fabbisogno energetico: carbone, petrolio e gas nel 2030 copriranno ancora l'82% della domanda energetica (contro l'81% attuale). Un mezzo fallimento che ne causerà un altro,devastante: secondo la Fao, se la richiesta di scorte di «biofuel» salisse del 30% entro il 2010 assisteremmo a un aumento dei prezzi dello zucchero (26%), del mais (11%) e degli olii vegetali (6%).
Detto (più per dovere che per convinzione) che anche i paesi poveri potrebbero trarre benefici dalla produzione di biocarburanti, Jacques Diouf, direttore generale della Fao, ha sottolineato i rischi che corrono i consumatori poveri delle aree urbane e i compratori di cibo delle aree rurali. «Qualsiasi decisione relativa ai biocarburanti - ha ammonito - non può prescindere da considerazioni sulla sicurezza alimentare e sulla disponibilità di terra e di acqua. Tutti gli sforzi dovrebbero puntare a preservare l'obiettivo prioritario di liberare l'umanità dalla vergogna della fame». Pur nell'impossibilità di mettere tra parentesi la strage quotidiana di esseri umani che si consuma per fame, Diouf ha tracciato un bilancio negativo anche dal punto di vista ambientale: «Un maggiore uso, e dunque una maggiore produzione di biocarburanti, non necessariamente contribuirà a ridurre le emissioni di gas serra». Infine, tanto per schivare l'accusa di fomentare atteggiamenti anti scientisti, Diouf ha dato credito alla «seconda generazione di biocombustibili», quelli «non ancora disponibili sul mercato», sui cui sarebbe utile dirottare i finanziamenti. Come dire, ricercate ma lasciate in pace la Terra e i suoi abitanti.

Colpiscono me per colpire tutti quelli che si battono per la casa

Pietro Milazzo, Sindacalista della Cgil, dice la sua a proposito del provvedimento della Questura contro di lui

Venerdì scorso ho ricevuto un provvedimento dalla questura riservato ai "soggetti considerati socialmente pericolosi". Un provvedimento emenato in base ad una legge del 1956, peraltro sempre applicata solo verso soggetti della criminalità.
Questa legge consente al Questore, per i prossimi tre anni di deferirmi al tribunale per le misure di prevenzione. Il quale può comminarmi misure come la sorveglianza speciale o addirittura il confino. Comunque gravi restrizioni della libertà personale, come si può facilmente immaginare.
La causa esplicita di questi provvedimenti è il mio ruolo importante in questa battaglia che da oltre dieci anni stiamo portando avanti a Palermo sulla questione abitativa. C'è stata in questo periodo una recrudescenza della attività del Comune e della questura contro il movimento che si è occupato e che si occupa della emergenza abitativa che a Palermo è un problema grave, che tocca la vita di migliaia di cittadini. E questo provvedimento vuole essere una intimidazione nei confronti di tutti quelli che si occupano di questa questione.
Certo fa specie un provvedimento così pesante, quasi a significare che l'emergenza della legalità a Palermo è generata da chi si occupa di tutelare i diritti dei suoi cittadini.
Questa recrudescenza c'è per diversi motivi: primo tra tutti la crisi fortissima della giunta comunale. Che proprio sulla questione casa è in difficoltà, in questi giorni, grazie ad un ordine del giorno che è stato presentato da uno schieramento che attraversa maggioranza e opposizione. E che recepisce molte delle indicazioni che il movimento che si occupa della questione abitativa a Palermo ha dato. La questione della casa sta dando un colpo di grazia ad una giunta che è in difficoltà enormi sia di bilancio che di consenso. Il dissesto finanziario è enorme, e il consenso della giunta è calato moltissimo. Per fare un esempio: hanno chiuso la Ztl del centro. E adesso dovrebbero restituire ai cittadini i soldi verati per i pass, ma nessuno li vede.
Poi c'è una denuncia, un esposto alla procura, fatto da noi, sul mancato utilizzo dei beni confiscati alla mafia, anche quelli per fini abitatiti. Una battaglia che a suo tempo avevamo vinto. Ma l'amministrazione comunale da un anno fa ostruzionismo per evitare che i beni sequestrati vengano utilizzati per fini sociali e per l'emergenza abitativa. Per questo abbiamo fatto l'esposto.
A questo aggiungiamo il fatto che da qualche tempo a Palermo si sta delineando una grossa operazione di trasformazione urbana, con investimenti speculativi di miliardi di euro sul centro storico e sul fronte a mare.

Questi sono i fattori che spiegano l'accanimento nei confronti miei e attraverso di me sul movimento che si occupa dell'emergenza abitativa a Palermo.
E io vorrei usare la mia vicenda proprio per rafforzarlo, il movimento. Vorrei che tutti gli attestati di solidarietà che ho ricevuto, tanti e significativi, che vanno dai parlamentari nazionali ai religiosi, servissero a coprire le spalle di tutti quelli che lavorano per risolvere l'emergenza abitativa a Palermo.

Pietro Milazzo

 

Irlanda del Nord, la pace difficile

Tra paramilitari e Ira ricompare la violenza in Ulster

Scritto da Jacopo Valenti

Secondo l'IMC (Independent Monitoring Commission) il consiglio militare dell’Ira in Irlanda del Nord “non è operativo e non è più una minaccia per la politica costituzionale”. La commissione è stata creata quattro anni fa dai governi di Gran Bretagna e Irlanda per sostenere ed analizzare il processo di pace in Irlanda del Nord. Pochi giorni fa queste dichiarazioni sono apparse sull’Irish Times e lascerebbero presagire l’inizio di un periodo più disteso nei rapporti tra repubblicani e unionisti, anche dopo il definitivo ritiro dei soldati britannici dall’Irlanda del Nord, cominciato ormai quasi un anno fa.

Rassicurazioni. Nelle stanze della politica di Dublino, Belfast e Londra si sta lavorando per superare entro la fine di settembre l’annoso stallo tra Dup (il partito democratico unionista) e Sinn Féin (il partito repubblicano, che tradotto dal gaelico significa “solo noi”) causato principalmente dal trasferimento dei poteri in materia di giustizia. La questione è spinosa: il Dup ha spesso ricordato di non essere ancora pronto a condividere il potere politico con un partito, quello repubblicano, che ancora si rifiuta di riconoscere i tribunali, la polizia nord-irlandese, e lo stato di diritto. Il primo ministro nord irlandese Peter Robinson (Dup) ha detto che la sponda unionista ha bisogno di essere convinta dalla leadership repubblicana che l’Ira è fuori dai giochi”, aggiungendo che “l’Ira è ben lontana dall’uscire di scena”.

Scontri e rivolte. Parole che fanno sembrare il rapporto IMC meno rassicurante. Appena un mese fa però, alcune città dell’Ulster sono state teatro di rivolte, scontri e sommosse. In particolare nell’area di Cravaigon, a sud ovest di Belfast, dove c’è stata un’ondata di violenze durata 24 ore dietro cui ci sarebbero uomini legati all’Ira. Secondo l’intelligence nord irlandese si tratterebbe di ex combattenti appartenenti alla brigata di North Armagh, uno dei gruppi paramilitari che in questi anni ha minato maggiormente il lungo processo di pace in Irlanda. Veterani con un forte appeal sui ragazzini che vivono nei quartieri nazionalisti delle città dell’Ulster, ed un curriculum criminale che parla da sé: “In questo gruppo è incluso un ex prigioniero su cui pende una condanna a vita per omicidio, ed un altro ritenuto responsabile di una serie di uccisioni nella zona di Armagh”, ha dichiarato un ufficiale di polizia al Guardian. Negli ultimi sei mesi ci sono stati episodi di violenza quasi in ogni angolo dell’Irlanda del Nord. Lo scorso agosto una pattuglia della polizia è stata attaccata da dissidenti collegati al gruppo paramilitare Continuity Ira.

"Sparare ai collaborazionisti". Ci sono stati attacchi a Derry (la città del tristemente noto Bloody Sunday cantato dagli U2), Tyrone, Fermanagh ed in ultimo ad Armagh. Alcune auto della polizia sono finite sotto il fuoco di un cecchino, sono state lanciate bombe molotov e sassi. All’inizio di settembre, la settimana successiva agli episodi raccontati, la situazione ad Armagh si è calmata e si sono susseguite le perquisizioni della polizia in cerca di indizi sui responsabili dei disordini. Sui muri dei quartieri nazionalisti sono apparse scritte inquietanti, una avvisa che “anyone cooperating with police investigations into the disturbances wuold be shot”. Insomma, si sparerà a chiunque collabori con la polizia.

Il vizio del vitalizio resiste a nord-est
Anche Riccardo Illy, ex governatore della Regione Friuli Venezia Giulia, ha fatto domanda per ottenere il vitalizio di circa 2 mila euro al mese spettante a chi ha fatto parte del Consiglio regionale per una sola legislatura e ha compiuto i 60 anni. Anzi, il “re del caffè” è stato fra i primi a presentare la richiesta, avanzata da altri 15 ex consiglieri trombati alle ultime elezioni anticipate (e volute proprio dallo stesso Illy).
Poiché la legislatura non era terminata al momento del voto (mancavano circa due mesi ai cinque anni), per acquisire il diritto all’assegno i 16 richiedenti, in prevalenza del centrosinistra, hanno dovuto sborsare di tasca loro i contributi dell’ultimo bimestre. Un sacrificio ben ricompensato.
Un 17° ex, il verde Alessandro Metz, ha sostenuto di «essersi completamente disinteressato della vicenda»: se lascerà scadere il termine per dichiarare la propria volontà di versare i contributi mancanti, perderà il diritto al vitalizio e potrà solo consolarsi con il rimborso di quanto versato nei quasi cinque anni precedenti. In un paio di casi (Carlo Monai di Idv e Tamara Blazina del Pd) i beneficiari dell’assegno friulano hanno già conquistato un seggio nel Parlamento nazionale e quindi, a suo tempo, potranno aggiungere un altro vitalizio.

 

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