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Il raggio d'azione delle forze armate
Usa non conosce più confini. In nome della guerra
'globale' al terrorismo, gli Stati Uniti - mai come ora
- colpiscono in ogni angolo del mondo: dall'Iraq
all'Afghanistan, dalla Siria alla Somalia, dalle
Filippine al Pakistan - dove dall'inizio dell'anno gli
Usa hanno ucciso oltre 350 persone in più di trenta raid
aerei.
Iraq,
Afghanistan, Filippine e Somalia. Nonostante i
nostri giornali e telegiornali non parlino più, in Iraq
e in Afghanistan ogni giorno i caccia statunitensi F-15
ed F-16 e i bombardieri B-1 sganciano tonnellate di
bombe: una media giornaliera di 40 raid in Iraq e 60 in
Afghanistan.
Nessuno parla nemmeno del quotidiano impegno delle forze
speciali Usa nel sud delle Filippine contro i locali
gruppi ribelli islamici legati ad Al Qaeda, o delle
giornaliere operazioni di pattugliamento aero-navale
condotte dalle forze Usa in Somalia e spesso
accompagnate da attacchi aerei mirati (l'ultimo lo
scorso 1° maggio).
Siria,
ma soprattutto Pakistan. Se l'attacco condotto
domenica in Siria da un commando di truppe
aviotrasportate Usa ha suscitato un certo scalpore
mediatico (ma nemmeno poi tanto), nessuno si scandalizza
invece per l'incredibile serie di bombardamenti
statunitensi in Pakistan: 32 raid da gennaio, 16 solo
negli ultimi due mesi. Bombardamenti per lo più
missilistici (e un'azione di commando condotta lo scorso
3 settembre) che solo quest'anno hanno causato la morte
di 301 civili, 36 terroristi e 18 militari pachistani.
Islamabad protesta, ma questo non cambierà i sempre più
spregiudicati piani militari statunitensi. |
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PERUGIA Il Gip
dispone nuovi accertamenti sulla morte in carcere dell'uomo,
un anno fa
Si riapre
il caso Bianzino
Fino al giorno
prima per il medico stava bene. Giallo sulla cella aperta
Emanuele
Giordana
Per la
magistratura di Perugia il caso di Aldo Bianzino non è
chiuso. Il giudice per le indagini preliminari Massimo
Ricciarelli ha infatti ordinato al pubblico ministero
Giuseppe Petrazzini ulteriori accertamenti medico legali che
possano fare chiarezza sull'oscura vicenda di una morte di
carcere. Una notizia che riaccende il filo della speranza
nei famigliari dell'ebanista di Pietralunga che, arrestato
per detenzione di erba, entrò con la sua compagna nel
carcere di Capanne il 12 ottobre di un anno fa per uscirne
senza vita due giorni dopo.
Dopo la sua morte, l'indagine aveva fatto decidere a
Petrazzini per l'archiviazione: Aldo è morto per cause
naturali, un aneurisma scoppiato all'improvviso che ne ha
causato il decesso. Una bomba a tempo di cui risponde solo
la natura. Ma la famiglia di Aldo, e in particolare la
compagna Roberta Radici, non si dà per vinta. Per i genitori
di Bianzino, i suoi figli, gli amici, la verità sembra
troppo lontana per accettare l'archiviazione e, al più, un
risarcimento danni in sede civile. A luglio l'avvocato
Massimo Zaganelli presenta una corposa memoria facendo
opposizione all'archiviazione. Ad agosto si viene a sapere
che il Gip, che avrebbe potuto rifiutarla, l'ha invece
accolta: studia le carte e, evidentemente, resta colpito da
una ricostruzione in cui l'indagine appare, secondo i
familiari di Aldo, lacunosa e con molti interrogativi, a
cominciare da un fegato spappolato, come strappato via dalla
sua sede naturale. Il 17 ottobre il Gip convoca il Pm e le
parti, ossia i legali della famiglia. E infine scrive la sua
ordinanza che riapre i giochi.
Non si limita il Gip a chiedere ulteriori accertamenti
medico legali e ad esigere dunque un'indagine più completa
ma auspica anche che il magistrato inquirente utilizzi nuove
figure professionali per vederci più chiaro: professionisti
esterni con cui setacciare tutte la sequenza di quei giorni
che lasciarono nel corpo di Aldo almeno un segno
evidentissimo sul suo fegato. Quali potranno essere questi
nuovi consulenti? Forse internisti o esperti di rianimazione
ma forse anche neurochirurghi in grado di capire, se
effettivamente Aldo morì di aneurisma (una sorta di sacca
che si forma nel tessuto arterioso), cose ne provocò lo
scoppio proprio quella notte. Ma c'è di più. Il Gip
consiglia nuove escussioni dei testi già sentiti una prima
volta, forse allargando il giro delle testimonianze: gli
uomini della penitenziaria, i responsabili del carcere, i
medici che visitarono Bianzino appena morto, gli altri
detenuti. Ad esempio il dottore del carcere che lo visitò il
giorno dopo il suo arresto trovandolo calmo e in buona
salute. E che non fu mai interrogato. Ma questa è materia
del Pm cui spetta, seguendo le indicazioni del Gip,
ricostruire nuovamente l'oscura vicenda consumatasi nel
silenzio assordante di una morte «normale», mentre i
riflettori della cronaca si erano ormai accesi - e ancora
continuano ad esserlo - su un giallo certamente più
eccitante per la cronaca: l'omicidio della povera
studentessa britannica Meredith Kercher, avvenuto solo
qualche giorno dopo e da allora caso nazionale ben oltre le
mura del carcere di Capanne di Perugia.
Ma di giallo ce n'è purtroppo parecchio anche nel caso di
Aldo Bianzino, a cominciare proprio dai detenuti. Sembra che
nel video girato dal sistema a circuito chiuso del carcere
appaia aperta la porta di una cella. I detenuti negano che
fosse una delle loro e i legali di parte sono convinti che
si trattasse di quella di Aldo. Che fu trovato praticamente
nudo in corridoio dai suoi soccorritori arrivati troppo
tardi. La dinamica resta gravata da una nebbia fittissima e
troppe cose non tornano, dal suo stato di salute
all'ingresso in carcere, al momento della rianimazione fino
alle prime perizie che subito riscontrarono l'anomalia delle
lesioni al fegato, che fu liquidata come un massaggio
cardiaco troppo vigoroso. Per la famiglia di Aldo la ricerca
della verità non è solo un modo di rendere giustizia al
compagno, al figlio o al padre. Ma anche una maniera per
evitare che si ripetano in Italia casi controversi come
quello di Manuel Eliantonio, deceduto in luglio nel carcere
di Marassi a Genova, o di Marcello Lonzi, «trovato morto»,
col volto pieno di ecchimosi, l'11 luglio 2003 nella sua
cella a Livorno.
Inguscezia
fuori controllo
Guerriglia islamica sempre più
scatenata
"In Inguscezia è ormai in
corso una guerra civile". Parola di Alexei Malashenko, analista
politico del
Carangie Center
di Mosca.
Il conflitto tra guerriglia indipendentista islamica e forze di
sicurezza federali russe in questa piccola e poverissima repubblica
russa - stretta tra la Cecenia, l'Ossezia del Nord e le cime del
Caucaso - è sempre più violento. Sparatorie, attentati, imboscate,
omicidi e rapimenti fanno ormai parte della vita quotidiana della
popolazione ingusceta.
Una
repressione controporducente. Il Cremlino si illudeva che
la durissima repressione militare seguita al clamoroso attacco dei
ribelli contro la capitale Nazran nel giugno 2004 avrebbe piegato i
mujaheddin dell'emiro 'Magas', nome di battaglia di Magomed Yevloyev,
comandante della Ingush Jamaat. Invece la mano pesante
delle truppe russe contro chiunque fosse sospettato di legami con i
ribelli (persecuzioni, torture, esecuzioni extragiudiziali,
sparizioni), combinata alla frustrazione di una popolazione locale
stremata dalla povertà, dalla disoccupazione (al 75 percento) e
dalla spaventosa corruzione del governo locale del presidente Murat
Zyazikov, ha spinto molti giovani ad andare nei boschi per unirsi ai
ribelli.
Anche
l'opposizione nel mirino. L'invio,
l'anno scorso, di 2.500 soldati delle forze speciali per
contrastare la guerriglia ha solo peggiorato la situazione. Quest'anno
il numero degli attacchi contro militari russi, politici locali e
strutture governative è aumentato esponenzialmente. Uno stillicidio
che, da gennaio a oggi, a causato almeno 150 vittime (in Inguscezia
vive solo mezzo milione di persone). Dopo che il 31 agosto scorso la
polizia ha assassinato il principale esponente dell'opposizione
locale (che per puro caso si chiama come il leader dei ribelli),
l'escalation è stata drammatica.
"Situazione
virtualmente fuori controllo". Solo negli ultimi dieci
giorni i guerriglieri dell'emiro Magas hanno occupato due villaggi
(16 ottobre), hanno ucciso in due imboscate a colpi di lanciarazzi
diversi soldati russi, addirittura 50 secondo alcune fonti locali
(18 ottobre), e giovedì scorso hanno fatto irruzione in un locale
rapendo tre poliziotti e una dozzina di civili: sembra che li
abbiano portati in Cecenia per poi usarli per uno scambio di
prigionieri.
"La sitauzione qui in Inguscezia - ha dichiarato alla Reuters Timur
Akiyev, direttore della sede locale di Memorial - è virtualmente
fuori controllo".
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28
ottobre
Doppio e
nero
di Roberta Carlini
Operaio e cameriere. Archeologo
e assistente sociale. Negli ultimi tre anni è aumentato del 40 per cento il
numero degli italiani che ha un secondo impiego. E molto spesso nel sommerso
Precari del pubblico impiego
protestano contro il lavoro nero

La doppia vita, per necessità.
Otto ore a tagliare lastre di metallo in un capannone, altre tre o quattro tra i
tavoli di una pizzeria. Cinque giornate nella bottega di barbiere, due a
raccogliere l'uva o le olive, nel weekend. Oppure: mezza vita da archeologo,
l'altra metà da assistente sociale. O ancora: traduttrice di giorno e di notte,
sotto contratto in ufficio e in nero al computer di casa. E dottori di ricerca
che la sera arrotondano al pub, postini che appena smontano vanno a fare gli
istruttori in palestra, il classico lavoretto dell'infermiera che fa le
iniezioni a domicilio e quello moderno del webmaster che arrotonda in Rete il
reddito mai sufficiente del lavoro principale. È il secondo lavoro oggi, ai
tempi della crisi e della flessibilità. Che hanno fatto tornare a galla un
fenomeno sommerso, da sempre presente nell'economia e nella società italiana,
imprimendogli un ritmo galoppante. Ed estendendolo a tutti i settori del lavoro
e dell'economia: vecchi e nuovi, manuali e intellettuali, obsoleti e trendy.
Meccanici a metà "Prima lo facevo per avere quei due soldi in più: per
andare in vacanza, comprare qualcosa per me. Adesso no, adesso il secondo lavoro
mi serve per arrivare alla fine del mese". Vincenzo ha 36 anni e lavora in una
media azienda metalmeccanica, dalle parti di Parma: otto ore al giorno su cinque
giorni, "una settimana ho il turno al mattino, un'altra al pomeriggio". Il suo
secondo mestiere è quello di cameriere: "È quello che facevo da ragazzo a
Napoli, prima di venire su a lavorare. Lo so fare bene, mi chiamano sempre". E
quando lo chiamano, Vincenzo va: la sera se ha il turno in fabbrica al mattino,
altrimenti nei fine settimana. "Pagano abbastanza bene, ovviamente in nero: sono
100 euro per servizio. A fine mese, mi trovo in tasca 6-700 euro in più". Non
che ci sia da scialare, però almeno così arriva dignitosamente a fine mese,
sfiorando i 2 mila euro netti e lavorando praticamente sempre: "Abbiamo il mutuo
da pagare, anche la mia compagna lavora ma senza gli extra non ce la faremmo.
Per ora niente figli".
Ugo, che ha qualche anno più di lui e un figlio all'università, ricorda una
figura in auge nel passato: "Io sono un metalmezzadro". Sette ore e mezzo in
fabbrica, nel pieno della Food Valley parmense, e tutto il resto del tempo a
curare un campo che ha in affitto, dove tira su produzioni biologiche e dove ha
anche la casa: "Anzi, a dire il vero il mio primo lavoro era quello
dell'agricoltore. Ma non potevo viverci, da una quindicina di anni ho cominciato
a fare lo stagionale in fabbrica, per periodi via via sempre più lunghi, fino a
entrarci a tempo pieno". Ma ha conservato il suo campo. E la sua passione: "Per
me quello dell'agricoltore è il lavoro più bello del mondo. Ma come si fa a
viverci? Quando va bene, ne cavo 5 mila euro in un anno". Che vanno ad
aggiungersi a quelli della fabbrica, del 'primo lavoro' che comunque non basta:
"1.300 euro per 13 mensilità. Qui non bastano a nessuno, chi può ne fa un altro,
quelli che non hanno altri lavori li vedi tutti lì il sabato, a fare gli
straordinari, finché ci sono". Ugo preferisce la campagna: "È un lavoro duro, e
non sai mai quello che avrai. Una grandinata fuori stagione, e tutto il guadagno
se ne va. Però preferisco questo, a fare più ore là dentro".
Vincenzo e Ugo hanno un buon punto di osservazione su quel che succede nelle
loro fabbriche, in quello che è stato e resta uno dei distretti più dinamici
della media impresa italiana: "Si teme il peggio, si comincia a parlare di cassa
integrazione e mobilità". Tra i tavoli della sua pizzeria, Vincenzo ha
cominciato a vedere facce nuove: "L'altro giorno è venuto a lavorare uno che ha
una sua attività commerciale qui vicino, sì, uno che ha un negozio suo e la sera
deve arrotondare in pizzeria". Ugo azzarda una statistica: "Crisi o non crisi,
il doppio lavoro è una realtà. Da quel che vedo io, da noi almeno il 30 per
cento degli operai fa un secondo lavoro".
Numeri al galoppo La stima di Ugo è molto vicina a quella delle poche
statistiche ufficiali che ci sono in materia di secondo lavoro. Qualche tempo fa
l'Eurispes ha parlato di 6 milioni di doppiolavoristi, tra i soli lavoratori
dipendenti: il 35 per cento. All'Istat, nella casa di tutti i numeri, ci vanno
con i piedi di piombo. Però tutto conferma che siamo nell'ordine dei milioni e
che in buona parte queste attività sono nascoste al fisco e sfuggono alle
rilevazioni statistiche. Alcuni dati arrivano dalla Direzione centrale di
Contabilità nazionale, che fornisce stime e analisi sull'economia sommersa e il
lavoro irregolare. Un buon indicatore, spiega Antonella Baldassarini, che si
occupa di tali tematiche all'Istat, è il rapporto tra posizioni lavorative e
occupati: se in un settore ci sono più posizioni lavorative che occupati, è
perché alcuni occupati svolgono doppio o triplo lavoro. Nella media italiana,
nel 2007 a ogni 100 occupati corrispondevano 120 posizioni: in numeri assoluti,
le doppie (o anche triple) posizioni sono più di cinque milioni, secondo i dati
Istat. Che permettono anche di vedere dove è più diffuso il secondo lavoro. A
partire dall'agricoltura, dove a 100 occupati corrispondono 188 'posti': un
fenomeno antico, rivitalizzato però negli ultimi tempi con la partecipazione
degli italiani alle campagne stagionali e anche con la diffusione degli orti per
l'autoconsumo.
Forte la presenza delle posizioni plurime anche negli alberghi e nei ristoranti,
nei servizi domestici, e tra i padroncini dei trasporti e i nuovi lavori delle
comunicazioni. Ma attenzione, precisano all'Istat: questi sono i settori dove si
svolge il secondo lavoro, niente ci dicono sulla provenienza del lavoratore 'bioccupato'
(per usare il termine coniato dal sociologo Luciano Gallino, che tempo fa mise
sotto la lente il fenomeno): il quale può venire da tutti i settori, pubblici e
privati. "In molti casi il secondo lavoro avviene solo un po' più in là, in
un'altra azienda dello stesso comparto, in altri no", commenta Gallino. "E
comunque, dai tempi di quelle antiche ricerche a oggi, una cosa è certa: il
secondo lavoro continua a prosperare".
Ma altri indizi dai dati dell'Istat ci dicono qualcosa di più. Nei complicati
calcoli sulla produzione e il lavoro effettivi (comprensivi dunque di tutto il
sommerso) l'Istat ha calcolato anche un forte aumento delle ore lavorate nella
seconda attività: passate dal 5,6 al 6,9 per cento del monte ore lavorato
complessivo in quindici anni. Non solo. Negli ultimi mesi, pare che ci sia stata
una vera e propria corsa al secondo lavoro. Passando dalle stime aggregate dei
contabili nazionali alle risposte date dal campione sul quale l'Istat fa la sua
Indagine trimestrale sulle Forze di lavoro, si possono tirare fuori numeri
interessanti: dal 2005 a oggi, la percentuale di coloro che dichiarano di
svolgere una seconda attività cresce costantemente. In tre anni, si calcola un
aumento del 39 per cento, particolarmente sensibile nei primi sei mesi di quest'anno.
Il doppio precariato Un effetto dell'aumento dei prezzi, dell'emergenza
domestica della quarta (se non terza) settimana e della crisi finanziaria
globale? O l'effetto di un cambiamento più profondo, quello che ha man mano
ridimensionato la stessa idea del 'primo lavoro', il pianeta centrale attorno al
quale come satelliti stanno i lavoretti in nero? Prendiamo il commercio, la
grande distribuzione, dove regna il lavoro part time. "Qui il problema non è il
secondo lavoro, è trovarsi un secondo part-time per mettere insieme almeno un
salario", ti spiegano alla cassa di qualsiasi supermercato. Cosa non facile,
perché gli orari sono spezzettati e flessibili, variano da una settimana
all'altra. Così molti si riciclano in lavori serali e notturni, dal pub alle
pulizie. Ancora più complicata è la definizione del secondo lavoro nel vasto
mondo degli atipici. "Tra tutti i collaboratori a progetto e le partite Iva,
solo il 10 per cento dichiara all'Inps di avere più di un committente durante
l'anno", dice Patrizio Di Nicola, sociologo del lavoro, che cura il Rapporto sui
parasubordinati per Nidil-Cgil. In teoria, gli atipici sarebbero più fedeli al
primo lavoro del classico lavoratore dipendente a tempo indeterminato. Ma non è
così, e anche qui il nero dilaga: "Basta guardare i redditi: se un collaboratore
a progetto in media guadagna 12-13 mila euro l'anno, e ha un'età tra i 35 e i 40
anni, è chiaro che per vivere deve fare anche qualcos'altro".
È il caso di Francesco, archeologo romano di 33 anni. "A dire il vero quello da
archeologo è il mio secondo lavoro. Perché il primo, quello che mi dà la
sicurezza per vivere, è il mio lavoro da educatore in una casa famiglia". In una
casa famiglia (le microstrutture che hanno sostituito i vecchi istituti per
minori abbandonati o affidati ai servizi sociali) c'è da fare sempre: aiutare i
ragazzi a fare i compiti, a preparare un esame, accompagnarli a scuola o da
qualche altra parte, a volte dormire. "I colleghi mi aiutano con i turni, così
posso combinarli con l'altro lavoro, quello per la Sovrintendenza". Da
educatore, Francesco è pagato con uno stipendio fisso: 900 euro al mese, netti.
Da archeologo, è un professionista con partita Iva, dai 120 ai 180 euro, pagato
a giornata come gli edili. "Ma al contrario degli edili non abbiamo cassa
integrazione né altro". Insomma, "ho due lavori tutti e due precari". Come la
sua collega Antonella, che ha una laurea e un dottorato di ricerca già concluso,
e che per due anni ha passato la mattina in cantiere a scavare e il pomeriggio
presso una società che fa la ricostruzione tridimensionale di monumenti antichi:
almeno lei lavorava in campi contigui. Adesso invece "il mio secondo lavoro è a
scuola, insegno italiano tre ore a settimana".
Non che il doppio lavoro intellettuale riguardi solo i precari. Il problema, più
che la stabilità del posto, è il livello del reddito. Anna per esempio ha un
contratto a tempo indeterminato con una società per la quale traduce
dall'inglese e dallo spagnolo: netto in busta paga, 1.250 euro al mese. La metà
vanno in affitto. Dunque, "lavoro di notte e nei weekend, faccio traduzioni da
free lance". Nel mondo delle traduzioni, la tariffa si calcola per parola: "Mi
pagano anche meglio, fino al triplo per parola tradotta, ma il primo lavoro mi
serve per avere un minimo di sicurezza". Il secondo per avere 4-500 euro in più
al mese. E, in alcuni casi, anche qualche soddisfazione in più. Nicola, che fa
il webmaster e dunque dovrebbe stare nella parte alta delle classifiche del
lavoro, quelle del nuovo che avanza, la spiega così: "Ho un contratto a progetto
con un ministero, lungo e abbastanza buono. Ma in ogni caso non supero i 1.500
euro al mese. E mi resta del tempo per lavorare in proprio, progettare siti, per
esempio: lo faccio non solo perché mi serve, ma anche perché in questi lavori
sono più libero, posso esprimere una visione grafica, un'idea mia". Non è un
caso se, nella classifica dell'Istat, è proprio nel settore 'comunicazioni e
trasporti' il record delle posizioni lavorative: quasi il doppio degli occupati.
Cessate il
fuoco
Il bollettino settimanale delle
guerre e dei conflitti in corso n. 41 - 2008 dal 16/10/2008 al 22/10/2008
Nell'ultima settimana, in tutti i
Paesi in guerra, sono morte almeno 860 persone
Afghanistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 227 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 5.316
Algeria
Questa settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 213
Iraq
Nell'ultima settimana sono morte almeno 163 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 9.739
Israele-Palestina
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 458
Pakistan Talebani
Nell'ultima settimana sono morte almeno 211 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 4.414
Sri Lanka
Nell'ultima settimana sono morte almeno 126 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 7.962
India Nordest
Nell'ultima settimana sono morte almeno 26 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 613
India Naxaliti
Nell'ultima settimana sono morte almeno 16 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 466
Thailandia del sud
Nell'ultima settimana sono morte almeno 12 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 308
Filippine Milf
Nell'ultima settimana sono morte almeno 11 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 494
Nord Caucaso
Nell'ultima settimana sono morte almeno 11 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 493
India Kashmir
Nell'ultima settimana sono morte almeno 7 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 509
Pakistan Balucistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 7 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 221
Filippine Npa
Nell'ultima settimana sono morte almeno 1 persona
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 231
Colombia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 253
Somalia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 4 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.242
Uganda
Nell'ultima settimana sono morte almeno 7 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 144
Nigeria
Nell'ultima settimana sono morte almeno 10 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 225
Sudan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 8 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 929
Rep. Dem. Congo
Nell'ultima settimana sono morte almeno 5 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 308
Turchia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 548
Palermo,
consulenze ai principianti. Condannato il sindaco
Palermo
è un'altra città che certamente non brilla per efficenza dei servizi comunali.
Ma anche lì ogni occasione pare buona per buttare un po' di soldi. C'è un
progetto da fare? Perché affidarsi ai tecnici del municipio se si possono
ingaggiare dei consulenti esterni? Una soluzione accettabile solo nel caso di
nomi di grido o problemi particolarissimi da affrontare. Il guaio è che quasi
sempre gli incarichi finiscono invece a personaggi sconosciuti ai più e molto
legati ai pochi che contano in comune.
L'ultimo caso riguarda Palermo dove la Corte dei Conti ha condannato il sindaco
Diego Cammarata (Pdl) a risarcire 200 mila euro. Secondo i giudici, i dieci
incarichi assegnati nel 2004 per il recupero dell'area dei Mercati Generali e
dell'ex Chimica Arenella erano assolutamente inutili. In sintesi, gli incarichi
per un valore di 300 mila euro sarebbero stati assegnati senza rispettare
criteri. Una pioggia di euro su figure che non avrebbero i requisiti minimi per
occuparsi di questa materia: praticamente dei principianti. I giudici sostengono
che sarebbe bastato dare un'occhiata ai curriculum per rendersene conto. Infatti
le consulenze sarebbero andate anche a ingegneri e architetti praticamente
inesperti: la cui «durata minima dell'esperienza professionale» è
«insussistente».
Alcuni, poi, non c'entravano nulla con l'opera inchiesta. Cammarata ha scaricato
tutto su Federico Lazzaro, dirigente dell'urbanistica. Ma i magistrati contabili
non gli hanno creduto: il sindaco dovrà risarcire 200 mila euro, Lazzaro altri
100 mila. Il tutto per la «leggerezza gestionale e la condotta gravemente
colposa».
Finanza alla
Milanese, il Comune brucia 300 milioni
Chi è stato? Basterebbe rispondere
a questa domanda per aiutare i cittadini milanesi e tutti gli italiani a capire
come viene speso il denaro pubblico. Chi è stato nel 2005 a decidere di
impegnare il Comune di Milano in un derivato, ossia in uno di quei prodotti
finanziari che si sono trasformati in mostri divorando le casse di chi li aveva
sottoscritti? Secondo le denunce del Pd, il derivato su un prestito
obbligazionario di 1.685 milioni di euro ha già provocato 300 milioni di euro di
perdite. Invece le banche (Deutsche, Depfa, Ubs, JpMorgan) si sarebbero
assicurate - secondo la stessa fonte - tra i 73 e gli 85 milioni di commissioni
occulte. Ieri, dopo una lunga assenza, anche il sindaco Letizia Moratti si è
presentata in consiglio comunale per rispondere alle interrogazioni sullo
scandalo derivati. Ha detto che "i derivati sono utilizzati da centinaia di
istituzioni". Giusto. Ma sindaci come quello di Marsala, che hanno suicidato le
loro finanze a colpi di derivati, si sono potuti difendere con la scarsa
competenza finanziaria dei loro uffici. Milano non disponeva di tecnici in grado
di valutare in modo più accorto la situazione? Letizia Moratti ha dato sfoggio
di competenza, sostenendo che non era giusto parlare di minusvalenze poichè i
derivati scadono nel 2035. E annunciato che nominerà un collegio di consulenti
legali per studiare come reagire al mostro derivato. Meglio tardi che mai. Le
minusvalenze lo scorso anno erano di 170 milioni, quest'anno di 300. E il
prossimo? E non sarebbe il caso di licenziare i responsabili di questa scelta
disastrosa: tanto le quattro banche beneficiate difficilmente gli negheranno la
loro riconoscenza...
Regione
Campania, 200 mila euro per la gita americana
Ma la Regione Campania non è
quella con i conti in situazione disperata? Quella dove la gestione dei rifiuti
è commissariata da un decennio? Quella dove la sanità pubblica solo nel 2008 ha
prodotto un extrabuco di 300 milioni di euro che si sommano ai miliardi degli
anni scorsi? L'ultimo degli assessori bassoliniani, quel Claudio Velardi
chiamato a risollevare l'immagine di un terra travolta da immondizia e
criminalità, non deve essersi accorto della situazione finanziaria che lo
circonda. Forse l'ex spin doctor dalemiano e fondatore di una lanciatissima
società di comunicazione è ancora rimasto ai fasti del rinascimento partenopeo.
Così per una trasferta ufficiale della Regione Campania a Washington sono stati
stanziati duecentomila euro. Certo, ben poca cosa rispetto allo sfarzo delle
tournè transoceaniche di Sandra Lonardo Mastella, tutt'ora presidente del
consiglio campano nonostante l'arresto e le accuse confermate da tutti i
tribunali. Ma una cifra comunque elevata.
Nel
suo blog Velardi parla di "un persistente, sordo pregiudizio sui fondi impiegati
nella promozione istituzionale". E fornisce la lista delle spese previste per la
trasferta di 3 giorni. Onore alla trasparenza. L'elenco però aumenta le
perplessità. Ci sono dieci voli andata e ritorno Roma-Washington: 25 mila euro.
In pratica, 2500 euro a testa: biglietto di business senza sconti. Poi ben 1500
euro per i trasferimenti dall'aeroporto alla capitale americana: 150 euro a
testa, una cifra molto alta per le tariffe delle Limousine con autista. Quindi
16.890 uro per l'albergo della delegazione ufficiale, dello staff del ristorante
Don Alfonso e per gli ospiti. Andiamo all'alimentazione. Sono previsti 36 mila
euro per offrire una cena di gala: quanto basta a sfornare 500 menù da 72 euro
l'uno. Poi c'è il dinner della Niaf, la potente organizzazione italo-americana:
il tavolo richiede un contributo di 70 mila euro. Ma le due mangiate non bastano
e così vengono stanziati altri 5000 euro di pasti per delegazione e ospiti:
forse il jet lag mette appetito... E pensare che Velardi nel blog lamenta di
avere "le viscere che bofonchiano" per una recente indisposizione.
Veniamo ai gadget. Per gli ospiti d'onore 50 cravatte e 25 foulard: 7500 euro.
Fanno cento euro a pezzo. Si spera almeno che siano Marinella. E sorpende che la
Regione non sia riuscita nemmeno a farsi fare uno sconticino. Prezzo da boutique
anche per i 3.500 magneti omaggio, costati 4 euro e mezzo cadauno. Ci sono poi
2.000 magliette da 5 euro a mezzo l'una, quelle sì economiche. Infine la
pubblicità. Poteva un evento del genere non venire propagandato? Bene, altri 24
mila euro. Per comprare una pagina su una testata di Washington? Per far uscire
qualcosa su un settimanale statunitense? No, i soldi vanno al quadrimestrale
Italy Italy, edito da una società di Magliano Romano: un periodico in inglese,
spesso distribuito come allegato nelle edicole italiane e venduto solo in
abbonamento nel Nord America.
Velardi, parlando delle missioni all'estero, sul suo blog parla di "esercizi
gratuiti di cafoneria, imbarazzanti foto ricordo (ne ricordo una di Occhetto a
Manhattan…), dichiarazioni fuori luogo. Insomma, il sospetto generale e
preventivo è comprensibile". Come dargli torto?
Uganda, la
'rosa' di Kireka
Il coraggio di una donna nello
slum dove per vivere si spaccano pietre
Scritto da Antonella Sinopoli
Spaccare pietre per vivere. Un
mestiere duro, pesante, inumano. Se a farlo è una donna la fatica triplica,
diventa insostenibile, diventa quotidiano inferno. Se a farlo sono donne affette
dall’HIV lo sforzo diventa indescrivibile.
Eppure esistono luoghi dove una donna, tante donne, da mattino a sera spaccano
pietre. Donne affette dall’HIV che fanno questo per sopravvivere, per i loro
figli, perché la loro vita è questa. E basta. Le abbiamo incontrate a Kampala,
capitale dell’Uganda, nel quartiere di Kireka. Nello slum di Kireka. Si dice che
siano oltre 6 mila le persone che ci vivono, ma avere un numero certo in una
realtà come quella di una baraccopoli è molto difficile. Una cosa è certa:
viverci è una sfida giornaliera, una sfida fatta di necessità primarie
(mangiare, bere, curarsi) che qui sono emergenza; una sfida contro un futuro già
segnato a cui però molti non accettano di arrendersi. A non accettarlo questo
destino a Kireka sono coloro dalle quali potresti aspettarti, in una situazione
del genere, solo una reazione di rassegnazione: le donne appunto. Quelle che,
con mezzi rudimentali, stanno sedute in terra tutto il giorno a spaccare pietre.
Quelle malate che non sanno quanto ancora rimane loro da vivere. Eppure qui a
Kireka le donne sono protagoniste assolute, e prova che un cambiamento è sempre
possibile. Anche nelle situazioni più disperate. Prova che speranza, forza, fede
a amore per la vita possono capovolgere un futuro che sembrava segnato.
Kireka è noto come il quartiere Acholi, la maggior parte dei suoi abitanti
infatti appartengono all’etnia del Nord Uganda. Sono qui da anni, molti dei
bambini sono nati qui e non hanno mai conosciuto la terra di origine dei loro
genitori. In migliaia sono fuggiti dalla guerra civile che per un ventennio ha
insanguinato i loro villaggi. A Kitgum, Pader, Gulu, hanno lasciato i loro
poveri averi, ma almeno hanno salvato la vita e messo al sicuro i loro figli dal
pericolo costante di assalti e rapimenti da parte dei ribelli del Lord’s
Resistance Army, che li avrebbero poi costretti ad impugnare le armi. Destino di
moltissimi che invece non sono fuggiti. Qualcuno in una vita migliore, nella
capitale Kampala, ci aveva sperato, ci aveva creduto. Ma le cose, si sa, nel
continente africano non sono mai facili. Dovunque. E, come si sa, il peso
maggiore di sacrifici, lavoro, impegno da queste parti spesso ricade sulle
donne.
Il “vantaggio” di Kireka è di trovarsi ai margini di una cava di pietra che è
stata di fatto inclusa nei confini dello slum. Una fonte di guadagno sicuro in
cambio di un lavoro massacrante. Guadagno? Per dieci chili di pietrisco le
aziende costruttrici locali pagano qualcosa come 100 scellini ugandesi. Circa 4
centesimi di euro. Uno sfruttamento di cui nessuno lamenta l’esistenza, una
condizione di cui nessun sindacato assume la denuncia e la difesa. Cose che qui
non esistono. Cose di un altro mondo. Un mondo sconosciuto. E queste donne,
affette dall’HIV o già con la malattia conclamata, di mondo conoscono solo
questo. Il mondo di Kireka, a spaccare pietre in mezzo alla polvere, con i
bambini legati alle spalle. E poi quando il sole cala e non c’è più luce, a
dormire in baracche fetide, senz’acqua e, manco a parlarne, servizi igienici.
Eppure a Kireka queste donne hanno incontrato Rose. Una donna, come loro, che ha
rivoluzionato il modo di intendere e vivere la loro esistenza. Rose Busingye è
una donna ugandese, infermiera e ostetrica che ha studiato in Italia dove
conserva tanti amici. Ha 39 anni e per le donne di Kireka è diventata madre,
sorella, amica, medico. Lì a Kireka, con l’aiuto di persone di buona volontà, ha
fondato il Meeting Point International, una ONG che sostiene soprattutto bambini
orfani, ammalati o con famiglie in gravi difficoltà e donne (mamme) affette dal
virus dell’HIV. Un impegno gravoso, incessante, difficile. In Uganda, secondo i
dati forniti dall’WHO (World Health Organization) l’aspettativa di vita è di 49
anni per gli uomini e 51 per le donne, l’AIDS è la principale causa di morte,
insieme a malaria, tubercolosi e diarrea (l’incidenza dell’HIV tra gli adulti
dai 15 anni in su è di 6.304 su 100 mila - dati 2005); l’accesso all’acqua
potabile nelle aree rurali è pari solo al 55 percento con punte minime del 25
percento in alcuni distretti (Dipartimento internazionale per lo Sviluppo), e lo
stesso Ministero di Genere, Lavoro e Sviluppo sociale dell’Uganda ha reso noto
che la popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà è pari al 38
percento (stime 2004).
In questo contesto di difficoltà estreme, il principio di partenza di Rose è
stato: le persone non sono la loro malattia, ma hanno dentro un valore e la loro
vita vale più della loro malattia.
Le donne di Kireka, ammalate e destinate a spaccare pietre e a morire di AIDS
allora hanno capito e hanno capovolto la loro vita. Il fatto di sentire che
qualcuno dava loro valore ha dato loro la forza necessaria, e da questa forza
sono nate iniziative eccezionali. Come diventare imprenditrici di se stesse,
attraverso la realizzazione di collane e bracciali in carta colorata riciclata
che oggi vengono vendute nei migliori negozi del paese (ma se vi capitasse di
andare a Kampala acquistateli da loro, vi costeranno meno e loro guadagneranno
di più). Una iniziativa grazie alla quale oggi, alcune di loro hanno la
possibilità di appaltare il lavoro di spaccapietre e quindi fornire lavoro
(seppur povero) ad altre donne bisognose. Come fondare una squadra di calcio,
tutta rigorosamente al femminile, il cui capitano è stata soprannominata Ronaldo
in onore alla passione che lei nutre per il calciatore brasiliano. Ma c’è un
altro principio che Rose ha trasmesso a queste donne, quello dell’appartenenza
gli uni agli altri come una grande famiglia. Spinte da questo sentimento, le
donne di Kireka, hanno superato la loro condizione di dipendenza dagli aiuti di
altri, ma anche quella di necessità, e si sono esse stesse trasformate in
donatrici. All’epoca dello tsunami hanno raccolto del denaro da inviare ai paesi
colpiti e all’indomani dell’uragano Katrina, che ha distrutto New Orleans e
ucciso quasi duemila persone, sono riuscite a raggiungere e spedire la somma di
mille dollari. Un gesto spontaneo, di solidarietà tra bisognosi, che ha valso a
queste coraggiose il Vision Award da parte della New York Women’s Foundation.
Per quell’occasione, qualche mese fa, una rappresentanza di cinque donne è stata
invitata nella Grande Mela. Nessuna di loro aveva mai preso un aereo, nessuna
aveva mai viaggiato oltre il tragitto dal Nord del Paese alla capitale. Ma lì,
in un mondo totalmente nuovo, non si sono lasciate intimorire e ad un
giornalista che chiedeva loro come avessero potuto fare un gesto simile, così
povere e bisognose di tutto, una delle cinque, Margareth, ha risposto: “il cuore
dell’uomo è internazionale, non ha razza, non ha colore e si commuove alle
necessità degli altri. Anche le persone in America ci appartengono e noi
apparteniamo loro, perché non si appartiene né alle cose, né al lavoro”. È con
questo spirito che le donne di Kireka vivono. Oggi la possibilità di ricevere,
grazie all’impegno di Rose, il trattamento antiretrovirale, ha permesso loro di
vivere meglio, di vivere di più, di guardare ad un futuro anche un po’ più
lontano. Ma forse è anche uno stile di vita improntato alla generosità e alla
gioia che ha migliorato lo stato di salute di queste donne e dei loro figli. Se
provate ad andare a Kireka, soprattutto al giovedì, giorno dedicato
all’accoglienza, vedrete queste donne danzare, cantare e suonare le percussioni
tradizionali. Oppure recitare perfomance in cui mettono in scena la loro stessa
vita, prima e dopo aver incontrato Rose. Sarete travolti da un'esplosione di
gioia, dalla loro grande vitalità, dall’entusiasmo di esserci, e di condividere
un giorno di festa insieme con voi.
Guerra
sporca in Helmand
La Nato, sempre più in
difficoltà, ricorre agli àscari
La provincia meridionale di
Helmand, epicentro della produzione afgana di oppio ed eroina, è il fronte più
caldo della guerra tra le forze d'occupazione della Nato e la guerriglia
talebana. Quello dove i talebani sono più forti e dove le truppe occidentali, e
quelle governative afgane, sono in maggiore difficoltà.
I talebani all'attacco. L'11 ottobre, per la prima volta dall'inizio della
guerra nel 2001, la guerriglia ha attaccato la capitale provinciale, Lashkargah.
I talebani si sono mossi in forze dalla loro nuova roccaforte, la sperduta oasi
di Baramchà, nel mezzo del Deserto della Morte, vicino al confine con il
Pakistan. Sono penetrati fino alla periferia della città attraverso il distretto
rurale di Nad Alì, subito a ovest di Lashkargah, che avevano già conquistato
all'inizio del mese. Hanno bombardato con razzi e artiglieria leggera i palazzi
governativi del centro, ingaggiando violenti combattimenti con l'esercito
afgano. Solo l'intervento delle forze britanniche e dell'aviazione Usa ha
scongiurato la presa della città.
Pochi giorni dopo i talebani hanno sferrato una massiccia offensiva anche più a
nord, vicino alla cittadina di Grishk, costringendo le truppe Nato danesi e
quelle governative afgane ad abbandonare le loro basi nei villaggi di Attal e
Barakzai. Ora si teme un attacco talebano contro il vicino centro urbano di
Sangin, difeso da settecento marines britannici.
Gli àscari della Nato. In attesa di rinforzi, le truppe della Nato, ormai
assediate dai talebani nelle cinque città della provincia (Lashkargah, Grishk,
Sangin, Musa Qala e, a sud, Garmsir), si affidano ai bombardieri americani e
alle milizie private dei signori della droga locali che si sono venduti alla
Nato. La più quotata è quella di Abdul Wali Khan, detto 'Koka', che dopo aver
passato 14 mesi nella prigione Usa di Bagram per i suoi legami con la resistenza
talebana, due anni fa è stato arruolato dai generali inglesi assieme ai suoi 220
uomini per combattere contro i talebani. I miliziani di Koka, con indosso la
divisa della polizia afgana, hanno combattuto la resistenza compiendo stragi di
civili e terrorizzando gli abitanti dei villaggi sotto il loro controllo
(violenze, stupri, rapimenti, estorsioni). Tutti lo sanno, ma chiudono un
occhio. "Gli uomini di Koka - ha dichiarato al Times di Londra uno dei loro
addestratori, il sergente Don Wilson del 2° battaglione dei marines del
Reggimento Reale di Scozia - non sono certo dei vigili urbani, ma la gente li
rispetta e i talebani li temono".
Enrico Piovesana
UN CLIMA
ALLA SARKOZY
Massimo Serafini
Chiedo ai «climalterati» ministri,
Brunetta, Scajola e Prestigiacomo di astenersi dalla quotidiana dichiarazione in
difesa delle imprese italiane, che andrebbero in rovina se costrette a spendere
soldi per applicare la direttiva Ue sul clima.
Le vostre dichiarazioni emanano un fetore insopportabile dopo la notizia che, a
Taranto, un tredicenne, Patrizio Sala, sta morendo di cancro per le emissioni di
diossina, di una di quelle aziende che voi difendete. Quella che in questi anni
ha ricattato lavoratrici e lavoratori, il sindacato, l'intera popolazione di
Taranto obbligandoli a scegliere fra occupazione e risanamento ambientale. La
stessa musica che ci fate ascoltare contro la direttiva sul clima: se obbligate
a ridurre i gas serra le aziende chiudono e se ne vanno. A tornado e
scioglimento dei ghiacciai, all'aria e all'acqua avvelenate ci si penserà.
Oggi fate silenzio, ascoltate la protesta di una città avvelenata e magari
interrogatevi sul perché un uomo di destra come voi, Sarkozy, denuncia
l'irresponsabilità della vostra posizione.
Anche noi, «tifosi» dell'Europa, che godiamo quando bacchetta Berlusconi - visto
che noi non ci riusciamo - domandiamoci: è sufficiente sperare che sia l'Europa
a piegare Berlusconi e il suo «pattino di Varsavia», oppure serve far crescere
qui una mobilitazione sociale su un progetto di politica economica, energetica e
industriale capace di realizzare le famose «3x20» su emissioni, efficienza e
rinnovabili? Limitarsi al tifo ci lascia solo guai e macerie e tanti Patrizio
Sala da sacrificare sull'altare della «competitività».
Ci sono le condizioni politiche e sociali per costruire questa mobilitazione? Le
difficoltà sono enormi, quotidianamente questo giornale ne parla. Proviamo anche
a dire cosa serve per uscirne. Almeno due fatti: uno politico uno sociale.
Il nodo politico sul clima è la scelta del Pd: è prevalente, nel principale
partito di opposizione, la posizione espressa da Fassino, attenta alle posizioni
di Confindustria, oppure quella dei suoi ambientalisti che stanno con l'Europa?
La manifestazione del 25 è una buona occasione per comunicare al paese quale
delle due il Pd intende scegliere. E, poi: la sinistra, che ha fatto il corteo
dell'11 ottobre, affida la verifica della sua ritrovata vitalità contribuendo
alla mobilitazione in difesa della direttiva sul clima?
Sul piano sociale invece determinante è ottenere dai sindacati l'indisponibilità
a subire il ricatto di Confindustria. Difesa dell'occupazione, migliori
condizioni di lavoro e salario si ottengono assumendo la riconversione
industriale che la direttiva sul clima sollecita e non rifiutandola.
Altrettanto decisivo è contaminare la lotta degli studenti se si vuole
realizzare una mobilitazione sul clima, ma anche ottenere il coinvolgimento in
essa di ricercatori, scienziati, intellettuali per risanare i «pozzi avvelenati»
dal consumismo dissipativo.
Non è facile, ma proviamoci per non essere costretti solo a tifare per Sarkozy.
In pensione
il fondo privato
Argentina, la Kirchner
nazionalizza i fondi pensione gestiti dai privati. E' solo l'ultima mazzata alla
vecchia politica di Menem che aveva privatizzato di tutto e di più
Il governo argentino della
presidente Cristina Kirchner sembra proprio non aver avuto scelta: basta con il
sistema di assistenza e pensioni private voluto dall'ex presidente Menem nel
1994. Adesso si procederà con la nazionalizzazione dei fondi pensionistici. Dopo
la diffusione della notizia in Argentina c'è stato un sostanzioso calo delle
borse.
Una notizia bomba che arriva come un fulmine a ciel sereno e che lascia anche
abbastanza perplessi. Ma tant'è. Troppo alti i rischi, secondo la Kirchner, per
i dieci milioni di sottoscrittori che avevano affidato il loro futuro al
“privato”. Soprattutto perchè i fondi erano nelle mani delle banche. In
particolare in alcuni importanti istituti europei. Come nel caso del Bbva (Banco
di Bilbao) che forse, secondo alcuni quotidiani argentini, sarà l'unico che
perderà interessi rilevanti. Infatti il volume d'affari dei fondi pensione
privati si aggirerebbe, secondo i dati emersi negli ultimi giorni, intorno ai 22
miliardi di euro. Una cifra davvero considerevole.
Ritorno al passato. I fondi dal privato entreranno in un fondo pubblico che avrà
regole uniche per liquidazioni e pensioni, appunto sotto controllo statale. Una
spallata definitiva alla vecchia politica di Menem che ha privatizzato
praticamente tutto quello che gli passava per le mani, senza fare i conti con i
possibili danni futuri. Cosa che sembra invece aver bene in mente la Kirchner.
La sua decisione, infatti, “era necessaria per contrastare l'impatto negativo
che la crisi finanziaria mondiale ha avuto sulle pensioni”, come ha ricordato al
Congresso in un progetto di legge. Non solo. Secondo la presidente argentina è
finita “l'epoca politica del saccheggio” portata avanti senza troppi scrupoli
dagli amministratori degli anni '90.
Dati. Il settore pensionistico privato riguardava quasi 10 milioni di
sottoscrittori per un giro d'affari che si aggirava intorno ai 22 miliardi di
euro. Adesso le cose cambieranno e quei lavoratori che avevano deciso di
affidare il fondo pensione al privato si andranno a sommare ai quasi 5 milioni
di affiliati al sistema pensionistico pubblico. Tutto questo, all'unico scopo di
difendere i pensionati, andrà a formare un regime statale unico nominato Sipa
(Sistema Previsional Argentino). Dunque, se nell'ultimo anno l'Administradoras
de Fondos de Jubilaciones y Pensiones (Afjp, il sistema pensionistico privato),
ha accumulato perdite intorno al 20 percento, potrebbe accadere che in futuro
non sia in grado di pagare le pensioni. Già oggi circa 500 mila persone che
avevano in passato aderito ai programmi privati si ritrovano nelle tasche meno
soldi. Proprio per questo motivo sarebbe intervenuto lo Stato.
Polemiche. La notizia come già detto, è arrivata così di punto in bianco. E ha
generato subito polemiche soprattutto nei banchi dell'opposizione che ha subito
accusato la presidente di voler utilizzare i fondi statalizzati (si parla di 30
miliardi di dollari) per fini politici. E hanno fatto sapere di essere pronti a
dare battaglia. Come ha detto la rappresentante di Coalicion Civica, Elisa
Carrio: “Il problema è l'intenzione del governo. Una cosa è una riforma seria,
un'altra è usare scuse per impossessarsi di quella somma”.
Alessandro Grandi

Condannati a
rivivere il passato
"No alla dittattura
dell'Occidente. Nessuno ci comprerà per pochi euro". La rabbia della gioventù di
Belgrado.
Gianluca Ursini
“NE DAMO KOSOVO”, si legge a
caratteri cubitali in un graffito in Skladarskjia, il viottolo acciottolato dove
la sera i belgradesi si ritrovano a bere sotto i pergolati dei caffè turchi la
birra nazionale “Jelen Pivo”, in questa sorta di piccola Montparnasse balcanica.
“Non vi daremo mai il Kosovo” è un sentimento condiviso, anche dai serbi
moderati e dalla maggioranza silenziosa che assiste da 85 giorni alle
manifestazioni quotidiane del movimento nazionalista “1389” in Republiki Trg
(Piazza Repubblica), dove un centinaio di ragazzi e di vecchi nostalgici del
regime titino si riunisce per gridare “Prezir Diktaturij”, “fermiamo la
dittatura” di Unione europea e liberali. Un sentimento condiviso dai serbi che
in questi giorni minacciano di mettere a ferro e fuoco Podgorica, la capitale
montenegrina 500 chilometri più a Sud; il Srpsko Narodna Partja (partito
Popolare Serbo) con il partito Democratico Serbo e il “Srpsko Tiket” promettono
di far cadere il governo del premier Milo Djukanovic se non ritira il
riconoscimento del Kosovo che ha fatto infuriare la comunità serba in Crna Gora,
pur sempre un terzo della popolazione. Il leader della protesta e del partito
popolare serbo, Andrjia Mandic, sta facendo uno sciopero della fame, in attesa
che Djukanovic dia una risposta all'ultimatum in scadenza ieri, per ritirare il
riconoscimento, venire a rispondere al parlamento di Podgorica e indire un
referendum di consultazione popolare sul riconoscimento di Pristina.
Mladic? Ve lo scordate. Igor Marinokovic è un ragazzone di 26 anni, alto
1.90 e 100 chili di peso, il ritratto dell'esuberanza serba, il corpo segnato
dalla psoriasi nervosa, vestito come un rockettaro grunge, con una maglietta
verde militare col faccione di Ratko Mladic a grandezza naturale. “Gde je znamo...
ali da ne damoi...” si legge sulla t-shirt: “sappiamo dove si trova.. ma non ve
lo daremo mai!” Igor è il portavoce del ``movimento 1389`` che si riunisce di
fronte al Centro culturale di Piazza Repubblica dal 22 luglio, giorno
dell`arresto di Radovan Karadzic. Un luogo carico di memoria per i serbi, dalle
riunioni del 1998 di Vuk Draskovic, che da destra cercò d'assestare il colpo
mortale al decrepito regime di Milosevic, fino alle riunioni del 2000 di
`Otpor`, il movimento pro europeo sponsorizzato dalla “Open Society” di George
Soros.
Anche sabato scorso si erano ritrovati qui in quattro gatti, meno di 300, mentre
l'attenzione dei reparti di “Gendarmarija” radunati in assetto antisommossa con
le giubbe rinforzate anti urto che li fanno sembrare soldati di “Star Wars”
erano più concentrata sugli scontri tra ultras della Stella Rossa e i tifosi in
trasferta a Belgrado per il match Serbia-Lituania, qualificazioni Mondiali.
Serbi,
socialisti e fascisti. “Anti-Fa!! Anti-Fa!!” Le bandiere rossonere
dell'anarchia sventolano in una dolce serata di fine settimana belgradese, sul
corso di Terazjie la tensione si tocca con mano, i negozi dello shopping con le
griffe italiane chiudono le serrande, mentre scorrono i 3 mila autoconvocati del
gruppo `Nje Nazismu`` per chiedere una Serbia democratica, vicina a Bruxelles e
stanca di guerre etniche. Un gruppuscolo di nazionalisti con la testa rasata
saluta a braccio teso e inneggia alle milizie `cetniche` del generale “Giga”
Draza Mihajlovic, che combatté nel 1944 per la liberazione della Serbia a fianco
delle armate pro tedesche. Dal corteo guidato dagli anarchici, che
sorprendentemente tengono alte anche bandiere a 15 stelle dell'Unione europea,
partono molti fischi e grida d'offesa, ma si evita lo scontro. Da mercoledì 8,
quando l'Assemblea Generale dell'Onu ha rimesso alla Corte Iinternazionale di
Giustizia il caso dell'indipendenza del Kosovo, per valutare “se corrisponda ai
criteri del diritto internazionale”, qui nella capitale di un piccolo paese
chiamato Serbia e che un tempo era capitale federale di una grande entità
chiamata Jugoslavjia, c'è una manifestazione al giorno: da sinistra contro “i
fascisti che hanno trascinato il mio paese in 10 anni di guerre” (urla tra i
fischi della manifestazione Miljana Filipovic, studentessa di lingua spagnola,
sotto gli emblemi del partito del presidente Tadic), e da destra i movimenti pro
nazisti che chiedono di “sterminare i musulmani albanesi”, con la polizia che
regolarmente interviene a proibire i loro presidi. Il corteo anti fascista si e'
svolto senza scontri sabato, mentre lunedì i gruppuscoli di estrema destra hanno
dato luogo a scontri che hanno avuto molto risalto sui media serbi, come la tv
'B92': “Il nostro Paese sta deragliando verso il fascismo?” era la domanda più
ricorrente dei giornalisti
L'Occidente non ci interessa. A mantenere il controllo della
centralissima Republiki Trg e della passeggiata di Terazjie rimangono solo loro,
i ragazzi che sono rimasti al 1389, l'anno della battaglia di Kosovo Poljie,
quando l'esercito serbo guidato dal principe Lazar arginò, immolandosi,
l'avanzata delle forze ottomane verso il cuore dell'Europa. “Non ce ne frega
niente dell'accordo tra Fiat e Zastava: le compagnie occidentali vogliono solo
fare affari qui perché col 44 percento di disoccupazione possono offrire salari
da fame, più bassi dei 200 euro di media che percepisce un operaio serbo. E le
altre multinazionali europee che arrivano qui vogliono solo fare affari perché i
russi da un anno ci hanno offerto un trattato di libero commercio e le nostre
merci non pagano dazio per arrivare in dogana a Mosca - ribatte preciso
Marinkovic a chi gli chiede se quelle bandiere pro-europee non siano più attuali
delle loro che chiedono il ``Kosovo je Srbjia`` e inneggiano a “Radovan Karadzic
presidente” - Che cosa ci dà l'Unione europea? Assolutamente niente. Repubblica
Ceca e Ungheria erano diventate ricche prima dell'adesione alla Comunità e noi
ci rimetteremmo soltanto. Non ci conviene entrare in Ue e Nato, tanto più se
dobbiamo consegnare i nostri eroi al tribunale internazionale dell'Aja. Esiste
qui in Serbia il “Specialny Zud za Ratneslocina”, il tribunale speciale per i
crimini di guerra. “Giudicheremo noi Ratko Mladic e Goran Hadzic, il presidente
della Repubblica Srpska di Krajina. All'Aja non li vedrete mai”. Mai all'Aja.
Giustizia a senso unico. “Per quale motivo il generale Ratko e Goran
dovrebbero andare all'Aja? - si intromette furioso Vladimir Miskovic del
settimanale “GeoPolitika” - per dei processi farsa come sono stati quelli di
Slobodan Milosevic e come sarà questo a Karadzic? Che ci dite voi europei delle
sentenze ridicole a Haradinaj, l'ex premier kosovaro assolto all'Aja nonostante
le sue milizie avessero cacciato i nostri connazionali serbi dai villaggi ora in
mano agli albanesi? Fateci i nomi di criminali di guerra bosniaci e croati
processati all'Aja. Quella Corte e' solo una truffa, ha come principale
obiettivo noi serbi. Che ne e' stato di Naser Oric, il signore della guerra
musulmano che nei dintorni di Srebrenica tra il '92 e il '95 ha sterminato 3mila
serbi? (statistiche smentite dalle Nazioni Unite e dalla Kfor, forza
d'interposizione Nato, ndr). Perché nei vostri media europei non parlate di
queste cose? Perché non parlate del generale dell'esercito bosniaco Rastin Delic,
un musulmano che ha fatto sparare sui villaggi serbi, ma che all'Aja e' stato
scagionato perché il fatto non può essere provato? Noi abbiamo processato i
nostri criminali di guerra: in questi giorni ci saranno le sentenze contro i
comandanti dei gruppi paramilitari “Zvte Osce” e “Skorpions”, che uccisero in
Bosnia intorno al 1995, e saranno tutte condanne a minimo 30 anni. Quando
vedremo anche un bosniaco musulmano o un croato processato all'Aja per i crimini
contro le minoranze serbe, smetteremo le nostre bandiere “No je NATO” e potremo
aderire all'Ue".
Protesta
pacifica soffocata nel sangue
L'Esmad spara sui manifestanti
Nasa che occupavano la Panamericana fra Cali e Popoyan: 2 morti e decine di
feriti
Simone Bruno
A María-Piendamó, ne cuore del
Cauca, si sono concentrati 20.000 indigeni tra cui moltissimi bambini, donne e
anziani e in maniera collettiva hanno deciso di occupare la Carretera
Panamericana per attirare l’attenzione internazionale e nazionale sulla loro
situazione. Questa strada unisce Cali a Popayan e la Colombia con L’Ecuador ed è
di vitale importanza.
Il bastone della pace. I Nasa non usano armi, ma sono protetti da una
Guardia Indigena munita di un simbolico bastone colorato simbolo di comando, che
da sempre fa parte della loro cultura. Guardia possono essere tutti: bambini,
donne, uomini, vecchi e giovani. Solo con questo si sono riversati in due punti
equidistanti dall’ entrata della Maria per bloccare la strada. Dopo pochi minuti
sono arrivati gli Esmad (squadroni antisommossa della polizia) che hanno
attaccato con gas e manganelli. Gli indigeni hanno resistito eroicamente fino a
quando la polizia ha cominciato a usare fucili a pallettoni e granate non
convenzionali composte da polvere da sparo, schegge, chiodi e pezzi di vetro.
Due morti e settanta feriti. Il bilancio solo nel primo giorno di scontri
è di settanta feriti e due morti, tra cui Ramos Valencia il cui cranio è stato
trapassato da parte a parte da un proiettile. Insieme al piombo sono piovute le
accuse presidenziali, echeggiate dal governatore del Cauca Guillermo González
Mosquera e dal capo della polizia Oscar Naranjo Trujillo (ex zar antidroga,
costretto alle dimissioni dopo che suo fratello è stato arrestato per
narcotraffico in Germania), secondo le quali gli indigeni erano armati e
istigati dalla guerriglia, mentre l’ Esmad non aveva armi da fuoco.
Le verità. I mezzi di comunicazione colombiani, dimenticando una cosa
elementare come verificare le notizie, hanno subito stigmatizzato la protesta
facendo da eco alla rabbia presidenziale. Nella Maria non c’è stata istigazione,
ma un processo decisionale che viene dal basso e di cui i governatori indigeni
non sono che portavoce. Gli indigeni non avevano armi da fuoco, che invece
impugnavano i poliziotti, come dimostrano i morti e i feriti, come dimostra il
cranio esploso Ramos Valencia e la carne lacerata di altre decine di persone.
Colpa delle Farc. La criminalizzazione della protesta è un esercizio
molto comune in Colombia, dove le Farc si trasformano nella scusa perfetta per
attaccare i movimenti sociali. Per il presidente i guerriglieri sono: gli
studenti, i tagliatori di canna, i giudici, i trasportatoti, i professori, gli
Indigeni e i contadini. Se davvero fosse così allora vorrebbe dire che la sua
politica di seguridad democratica è un fallimento totale dato che la guerriglia
si sarebbe infiltrata in tutto il paese.
Reali sono altre cose. Chi accusa il movimento indigeno è un governo che
conta 60 parlamentari coinvolti nello scandalo della Parapolitica. Scandalo che
lo stesso governo cerca di insabbiare come confessa José Miguel Vivanco
direttore per le Americhe di HRW che ha dichiarato: “L’esecutivo è arrivato a
estremi non conosciuti in America Latina per screditare una corte (Corte Suprema
di Giustizia) che sta processando a più di 60 congressisti, quasi tutti del
governo, per paramilitarismo”. Oppure l’ex governatore del Cauca Juan José Chaux
Mosquera, che era uso criminalizzare gli indigeni Nasa e che alla fine del suo
mandato è stato premiato dal presidente Uribe con l’ambasciata della Repubblica
Domenicana. Incarico a cui è stato costretto a rinunciare una volta rese note
alla opinione pubblica le sue frequentazioni. L’ex governatore si incontrava nel
palazzo di Narì (nomignolo con il quale nelle intercettazioni telefoniche i
paramilitari si riferiscono, mostrando una certa familiarità, al palazzo di
Nariño, sede presidenziale) con esponenti di noti paramilitari per contrattare
il loro silenzio.
Se scoppia
la bomba card
di Enrico Pedemonte e Paolo
Pontoniere
Diecimila dollari è il debito
che ogni famiglia americana ha accumulato usando le carte di credito. Ora che le
banche alzano gli interessi e rivogliono i soldi, un modello di vita cambierà
Immaginate di ricevere una lettera
dalla banca che vi comunica un aumento del tasso di interesse sul vostro debito
dall'8 al 26 per cento. Con poche righe di spiegazione: "Caro cliente, a causa
del cambiamento delle condizioni del mercato...". Negli Stati Uniti sta
accadendo ai clienti di molte società di carte di credito americane, per esempio
quelli di Adventa, che ha portato i tassi di interesse a livelli mai raggiunti
prima.
Così, dopo la bolla dei mutui subprime, sta per esplodere quella delle carte di
credito. Un'altra anomalia americana destinata ad andare in pezzi in questo
clima da resa dei conti dove tutti i nodi di una finanza senza regole stanno
venendo al pettine. Alla fine del 2007, ogni famiglia americana aveva verso le
carte di credito un debito medio di 9.840 dollari, in crescita continua da anni.
Il debito complessivo supera ormai i 2.400 miliardi di dollari, una somma enorme
che rischia di sommergere le grandi banche che emettono le carte, in prima fila
Bank of America, J. P. Morgan Chase, Citigroup. Mentre Visa, American Express e
MasterCard hanno visto il loro valore in Borsa dimezzato negli ultimi tre mesi.
Gli esperti già prevedono nuovi stanziamenti del ministero del Tesoro per
coprire i buchi che potrebbero trascinare diverse banche nel vortice della
bancarotta.
Non
si tratterà di semplici salvataggi finanziari. In una società dove il
consumatore ha in media quattro carte di credito in tasca (ma uno su dieci ne ha
una dozzina) i cambiamenti in corso rappresentano la crisi di uno stile di vita
che ha dominato la scena fin dalla fine degli anni Settanta. Negli ultimi
decenni la crescita dell'economia americana è stata basata su tre capisaldi: il
petrolio a basso costo, il credito facile per acquistare la casa e la
possibilità di ottenere un numero crescente di carte di credito su cui poter
frazionare i propri debiti. Queste tre cose si tenevano insieme l'una con
l'altra. Gli americani compravano case sovradimensionate - soprannominate
McMansion - spesso in lontani sobborghi, e riuscivano a pagare i mutui,
all'inizio molto vantaggiosi, usando due leve: da una parte aumentavano il
proprio debito sulle carte di credito, dall'altra rifinanziavano il debito
grazie alla continua crescita del valore delle case. Ma improvvisamente tutti e
tre i pilastri di quel castello sono crollati in una drammatica sequenza.
Prima è arrivato l'aumento del prezzo del petrolio a rendere le McMansion sempre
più dispendiose: improvvisamente milioni di famiglie non riescono più a pagare
le bollette. Poi l'esplosione della bolla dei mutui subprime ha fatto
precipitare il prezzo delle case, mandando molte famiglie in bancarotta. Ora è
la volta delle carte di credito: un numero crescente di americani non è più in
grado di pagare un debito che per oltre due milioni di famiglie supera i 20 mila
dollari. Secondo la Federal Reserve, solo negli ultimi tre mesi il 37 per cento
delle banche ha alzato gli interessi dal 6-10 per cento al 24-26 per cento, un
tasso da strozzinaggio. Il risultato è che il 60 per cento delle famiglie
americane non riesce a saldare il conto della carta di credito a fine mese e
continua a spendere più di quello che guadagna. Si tratta di una bomba che sta
ormai per esplodere.
Innovest Strategic Value Advisors, una società di ricerca, sostiene che per le
banche le perdite delle carte sui crediti inesigibili ammontavano nel 2007 a
22,6 miliardi di dollari e, alla fine di quest'anno, arriveranno a 41,5
miliardi. Già nel marzo 2008 il numero di privati che hanno dichiarato
bancarotta era cresciuto a 871 mila, il 36 per cento in più rispetto all'anno
precedente. Ma ci sono segnali che la situazione stia peggiorando ancora. E
questo - secondo la American Bankers Association - spinge due terzi delle banche
a ridurre le linee di credito ai clienti visto il deteriorarsi della situazione
economica di milioni di famiglie. È l'economia basata sulla plastica che si sta
sgonfiando.
Gary McBride, analista di Bankrate.com, prevede che sui consumatori si stia per
abbattere una raffica di protesti di dimensioni storiche da parte delle carte di
credito: "Si tratta di un debito di oltre un migliaio di miliardi di dollari
destinato a compromettere ulteriormente la precaria situazione di istituti come
Bank of America, Capital One e di altri, come Providian e Washington Mutual, che
sono stati recentemente assorbiti da JP Morgan e Wells Fargo". Dean Baker,
esperto del Center for Economic and Policy Research, è ancora più pessimista:
"Prevedo un'ondata di fallimenti bancari che aggraverà l'economia
internazionale. Il crac delle carte di credito rischia di avere pesanti
conseguenze sulla Bank of America. E molte piccole banche finiranno in
bancarotta".
McBride prevede che a livello internazionale questa nuova crisi avrà un impatto
molto diverso da paese a paese: "In Gran Bretagna avrà conseguenze simili a
quelle previste sul mercato Usa, assai meno in altri paesi europei che, come
l'Italia, non fanno ricorso all'indebitamento personale in maniera così
massiccia. Anche in certi paesi asiatici il problema è preoccupante, specie in
Giappone, in Corea e in Cina, dove negli ultimi anni il debito verso le carte di
credito sta crescendo esponenzialmente".
È probabile che questa crisi avrà un'influenza profonda sul tenore di vita e
sulle abitudini di consumo di molte famiglie americane che in passato hanno
usato le carte di credito per permettersi consumi al di sopra delle proprie
possibilità. È una fase storica che si chiude. Fino alla metà degli anni
Settanta le famiglie Usa risparmiavano in media il dieci per cento del loro
reddito. Ma la spinta ai consumi esplosa all'inizio degli anni Ottanta ha
progressivamente annullato la capacità di risparmio, che oggi è prossima a zero.
I primi segnali di un'inversione di rotta sono già evidenti. In agosto, per la
prima volta dopo dieci anni, i prestiti chiesti dagli americani sono scesi del
3,7 per cento: "La tenaglia del credito obbligherà gli americani a limitare i
consumi", dice Frank Badillo, economista alla TNS Retail Forward, società di
ricerche di mercato: "Stiamo per assistere a cambiamenti radicali nel
comportamento dei consumatori".
Si tratta di una mutazione che nel breve termine avrà certamente un effetto
negativo sull'economia americana. La minore propensione al consumo è destinata a
favorire una inevitabile recessione e a rimodellare intere industrie, per
esempio quella automobilistica, ormai orientata verso le piccole cilindrate a
basso consumo. Ma Ruth Susswein, analista di Consumer Action, una organizzazione
di difesa dei consumatori, è convinta che molte banche nel settore delle carte
di credito finiranno presto sotto il controllo della Federal Reserve e che
questo avrà un effetto positivo sul mercato: "Molte linee di credito saranno
tagliate e i consumatori dovranno imparare a usare di più il denaro contante. Da
un lato questo provocherà un calo dei consumi ma dall'altro farà aumentare la
propensione al risparmio", dice Susswein.
Per capire la portata di questa rivoluzione basti pensare che dopo l'11
settembre, con il paese ancora sotto choc, il presidente Bush invitò gli
americani a tornare nei negozi a fare acquisti, indicando nel consumo la prima
medicina anti-crisi. Sono passati sette anni e quella medicina è risultata
tossica. La corsa al debito non si è più fermata, sia a livello dei
comportamenti privati sia in quelli pubblici.
Alcune settimane fa il contatore luminoso del debito pubblico, inaugurato nel
1989 a Times Square, nel cuore di New York, ha superato i 9.999 miliardi di
dollari e non aveva più caselle luminose su cui espandersi. E improvvisamente
fare debiti non è più considerato una virtù ma è diventato un sintomo di
malattia. Non è un caso se i sondaggi elettorali fanno prevedere la vittoria di
Obama alle elezioni del 4 novembre. A 28 anni dall'avvento dell'era reaganiana
forse la società americana è pronta a una svolta. La crisi delle carte di
credito è il simbolo più forte di questo cambiamento
21
ottobre
Ricordo di Vittorio Foa
Una lezione
di generosità
di GIORGIO BOCCA
Quando
sento parlare di buoni maestri penso subito a Vittorio Foa, il migliore e il più
presente negli anni dei miei buoni maestri. L'ho conosciuto leggendolo nel
gennaio del '44, appena arrivato nelle Langhe dalla Val Maira con la anabasi
partigiana dalla montagna alle colline del vino. Una staffetta ci portò da
Torino l'ultimo quaderno di Giustizia e Libertà.
Aveva la copertina rossa e in nero la spada di Giustizia e Libertà. Era un
articolo sulle alleanze orizzontali necessarie alla Resistenza, le alleanze
ostiche alla nostra formazione elitaria, dei pochi ma buoni. Quella lezione di
intelligenza e di modestia ci arrivò nel momento giusto, della euforia
combattentistica e della superbia. Un quadro lucido della situazione, un
richiamo alla realtà. Lo stesso modo di vedere il mondo, senza retorica ma senza
rassegnazione degli altri maestri del liberal socialismo, da Gobetti a Bobbio,
dai Galante Garrone ai Rosselli, dai Valiani ai Parri. Vittorio Foa ci è stato
maestro di generosità e di fedeltà intellettuale, di antifascismo solidale e
intransigente, il necessario ma sempre legato alla ragione.
Ho avuto come compagni di viaggio nella politica e nella cultura due
intellettuali di stampo giellista: Paolo Spriano e Vittorio Foa. Il primo era
diventato lo storico del Partito comunista, il secondo il dirigente della Cgil
legata al Partito comunista. Li ho seguiti per anni nella burrascosa vicenda
delle fazioni e delle passioni politiche e la mia stima in loro è durata e
cresciuta per la loro fedeltà alla ragione, per la capacità rara di restarle
fedeli se occorreva con "l'astuzia dell'intelligenza".
La prova migliore di Spriano fu la storia del Partito comunista dove tutto ciò
che si doveva sapere fu indicato anche se non gridato e per Vittorio la visita
del sindacato all'Unione Sovietica e la relazione critica che ne seguì, precisa
anche se non gridata. Ciò che faceva di Vittorio una persona amata da tutti
coloro che lo conoscevano era la sua curiosità disinteressata, la sua fedeltà a
una ragione ragionevole.
Nonostante la galera fascista e le faziosità di cui soffrì anche l'antifascismo
non rinunciò mai a cercar di capire i diversi, non sacrificò i sentimenti e
l'ironia al disprezzo e alla condanna. Fu sempre un amico, un padre, un compagno
comprensivo. Mi incantarono i suoi ultimi libri, specie i ricordi di montagna,
così come mi aveva colpito il suo saggio sul quaderno di GL, il suo saper
restare uno che sa ridere, come quando della politica giovanile ricordava il
fastidio di sua madre per quelle montagne di Courmayeur piene di neve e di
antifascisti.
Vittorio e la sua famiglia passavano le vacanze a La Salle in Valle d'Aosta.
Vittorio non era più in grado di camminare ma si faceva portare in auto fino al
Piccolo San Bernardo per le montagne in cui aveva camminato da ragazzo e che
ricordava tutte perfettamente per nome. Anche quello un modo del suo essere
fedelmente affettuoso.
20
ottobre
Cosa resta
in busta paga
di Paola Pilati
Chi ci rimetterà con il nuovo
modello contrattuale? Come saranno calcolati gli aumenti anti-inflazione? Lo
Stato risarcirà i dipendenti? Tutti gli scenari della riforma che cambierà gli
stipendi
Emma vacci piano, ammoniscono dalla Fiat. Guglielmo dove ci stiamo cacciando?,
chiedono allo stato maggiore del Pd. Preoccupata dalla minaccia di un accordo
separato sul nuovo contratto lanciato dalla volitiva presidente della
Confindustria Emma Marcegaglia, l'ala nobile degli imprenditori ha raccomandato
prudenza. E altrettanto hanno fatto i vertici del centrosinistra all'indirizzo
della Cgil, sul cui segretario Epifani continuano a piombare le ansiose
telefonate di Veltroni, Franceschini, Enrico Letta. Anche Cisl e Uil, nel
frattempo, hanno abbassato i toni, e aderendo allo sciopero unitario sulla
scuola hanno lanciato un segnale inequivoco: firmare da soli per sancire le
nuove regole dei contratti sarebbe un suicidio. Soprattutto a queste condizioni.
Quel che infatti il sindacato non ha chiarito, e che gli industriali non hanno
interesse a fare, è chi vince e chi perde in questa partita. Come si tradurranno
le nuove regole per le varie categorie di lavoratori. E come cambierà il
rapporto di potere in fabbrica nel triangolo padrone-sindacato-operaio. Vediamo
di capirlo.
Addio rituali La Banca d'Italia ha detto di no: interpellata da viale
dell'Astronomia per confezionare le previsioni di andamento dell'inflazione su
cui far muovere i contratti, non se l'è sentita. Sarà un altro istituto a farle
(l'Isae?) e avrà una bella responsabilità. Sarà questa, infatti, l'unica benzina
sicura che farà muovere gli stipendi per i tre anni del contratto nazionale.
Niente più fumose riunioni su complicate piattaforme rivendicative, che magari
andavano avanti per mesi: i rinnovi saranno quasi degli incontri notarili. Presa
d'atto degli aumenti previsti, e via. La discussione potrà riguardare la
cosiddetta parte normativa: orari, progressioni di carriera e simili,
verosimilmente anch'essi sempre più esigui. I pugnaci sindacalisti di rango
nazionale, abituati a incontrarsi-scontrarsi con i vertici dell'imprenditoria,
vanno incontro a una perdita di ruolo da lettino dell'analista.
Quale inflazione? "Garantiamo un recupero sostanziale della perdita di potere
d'acquisto", assicura il direttore generale Confindustria Maurizio Beretta, "ed
è una copertura dall'inflazione maggiore di quella attuale". Nell'avverbio
'sostanziale' c'è la dinamite che sta facendo deflagrare i rapporti nella
trattativa. In quell'inflazione sarà registrato l'effetto delle materie prime
alimentari importate (esempio: il grano), ma tolto l'effetto dei prezzi
dell'energia. In sostanza, si sceglie una via di mezzo tra l'inflazione
programmata per restare nei limiti imposti dalla Bce (l'1,7 per quest'anno),
quella effettiva che sarà più alta, e quella senza energia: il 2,6. "In questo
modo il cittadino paga i rincari del petrolio in bolletta e anche nello
stipendio", protesta Agostino Megale, segretario della Cgil che guida l'Ires,
l'ufficio studi di Corso d'Italia, e ricorda che in base ai suoi conti le buste
paga non hanno mai recuperato i 1.900 euro di potere d'acquisto persi tra il
2002 e il 2003 per via di una inflazione più alta del previsto.
Chi vince, chi perde In simili diatribe, non è facile ai comuni mortali vederci
chiaro. Con la proposta confindustriale, tra il 2008 e il 2011 ci sarà una
perdita per gli stipendi di 1.914 euro, accusano dalla Cgil. Niente affatto, ci
sarà un aumento di 2.503 euro, ribadiscono gli industriali. E via con stime
brandite come spade: l'inflazione del 2009 sarà del 3,2 per il sindacato, del
2,5 per la Confindustria. La realtà è che il meccanismo funziona come una
scommessa."Diamo i soldi dell'inflazione futura in anticipo", fa notare Luca
Paolazzi, direttore dell'Ufficio studi dell'organizzazione imprenditoriale, "e
questo di fatto è quasi un meccanismo di scala mobile", afferma. E se le
previsioni si rivelano sbagliate? "Ci sarà chi vince e chi perde", spiega
Paolazzi, "ma non ha senso chiedere un recupero a posteriori".
Attacco al punto Ma è da un altro meccanismo, più esoterico di quello della
contingenza, che arrivano guai peggiori. A metà 2009, quando andranno a
rinnovare il contratto con le nuove regole (sempre cha passino), se ne
accorgeranno per primi gli alimentaristi: il valore punto sarà stato decapitato
dai 17 euro attuali a 14,5. A ruota seguiranno i metalmeccanici con 2,20 euro in
meno, da 17,55 a 15,35 (vedi grafico a pagina 151). E che cosa è il valore
punto? È la base su cui calcola la crescita dell'inflazione. E poiché ogni
categoria ha il suo, questo vuol dire che l'inflazione ha un peso diverso nelle
buste paga di un chimico e, poniamo, di un lavoratore del commercio. Il valore
punto differenziato stabilisce una gerarchia operaia? Nessuno lo ammetterà mai.
Di fatto la Confindustria non punta a uniformarli, ma a decurtarli sì, e propone
tagli che vanno dal 10 al 30 per cento. Chi ci rimetterà di più? "I lavoratori
del settore pubblico e quelli dei trasporti", afferma Susanna Camusso,
segretario della Cgil che segue la trattativa. E questo perché, mentre
nell'industria il valore punto si è costruito inglobando mille voci della
retribuzione che hanno rimpinguato la paga-base, per il pubblico questo non è
mai avvenuto: il 30 per cento della paga di statali e addetti ai trasporti è
fatto di voci accessorie che il ministro della Funzione Pubblica Renato Brunetta
non vede l'ora di rasoiare. Il risultato, per tutti, sarà una riduzione del
salario. Ciò che si conquista con un meccanismo di inflazione più ricco di
adesso, si perde per quest'altro verso.
Troppo piccoli per contare "Vogliamo diffondere la cultura della
contrattazione", affermano in Confindustria. "Dove sta la fregatura nella
proposta degli imprenditori? Nel fatto che sarà molto difficile fare gli
integrativi aziendali", ammette, onestamente, la segretaria dell'Ugl Renata
Polverini. Il primo dei problemi che il nuovo sistema solleva è proprio questo:
oggi la contrattazione decentrata si fa solo in una impresa su dieci, ed è più
diffusa solo tra le grandi imprese (quattro su dieci).
Domani, i soldi ottenuti a livello aziendale a fronte di un aumento della
produttività, dovranno diventare il perno del sistema, il modo in cui
l'imprenditore riconoscerà ai propri dipendenti una parte della crescita dei
profitti. "Ma le parti lo sanno bene che nelle piccole imprese i sindacati non
ci sono e che i padroni non hanno nessuna intenzione di farli entrare", osserva
Marco Leonardi, ricercatore del dipartimento studi del lavoro alla Statale di
Milano. E allora, come si distribuiranno i soldi?
Vuoi l'aumento? Produci Non puoi distribuire quello che non produci. Sacrosanto.
E come la ottieni questa produttività? "Secondo me è legata al numero di ore
lavorate", esemplifica Federica Guidi, presidente dei Giovani: "Si deve lavorare
di più, per esempio arrivando alle 40 ore effettive". Provvedimento che nella
Ducati, la fabbrica di famiglia, stanno implementando con macchinette del caffè
che si spengono per non far allungare la pausa oltre i 10 minuti. E che altro?
"C'è qualche permesso di malattia retribuito di troppo; e, diciamolo, maturare
32 giorni di ferie dopo solo un anno e qualche mese di assunzione è tanto". C'è
chi osserva, però, che la produttività non dipende solo dal lavoratore: "Può
essere vero per la pubblica amministrazione,"dicono gli economisti Giuseppe
Ciccarone e Enrico Saltari sul sito di analisi economica e giuridica Nelmerito.
com: "Nell'industria è strettamente legato all'investimento in progresso
tecnico". Insomma, dipende anche dal padrone.
Buio a mezzogiorno Nel Sud si firmano contratti solo in cinque aziende su cento.
Molte aziende metalmeccaniche, tessili, alimentari, sono destinate a non essere
neppure sfiorate dallo scambio produttività-quattrini. Riceveranno, in cambio,
un 'premio di mancata contrattazione'. "E volete sapere come lo pagheranno?", si
infuria Megale: "Con la scrematura del valore punto. Tolgono i 2,2 euro al punto
di un milione e seicentomila metalmeccanici, e si ritrovano con le risorse per
il premio: è un'ingiustizia".
Ma dov'è Pantalone? Qui ci vuole il governo. Che metta sul piatto dei soldi, che
spenda per sgravi fiscali ai lavoratori dipendenti. Non bastano gli sconti che
si è già detto disponibile a fare sugli aumenti aziendali: su questa parte della
retribuzione si applicherà una aliquota del 10 per cento. Ma solo fino a 3.000
euro annui e per buste paga fino a 30 mila euro. Questo meccanismo è il cuore
della proposta confindustriale, e già trasforma di fatto l'erario in una
'spalla' degli industriali. Ora vuole qualcosa anche l'opposizione. Il segnale è
arrivato da Massimo D'Alema: "Abbozzo un piano", ha lanciato all'indirizzo della
Marcegaglia durante il convegno caprese dei giovani di Confindustria: "Allentare
il fisco sui redditi fino a 50 mila euro". Evocato come il mago della lampada
che esce fuori strofinandola, per ora il ministro dell'Economia Giulio Tremonti,
detentore dei cordoni della borsa, non si è palesato. Ma il tam tam su un
salvifico intervento si sta propagando. L'idea più gettonata è quella di dare la
possibilità anche ai lavoratori dipendenti di detrarre le spese di produzione
del reddito, vuoi la benzina vuoi l'abbonamento al treno, quando pagano l'Irpef.
Un'operazione da uno, due miliardi di euro? Forse è per questo che il mago resta
nella lampada.
Pakistan,
un'escalation per McCain
Forze Usa sempre più attive
nelle Aree Tribali
Le elezioni presidenziali negli
Stati Uniti si avvicinano, e l'amministrazione repubblicana uscente è decisa a
ottenere qualche clamoroso risultato nella Guerra al Terrorismo da poter
spendere nella campagna elettorale di McCain come asso nella manica dell'ultimo
minuto. Nel mirino del Pentagono c'è l'obiettivo mediatico per eccellenza:
Al-Qaeda. Non potendo puntare su Osama Bin Laden (oramai da tutti dato per
morto) la scelta cade necessariamente sul numero due dell'organizzazione, il
medico egiziano Ayman Al-Zahahiri, che se ne sta nascosto da anni sulle montagne
delle Aree Tribali pachistane (Fata), al confine con l'Afghanistan.
Un intervento sempre più diretto. L'urgenza di ottenere questo obiettivo
politico spiegherebbe, secondo i principali giornali pachistani, l'escalation
dell'intervento militare statunitense in Pakistan delle ultime settimane.
Un intervento sempre più diretto e sempre meno delegato alle forze armate di
Islamabad, poco affidabili in quanto costrette con il ricatto a combattere in
casa propria una guerra di cui farebbero volentieri a meno. La settimana scorsa
il ministro della Difesa pachistano Kamran Rasool ha pubblicamente ammesso che
il Pakistan non ha altra scelta se non eseguire gli ordini di Washington, perché
altrimenti il Paese (da mesi in preda a una gravissima crisi economica, ndr)
collasserebbe nel giro di tre giorni senza il sostegno finanziario statunitense.
Prossimo obiettivo: Nord Waziristan. Dopo due mesi di guerra, costati migliaia
di morti e mezzo milione di profughi, l'esercito pachistano non è ancora
riuscito a riprendere il controllo dell'area tribale di Bajaur. Ciononostante,
secondo la stampa locale, i generali pachistani hanno ricevuto l'ordine di
preparare una nuova offensiva in Nord Waziristan, dove secondo la Cia sono
rifugiati Al-Zawahiri e compagni.
Ma questa volta, vista la necessità di ottenere risultati rapidi, gli Stati
Uniti non lasceranno fare ai pachistani e scenderanno direttamente in campo. Non
solo intensificando i raid missilistici dei droni 'Predator' contro i presunti
covi di Al-Qaeda (già diventati di frequenza quasi quotidiana), ma anche agendo
direttamente sul terreno dalle nuove basi operative Usa allestite in zona.
Usa basati tra Tarbela e Hasanpur. A fine settembre, trecento militari delle
forze speciali Usa sono arrivati nel quartier generale della Special Operation
Task Force pachistana sul lago di Tarbela, una ventina di chilometri a nord di
Islamabad. Ufficialmente si tratta di consiglieri militari con compiti di
addestramento. Come centro operativo delle attività delle forze Usa in Pakistan
sarebbe stato scelto il vicino aeroporto di Hasanpur, poco più a valle, che
nelle scorse settimane è stato sottoposto a lavori di ingrandimento, con
miglioramenti alla pista e costruzione di nuovi hangar, bunker ed edifici. Tutto
farebbe pensare a qualcosa di più di un semplice centro di addestramento.
Enrico Piovesana

La gelata
che verrà
di Luca Piana
Il caro-mutui e la paura del
futuro inducono i consumatori a spendere sempre meno. Con effetti pessimi sulle
imprese. E quindi sull'occupazione. Colloquio con Luigi Guiso
Le crisi finanziarie non restano mai circoscritte. Quasi immediatamente dilagano
al resto dell'economia per una ragione evidente: le banche diventano più
riluttanti nel concedere prestiti e, anzi, assorbono la liquidità che sono in
grado di reperire per ricostituire le loro riserve... Luigi Guiso, professore di
Economia all'European University Institute di Firenze, non ha dubbi. Il tracollo
dei mercati finanziari e delle banche in particolare ha già contagiato
l'economia reale, in Europa come in Italia. "Il ruolo delle banche", spiega
l'economista in questa intervista a 'L'espresso', "consiste nel raccogliere
denaro a breve termine e investirlo con un orizzonte temporale più lungo,
prestandolo alle imprese e alle famiglie. Il sistema funziona grazie al fatto
che i clienti, in situazioni normali, non si presentano tutti insieme a ritirare
i risparmi depositati. Ogni giorno, però, gli istituti hanno bisogno di
ulteriori risorse che si prestano l'un altro: nelle ultime settimane non è più
accaduto perché nessuna banca si fida delle altre".
Con quali conseguenze?
"Le misure sono diverse. Fra queste, la riduzione dei prestiti erogati e
l'adozione di criteri più stringenti nella selezione della clientela".
Aumentano anche i tassi d'interesse?
"Certamente. Se circola meno denaro, quel poco che c'è costa di più e procurarsi
capitali diventa più oneroso. Pertanto le aziende che stavano programmando
investimenti da finanziare a debito sono costrette a rinviarli o perché non
riescono a ottenere i capitali necessari o perché questi costano troppo. E la
maggiore cautela delle banche si traduce in un immediato freno dell'economia".
Il fenomeno è già in atto?
"I segnali si vedono da tempo. Prendiamo le vendite di automobili. Il forte calo
a cui stiamo assistendo dipende in parte dal fatto che molti italiani avevano
già cambiato auto negli ultimi anni, in parte dal deterioramento delle
prospettive di reddito. Il calo però è aggravato anche dal fatto che oggi
indebitarsi per acquistare una vettura costa di più in conseguenza della crisi
finanziaria. Le famiglie ci pensano due volte prima di comprarne una nuova e
attendono tempi migliori. E lo stesso si può dire per altri beni durevoli come,
ad esempio, gli elettrodomestici o i mobili da arredamento".
Si dice spesso che il credito bancario sia, per molte aziende italiane, l'unica
forma di finanziamento. Soffriranno la crisi più delle concorrenti straniere?
"Non è immediato stabilire a priori chi sarà più colpito perché oggi non è
facile raccogliere capitale in Borsa anche per le imprese quotate, come ad
esempio fanno di norma nei paesi anglosassoni. È vero però che l'elevata
dipendenza delle imprese italiane dal credito bancario costituisce anche oggi un
handicap, tenuto conto che l'epicentro della crisi finanziaria coinvolge le
banche in modo diretto. Oggi, forse più che in altre circostanze, imprese che
possono emettere anche obbligazioni, possono riuscire a smussare l'impatto della
crisi".
Un'altra critica che viene fatta spesso alle banche è quella di non saper
finanziare le imprese davvero innovative e meritevoli. Un ulteriore svantaggio,
in tempi di credito difficile?
"Paradossalmente la relativa arretratezza del sistema finanziario italiano e la
tendenza delle banche a finanziare solo chi è dotato di adeguate garanzie
patrimoniali, oggi può apparire un punto di forza, perché i bilanci degli
istituti sono più protetti. Ma a lungo andare non è di grande aiuto per
l'economia un sistema creditizio che si rifiuta di prendere rischi perché non li
sa valutare accuratamente e non finanzia quanto dovrebbe le aziende innovative".
In generale ritiene che l'Italia potrà essere colpita dal rallentamento in atto
dell'economia mondiale in misura più profonda del resto d'Europa?
"I dati dicono che stiamo pagando un prezzo superiore. Negli ultimi dieci anni
il tasso di crescita dell'economia italiana è stato inferiore di un punto
percentuale rispetto alla media dell'Unione monetaria europea. Ora il divario si
è allargato, raggiungendo l'1,5 per cento circa".
Per quali motivi?
"La crisi finanziaria e la finanza in generale c'entrano poco. La ragione della
tendenza a crescere sistematicamente meno della media europea va cercata in un
insieme di fondo: scarsità di innovazione tecnologica, di infrastrutture
adeguate, di regole certe per chi investe, di una giustizia civile dai tempi
accettabili, tutti fattori che tengono alla larga i grandi investimenti. Il
rallentamento congiunturale più rapido riflette una maggiore esposizione
dell'Italia agli choc che oggi causano la frenata, come la maggior dipendenza
dal petrolio".
In tempi di crisi si dice che a soffrire di più siano i lavoratori dipendenti
dai redditi più bassi.
"Non è così semplice fare affermazioni su categorie ampie. In linea di massima i
lavoratori dipendenti del settore privato rischiano di più, perché possono
essere licenziati con maggiore facilità e perché i contratti a termine possono
non essere rinnovati. Ma anche i lavoratori autonomi devono far fronte a una
diminuzione dell'attività: ci sono situazioni molto eterogenee, anche a seconda
di quanti risparmi o debiti ha accumulato ciascun individuo".
I più malmessi sembrano dunque i lavoratori dipendenti con contratto a termine e
mutuo a tasso variabile.
"Non vorrei nemmeno essere nei panni di un negoziante che ha sottoscritto anche
lui un mutuo ingente a tasso variabile".
I lavoratori autonomi hanno però maggiori chance di evadere il fisco, una bella
garanzia contro il carovita.
"Che però vale anche nei momenti buoni. Non credo sia una discriminante per
sopravvivere meglio in tempi di crisi: tutti rischiano di pagare un prezzo
pesante".
La Banca centrale europea ha scelto di non abbassare subito i tassi. Perché?
"Al momento ci sono ancora rischi sul fronte dell'inflazione. In prospettiva
questi timori dovrebbero attenuarsi, anche per effetto del rallentamento del
prezzo del petrolio. Sono fattori che si chiariranno nelle prossime settimane".
Crescita ferma, tassi elevati, prezzi in tensione: la crisi sembra grave.
"Per il momento possiamo parlare di un forte rallentamento dell'economia. Se
sarà recessione dipenderà da come evolve la crisi finanziaria: se dovesse
ampliarsi, non arriverà più credito all'economia e potrebbero esserci effetti
molto seri. La disoccupazione è già in aumento: se la crisi non dovesse
fermarsi, potremmo perdere un numero molto elevato di posti di lavoro".
Va in onda
il test di paternità
Il Maury Show è "il peggior
programma in tv", ha detto un critico Usa. Ma con i suoi drammi familiari ben
oltre il cattivo gusto, rimane popolare
Va in onda da anni su una delle
tante tv via cavo, ma la prima volta che lo vedi non puoi rimanere impassibile
di fronte al Maury Show. Più trash del suo predecessore Jerry Springer, il
pioniere delle diatribe familiari urlate in televisione, il conduttore porta
davanti alle telecamere storiacce di famiglie in via di disfacimento, ma il suo
piatto forte è la sezione “I nostri sette bambini hanno bisogno del loro
padre... fai il test!”. Che consiste appunto nel mettere alla gogna televisiva
un padre che nega di esserlo, una madre disperata, e una busta che contiene il
risultato del test del Dna sul figlio in questione. Con contorno di pianti,
esultanze, parolacce coperte dal “beep”, fischi e applausi del pubblico, e non
sempre con un lieto fine.
Qualche giorno fa mi sono imbattuto in una puntata dello Show, “gustandomi” tre
di questi casi. Nel primo, una coppia insieme da sette anni era divisa sulla
paternità del loro secondo figlio, un piccolo di due. Secondo l’uomo, il bambino
aveva la testa troppo grossa e non gli somigliava per niente. Ma l’apertura
delle busta gli ha dato torto, e la coppia si è riconciliata per gli applausi
del pubblico. Nel secondo caso, il padre voleva togliersi il dubbio sulla figlia
di sei mesi: nel periodo del concepimento, intorno alla madre gironzolava un ex
fidanzato, e lui voleva chiarire la questione una volta per tutte. Anche in
questo caso, il test del Dna ha confermato che la piccola era figlia della
coppia, che si è sciolta in lacrime con un abbraccio liberatorio.
L’ultima storia non è però finita col “vissero felici e contenti”. Il caso era
quello di un uomo che ha abbandonato la fidanzata pochi giorni dopo il parto,
convinto che lei fosse già incinta quando ebbero il primo rapporto. Dopo il voto
del pubblico, il conduttore ha aperto la busta e stavolta aveva ragione il (non)
padre. Alla scoperta della verità, la donna è scappata nei corridoi dietro le
quinte, singhiozzando incontrollabile e ripetendo di non sapere chi è il padre.
L’uomo, dopo aver esultato con ripetute urla di gioia, è andato a consolarla per
un momento, e l’ha poi lasciata lì tornando a festeggiare davanti alle
telecamere, danzando come un rapper.
E’ chiaro che i casi potrebbero benissimo essere inventati, o i litiganti attori
che prestano le facce a storie vere. Ma la banalizzazione dei sentimenti, e il
cattivo gusto nel metterli in scena davanti al pubblico-giuria, ha provocato una
pioggia di critiche sul conduttore Maury Povich, accusato anche di perpetuare
gli stereotipi su afro-americani e ispanici: dato che spesso storie del genere
coinvolgono persone di basso livello socio-economico, è chiaro che le minoranze
vi siano più rappresentate. Tutte ragioni che hanno portato un critico
televisivo americano a definire il Maury Show “il peggior programma che si vede
in tv”. Ma ha comunque un’audience di 3,5 milioni di persone, quanto il David
Letterman Show. E se il trash dello Jerry Springer Show sembrava una cosa che
può succedere “solo in America”, e poi ha invece ispirato diverse trasmissioni
italiane, chissà che presto non vedremo anche sui nostri schermi l’apertura di
una busta con il verdetto di paternità.
Alessandro Ursic
Fascisti per
caso
di Elena Stancanelli
Chiedono ordine e rigore.
Cancellano saluti romani e svastiche. Tifano Obama. Come cambia Forza Nuova
nell'era della destra
Il quinto Campo d'Azione di Forza
Nuova si svolge fuori e dentro una palazzina occupata sulla Via Tiberina, dalle
parti di Prima Porta, a nord di Roma: Casa Montag. Guy Montag è il protagonista
di 'Farhenheit 451'. Il vigile del fuoco che si ribella ai roghi dei libri e si
unisce alla resistenza. Tradizionalmente non un loro eroe. "Noi amiamo molto
Orwell", spiega un tizio dall'accento padano. E amate anche Bradbury, verrebbe
voglia di replicare, dal momento che 'Farhenheit 451' non è di Orwell, ma dello
scrittore americano? Brutti sporchi e cattivi. Poco inclini a perder tempo coi
libri e la cultura, avversi alla complessità e alla riflessione. Ma il raduno
dei camerata forzanovisti - "fratelli forzanovisti" come li definirà nel suo
intervento Roberto Fiore con ineffabile eufemismo - non è soltanto questo. Anzi,
è soprattutto un'accolita di entusiasti membri di un club misterioso, una
società segreta che si vela e si rivela, grazie a un'abile regia interna. Quello
che colpisce è questa sensazione di forza. Trattenuta, sorniona. Sembra quasi
che tutti loro siano a conoscenza di un segreto che li unisce. Qual è il segreto
che condividono i ragazzi di Forza Nuova, che cosa li rende euforici?
Il duo Anna Lami (ufficio stampa) e Martin Avaro (dirigente nazionale e
protagonista degli scontri di aprile scorso alla Sapienza), è addetto
all'accoglienza. Martin ha 29 anni e l'aria di chi si è appena asciugato i
capelli dopo aver fatto 80 vasche: sano, biondo, pariolo. Porta jeans e Clarks
marroni e, illustrando il programma del Campo, dice: "Stasera suonano le
Innocenti Evasioni, gruppo che fa cover di Lucio Battisti, cantante di destra.
Come Mina e Max Pezzali e Laura Pasini. E anche De Rossi e Buffon". Tira via
subito il panno e scopre il Pantheon, l'affresco con le figurine dei santi. Non
c'è più alcun dubbio. Non è più il tempo delle estenuanti discussioni sulla
copertina de 'Il mio canto libero', per decidere se quelle mani alzate fossero o
no una metafora del saluto romano. A Cesare quel che è di Cesare.
"Noi non abbiamo pregiudizi. La mia canzone preferita", interviene Anna Lami, "è
'Anime Salve' di De Andrè". Il film preferito di Martin è 'C'era una volta in
America'. "Sono quelli di sinistra ad avere un sacco di fissazioni,
l'antifascismo per esempio. Noi non siamo anticomunisti. Noi non siamo anti
niente". Non siete neanche anti-immigrati? "Siamo anti-immigrazione", precisa
Anna, "non anti-immigrati. È l'immigrazione che crea il razzismo. La nostra idea
è che le frontiere debbano essere chiuse, punto e basta". E Schengen? "Siamo
anti-Schengen". E l'asilo politico? "Siamo anti-asilo politico, è una truffa".
Anche il papa ha parlato di accoglienza. "Noi siamo a favore del papa. Noi siamo
cattolici, ma in questo caso non siamo d'accordo". Cioè siete anti-accoglienza.
"Esatto".
Al Campo d'Azione, complice anche un clima inclemente, non ci sono molte
attività. Un maestro d'arme insegna blandamente a incrociare gli spadoni,
qualcuno improvvisa una gara di tiro con la mazzafionda. Michele, Lorenzo e
altri tre o quattro ragazzi arrivano da Milano. Con loro una delle poche
femmine, una ragazzina di 16 anni con bellissimi occhi azzurri. "Li ho
conosciuti nel mio quartiere, Chiaravalle", racconta: "Intorno alle nostre case
erano cresciuti quattro campi nomadi abusivi. C'erano furti e tensione, ma
nessuno ci ascoltava. Quelli di Forza Nuova sono venuti, e sono rimasti con noi.
Facevano dei presìdi con noi, parlavamo con le istituzioni al posto nostro. Alla
fine sono riusciti a farli sgombrare. Per questo sono qui".
"Dobbiamo raccontare balle ai nostri genitori per frequentare Forza Nuova", dice
Michele, figlio di un antifascista. "E tutto per colpa dei giornali, che ci
dipingono come dei mostri. Io sono di Forza Nuova per reazione, per rabbia
contro la sinistra. A scuola, quelli di sinistra facevano le occupazioni
soltanto per fare bordello, e farsi le canne. Io ho bisogno di regole e ordine".
Voi non vi fate le canne? "No. Beviamo birra". Il bar del campo d'Azione vende
infatti solo birra, litri e litri di birra. Devono aver ereditato questa
abitudine dall'Inghilterra, da mods, skinheads e i vari gruppi della
controcultura working class anni Settanta.
Nel giardino dietro al bar i camerata più arditi, tra questi una numerosa
falange da Piacenza, hanno piantato la tenda sfidando il freddo e l'umido.
Indossano giubbotti, occhiali Ray-Ban a goccia, jeans e felpe scure. Non sono
tanto diversi dai colleghi della sinistra militante, i gruppi Rash per esempio
(gli skinheads di sinistra), si vestono quasi nello stesso modo. E forse
condividono anche alcune passioni, gli indiani d'America, Bobby Sands e gli
attivisti dell'Ira, 'Braveheart', 'Balla coi lupi', 'Trecento'... "Non abbiamo
tatuaggi, non mostriamo svastiche", incalzano. Ma chi siete allora? "Siamo
persone normali, contrarie alla violenza". Siete razzisti? "No. La Lega è
razzista. Che fa entrare gli immigrati come mano d'opera a basso costo per le
imprese del Nord e poi li tratta come bestie, vietando loro di avere un posto
dove pregare". Siete xenofobi? "No". Siete fascisti? "Siamo nati dopo la caduta
del muro di Berlino, lo capite da soli...". Cosa?
Nel reparto merchandising ci sono le fibbie col duce e i fasci. Sulle felpe,
delle quali si occupa personalmente Martin Avaro, c'è scritto 'Giovinezza in
marcia', 'X Mas', 'El Alamein', 'Mussolini', 'Arditi'. Ma anche 'Bush's war for
oil', o 'Arancia meccanica'. Tra i libri 'Cuori neri' di Telese e i sempiterni
Julius Evola e Drieu de La Rochelle. I dischi più venduti sono quelli degli
Hobbit e i 270 bis di Marcello de Angelis, ma l'unico vero culto musicale della
destra estrema rimane Massimo Morselli, il De Gregori nero. Fondatore insieme a
Roberto Fiore di Forza Nuova.
L'intervento di Roberto Fiore è l'evento più atteso del Campo. Ci saranno 200
persone ad ascoltarlo, tutti giovanissimi, quasi tutti maschi. Fiore ha 11 figli
e una leggera zeppola. Sale sul palco insieme a Gianni Correggiari
(vice-segretario nazionale) a Dimitri Zafeiropoulos, editore, in rappresentanza
della Grecia e Gerhard Kurzman, deputato del Fpo, partito di estrema destra che
ha preso quasi il 30 per cento dei voti alle ultime elezioni in Austria e viene
accolto come un eroe. Fiore auspica un ritorno all'agricoltura contro l'effimera
e fallace finanza, e delinea una cordata di alleanze tra partiti europei di
estrema destra che comprende anche Spagna, Portogallo e la Russia di Putin. Il
deputato austriaco, che fino a quel momento aveva sorriso, al nome di Putin ha
un sobbalzo. "No, Putin no", dice. Intanto al Campo arriva il principe Ruspoli,
e Fiore ne approfitta per chiedere per lui un applauso. Conclude Dimitri, che
indossa un completo giacca-camicia-cravatta all black e ha uno sguardo torvo da
dispeptico. Senza alzare la voce, senza alzare neanche lo sguardo dice:
"Tenetevi pronti, camerati. I tempi stanno per cambiare. Nel 1929, dopo una
crisi economica identica a quella che stiamo vivendo, tutto è cominciato". La
folla esulta, applaude e poi si disperde.
"Adesso basta": il duo Anna Lami e Martin Avaro ci congeda alle otto di sera.
"Durante i concerti capita che qualcuno beva una birra in più e potrebbe dire o
fare cose che potrebbero essere interpretate male". Non una parola in più.
Salutano e tornano dentro, nell'inaccessibile. Qual è il segreto che condividono
i ragazzi di Forza Nuova, che cosa li rende euforici? Sono convinti che il loro
club stia per essere promosso in serie A, che rischi addirittura di vincere lo
scudetto. Per questo sono diventati cauti. La loro ascesa dovrà essere
accompagnata da una tifoseria presentabile: via le svastiche, via i saluti
romani e basta 'Negri ai forni'. Basta anche con Céline. Martin, per esempio,
sta leggendo 'Durante' di Andrea De Carlo. E alle elezioni americane chi
votereste, chiedo mentre si allontanano. "Obama, è ovvio". Ma voi odiate il
multi-culturalismo, voi ritenete fallito il modello americano, Obama è nero...
"Quello è più bianco di me e te", spiegano: "Quello è bianco dentro". I tempi
stanno per cambiare...
Cessate il
fuoco
Il bollettino settimanale delle
guerre e dei conflitti in corso n. 39 - 2008 dal 03/10/2008 al 09/10/2008
Nell'ultima settimana, in tutti i
Paesi in guerra, sono morte almeno 742 persone
Iraq
Nell'ultima settimana sono morte almeno 111 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono almeno 9.422
Sri Lanka
Nell'ultima settimana sono morte almeno 182 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 7.615
Afghanistan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 156 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 4.949
Pakistan Talebani
Nell'ultima settimana sono morte almeno 125 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 3.808
India Kashmir
Nell'ultima settimana sono morte almeno 25 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 486
Filippine Milf
Nell'ultima settimana sono morte almeno 15 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 457
Nord Caucaso
Nell'ultima settimana sono morte almeno 11 persone
dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 470
India Nordest
Nell'ultima settimana sono morte almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 573
Filippine Npa
Nell'ultima settimana sono morte almeno 6 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 221
Thailandia del sud
Nell'ultima settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 296
India Naxaliti
Nell'ultima settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 444
Somalia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 19 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 1.221
Uganda
Nell'ultima settimana sono morte almeno 4 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 136
Nigeria
Nell'ultima settimana sono morte almeno 9 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 213
Sudan
Nell'ultima settimana sono morte almeno 2 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 908
Rep. Dem. Congo
Nell'ultima settimana sono morte almeno 3 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 278
Colombia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 8 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 221
Turchia
Nell'ultima settimana sono morte almeno 53 persone
Dall'inizio dell'anno i morti sono stati almeno 543
Firenze,
l'uomo pagato per contare le rastrelliere
In un vecchio film, Totò truffava
un disoccupato assumendolo per censire i piccioni di piazza San Marco. E forse è
a quello che si sono ispirati i dirigenti di Palazzo della Signoria
nell'assegnare una delle consulenze più folli degli ultimi anni. Il Comune di
Firenze, guidato da Leonardo Domenici, ha pagato un professionista esterno per
contare le rastrelliere delle biciclette. Avete letto bene: uno specialista per
«il monitoraggio dello stato delle rastrelliere» dove si parcheggiano i
velocipedi. Compenso per la missione: ben 12.600 euro. Possibile che tra tutti i
dipendenti del municipio fiorentino non ci fosse nessuno per svolgere lo stesso
lavoro? La vicenda, che risale al dicembre 2003 ed è stata rivelata dal
"Corriere di Firenze", è emersa grazie a un'inchiesta della Finanza. Adesso la
Corte dei Conti ha chiesto spiegazioni al dirigente del Comune: la magistratura
vuole sapere come è possibile che nessun dipendente fosse in grado di portare a
compimento lo stesso censimento. Il funzionario nel mirino non è un travet
qualunque, ma l'ex presidente dell'ordine degli architetti. A proposito, la
Guardia di Finanza ha trovato anche un'altra consulenza sorprendente: un dossier
sullo stato dei bagni pubblici. Impresa per cui un professionista esterno ha
ricevuto tremila euro. Almeno in questo caso, si può letteralmente parlare di
soldi buttati nel gabinetto.
9
ottobre
E' la denuncia dell'ANMIL,
l'Associazione dei mutilati e invalidi
Nuovo appello del Quirinale: "Si leva un indignato 'Basta'!"
Morti
bianche, tre vittime al giorno
Napolitano: "Applicare le norme"
ROMA - Ogni giorno, in Italia, tre
persone muoiono sul lavoro e 27 rimangono invalide in modo permanente. Nel 2007
le morti bianche, secondo i dati dell'Inail, sono state circa 1.200 e oltre 800
mila gli invalidi. Dati ripresi dall'Anmil - l'Associazione nazionale fra i
mutilati e invalidi del lavoro - in occasione della cinquantottesima Giornata
nazionale per le vittime degli incidenti sul lavoro, che si celebra oggi. Cifre
che testimoniano la gravità del fenomeno, una delle principali cause di morte e
con "quasi il doppio dei decessi rispetto agli omicidi".
Una giornata, si sottolinea all'Anmil, per richiamare l'attenzione delle
istituzioni, delle forze sociali e dei mezzi di informazione sulla questione. Ma
anche occasione "per denunciare le condizioni di vita drammatiche" degli
invalidi e dei superstiti delle vittime", per i quali è necessario arrestare la
deriva assistenzialistica verso cui il sistema si sta spingendo negli ultimi
anni. "Basti pensare al fatto che una vedova percepisce in media una rendita di
appena 700 euro al mese". Per l'Anmil, allo stesso tempo, deve però "essere un
impegno condiviso da tutti quello di arginare il fenomeno degli infortuni sul
lavoro, con una vera e responsabile applicazione delle norme per la prevenzione,
sia da parte delle aziende che dei lavoratori"
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha inviato al presidente
dell'Associazione nazionale mutilati ed invalidi sul lavoro, Pietro Mercandelli,
un messaggio in cui afferma: "Desidero rivolgere il vivo apprezzamento per il
costante impegno associativo a favore della prevenzione nei luoghi di lavoro,
della tutela dei lavoratori infortunati, dell'assistenza delle famiglie delle
vittime e della sensibilizzazione dell'opinione pubblica. I preoccupanti dati
diffusi dall'Anmil e le stesse tragiche cronache di questi giorni confermano
quanto cruciale sia la questione della prevenzione sul lavoro. Si è levato
naturalmente un indignato 'basta', sinceramente condiviso, di fronte a tragedie
che, per la loro dimensione, suscitano il clamore dei media e il coinvolgimento
dell'opinione pubblica".
"La realtà quotidiana - ha aggiunto il Capo dello Stato - ci ripropone casi
drammatici (persino ripetitivi nella loro dinamica), storie personali e
familiari di dolore e sofferenze che la vostra Associazione, insieme a tante
altre espressioni del volontariato e delle istituzioni, aiuta ad affrontare con
un impegno concreto di solidarietà che è giusto riconoscere e valorizzare. C'è
indubbiamente, anche un problema di risorse: è decisivo qualificare quelle
disponibili perchè si investa in formazione ed informazione, si persegua con
determinazione l'obbiettivo dell'abbattimento degli incidenti sul lavoro, si
rafforzino le tutele dei lavoratori e si sostengano le famiglie delle vittime
sul lavoro".
Il Presidente della Repubblica ha poi concluso dicendo: "Particolare significato
assumono le numerose iniziative promosse in ambito scolastico per una più
diretta presa di coscienza da parte dei giovani che si affacciano al mondo del
lavoro. E' doveroso tenere viva l'attenzione al fenomeno, non demordere
nell'allarme sulla sua gravità sociale, applicare e migliorare le norme
legislative. E' questo un obbiettivo di civiltà che dobbiamo al sacrificio dei
tanti caduti, mutilati ed invalidi sul lavoro".
Per il governo è intervenuto il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi:
"Nonostante le statistiche ci dicano che continuano a scendere gli infortuni
mortali sul lavoro, dobbiamo mantenere alta la guardia rispetto a un fenomeno
che ha una dimensione intollerabile in un paese moderno. Dobbiamo guardare bene
alle caratteristiche degli infortuni - ha aggiunto il ministro - a quel quasi 60
per cento di infortuni sulla strada che richiamano tutta la nostra
responsabilità perché ci sia maggiore sicurezza sulle strade, quanto più per le
persone che le sfruttano per ragioni di lavoro, così come dobbiamo guardare alla
dimensione della piccola impresa, dell'agricoltura, dei cantieri in particolare
quelli abusivi che sono luoghi di pericolo immanente per la salute e la
sicurezza delle persone. La scelta vera che noi vogliamo fare è quella di alzare
molto il livello della capacità della persona di tutelare la propria salute nel
luogo di lavoro".
Quando un giornalista gli ha chiesto se si possono aumentare i controlli nei
cantieri, il ministro ha risposto che "si può fare integrando ancor più le
capacità ispettive centrali e locali e chiamando al tempo stesso in gioco, come
chiedono, le parti sociali con forme di collaborazione tra di esse che già ci
sono e vanno incoraggiate in modo che, accanto al controllo delle istituzioni,
ci sia anche il cono di luce garantito delle organizzazioni rappresentative dei
lavoratori e delle imprese"
L'associazione Articolo21, che ha promosso assieme a Cesare Damiano la "carovana
per un lavoro sicuro", esprime un profondo ringraziamento al presidente
Napolitano, che torna a far sentire la sua voce contro quell'autentica strage
quotidiana che si consuma in tanti luoghi di lavoro. "Ci auguriamo - affermano
Damiano e Giulietti - che questo appello sia raccolto e che siano davvero
applicate le normative che erano state fortemente volute dal governo Prodi.
3
ottobre
I costi
della crisi per le famiglie
Ancora nuovi record, ancora un
pesante pedaggio per le famiglie che pagheranno sempre più care le rate dei
mutui. Ieri, infatti, i tassi interbancari hanno segnato nuovi record sulla scia
della crisi che ha travolto i mercati finanziari. L'Euribor a tre mesi è volato
al 5,37%, il livello più alto dal 1994. L'equivalente a una settimana tocca
invece i massimi da sette anni al 4,98% mentre quello a sei mesi registra un
nuovo picco, il più consistente negli ultimi 14 anni, al 5,43%.
Intanto molte organizzazioni cercano di aggiornare i conti su quanto costerà
alla famiglia media italiana l'esplosione della crisi finanziaria. Secondo uno
studio di Federconsumatori e Adusbef presentato ieri, viene stimato un costo di
1.672 euro annui ad ogni famiglia italiana. Le ricadute dirette saranno pari,
secondo i consumatori, a circa 420 euro per gli investimenti in borsa -
ipotizzando anche percentuali minime di operazioni di vendita per svariate cause
ed interessi, pari al 5% - con perdite sui titoli venduti dal 30 al 35 %. Le
perdite legate all'acquisto di prodotti finanziari tossici ammonteranno invece a
6 miliardi di euro, circa 280 euro a famiglia.
Per quanto riguarda, invece, gli effetti indiretti della crisi, legati alle
dinamiche recessive e all'aumento del costo del denaro, le associazioni dei
consumatori prevedono un calo del Pil di almeno un punto percentuale, con una
ricaduta complessiva di circa 15 miliardi di Euro, pari a una perdita di
ricchezza di 652 Euro per ogni nucleo familiare. Il nuovo incremento dell'Euribor
costerà 40 euro all'anno ad ognuna delle 3 milioni e 200 mila famiglie che hanno
contratto mutui a tasso variabile. I maggiori tassi sui prestiti costeranno
invece 160 euro in più a famiglia. Gli effetti della crisi sull'inflazione
saranno invece pari a 0,4 punti percentuali, una spesa aggiuntiva in beni di 120
euro a famiglia.
Sicilia, l'abbuffata di Scoma e
le clientele degli altri big
Ironia della sorte: il recordman dei favoritismi ha la delega alla Famiglia
Posti per
sorella, cugino e cognata
ecco l'assessore di Parentopoli
di ATTILIO BOLZONI e EMANUELE
LAURIA
PALERMO - Figlio di un sindaco
democristiano della Palermo spudorata degli anni '70, votatissimo, ammanicato,
sempre candidato a tutto, come assessore alla Famiglia onestamente non poteva
fare di più e di meglio. Specialmente per la sua famiglia: quella di sangue e
quella politica.. Negli abissi della Regione siciliana c'è un onorevole che -
quando si tratta di parenti - non resiste al fortissimo richiamo.
Questo è il piccolo vizio di Francesco Scoma, figlio di Carmelo. Nella hit
parade dell'intreccio politico-familistico di Palermo lui batte tutti. Li vuole
tutti accanto a sé. Vicini, piazzati e sistemati, intruppati, mischiati fra il
suo ufficio di gabinetto e gli altri staff, congiunti suoi e congiunti di altri
potenti, tutti insieme come una grande famiglia all'assessorato alla Famiglia.
In quella trama di complicità che è la Regione siciliana, nomina dopo nomina e
incarico dopo incarico, l'onorevole del Popolo della Libertà - classe 1961,
eletto per la quarta volta all'Assemblea - si sta rivelando il personaggio
simbolo dei favoritismi che si ordiscono nel governo guidato del catanese
Raffaele Lombardo.
E' in cima alla lista l'assessore Scoma, il number one. Anche per il nome che
porta. Nel suo quartier generale, di Francesco Scoma non ce n'é uno ma ce ne
sono due. L'altro è suo cugino. Preso da un altro ufficio regionale, remunerato
con indennità aggiuntiva e sistemato alla Famiglia. Dove, esattamente? Al
"controllo strategico" dell'assessorato. Un parente che controlla l'altro a
spese del contribuente. Una sorella di Scoma, Antonella, è stata assunta nello
staff dell'assessore alla Presidenza della Regione Giovanni Ilarda. Una cognata,
Deborah Civello, ha trovato un posticino nello staff del presidente del
parlamento Francesco Cascio. La signora era già scivolata un paio di anni fa in
uno scandalo - 448 assunzioni senza concorso nelle municipalizzate di Palermo -
che aveva provocato anche l'apertura di un'inchiesta giudiziaria. Deborah era
entrata all'Amia, l'azienda ambientale.
Ma nell'assessorato alla Famiglia Francesco Scoma non ha favorito soltanto suoi
consanguinei. Ha messo dentro pure quelli di tutti i suoi amici ai quali
probabilmente non può dire di no. A cominciare dal suo padrino politico, il
presidente del Senato Renato Schifani. La sorella, Rosanna Schifani, il 6 giugno
del 2008 è stata nominata per chiamata diretta "componente della segreteria
tecnica" dell'assessore Francesco Scoma. Già dipendente regionale dal 1991 con
qualifica di "istruttore direttivo", la signora Rosanna ha avuto in busta paga -
nel passaggio allo staff di Scoma - un'indennità di 14 mila euro lordi l'anno.
Ma deve rinunciare agli straordinari che prendeva prima. Intanto, nell'ufficio
di gabinetto dell'assessore alla Famiglia, come "esterno", è entrato anche uno
degli assistenti di Schifani. Si chiama Giuseppe Gelfo. E pure Danila Misuraca,
sorella del parlamentare del Pdl Dore. E anche Stefano Mangano, a lungo
segretario particolare del sindaco di Palermo Diego Cammarata.
Una bella infornata di parenti in quella Regione dove Lombardo ha addirittura
litigato con il predecessore Cuffaro sulle spese folli, ha promesso "interventi
per rimuovere eventuali anomalie" e dichiarato guerra agli sprechi: 39 milioni
di euro l'anno per mantenere gli uffici di gabinetto, 818 milioni per pagare i
21.104 dipendenti, 75 mila euro l'anno per liquidare lo stipendio di un
dirigente "esterno".
Cambiano i governi ma alla Regione si aggirano i soliti noti. Un altro campione
della Parentopoli è l'assessore al Bilancio Michele Cimino. Un'altra storia di
cugini: Rino Giglione è il suo capo di gabinetto. Un altro, Maurizio Cimino, è
il direttore della Protezione civile di Agrigento. E un terzo, Simone Cimino, è
alla testa di una società che - in partnership con la Regione - si occupa di
fondi finanziari. "Non ci vedo nulla di strano, è giusto che in uno staff ci
siano uomini di fiducia", garantisce l'assessore.
E allora, per lui, nulla di strano che in quest'altra grande famiglia che si è
ricomposta al Bilancio ci siano anche due uomini del sottosegretario alla
Presidenza Micciché. Il primo è suo cognato Pietro Merra, il secondo il suo ex
autista Ernesto Devola. La ragnatela delle parentele si spande dappertutto. Il
figlio del sindaco Diego Cammarata - Piero - è dipendente a contratto della spa
regionale e-Innovazione, il fratello dell'ex governatore Totò Cuffaro è
vicedirettore dell'Agenzia dell'impiego, Francesco Judica che è il cognato del
governatore Lombardo è manager all'Asl di Enna, l'assessore ai Beni Culturali
Antonello Antinoro ha nel suo ufficio di gabinetto anche Antonella Chiaramonte
(sorella del cognato), mentre l'assessore regionale ai Lavori Pubblici Luigi
Gentile ha nominato suo cognato Carmelo Cantone segretario particolare.
Un elenco infinito. Che continua con i parenti del ministro di Grazia e
Giustizia. Angelino Alfano non ha soltanto la cugina Viviana Buscaglia nello
staff dell'assessore all'Agricoltura, ma ha anche il cugino Giuseppe Sciumé
vicedirettore generale all'Azienda Trasporti. Tutti sbandierano lunghi
curriculum, ma chi lo toglie dalla testa a migliaia di disoccupati siciliani che
siano miracolati per meriti di parentela?
Come scrivevamo all'inizio di questo articolo l'emblema dello sconcio
familistico alla Regione siciliana tocca però all'assessore alla Famiglia,
quello che nella passata legislatura ha toccato un altro record: il numero delle
missioni all'estero. Risultavano otto, nel settembre del 2007: 4 a Bruxelles, 2
in Spagna, 1 a Washington, 1 a Parigi.
Nel governo Francesco Scoma è dal 2004, in politica da sempre. Suo padre Carmelo
è stato sindaco di Palermo dal gennaio del 1976 all'ottobre del 1978, erano gli
anni del dominio finale di Vito Ciancimino e anche lui - Scoma padre - fu
coinvolto negli affari sui "grandi appalti" della città, quindici anni di
spadroneggiamento sempre delle stesse imprese. Da assessore, Scoma figlio è
diventato famoso per la sua spasmodica voglia di candidarsi ovunque. Alla
vigilia delle ultime elezioni regionali era praticamente in corsa dappertutto.
Alla Presidenza della Provincia (dove aveva promesso ad almeno una trentina di
amici il posto di assessore), al parlamento, alla Presidenza dell'Assemblea.
Quando è divampato nelle scorse settimane lo scandalo di Parentopoli,
intervistato da "Viva Voce" di Radio 24 è caduto dalle nuvole: "Allora vogliamo
dire che essere familiari di politici sia un reato?". L'altro giorno Scoma, che
è anche assessore agli Enti Locali, ha preparato un disegno di legge contro i
privilegi nei comuni. Tagli, gettoni di presenza al posto degli stipendi, stop
al cumulo per sindaci e presidenti di Provincia con il doppio incarico di
deputato. Insomma, un bel repulisti. Poi, all'articolo 15 del suo provvedimento,
una piccola smagliatura: le ispezioni nei Comuni dalle gestioni allegre, d'ora
in poi, potranno essere fatte anche da professionisti esterni alla Regione. E a
spese degli enti controllati. Sarà naturalmente Scoma, in persona, a scegliere
gli ispettori. Qualcuno sospetta che l'assessore alla Famiglia abbia qualche
altro cugino.
Bugie
biocombustibili
Luca Fazio
Il dibattito sui biocombustibili
si era infiammato un anno fa quando Jean Ziegler, relatore Onu sul diritto
all'alimentazione, disse senza tanti giri di parole che l'uso dei terreni
agricoli per creare benzina è «un crimine contro l'umanità». Con toni più
pacati, ma altrettanto allarmanti, oggi è la Food and Agricolture Organization (Fao)
a puntare il dito contro quello che veniva spacciato come l'eco-business del
secolo, grazie ai finanziamenti pubblici miliardari che avrebbero dovuto salvare
il pianeta dai gas climalteranti. Perché oggi, dopo aver prodotto 52 miliardi di
litri di bioetanolo e 10 miliardi di litri di biodiesel solo nel 2007 (il 2% del
consumo mondiale per il trasporto), i conti non tornano. Lo sostiene la Fao che
ieri, presentando il suo rapporto annuale su «Lo stato dell'alimentazione e
dell'agricoltura», ha invitato i paesi (ricchi) a «rivedere» le politiche e i
sussidi relativi alla produzione di biocombustibili. Una marcia indietro
indispensabile per mantenere l'obiettivo della sicurezza alimentare, per
proteggere i paesi poveri, per promuovere lo sviluppo rurale e per assicurare la
sostenibilità ambientale.
Una bocciatura su tutta la linea. I biocarburanti - questa l'accusa - mettono a
rischio il diritto al cibo incidendo sull'aumento dei prezzi delle materie
agricole (e gli effetti si sono sentiti anche dalla nostre «ricche» parti) e non
sempre contribuiscono alla diminuzione delle emissioni di gas serra; inoltre, i
sussidi e le barriere commerciali adottate dai paesi Ocse creano un mercato
artificiale che esclude i paesi in via di sviluppo. E tanto per smascherare la
grande menzogna, la Fao sostiene che i biocombustibili riusciranno a garantire
solo percentuali poco significative di fabbisogno energetico: carbone, petrolio
e gas nel 2030 copriranno ancora l'82% della domanda energetica (contro l'81%
attuale). Un mezzo fallimento che ne causerà un altro,devastante: secondo la Fao,
se la richiesta di scorte di «biofuel» salisse del 30% entro il 2010
assisteremmo a un aumento dei prezzi dello zucchero (26%), del mais (11%) e
degli olii vegetali (6%).
Detto (più per dovere che per convinzione) che anche i paesi poveri potrebbero
trarre benefici dalla produzione di biocarburanti, Jacques Diouf, direttore
generale della Fao, ha sottolineato i rischi che corrono i consumatori poveri
delle aree urbane e i compratori di cibo delle aree rurali. «Qualsiasi decisione
relativa ai biocarburanti - ha ammonito - non può prescindere da considerazioni
sulla sicurezza alimentare e sulla disponibilità di terra e di acqua. Tutti gli
sforzi dovrebbero puntare a preservare l'obiettivo prioritario di liberare
l'umanità dalla vergogna della fame». Pur nell'impossibilità di mettere tra
parentesi la strage quotidiana di esseri umani che si consuma per fame, Diouf ha
tracciato un bilancio negativo anche dal punto di vista ambientale: «Un maggiore
uso, e dunque una maggiore produzione di biocarburanti, non necessariamente
contribuirà a ridurre le emissioni di gas serra». Infine, tanto per schivare
l'accusa di fomentare atteggiamenti anti scientisti, Diouf ha dato credito alla
«seconda generazione di biocombustibili», quelli «non ancora disponibili sul
mercato», sui cui sarebbe utile dirottare i finanziamenti. Come dire, ricercate
ma lasciate in pace la Terra e i suoi abitanti.

Colpiscono
me per colpire tutti quelli che si battono per la casa
Pietro Milazzo, Sindacalista
della Cgil, dice la sua a proposito del provvedimento della Questura contro di
lui
Venerdì scorso ho ricevuto un
provvedimento dalla questura riservato ai "soggetti considerati socialmente
pericolosi". Un provvedimento emenato in base ad una legge del 1956, peraltro
sempre applicata solo verso soggetti della criminalità.
Questa legge consente al Questore, per i prossimi tre anni di deferirmi al
tribunale per le misure di prevenzione. Il quale può comminarmi misure come la
sorveglianza speciale o addirittura il confino. Comunque gravi restrizioni della
libertà personale, come si può facilmente immaginare.
La causa esplicita di questi provvedimenti è il mio ruolo importante in questa
battaglia che da oltre dieci anni stiamo portando avanti a Palermo sulla
questione abitativa. C'è stata in questo periodo una recrudescenza della
attività del Comune e della questura contro il movimento che si è occupato e che
si occupa della emergenza abitativa che a Palermo è un problema grave, che tocca
la vita di migliaia di cittadini. E questo provvedimento vuole essere una
intimidazione nei confronti di tutti quelli che si occupano di questa questione.
Certo fa specie un provvedimento così pesante, quasi a significare che
l'emergenza della legalità a Palermo è generata da chi si occupa di tutelare i
diritti dei suoi cittadini.
Questa recrudescenza c'è per diversi motivi: primo tra tutti la crisi fortissima
della giunta comunale. Che proprio sulla questione casa è in difficoltà, in
questi giorni, grazie ad un ordine del giorno che è stato presentato da uno
schieramento che attraversa maggioranza e opposizione. E che recepisce molte
delle indicazioni che il movimento che si occupa della questione abitativa a
Palermo ha dato. La questione della casa sta dando un colpo di grazia ad una
giunta che è in difficoltà enormi sia di bilancio che di consenso. Il dissesto
finanziario è enorme, e il consenso della giunta è calato moltissimo. Per fare
un esempio: hanno chiuso la Ztl del centro. E adesso dovrebbero restituire ai
cittadini i soldi verati per i pass, ma nessuno li vede.
Poi c'è una denuncia, un esposto alla procura, fatto da noi, sul mancato
utilizzo dei beni confiscati alla mafia, anche quelli per fini abitatiti. Una
battaglia che a suo tempo avevamo vinto. Ma l'amministrazione comunale da un
anno fa ostruzionismo per evitare che i beni sequestrati vengano utilizzati per
fini sociali e per l'emergenza abitativa. Per questo abbiamo fatto l'esposto.
A questo aggiungiamo il fatto che da qualche tempo a Palermo si sta delineando
una grossa operazione di trasformazione urbana, con investimenti speculativi di
miliardi di euro sul centro storico e sul fronte a mare.
Questi sono i fattori che spiegano l'accanimento nei confronti miei e attraverso
di me sul movimento che si occupa dell'emergenza abitativa a Palermo.
E io vorrei usare la mia vicenda proprio per rafforzarlo, il movimento. Vorrei
che tutti gli attestati di solidarietà che ho ricevuto, tanti e significativi,
che vanno dai parlamentari nazionali ai religiosi, servissero a coprire le
spalle di tutti quelli che lavorano per risolvere l'emergenza abitativa a
Palermo.
Pietro Milazzo
Irlanda del
Nord, la pace difficile
Tra paramilitari e Ira
ricompare la violenza in Ulster
Scritto da Jacopo Valenti
Secondo l'IMC (Independent
Monitoring Commission) il consiglio militare dell’Ira in Irlanda del Nord “non è
operativo e non è più una minaccia per la politica costituzionale”. La
commissione è stata creata quattro anni fa dai governi di Gran Bretagna e
Irlanda per sostenere ed analizzare il processo di pace in Irlanda del Nord.
Pochi giorni fa queste dichiarazioni sono apparse sull’Irish Times e
lascerebbero presagire l’inizio di un periodo più disteso nei rapporti tra
repubblicani e unionisti, anche dopo il definitivo ritiro dei soldati britannici
dall’Irlanda del Nord, cominciato ormai quasi un anno fa.
Rassicurazioni. Nelle stanze della politica di Dublino, Belfast e Londra si sta
lavorando per superare entro la fine di settembre l’annoso stallo tra Dup (il
partito democratico unionista) e Sinn Féin (il partito repubblicano, che
tradotto dal gaelico significa “solo noi”) causato principalmente dal
trasferimento dei poteri in materia di giustizia. La questione è spinosa: il Dup
ha spesso ricordato di non essere ancora pronto a condividere il potere politico
con un partito, quello repubblicano, che ancora si rifiuta di riconoscere i
tribunali, la polizia nord-irlandese, e lo stato di diritto. Il primo ministro
nord irlandese Peter Robinson (Dup) ha detto che la sponda unionista ha bisogno
di essere convinta dalla leadership repubblicana che l’Ira è fuori dai giochi”,
aggiungendo che “l’Ira è ben lontana dall’uscire di scena”.
Scontri e rivolte. Parole che fanno sembrare il rapporto IMC meno rassicurante.
Appena un mese fa però, alcune città dell’Ulster sono state teatro di rivolte,
scontri e sommosse. In particolare nell’area di Cravaigon, a sud ovest di
Belfast, dove c’è stata un’ondata di violenze durata 24 ore dietro cui ci
sarebbero uomini legati all’Ira. Secondo l’intelligence nord irlandese si
tratterebbe di ex combattenti appartenenti alla brigata di North Armagh, uno dei
gruppi paramilitari che in questi anni ha minato maggiormente il lungo processo
di pace in Irlanda. Veterani con un forte appeal sui ragazzini che vivono nei
quartieri nazionalisti delle città dell’Ulster, ed un curriculum criminale che
parla da sé: “In questo gruppo è incluso un ex prigioniero su cui pende una
condanna a vita per omicidio, ed un altro ritenuto responsabile di una serie di
uccisioni nella zona di Armagh”, ha dichiarato un ufficiale di polizia al
Guardian. Negli ultimi sei mesi ci sono stati episodi di violenza quasi in ogni
angolo dell’Irlanda del Nord. Lo scorso agosto una pattuglia della polizia è
stata attaccata da dissidenti collegati al gruppo paramilitare Continuity Ira.
"Sparare ai collaborazionisti". Ci sono stati attacchi a Derry (la città del
tristemente noto Bloody Sunday cantato dagli U2), Tyrone, Fermanagh ed in ultimo
ad Armagh. Alcune auto della polizia sono finite sotto il fuoco di un cecchino,
sono state lanciate bombe molotov e sassi. All’inizio di settembre, la settimana
successiva agli episodi raccontati, la situazione ad Armagh si è calmata e si
sono susseguite le perquisizioni della polizia in cerca di indizi sui
responsabili dei disordini. Sui muri dei quartieri nazionalisti sono apparse
scritte inquietanti, una avvisa che “anyone cooperating with police
investigations into the disturbances wuold be shot”. Insomma, si sparerà a
chiunque collabori con la polizia.
Il vizio del vitalizio resiste a nord-est
Anche Riccardo Illy, ex governatore della Regione Friuli Venezia Giulia, ha
fatto domanda per ottenere il vitalizio di circa 2 mila euro al mese spettante a
chi ha fatto parte del Consiglio regionale per una sola legislatura e ha
compiuto i 60 anni. Anzi, il “re del caffè” è stato fra i primi a presentare la
richiesta, avanzata da altri 15 ex consiglieri trombati alle ultime elezioni
anticipate (e volute proprio dallo stesso Illy).
Poiché la legislatura non era terminata al momento del voto (mancavano circa due
mesi ai cinque anni), per acquisire il diritto all’assegno i 16 richiedenti, in
prevalenza del centrosinistra, hanno dovuto sborsare di tasca loro i contributi
dell’ultimo bimestre. Un sacrificio ben ricompensato.
Un 17° ex, il verde Alessandro Metz, ha sostenuto di «essersi completamente
disinteressato della vicenda»: se lascerà scadere il termine per dichiarare la
propria volontà di versare i contributi mancanti, perderà il diritto al
vitalizio e potrà solo consolarsi con il rimborso di quanto versato nei quasi
cinque anni precedenti. In un paio di casi (Carlo Monai di Idv e Tamara Blazina
del Pd) i beneficiari dell’assegno friulano hanno già conquistato un seggio nel
Parlamento nazionale e quindi, a suo tempo, potranno aggiungere un altro
vitalizio.
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