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notizie Agosto 2007
28 agosto
La denuncia delle associazioni dei
consumatori: le scuole ignorano i tetti di spesa .
Maglia nera a Napoli: alla media
"Falcone" per i testi si spenderanno 394 euro.
Il salasso di
libri, zaini e diari, nel nuovo anno rincari fino all'11%
Per evitare la stangata, meglio gli
ipermercati e i mercatini del libro usato.
Il ministero: "Vigiliamo sul
rispetto dei limiti fissati". La Cgil: "Aumenti ingiustificati".
di DANIELE SEMERARO
ROMA - Le vacanze stanno ormai per
terminare e per migliaia di genitori italiani si riaffaccia il
problema dell'acquisto dei libri e del materiale scolastico. E anche
quest'anno dalle ricerche delle associazioni che tutelano i
consumatori emergono aumenti, nell'ordine dell'11 per cento circa,
sia per l'acquisto dei libri che per il cosiddetto corredo
scolastico (astucci, diari, zaini).
Un'indagine di Altroconsumo su 355 classi di 55 scuole medie a
Milano, Roma e Napoli dimostra che, pur avendo il ministro
dell'Istruzione Fioroni indicato un tetto di spesa di 280 euro per
alunno, questo non venga quasi mai rispettato, con aumenti che
possono arrivare anche a 394 euro, cifra che dovranno sborsare i
genitori degli alunni che frequenteranno la sezione "D" della scuola
"Giovanni Falcone" di Napoli. E proprio al capoluogo campano, con
circa 300 euro di spesa media per la dotazione libraria (e di
conseguenza uno sforamento dei limiti imposti dal Ministero) spetta
la maglia nera. Un po' meglio a Milano e Roma, con 275 euro di spesa
media. Inoltre, in una classe su quattro si spenderà di più di
quanto si è speso lo scorso anno.
La ricerca mette poi in luce che a sforare il tetto di spesa sono
poco meno della metà delle classi considerate, con una percentuale
che sale al 65 per cento nel capoluogo partenopeo. Le classi che
superano il tetto rimanendo al di sotto del 10 per cento (con una
spesa fino a 308 euro) sono il 29 per cento, mentre quelle che
superano i 308 euro sono 54 (quindi il 15 per cento del totale), di
cui la maggior parte, ancora, a Napoli. Deludente anche il
monitoraggio effettuato presso le scuole medie che l'anno scorso
avevano sforato: 20 su 35 lo hanno fatto anche quest'anno.
Il Ministero dell'Istruzione il 22 maggio scorso aveva fissato i
tetti per la dotazione libraria per il 2007-2008, confermando
sostanzialmente quelli decisi per il 2006: 280 euro per la prima
media, 180 per la seconda, 124 per la terza. Il decreto permette uno
sforamento dei tetti del 10 per cento, se quello che si paga in più
viene poi recuperato gli anni successivi (situazione che però
puntualmente poi non si verifica). I risultati dell'inchiesta, fa
sapere Altroconsumo, sono stati inviati al ministro Fioroni
"affinché provveda a rivalutare le scelte di manica larga degli
istituti scolastici", vigilando di più sulle adozioni dei testi.
I rincari non si fermano però solo ai libri di testo: secondo
Federconsumatori quest'anno la spesa delle famiglie italiane per
mandare i figli a scuola (considerati anche per astucci, zaini e
diari) è cresciuta dell'11 per cento rispetto al 2006. A lievitare
maggiormente sono i costi del corredo scolastico: gli accessori come
quaderni e matite colorate incideranno, a seconda dell'età del
ragazzo, fino al 7,2 per cento rispetto allo scorso anno. A far
crescere i prezzi, come sempre, le pubblicità, che consigliano a
ogni inizio d'anno di acquistare nuovi articoli, nonostante sia
possibile nella maggior parte dei casi riutilizzare quelli dell'anno
precedente.
Adusbef e Federconsumatori consigliano di effettuare le proprie
spese presso i supermercati e gli ipermercati, dove il risparmio
rispetto alle cartolerie può arrivare anche al 25 per cento. Per i
libri, invece, dove possibile è sempre meglio comprarli usati: ormai
ogni città ha il suo mercatino, e muoversi in tempo può portare a
fare dei veri e propri affari.
"Accogliamo le segnalazioni pervenute in merito al superamento dei
tetti di spesa per la scuola media che vanno ad integrare le
rilevazioni effettuate e le azioni di controllo attualmente in corso
dalle singole regioni da parte degli Uffici Scolastici Regionali",
comunica in una nota il direttore generale per gli Ordinamenti
scolastici, Mario Giacomo Dutto. "Il ministero - continua la nota -
è impegnato a rendere agevole la partecipazione alla scuola con
misure che limitino il più possibile il peso economico a carico
delle famiglie".
"Anche quest'anno - sottolinea Dutto - le scelte dei libri di testo
sono state oggetto di monitoraggio esteso e di dettaglio soprattutto
per quanto si riferisce ai costi e al rispetto dei tetti di spesa
fissati per la scuola media. Già prima della fine di luglio sono
stati informati tutti i direttori scolastici regionali e a quella
data la copertura dei dati riguardava per le scuole medie il 95%
delle scuole statali. Su questa base i direttori regionali sono in
grado di individuare le scuole nelle cui classi la scelta dei libri
di testo ha comportato il superamento dei tetti previsti; il
controllo è tuttora in corso".
Il caro-prezzi per libri, zaini e diari ha suscitato immediatamente
la reazione dei sindacati. Il segretario generale della Cgil Scuola,
Enrico Panini, ha definito gli aumenti "ingiustificati". E ha
proseguito: "Temo che, a causa dei tagli alle risorse degli enti
locali, i rincari riguarderanno anche i servizi scolastici, come
mensa e trasporti, che sono di loro competenza". Per la Cgil il
problema del 'caro scuola' può essere arginato solo col rilancio
delle politiche per il sostegno allo studio. Se "il corso degli
studi si è allungato molto nel tempo", determinando "un costo
insostenibile per le famiglie", l'unica soluzione è l'istituzione di
una "Banca del tempo educativo, che si configuri come un contributo
economico dello Stato per ogni anno di studio".
Non sparo più
Da cecchino in Iraq ad attivista
contro la guerra. La storia di Eleonai 'Eli' Israel
pubblicato su Courage to Resist*
Due mesi fa, ho preso una decisione
che ha cambiato la mia vita per sempre. Come soldato, un agente Jbv
(Joint Visitors Bureau n.d.r.) del servizio di sicurezza, e come
cecchino dell'esercito che ha trascorso un periodo di un anno in
Iraq (prendendo parte ad oltre 250 missioni di combattimento), mi
sono rifiutato di continuare a far parte dell'occupazione. Non ho
rimpianti. Questa è la mia storia. In questo momento, ora che
scrivo, sono parcheggiato qui in Kuwait, in “stand by”, attendendo
di tornare negli Stati Uniti, spero un giorno di questa settimana.
Dopo essere uscito dal carcere militare la scorsa settimana, è ora
previsto il mio congedo dalle forze armate entro questo mese. Sono
in attesa di potermi unire ai movimenti che si oppongono al
conflitto in Iraq, come ad esempio Courage to resist e Iraqi
Veterans Against the War
Cosa è stato a condurre qui la mia vita?
L'arruolamento. La prima volta sono entrato nel Corpo dei
Marines degli Stati Uniti nella primavera del 1999, nel mese del mio
diciottesimo compleanno. Sono cresciuto sotto la custodia dello
stato del Kentucky, e avendo soltanto sporadici contatti con i miei
genitori naturali, dall'età di tredici anni. Non avevo nessun
sostegno di tipo familiare, e sono presto finito sulla strada, a
fare ciò che fanno tutti i ragazzi di strada.
Ancor prima di aver compiuto 16 anni avevo conosciuto le droghe
pesanti. Ho smesso di andare a scuola a metà del nono livello ed ero
esperto soltanto di astuzie da strada, sentivo in me una
incontrollabile spinta all' ambizione e avevo modi da duro.
Quando entrai nella stazione di reclutamento ho appreso che per
poter entrare a far parte del corpo dei Marines, avrei dovuto essere
in possesso di un diploma di high school oppure di un Ged (General
Educational Development, un diploma equivalente a quello che si può
ottenere al termine della high school, e che è previsto per coloro
che da adulti vorrebbero recuperare e ottenere un titolo di studio
equipollente n.d.r.), a meno che non avessi certi documenti di un
college. Quando ho detto loro che avevo sedici anni e che avevo
frequentato la scuola soltanto fino all'ottavo livello, mi hanno
liquidato in fretta, pensando di non rivedermi. Si sbagliavano.
Non soltanto ho ottenuto il mio Ged, ma ho anche completato un
semestre presso il college locale. Un anno e mezzo dopo, quando ho
compiuto diciotto anni nel marzo del 1999, sono tornato in quella
stessa stazione, ho parlato con lo stesso addetto al reclutamento,
gli ho mostrato il mio Ged e i documenti del college, e ho provato
per la prima volta una profonda sensazione di orgoglio.
Tredici settimane dopo il mio arrivo a Parris Island, ero cambiato
per sempre. Mi sono laureato a capo di un plotone, in seguito ad una
promozione per merito, ed ero pronto ad iniziare la mia fulgida
carriera nel corpo dei Marines. Poi, arrivò l'11 settembre 2001.
Di nuovo nell'esercito, per la mia nazione. Come molti altri,
dopo l'11 settembre volevo rimettermi al servizio della patria.
Sentivo di poter dare alla mia nazione qualcosa in più, dopo gli
anni di addestramento. Credevo fermamente che il mio presidente e i
miei superiori mi stessero dicendo la verità. Avevo inoltre fiducia
nella mia integrità. Sapevo che non avrei mai fatto volontariamente
nulla che fosse immorale o sbagliato. Sono tornato nelle forze
armate nel 2004, stavolta nell'Esercito della Guardia Nazionale.
All'epoca pensavo che coloro che si mettevano al servizio della
“Guerra globale al terrorismo” lo scegliessero perché credevano in
ciò che stavano facendo, e non perché obbligati da un contratto
oppure costretti a restare per via della politica statunitense dello
stop-loss (nel 2004 l’amministrazione americana decise di mantenere
in servizio le truppe coinvolte nella “lotta globale al terrorismo”
prolungando il periodo di permanenza dei soldati contro la loro
volontà, impedendone di fatto il ritorno a casa al termine del
servizio volontario n.d.r.). Dopo aver visto la situazione sul
campo, sono certo che mi sbagliavo. Nel 2006, mi sono imbarcato per
l’Iraq.
In Iraq avevo il compito di agente di sicurezza presso il Jbv (Joint
Visitors Bureau), ufficio che si occupava di garantire il servizio
di sicurezza ai “generali a tre stelle e superiori e ai loro
equivalenti civili”, vale a dire anche il Vicepresidente, il
Segretario della Difesa, il capo del Joint Chiefs of Staff (che
racchiude tutte le maggiori cariche a capo dei rami in cui si
snodano le forze armate statunitensi n.d.r.), gli uomini con carica
equivalente per ciascuno dei “nostri alleati”, e altri. Mi sono
addestrato a fare il mio lavoro di membro di questa “unità
speciale”, prima di essere impiegato, e ho trascorso la maggior
parte dei miei viaggi in compagnia delle persone più potenti
connesse alla “guerra globale al terrorismo”. Anche come agente Jbv,
il mio compito principale restava la fanteria. Nei giorni in cui non
erano previste missioni di sicurezza, potevamo essere chiamati per
missioni “search and cordon” (missione di ricerca dei miliziani
all’interno del cordone di sicurezza della città di Baghdad senza
preavviso, in italiano “isola e ricerca” n.d.r.)e altri compiti di
fanteria. Perciò, anche se lavoravo per il Jbv, ero anche
nell’elenco di un plotone di cecchini impiegati in svariate missioni
“fuori dalla zona di sicurezza”, come ad esempio lo sniper overwatch
(letteralmente il pattugliamento dei cecchini n.d.r.)o le incursioni
nelle case. Mi convincevo che le mie azioni trovassero una
giustificazione nella “legittima difesa”. Ma comunque, sono arrivato
a comprendere quanto sbagliata fosse la mia percezione. Ero in una
nazione nella quale non avevo nessun diritto di stare, violando
l’esistenza delle persone, e facendolo senza alcuna attenzione a
mantenere gli stessi livelli di dignità e lo stesso rispetto che noi
americani portiamo alle nostre case e alle nostre vite.
Distruggendo vite. Ho tolto e/o distrutto la vita di persone
che stavano cercando soltanto di proteggere la propria famiglia,
affinché non diventasse il “danno collaterale” del giorno. I giovani
iracheni stanno unendosi a gruppi come Al Quaeda per gli stessi
motivi che spingono i ragazzi di strada negli Usa a unirsi a bande
come i Cribs o i Bloods. Si tratta di proteggere se stessi, di un
senso di dignità, e di resistere.
Al ragazzo cui abbiamo “accidentalmente” ucciso il padre ed un
cugino, con madre e fratelli che piangono ogni volta che un
carrarmato attraversa il quartiere, non interessa sapere chi sia
Osama Bin Laden. I “miliziani” che abbiamo attaccato erano
solitamente molto simili ad un gruppo di controllo armato del
quartiere che non riconosceva il governo. Nemmeno noi credevamo al
governo, ma lo abbiamo ugualmente messo al potere! I nostri
sacrifici, per quanto tragici ( e lo sono, tragici), sono minimi, se
paragonati alla carneficina che è stata perpetrata contro la gente
dell’Iraq. Il vero “successo” in Iraq non è una questione di “calo”
del numero delle vittime nelle forze della coalizione. Il successo
sarebbe la fine della catastrofe che abbiamo inflitto ad un’intera
società, e il ripristino della sua dignità e sovranità.
Gli iracheni continuano a morire con un tasso dieci-venti volte
superiore a quello delle forze della coalizione. Nella sola Baghdad,
e dopo cinque anni e 950 miliardi di dollari spesi, la popolazione
soffre per la mancanza di acqua ed energia, che può protrarsi anche
per settimane. Il giorno in cui ho visto me stesso riflesso nello
sguardo carico di odio di un giovane ragazzo iracheno che stava di
fronte a me, è stato il giorno in cui ho capito che non avrei più
potuto continuare a giustificare il mio prendere parte
all’occupazione.
Provo invidia per quel soldato che è stato in grado di intuire
l’ingiustizia di questa guerra da subito, e che ha il coraggio e la
convinzione di opporsi ad essa. Ci sarà chi biasimerà i soldati che
hanno volontariamente anteposto la propria morale all’ambizione
politica. Ciò che importa è decidere. Non importa se hai scelto di
non arruolarti affatto, o se ti sei reso conto dopo il tuo ingresso
nelle forze armate di essere stato deluso da un livello di integrità
di molto inferiore a quello che pensavi, il momento in cui hai
capito quale era la verità, quello era il momento di fare una
scelta. Il mio arrivò quando mi mancavano soltanto tre settimane di
servizio in missione, durante l’anno che ho trascorso in Iraq. La
consapevolezza della propria etica non ha un momento preciso per
manifestarsi. Quando ho fatto la mia scelta, ho informato la catena
di comando riguardo i miei convincimenti. Potevo già immaginare da
questa prima conversazione che le cose non sarebbero andate bene da
quel momento in avanti. Dissi loro che ritenevo illegale la nostra
presenza in Iraq. Ho spiegato che non credevo più in una strategia
politica di guerra, e che avrei fatto domanda per fare obiezione di
coscienza. In parole povere, non potevo più in coscienza partecipare
ad azioni di combattimento contro la gente irachena.
Mai più. Pochi secondi dopo aver pronunciato queste parole,
la mia vita è cambiata. Ho sentito in me la più profonda sensazione
di pace mai provata da più di un anno. Ero certo di aver fatto la
cosa giusta. Subito dopo, sono stato disarmato, messo in isolamento,
e mi è stato proibito di avere contatti con qualsiasi famigliare o
parente.
Sono stato messo illegalmente in isolamento, su di una branda in una
sala operatoria, sorvegliato 24 ore su 24, seguito da una scorta
persino al bagno, prima di essere formalmente accusato, due
settimane più tardi, di aver rifiutato di eseguire un ordine. Sono
rimasto confinato fino a quando non mi sono dichiarato colpevole
(non avevo molta scelta) ,meno di una settimana dopo questi fatti.
Sono stato immediatamente trasferito a Camp Arifjan, in Kuwait, per
restare trenta giorni dentro la prigione locale. Sono stato
rilasciato l’altro giorno e ora sto per essere “cacciato” con un
“tutt’altro che onorevole” congedo. Non rimpiango nulla. Una volta
che ho parlato al mio comando chiarendo le mie convinzioni, e una
volta che i miei superiori hanno capito che non mi sarei fatto
intimidire, hanno deciso di iniziare contro di me una “guerra
dell’informazione”.
Avevo molti amici contrari alla guerra su My Space e altri canali
internet che divulgavano informazioni riguardo la mia prigionia e le
facevano circolare in tutto il mondo, letteralmente in un baleno.
Prima che lo sapessi, fui convocato nell’ufficio del sergente capo e
iniziarono a lamentarsi e ad urlare perché i loro nomi apparivano
“dappertutto su internet”. Non hanno cercato di negare le cose che
venivano dette di loro, o il fatto che io fossi stato maltrattato e
che loro rifiutassero di riconoscere la mia richiesta di fare
obiezione di coscienza, bensì erano infuriati per via
dell’esposizione mediatica cui erano sottoposti.
Il soldato al contrattacco. Il giorno dopo mi dissero che ero
stato “segnalato” come problema dell’Opsec (Operational Security,
“sicurezza operativa” n.d.r.). Non mi è stata data nessuna
spiegazione. Erano ostili e ossessionati dalla volontà di fare di me
“un esempio”, cercando in ogni modo di screditarmi e rovinare la mia
reputazione. Hanno trascorso giorni interi a produrre pagine di
“richiami” (“counseling statements” nel testo, ovvero richiami
ufficiali che seguono violazioni del regolamento o della condotta
militare n.d.r.)per screditare in maniera retroattiva il mio
curriculum militare. Il fatto che non ci fossero precedenti
documenti che attestassero queste presunte violazioni fece sì che le
accuse cadessero, e loro lo sapevano.
Avevano bisogno di “qualcosa di più”. Chiesero ripetutamente quali
fossero i miei nomi utente e le mie password su internet e MySpace,
posta elettronica privata, tutto. Tutto ciò sotto la minaccia di
“maggiori e più gravi accuse a mio carico” nel caso mi fossi
rifiutato.
Hanno voluto leggere le mie e-mail, tutti i miei blog, qualunque
cosa, nel tentativo di trovare qualcosa. Niente che potessero usare
per far sì che sembrasse che fossi colpevole di aver divulgato
informazioni riservate. Volevano accusarmi e rovinare al massimo la
mia credibilità, e avevano un disperato bisogno di giustificare in
qualche maniera la mia detenzione illegale in isolamento.
Due settimane più tardi, quando finalmente hanno capito che non
sarebbero stati in grado di accusarmi per “divulgazione di
informazioni riservate”, mi hanno accusato di una serie di “rifiuti
di eseguire gli ordini”. Questi ultimi non comprendevano soltanto il
mio rifiuto di partecipare alle missioni di combattimento, ma anche
cose ridicole tipo “non si mette sull’attenti” e “si è presentato in
ritardo alle mansioni assegnate”. Potete immaginare. Il mio
comandante ha infine offerto di “lasciarmi libero” se mi fossi
immediatamente dichiarato colpevole di tutto e avessi accettato una
sommaria corte marziale. Le opzioni che mi si presentavano erano
chiare. Avrei potuto accettare, passare trenta giorni in prigione, e
riavere indietro la mia vita. Oppure avrei potuto farmi sbattere di
nuovo in isolamento per altri due mesi, dando loro la possibilità di
fare di me un esempio per tutto il battaglione, dicendo “questo è
quello che succede a chi si oppone alla guerra”.
Lascerò che credano di aver vinto, per ora.
Libertà. La verità verrà allo scoperto, e non c’è nulla che
possano fare per nasconderla. L’occupazione è un disastro. Sono
convinto che ogni giorno in più di questo stato di cose renda sia
l’America che l’Iraq meno sicuri. Oppormi alla guerra e mantenere la
schiena dritta di fronte ai miei superiori è stata senza alcun
dubbio una delle migliori decisioni che abbia mai preso. Ho fatto la
scelta giusta, e in regalo ho avuto indietro la mia libertà. Forse
tra dieci anni quelli di noi che hanno resistito dall’interno alla
forza militare oggi, saranno visti come i primi pochi coraggiosi ad
aver detto la verità, facendo seguire i fatti alle parole. Anche
adesso ci sono molti intorno a me che mi ricordano che non sono il
solo a pensarla in questo modo, vale a dire la maggioranza degli
americani, che si sono resi conto che i pezzi che compongono il
mosaico di questo conflitto semplicemente non combaciano.
Cercate la verità. Prendete una decisione.
dall'agente speciale dell'esercito della Guardia Nazionale degli
Stati Uniti d'America
Elonai 'Eli' Israel
Io Saviano,
condannato a morte
di Gianluca Di Feo
La sentenza dei Casalesi:
aspetteremo il momento giusto. La vita blindata senza più libertà.
Le paure per i familiari. E il coraggio di scrivere e accusare. Per
dare una speranza ai giovani. Colloquio con Roberto Saviano
Foto di Mario Spada
Sono tardarielli ma non scurdarielli.
"I Casalesi arrivano tardi, ma non dimenticano mai". Lo
spiegò ai magistrati l'unico vero pentito della camorra casertana,
ricostruendo come i boss avessero atteso 11 anni prima di eseguire
la sentenza contro un loro nemico. Hanno fatto calmare le acque,
ridotto al minimo l'attenzione sulla vittima e solo a quel punto
sono partiti i killer. Clemenza o perdono non gli appartengono:
i signori della nuova mafia hanno dimostrato con il piombo e con il
sangue che la loro parola è peggio di una fatwa. Perché loro sanno
ricordare.
Oggi le dichiarazioni raccolte nelle carceri e l'attività
informativa nel triangolo dei boss, tra Casapesenna, Casal di
Principe e San Cipriano d'Aversa, il feudo dei Casalesi, sono
concordi: anche contro Roberto Saviano è stato emesso il verdetto.
I padrini hanno lasciato in bianco solo la data dell'esecuzione:
"Basta aspettare, verrà il momento giusto. E allora si chiuderanno i
conti". L'autore di 'Gomorra' non si sente un condannato a morte.
Quando gli poni la domanda, il volto si illumina con un sorriso
ingenuo che tradisce i suoi 28 anni. Perché non accetta nemmeno
l'idea di essere costretto all'esilio: "Napoli mi manca tantissimo.
Come per tutte le cose che si perdono aumenta il carico di
nostalgia. La mia esperienza viene da lì". Oggi può tornare a Napoli
quando vuole, circondato però da carabinieri e auto corazzate.
E ogni movimento deve essere concordato con la scorta. Il che lo
spinge a stare chiuso in casa, a leggere e scrivere. Ma senza
radici, senza succhiare linfa alla vita reale, tutto diventa un
isolamento sterile. Un incubo che fa passare in secondo piano ogni
altra preoccupazione.
"Paura non ne ho. Fin quando c'è la parola, la possibilità di
trasmettere le proprie idee, quella è la vera difesa. Certo, con il
mio lavoro ho esposto anche i miei familiari. L'unico motivo per cui
ho maledetto il mio libro è per le pressioni che hanno subito i miei
cari e di cui non mi perdonerò".
Roberto Saviano con la
scorta
Attorno
a lui spesso c'è il vuoto. Il condominio del centro di Roma dove
viveva in una stanza da studente ha protestato per la quiete
disturbata dalla scorta. E i vicini della madre hanno addirittura
scritto al Comune chiedendo che alla donna venisse 'assegnata una
residenza più sicura': un modo burocratico per chiederne il
trasloco. Alla 'Süddeutsche Zeitung' ha parlato di una quotidianità
randagia, senza fissa dimora, senza più punti cardinali. Tranne
quello che considera più importante: la scrittura. "Scoprire quanto
potesse essere potente la scrittura è stato uno choc. Non solo per
lo sconvolgimento totale della mia esistenza. In genere, un libro
non riesce a influire sulla vita dell'autore. Invece intorno a
'Gomorra' si è creato subito un passaparola, una catena di persone
che attraverso il libro si sentivano a me vicine e io ho sentito
questo contatto con loro. Non avrei mai immaginato tanto. Due siti
Web di solidarietà, la vicinanza di amici nuovissimi che hanno
protetto le mie parole. E quella di alcuni colleghi".
Ci tiene anche a ricordare le persone che si sono occupate della sua
sicurezza, gli stessi investigatori che portano avanti le indagini
sui Casalesi: il coordinatore della Procura antimafia di Napoli,
Franco Roberti; i pm Antonello Ardituro e Raffaele Marino, il
colonnello Gaetano Maruccia. A Raffaele Cantone, il pubblico
ministero che conduce i processi più importanti contro la camorra
casertana, lo unisce anche la pressione continua dei clan. E c'è poi
Tano Grasso che lo ha consolato con l'esperienza di chi ha vissuto
sotto scorta per un intero decennio.
Molte cose l'hanno sorpreso negativamente. "Soprattutto l'accusa di
aver infangato la mia terra. Di aver speculato sul suo dolore. C'è
stata prima diffidenza e poi ostilità per il modo con cui ho
raccontato la criminalità. Da molta intellighenzia napoletana e dal
mondo puritano delle lettere che si è sentito invaso da nuovi
codici, nuove visioni e soprattutto nuovi lettori".
Poi c'è stata una gelosia verso il successo, come se fosse
frutto di chissà quale operazione di marketing editoriale. "Invece
'Gomorra' sancisce l'ascesa del lettore e dimostra la grande
possibilità della scrittura. Rivoluzionaria. Perché non è la
scrittura che apre la testa, non è lo scrittore che rende liberi i
lettori. No: è il lettore che rende libero lo scrittore, che
cancella la censura. Pamuk, Politkovskaja, Rushdie - che hanno
dovuto affrontare situazioni ben più gravi della mia come testimonia
il sacrificio della giornalista russa - hanno imposto le loro idee
grazie alla spinta dei lettori. È un meccanismo che trasforma il
mercato, legando consumo e libertà di scrittura".
Innegabile che le prime minacce dei padrini campani abbiano fatto da
volano al successo del volume. "Sono rimasti spiazzati pure loro.
Finora in quel territorio persino l'omicidio di un sindacalista non
aveva fatto notizia, persino il piano per assassinare un magistrato
con il tritolo già pronto non era arrivato sui media nazionali. Non
si preoccupavano di intimidire un ragazzotto che aveva scritto un
libro di cui si parlava troppo: perché avrebbe dovuto mai attirare
attenzione?". La lezione di 'Gomorra' non è passata inosservata
anche dentro le altre mafie: le pagine stampate hanno cominciato a
dare fastidio. Saviano cita la vicenda di Lirio Abate, costretto a
lasciare Palermo dopo il saggio sui complici illustri di Provenzano.
Il segno di un'insofferenza crescente contro chi smaschera il
vero volto della nuova mafia.
Per i Casalesi quella dello scrittore è diventata una sfida
continua. Il discorso sulla piazza di Casal di Principe,
chiamando per nome i padrini latitanti e invitando la gente a
ribellarsi, non è stata perdonato. Poi la presenza in tribunale
nel giorno della requisitoria, di fronte ai killer detenuti. "Da
anni la criminalità organizzata non si trova più davanti persone che
vogliano svelare il meccanismo delle loro attività, il sistema del
loro potere. Hanno preso come una sfida il mio guardargli in
faccia. Loro accettano i professionisti: accettano di venire
descritti negli atti dei magistrati, degli avvocati, degli
investigatori e in qualche misura anche dei giornalisti. Non
accettano invece la mia volontà di usare strumenti 'sporchi' che non
possono gestire. Personaggi come Raffaele Cutolo sanno condizionare
l'immagine: hanno cercato la pubblicità, le interviste. Ne hanno
fatto come uno strumento. Cutolo o altri boss come Augusto La Torre
invece hanno reagito perché 'Gomorra' ha spezzato lo schema. Si sono
sentiti gestiti da qualcun altro: gli piace essere raccontati, ma
alle loro condizioni. La piazza di Casale? Ho chiesto ai cittadini
di cacciare i boss, gli ho spiegato che la camorra non portava
ricchezza, ma la distruggeva. Nessuno pronuncia mai quei nomi in
pubblico a Casale e quel giorno in piazza c'erano tanti ragazzi:
bisognava farlo".
Nel pensiero di Saviano c'è un chiodo fisso: la questione
meridionale. Un concetto su cui si è discusso fino al punto da
renderlo logoro, svuotandolo di ogni proposta e soprattutto di
qualunque progetto. Ma che oggi si incarna nella realtà di una
generazione senza futuro. "Una speranza può nascere solo dai giovani
meridionali. La mia è l'unica generazione che emigra in massa,
l'unica dagli anni Cinquanta. Si sta imponendo un modello culturale
secondo il quale chi resta è un incapace, un fallito, un
traffichino. È una cosa pericolosa, contro la quale bisogna reagire.
Perché si lasciano andare via i talenti migliori e si spengono le
speranze di chi resta, destinandolo a un futuro di mediocrità". E
accusa: "La politica ha perso la sua carica riformista, che era
stata una caratteristica continua del dopoguerra". Elenca come
modelli Gaetano Salvemini, Giustino Fortunato, Ernesto Rossi. "Se i
politici di oggi si fossero formati su questi libri, invece di avere
sul comodino gli scritti di Ho Chi Min o di altri mostri sacri del
'68, adesso riuscirebbero a inquadrare i problemi. Il Sud ha
prodotto pensatori che avevano capito tutto. Bisogna ripartire da
lì: non dimenticare che esiste una questione meridionale".
Ma il Sud cambierà? Saprà reagire alla grande slavina che lentamente
sommerge la vita civile, l'imprenditoria, la cultura, la politica.
Saviano schiera un'ironia amara e inverte il canone di
Giacomo Leopardi: "Io ho l'ottimismo della ragione e il pessimismo
della volontà".
Cambiare richiederà tempo, almeno un'intera generazione:
"Nemmeno io riuscirò a vederlo. Ma se non si comincia, non accadrà
mai. Io credo che ci siano realtà che non hanno l'ossessione del
turismo, l'idea di un Meridione ridotto a bacheca. Ci sono
imprenditori agricoli che recuperano l'eccellenza, maestranze tra le
migliori in Europa nel cemento, una leva dinamica di piccoli
imprenditori che sono la forza dell'economia campana". Già, ma sono
anche i settori più esposti all'assalto della mafia. "Certo, la
criminalità organizzata investe dove c'è eccellenza e potenzia
queste aziende. Non è vero che la camorra non genera crescita. No.
Ma genera una crescita distorta, che non migliora la qualità della
vita delle persone; che fa arricchire solo pochi e trasferisce i
capitali lontano. È una crescita che impoverisce il Sud". L'altra
faccia della medaglia è una classe politica e intellettuale che
considera lesa maestà denunciare il dramma della regione. "Sono
un'intellighenzia che parla solo di presunta bellezza e ignora i
problemi reali. Spendono ore per Caravaggio e non si guardano
intorno. È ora di finirla con questo sistema. Chi osserva non ignora
la bellezza di Napoli ma proprio da essa parte per denunciare: da
Caravaggio bisogna apprendere la forza del guardare in faccia la
vita. Loro invece si cullano in una visione consolatoria del Sud,
una visione che piuttosto che essere innovativa è terribilmente
oscurantista".
I leader di partito lo hanno quasi corteggiato, stupiti dalla
sua capacità di parlare ai giovani. Da Fassino a Fini, da Visco a
Berlusconi, tanti gli hanno trasmesso interesse e manifestato
solidarietà. "A parole, ci sarebbero nell'intero arco costituzionale
le condizioni per rilanciare la lotta alla camorra". La prova di
concretezza verrà anche dalle risposte all'appello del procuratore
Roberti, che ha invocato le migliori forze per rispondere alle nuove
minacce dei Casalesi. Perché in Campania la grande politica fa come
i boss: latita. "Fausto Bertinotti è stato l'unico esponente
nazionale ad andare a Casal di Principe, non era mai accaduto
prima". Saviano è rimasto colpito dalla scoperta che anche nella
base della destra, inascoltata spesso dalle dirigenze, è ancora viva
quella mobilitazione antimafia, punto di forza del Msi legalitario
di Almirante. Un risveglio che diventa provocazione verso il
torpore della sinistra. "È stato bello vedere che c'è una forma di
destra sociale che sul territorio sta riscoprendo l'orgoglio di
un'identità che non scende a patti con la camorra. La sinistra
continua a vivere in un equivoco. Gli slogan sono quelli che vengono
da un passato di militanza concreta, ora non hanno più niente
dietro. Ma la consapevolezza degli elettori è superiore a quella dei
politici. O la politica lo capisce o è finita".
Cgil: "Ancora
pochi i permessi rilasciati"
La Cgil chiede una riforma
radicale della Bossi-Fini e annuncia una grande
mobilitazione per il prossimo autunno insieme a Cisl e
Uil.
Per il sindacato il tema più scottante
rimane "il malfunzionamento dei rinnovi dei permessi di soggiorno
a partire dai casi di variazioni, di minori e numerosità familiare".
Su 881mila domande presentate ne rimarrebbero da vagliare
ancora 525mila.
ROMA – La Cgil chiede una riforma
radicale della Bossi-Fini e annuncia una grande mobilitazione di
massa nel prossimo autunno con Csil e Uil.
“Oggi siamo ancora agli interventi di
rattoppo - spiega Pietro Soldini, responsabile dell'ufficio per le
politiche dell'immigrazione - occorre puntare all'obiettivo
strategico della riforma”.
Il tema più scottante per la Cgil è
“il malfunzionamento dei rinnovi dei permessi di soggiorno a partire
dai casi di variazioni, di minori e numerosità familiare”.
I dati al primo agosto, forniti dalla
Cgil, rilevano 881 mila domande presentate, 72 mila permessi
elettronici pronti e 284 mila domande anomale. Per quest'ultime
verrà approntato un piano di smaltimento che sarà avviato il 20
agosto e terminerà il 31 ottobre 2007. Rimangono 525 mila domande
ancora da lavorare, con appuntamenti fissati anche a 8 mesi.
“E' necessario - aggiunge Soldini -
intervenire nei confronti delle 16 questure più esposte che ricevono
il 54% delle domande con un aumento delle apparecchiature tecniche e
con un aumento di personale”. Su questo punto, fa sapere la Cgil, il
ministero sta predisponendo un piano e sul personale si è chiesto di
dare attuazione ad un accordo sindacale con le rappresentanze
sindacali unitarie del ministero dell'Interno e il sottosegretario
Marcella Lucidi che prevede un incremento di 1.250 unità di
personale civile.
Fine di un'epoca
Anche Karl Rove, lo stratega-ombra
del presidente, lascia l'amministrazione Bush
Il suo capo l'aveva definito
“l'architetto” e “il piccolo genio” delle campagne elettorali. Per
chi lo criticava ma ne ammirava le qualità organizzative, era “il
cervello” di George W. Bush. Quelli che lo vedevano come il diavolo
in persona, invece, lo chiamavano “turd blossom”. Che sarebbe sì un
termine in slang texano per indicare un tenero fiorellino reso forte
dal concime più naturale che ci sia, ma nel caso di Karl Rove
diventava anche il letterale “ciò che germoglia da un pezzo di
m....”, a indicare la sua presunta assenza di scrupoli morali.
Comunque lo si voglia chiamare, il consulente più fidato di Bush ha
deciso di farsi da parte, l'ultimo tra “tutti gli uomini del
presidente” a defilarsi da un partito repubblicano sempre più in
difficoltà.
L'ascesa.
Vice capo di gabinetto della Casa Bianca, l'ultima carica
formalmente ricoperta da Rove, è un'espressione che non rende
giustizia all'importanza del braccio destro dell'attuale presidente.
Dopo aver lavorato nello staff di Bush padre fin dagli anni
Settanta, dal 1994 Rove è stato l'ombra di George W., lo stratega
che ha pianificato tutte le sue mosse, riuscendo a trasformarlo
dall'ex alcolizzato e pecora nera della famiglia che era, a
governatore del Texas e presidente degli Stati Uniti poi. Ha portato
Bush alla Casa Bianca nel 2000, battendo il vice del presidente che
aveva guidato gli Usa durante il boom della new economy. Lo ha fatto
rieleggere nonostante le difficoltà della guerra in Iraq. Ha creato
un clima in cui qualsiasi critica al “comandante in capo” veniva
facilmente bollata come anti-patriottica. Ed è riuscito a cementare
il sostegno del grande business con l'emergere di un movimento
cristiano evangelico sempre più influente in politica, capendo prima
di tutti la sua importanza. In sostanza, Rove ha modellato
l'immagine del movimento conservatore dell'ultimo decennio.
Il gioco sporco. Neanche chi lo odia mette in dubbio il suo
acume. Ma di Karl Rove si è discusso e si parlerà ancora anche per i
metodi che ha portato nella battaglia politica, riuscendo a giocare
sporco pur tenendo gli schizzi di fango lontani da sé. Attaccare
l'avversario sul piano personale ha dato risultati in ogni campagna
elettorale di George W. Bush. Nel 1994 si sparse la voce che Ann
Richard, la governatrice democratica del Texas a cui Bush avrebbe
soffiato il posto, era lesbica. Sei anni dopo, quando l'uomo da
battere nella corsa alla nomination repubblicana era John McCain, il
senatore dell'Arizona dovette combattere contro i pettegolezzi sul
suo (inesistente) figlio illegittimo di colore. Nel 2004
un'imponente campagna mediatica organizzata dal fin lì sconosciuto
gruppo “Swift Boat Veterans for the Truth” distrusse l'immagine di
John Kerry, che in Vietnam ci andò davvero e rimase pure ferito,
facendo dimenticare che Bush aveva evitato quella guerra grazie ai
buoni uffici del padre.
La caduta. In molti hanno visto la mano dell' “architetto”
anche nel cosiddetto Ciagate: ossia lo scandalo emerso dopo che fu
resa pubblica l'identità dell'agente segreto Valerie Plame, moglie
dell'ex ambasciatore Joseph Wilson, che aveva accusato
l'amministrazione Bush di aver inventato l'affaire della vendita di
uranio del Niger a Saddam per giustificare l'invasione dell'Iraq. Ma
l'unico funzionario a pagare (finché la pena non fu commutata da
Bush) nella faccenda è stato Lewis “Scooter” Libby, capo di
gabinetto del vicepresidente Dick Cheney. Nonostante diverse
testimonianze contro di lui, Rove è uscito illeso dallo scandalo. Ma
anche se il presidente l'ha protetto, l'influenza di Rove
all'interno dell'amministrazione Bush stava già scendendo,
trascinata verso il basso dal crollo di popolarità del suo capo.
Dopo l'inefficienza della risposta al disastro causato dall'uragano
Katrina, anche la gestione della guerra in Iraq è stata vista con
nuovi occhi da sempre più persone negli Usa.
Fine di un'epoca. Era semplicemente ora di togliere il
disturbo, ha detto Rove nell'intervista al Wall Street Journal in
cui ha annunciato le sue dimissioni il 31 agosto, citando l'esigenza
di voler stare più tempo con la famiglia. Ma il braccio destro di
Bush ha ammesso di aver voluto lasciare già dal novembre dell'anno
scorso, quando i repubblicani hanno perso il controllo del
Congresso. Ora, ancor più che nove mesi fa, l'invincible armada
forgiata da Rove sembra alle corde. I sondaggi danno ormai per
inevitabile una riconquista democratica anche della Casa Bianca, nel
novembre 2008. Gli analisti sottolineano che si tratta più di un
tracollo di fiducia verso i repubblicani, che non un improvviso
amore dell'elettorato per i democratici. Molti funzionari minori
dell'amministrazione Bush, negli ultimi mesi, hanno già abbandonato
una barca che fa sempre più acqua. Ma sarà l'addio di Rove, dopo il
tramonto di neo-con della prima ora come Donald Rumsfeld e Paul
Wolfowitz, a essere ricordato come uno di quei segni di un'epoca che
sta per finire. Magari il suo atteso libro di memorie, dato in
preparazione dai più informati, l'arricchirà di particolari oggi
sconosciuti.
Mare nero
di Fabrizio Gatti
Acque inquinate a due passi da
paradisi naturali. Tesori della natura messi in pericolo da rifiuti,
scarichi e depuratori assenti. Ecco cosa succede a Porto Venere,
all'isola d'Elba e a Numana
Foto di Marco Mori - Sestini
Avanti così e dalla collana dei nostri
mari sfileremo altre perle. Perfino le spiagge più famose sono
minacciate da scarichi di ogni tipo. Una catena di depuratori
avrebbe dovuto proteggerle. Avrebbe potuto difendere la loro
bellezza e la nostra salute da streptococchi, enterococchi,
colibatteri e microschifezze simili. Abbiamo perso pure questa
occasione. Mancano soldi per costruire nuovi impianti. E
quelli che già esistono sono troppo vecchi, o troppo piccoli, o
troppo costosi per essere mantenuti.
La colpa è anche di questo barman sulla passeggiata di Porto Venere,
ricoperto di cotone bianco come un marinaio dell'Amerigo Vespucci.
"Lo scontrino, per favore". E lui, prima di battere il prezzo della
focaccia e di una limonata sul registratore di cassa, se lo fa
ripetere tre volte. Sbuffa scocciato mentre pigia i tasti. Chissà da
quanti mesi non se lo sentiva chiedere. Dieci euro di consumazione
senza ricevuta sono un'evasione totale di reddito. Oltre a un furto
di due euro di Iva. Moltiplicateli voi per i milioni di clienti
serviti questa estate dal mar Ligure allo Ionio. Sommateli
all'italica furbizia contro il fisco. E provate a immaginare quanto
di questo capitale poteva essere destinato al salvataggio delle
coste e del turismo.
Il risultato è che ancora oggi come quarant'anni fa centinaia di
paesi, migliaia di fabbriche, milioni di persone affondano i loro
liquami in tubi e sbocchi sommersi vicino a baie e scogliere
conosciute in tutto il mondo. Paradisi come le Cinque Terre, l'isola
d'Elba, Numana e la riviera del Conero. Dove amministratori locali,
ambientalisti e operatori turistici combattono soli la loro
battaglia quotidiana per la pulizia dell'acqua. Perché alla fine il
mare, puntuale e sincero, riporta tutto a galla.
Ecco Porto Venere, il paese cartolina sulla strada per le
Cinque Terre. Si può partire da qui. Un viaggio dal Tirreno
all'Adriatico, alla ricerca di quello che nelle cartoline non si
vede. E che nemmeno i siti Internet mostrano quando promuovono
bandiere blu, immersioni o tintarelle sul bagnasciuga. Oltre il
borgo genovese, verso il promontorio dominato dalla chiesa di San
Pietro, si scende alla grotta Arpaia che una lapide dedica al
passaggio qui di George Gordon Byron, il poeta romantico inglese e
"ardito nuotatore". La bocca nella roccia chiude l'insenatura e
cattura tutto quello che passa tra le onde. La mattina è uno
spettacolo di riflessi. Un cormorano si tuffa. Illuminato dal sole
si immerge in profondità, veloce come un siluro. E l'acqua
cristallina lo smaschera fino al momento in cui apre il becco e si
pappa un pesce. Il pomeriggio cormorani e gabbiani se ne vanno. La
brezza soffia forte. E le raffiche recapitano quello che il mare non
può digerire. La chiazza si affaccia lenta davanti alla grotta e al
pubblico di bagnanti. Basta nuotare poche bracciate per trovarsela
di fronte con il suo seguito di piccoli ombrelli di meduse scure. È
uno strato di frammenti di polistirolo. Sacchetti di
plastica. Fluff anatomici e indistruttibili di pannolini
e assorbenti. Una moltitudine di bastoncini di plastica
lunghi quattro dita. E altre nefandezze meno identificabili.
Ogni pezzo ha la sua storia. I bastoncini sono la conseguenza di
anni di accurata pulizia delle orecchie. Bisogna prendere un
cottonfioc e osservarlo da vicino. I due batuffoli sono
biodegradabili. Ma gli stecchini di plastica no. Sono
indistruttibili come gli atomi radiottivi usciti da Chernobyl. Uno
stecchino per ogni paio di orecchie, per ogni mattina, per ogni
sera, per ogni abitante di Porto Venere, per ogni ospite, per ogni
turista. Passeranno secoli prima che tanta igiene personale
si decomponga. Una volta scaricati nel water, i bastoncini finiscono
in mare. E da lì non li toglie più nessuno. Galleggiano avanti e
indietro. Di notte la brezza di monte li nasconde al largo. Il
pomeriggio il vento contrario li riporta a riva. Lo stesso
andirivieni che scandisce le giornate di tutto questo campionario di
vita. Come i filtri delle sigarette e altri accessori che, per
precauzione e per galateo, è preferibile non toccare.
Porto Venere, nonostante anni di discussione, studi proposti e
progetti bocciati, non ha depuratori. La fogna finisce ancora in
mare. Con un tubo sommerso, calato molti anni fa. Qualcosa sparisce
negli abissi. Ma plastica e affini tornano indietro. Forse
basterebbe scrivere ben grande sulle confezioni che cottonfioc,
assorbenti, filtri di sigaretta e condom vanno gettati nella
spazzatura. Purtroppo nessuno ci pensa. Così anche intorno a questo
gioiello protetto dall'Unesco, il delicato equilibrio tra l'Italia e
il suo paesaggio si sta incrinando.
I segnali sono già arrivati. Il 3 luglio l'equipaggio di Goletta
verde presenta i risultati della campagna di prelievi in Liguria. E
Porto Venere è prima in tutte le classifiche. Con la spiaggia più
bella: sull'isola di Palmaria. E quella più infetta: il lido di
Calata Doria. Paradiso e inferno a pochi minuti di barca.
Calata Doria si prende le quattro stelle negative per l'acqua
"fortemente inquinata". La provetta rivela nel giorno delle analisi
una concentrazione di coliformi fecali e altri regali della
digestione. Almeno dieci volte sopra i limiti di legge. Era così
anche l'anno scorso. Un peggioramento repentino. Perché fino al 2005
tutta Porto Venere aveva sempre avuto acque cristalline.
Calata Doria non è solo un lido.
È il salotto naturale nel centro del piccolo paese. Una mezzaluna di
sabbia soffice, una rarità in Liguria, stretta tra il porticciolo e
l'ombra dei pini marittimi. La spiaggia preferita dalla mamme per
far giocare i bimbi più piccoli. La stessa riva su cui il 5
settembre 1849, come ricorda il monumento, "approdò ramingo, vinto
non domo, il generale Giuseppe Garibaldi salutato dagli amici cui
fatidico confortava a ben sperare delle sorti italiche". L'acqua è
bassa e l'insenatura tiene lontano onde e correnti. Giuseppe Gioffré
è il primo a calpestare la sabbia di mattina. Prima ancora che il
sole cominci a picchiare. È in pensione. Ha passato la vita come
ufficiale di macchina sulle navi militari e poi sui mercantili. La
Spezia è appena oltre il promontorio. In agosto il Nostromo, così lo
chiamano a Porto Venere, cammina lungo il bagnasciuga e raccoglie
carta, cicche di sigaretta, piume di cormorani e gabbiani. Non lo
paga nessuno, è un volontario. "Eh", dice lui, "è il nostro
biglietto da visita. Le piume, poi. Vanno dappertutto. Le piume
fanno parte della natura, ma danno fastidio, eh? Magari uno, se vede
le piume, pensa che il mare sia sporco". Non ci sono netturbini a
Porto Venere? "Sì certo, eh", sorride il Nostromo, "ma loro
puliscono a terra. Non entrano in acqua. Noi siamo dell'associazione
Amici del mare. E puliamo il mare. Altrimenti bisogna aspettare che
lo sporco arrivi sulla spiaggia prima che lo raccolgano i
netturbini". Le piume si vedono, ma i colibatteri? "Ne ho sentito
parlare, ma non c'è divieto di balneazione", spiega il Nostromo,
"per queste cose dovete sentire il Comune". Nessuno però va a
raccogliere l'immondizia alla deriva davanti alla grotta. "No, resto
di qua del promontorio, in paese. Io", sorride ancora Giuseppe
Gioffré, "non ho più l'età".
In Comune il sindaco assicura che a Calata Doria l'acqua adesso è
pulita. "Lo confermano le analisi dell'Arpa, l'agenzia regionale per
la protezione ambientale", dice Salvatore Calcagnini: "La questione
si è risolta dopo quattro giorni. Abbiamo trovato un'incrinatura
nella condotta di una fognatura privata. È bastato quello per far
sballare i valori. Riparata la rottura, ora siamo perfetti. Abbiamo
anche approvato il progetto di una condotta che, con una serie di
pompe, collegherà lo scarico di Porto Venere alla rete di La
Spezia". In attesa che il progetto venga finanziato e realizzato,
la chiazza di immondizia, vento permettendo, continuerà a far
visita alla grotta Arpaia. Soprattutto in agosto, quando gli
abitanti di Porto Venere passano da poco più di 4 mila a 8 mila.
Apparirà nelle fotografie di innamorati, poeti, romantici. E
temerari, come Malcomx, così si firma un ragazzo su Internet che
proprio in questi giorni chiede al popolo dei blog: "Se mi tuffo da
25 metri in acqua dalla grotta Byron a Porto Venere, posso farmi
male?".
Duecentoquaranta chilometri lungo la costa e una traversata in
traghetto portano a Capoliveri, il paese sospeso tra cielo e mare in
cima alle salite dell'Elba. Anche qui la mancanza di
finanziamenti rischia di mettere in pericolo il grande paradiso
naturale. Dai 3.600 residenti invernali si passa d'estate a 40 mila
abitanti, più del 10 per cento di tutto il turismo dell'isola. Gli
scarichi fognari sono la principale minaccia all'ambiente. I liquami
finiscono al largo attraverso tre condotte subacquee. Se ne
parla molto in questi giorni. Perché in luglio le analisi di Goletta
verde rivelano livelli fuorilegge dei soliti batteri fecali: quattro
stelle di giudizio negativo davanti alla spiaggia di Margidore a
Lacona, nel comune di Capoliveri. Fino a giugno, secondo le analisi
dell'Arpa Toscana, i valori erano normali. E confermavano il solito,
lieve aumento che da anni si registra dopo le vacanze di Pasqua e
durante le ferie estive. Per raggiungere parametri almeno dieci
volte superiori al limite di legge qualcosa dev'essere successo.
"Siamo convinti che l'acqua sia sempre stata in buone condizioni",
risponde l'assessore all'Ambiente di Capoliveri, Milena Briano, "lo
confermano le analisi del 4 luglio dell'Arpa che saranno presto
pubblicate. Probabilmente i prelievi di Goletta verde sono stati
fatti involontariamente poco dopo lo scarico di liquami da qualche
imbarcazione. E questo può aver fatto salire i valori". Proprio in
questi giorni però il Comune di Capoliveri allaccerà alla rete
fognaria la nuova condotta subacquea di Margidore. Milleduecento
metri di tubatura che sostituiranno la vecchia messa sotto accusa
dopo i risultati di Goletta verde. Delle altre due condotte
sottomarine, quella del Lido è stata rifatta lo scorso anno. La
tubatura nuova sul fondale di Naregno, pronta per essere allacciata,
è già stata danneggiata da due ancoraggi maldestri.
Isola d'Elba
La
sostituzione dei tubi corrosi può ridurre i rischi di inquinamento
sotto costa. Ma non elimina i liquami in mare. Perché non tutti gli
scarichi di Capoliveri (e di altri paesi dell'Elba) passano
attraverso i depuratori. E non tutti i depuratori funzionano.
Proprio a Lacona hanno costruito uno degli impianti più grossi. È
fermo da anni. Un cubo di cemento armato nella pineta dove corrono
le lepri. Le vasche di ossigenazione dell'acqua ricoperte di
erbacce. La solita cattedrale nel deserto. "Andrebbe riammodernato
con le nuove tecnologie", spiega l'assessore di Capoliveri, "ma i
comuni da soli non ce la fanno. Impegnarsi a costruire un grosso
depuratore per un Comune come il nostro significa bloccare tutte le
altre spese". L'isola d'Elba ha perso anni preziosi. Grazie a un
braccio di ferro burocratico tra comuni, agenzie pubbliche e
comunità montana. Perché qui, pur essendo l'isola più grande
della Toscana, valevano le stesse regole di Courmayeur. L'ultima
speranza per trovare in fretta finanziamenti è accettare senza
modifiche la proposta del ministero dell'Ambiente sull'istituzione
del parco marino. E in cambio chiedere allo Stato di pagare i
depuratori. Ma, come previsto, non tutti gli imprenditori sono
d'accordo.
Molti proprietari di hotel, ristoranti e bar non sembrano affatto
sensibili alla questione dei depuratori. Anzi, come a Porto Venere,
fanno di tutto per sottrarre il loro contributo alle spese
pubbliche. Sperare di avere da loro uno scontrino è come chiedere
una sigaretta a una comitiva di non fumatori. Non deve sorprendere.
Per non pagare le tasse ai francesi, la gente di Capoliveri ha osato
tenere testa a Napoleone e al suo esercito. Figuriamoci che effetto
possono fare gli appelli di Romano Prodi. Alla fine, i turisti
non mancano. L'acqua, anche a Lacona, è trasparente. E pesci,
balene, tursiopi, zifi, stenelle continuano a frequentare la zona.
Cristiano Perego, 45 anni, guida e amministratore della scuola di
sub a Lacona, accompagna ogni giorno decine di appassionati.
"Stamattina abbiamo visto un banco di barracuda sopra di noi.
Bellissimi", racconta. Il problema che più preoccupa chi porta i
turisti in mare non è l'inquinamento: "Se c'è, lo risolveranno",
dice Perego: "Il problema è la proposta di protezione marina del
ministero. Se la applicano così com'è, ammazzano realtà economiche
che già esistono. Perché nelle riserve integrali che vogliono
istituire noi non potremo entrare nemmeno con le barche a remi".
Al di là degli Appennini, in fondo a 420 chilometri di curve e
saliscendi appare, solitario, il monte Conero. È il paradiso più a
Nord dell'Adriatico. Il poggio meridionale della montagna di calcare
e ginestre nasconde Numana, la spiaggia bandiera blu
che con Sirolo da anni è il borgo più fotografato per pubblicizzare
le vacanze nelle Marche. Non vengono fin qui soltanto turisti
italiani e stranieri. Anche tartarughe e delfini sono attratti
dall'acqua del promontorio che il giro delle correnti mantiene
limpida. L'anno scorso due tartarughe, Jacopo e Titania, sono state
pescate e rilasciate con un trasmettitore satellitare per una
ricerca diretta dall'Università di Pisa. Jacopo lo hanno trovato
morto in settembre: ucciso, sembra, dalle reti di un peschereccio.
Titania ha trasmesso un nuovo segnale poco prima delle 10 di mattina
del 6 agosto. È al largo della Libia (il suo percorso può essere
seguito sul sito seaturtle.org). Ma basterebbe un temporale
più forte degli altri. Oppure una piena fuori stagione. E Numana
perderebbe il suo patrimonio. La minaccia è il Musone, il fiume
delle grandi querce, che segna il confine del territorio comunale e
il limite tra le province di Ancona e Macerata. Proprio questo è
il problema: il confine. "Le province di Ancona e di Macerata
non si mettono d'accordo su chi deve intervenire", dice il sindaco
di Numana, Mirko Bilò, confermando una tradizione nella storia di
questa terra: "E noi paghiamo il prezzo. Noi e i comuni vicini
mandiamo i nostri scarichi al depuratore. Nessuno però controlla
cosa scende dai paesi a monte".
In luglio i prelievi di Goletta verde bocciano la qualità dell'acqua
lungo la spiaggia alla foce. Quattro stelle, cioè dieci volte oltre
i limiti di streptococchi o coliformi fecali. Stesso giudizio del
2006. Dieci anni fa andava meglio. Il solito scherzo delle correnti
lascia pulite le spiagge a Sud del Musone: da Scossicci a Porto
Recanati. E spinge i liquami verso Nord. Così anche una perla del
mare come Numana ha la sua zona vietata alla balneazione.
"L'area vietata si allunga per seicento metri dalla foce", spiega
Luca Amico, geologo e direttore della Protezione civile comunale,
"poi l'acqua del fiume si diluisce e i livelli rientrano nella
norma. Fino alle spiagge con la bandiera blu, dove l'inquinamento
manca del tutto. La zona di divieto della balneazione è facile da
trovare. Dovrebbe essere indicata dai cartelli".
I cartelli invece non ci sono. Quando il Comune li mette,
qualcuno li toglie. Forse perché i bagni privati ad appena 350
metri dalla foce sono i più cari di tutta la riviera del Conero:
16,50 euro al giorno per ombrellone, due lettini e un tuffo
nell'acqua torbida contro i 13,50 di Numana Bassa, la spiaggia per
anni premiata con la bandiera blu a oltre due chilometri dalla foce.
Anche nei campeggi dalle parti del fiume i prezzi non scherzano. Una
settimana in bungalow a quattro stelle con aria condizionata può
costare fino a 1.140 euro. Numana, per gli imprenditori del turismo,
vale la sua fama. Nessuno è disposto a fare sconti. Almeno fino a
quando il precario equilibrio ambientale non si romperà.
L'inquinamento non è solo dovuto alle fogne senza depuratori. Le
fabbriche hanno una quota di responsabilità. Soprattutto le piccole
imprese che producono crocefissi e Madonne in argento, ottone e
altri metalli più o meno preziosi. La zona industriale di Loreto, ai
piedi del colle con il grande santuario, esporta arte sacra in tutto
il mondo. E proprio lì, a valle dei nuovi capannoni, il Musone puzza
di solventi e detersivo. Cinquanta chilometri a monte, il fiume è
già inquinato dal limo delle cave. Come a Cingoli, con gli scarichi
nascosti dalla vegetazione, il grande lago di decantazione dei
fanghi e la diga che lo contiene. Un muraglione di terra alto dieci
metri che sovrasta la campagna, una strada e qualche casa. Non
sembra molto rassicurante, in una zona sismica come le Marche. Crepe
profonde e larghe più di una mano attraversano la sommità della
diga.
A pochi minuti di macchina da Numana, Pasquale Rinaldi, 72 anni,
ogni sera scende a controllare il fiume nel borgo di Villa Musone.
Le ultime carpe sono morte il mese scorso. "È arrivato un limo denso
come cemento liquido", racconta, "quando è così, anche i pesci
soffocano. C'erano quintali di carpe morte sommerse dalla melma.
È per questo che in alcuni giorni il mare è torbido. Ma nessuno va a
punire i responsabili". Da anni Pasquale Rinaldi appoggia la sua
bicicletta a un albero e si ferma accanto al canneto a guardare la
corrente. Viene qui perché, dice, è appassionato di pesca.
Quest'anno però non c'è più niente da pescare.
9 agosto

India e Bangladesh,
una terra alla deriva
Quasi 500 morti in dieci giorni, ben oltre un
migliaio da giugno, decine di milioni di sfollati: le
grandi piogge travolgono l'Asia meridionale. Ampie zone
non hanno ancora ricevuto aiuti, e molti protestano
Paola Desai
L'acqua, e poi la fame. Oltre trenta milioni di persone
in India una ventina in Bangladesh e altre ancora in
Nepal meridionale sono in balia delle alluvioni causate
dalle piogge battenti di questa stagione di monsone. O
forse di più, alcune agenzie umanitarie parlano di 30 m
ilioni. Almeno 487 persone sono morte in dieci giorni,
superano il migliaio da quando sono cominciate le piogge
in giugno. Nella sola India 14 milioni sono sfollati.
E ora che il ritmo delle piogge calaa, e le acque
cominciano (molto lentamente per la verità) a recedere,
quei 20 o 30 milioni di persone affrontano il rischio di
fame e della mancanza di acqua potabile. Non che le
piogge siano finite, avvertono i meteorologi, ma forse
il peggio è passato - per quanto riguarda ciò che cade
dal cielo. Non così sul terreno: cibo, acqua potabile e
medicine sono l'emergenza, governi e agenzie umanitarie
sono in corsa per assistere gli sfollati e raggiungere
le zone remote: ma molti non hanno ancora visto alcun
aiuto, le cronache segnalano scontri e proteste...
Stiamo parlando di una zona che va dalle terre
affacciate sul Golfo del Bengala (il Bangladesh e il
Bengala occidentale in India) alla parte orientale
dell'immensa pianura del Gange con gli stati del Bihar e
parte dell'Uttar Pradesh, fino alle prealpi
dell'Himalaya. La zona più disastrata probabilmente è il
Bihar, rurale e povero: là si trovano 12 di quei venti
milioni di persone colpite, mentre centinaia di migliaia
di persone sono homeless e alla deriva.
Le vittime sono persone annegate, uccise da serpenti
velenosi, o più banalmente dalla fame o malattie, o
schiacciate dal crollo di muri o pali della corrente
elettrica trascinati dall'acqua. O morte nel naufragio
di battelli e barche con cui cercavano di mettersi in
salvo: lunedì l'episodio più grave, un n aufragio sul
Gange (13 morti recuperati e una 50ina di dispersi).
Quello che ora preoccupa le autorità nelle tre nazioni
alluvionate è distribuire i soccorsi. Molte strade sono
allagate e non percorribili, così in India ad esempio le
autorità procedono con lanci di pacchi di cibo e
medicinali nei villaggi non raggiungibili via terra. Ma
quattro elicotteri dedicati a questo compito non
bastano, lamentano gli operatori di agenzie umanitarie
come l'Unicef, che ieri ha diffuso una nota allarmata
sull'emergenza sanitaria: l'acqua è il vettore ideale
per molte malattie, a cominciare dalle malattie
diarroiche se non c'è altro da bere che l'acqua dei
fiumi. «Milioni di bambini sono a rischio», dice
l'agenzia dell'Onu per l'infanzia: in effetti i bambini
sono il 40% della popolazione, in Asia meridionale.
Un cronista dell'agenzia Reuter ieri ha raggiunto
Sekhpur, villaggio come tanti altri sulle rive del Gange
in Bihar. Ecco cos'ha trovato. «Circondato dall'acqua,
il signor Rupesh Kumar, 23 anni, si mette a ridere alla
domanda se la sua famiglia abbia ricevuto gli aiuti
lanciati dagli elicotteri. "Lanci aerei? Scordatelo, non
abbiamo neppure visto gli elicotteri e neanche una barca
delle autorità da quando è cominciata l'alluvione 15
giorni fa", risponde Kumar, che fa l'agricoltore».
La popolazione alluvionata è stata lasciata a
contendersi i pochi rifornimenti di cibo, continua la
reuter. «In Bihar migliaia di persone ormai infuriate
aspettano soto ripari improvvisati con teloni lungo le
strade e gli argini, da cui lo sguardo abbraccia solo
distese d'acqua e i tetti di bambù di case semisommerse.
«Siamo affamati, stiamo quasi morendo» dice affranta
Radhika Devi, sulla 40ina, accovacciata all'entrata del
suo precario riparo fatto con pali di bambu e una tela
cerata gialla che svolazza nel vento, minacciando di
volare via. Devi vive in quella casa improvvisata al
lato della strada con una decina di familiari, e dice
che la famiglia ha ricevuto dalla autorità un chilo di
riso spezzato in dieci giorni: «Non è bastato neppure
per un giorno", dice».
Le agenzie umanitarie dicono che i soccorsi alimentari
non stanno arrivando dove sono più necessari, e che
alcune zone sono del tutto isolate da oltre una
settimana. I soccorsi non sono adeguati alla realtà sul
terreno, accusano alcune Ong. Le cronache riferiscono
anche episodi criminali: nello stato dell'Assam, India
nord-orientale, la polizia conferma che gli abitanti di
alcuni villaggi hanno sorpreso i notabili politici e gli
amministratori locali mentre rubavano e facevano
accaparramento dei rifornimenti di cibo destinati agli
sfollati, preludio al mercato nero.
Le cose sono difficili anche nel vicino Bangladesh, dove
migliaia di sfollati sono raccolti in campi profughi:
questo rende più facile distribuire aiuti, ma la
macchina umanitaria si è messa in modo con lentezza. E
anche in Bangladesh restano ampie zone ancora isolate. E
poi qui l'alluvione riguarda anche le vicinanze di
Dakha, la capitale, città di 11 milioni di abitanti
circondata di fiumi e canali. Il monsone è essenziale
alla vita e all'agricoltura di gran parte del
subcontinente indiano, le piogge sono attese con
impazienza, i raccolti ne dipenderanno: ma oggi quelle
terre sommerse sono in ginocchio. Senza contare che
nell'ultimo mese il monsone ha provicato alluvioni in
ampie zone del Pakistan meridionale a ovest, e in gran
parte della Cina meridionale a est.
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Una campagna divina |
Paraguay, è partita ufficialmente la campagna elettorale
dell'ex vescovo cattolico prestato alla politica, Fernando Lugo
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Di tempo a dire il vero ce n'è ancora molto
a disposizione ma Fernando Lugo, ex vescovo paraguyano regalato
alla politica non ne vuole perdere. Le elezioni presidenziali
non sono certo alle porte, la tornata elettorale è prevista per
il 20 aprile 2008, ma è meglio portarsi avanti con il lavoro.
I
fatti. La campagna elettorale dell'opposizione
paraguayana formata dalla coalizione Concertacion Nacional,
anche se con qualche defezione, è definitivamente partita. Dalla
città di Villa Hayes, Lugo ha parlato a lungo ai suoi possibili
elettori. “La nostra coalizione è il frutto di una richiesta
unanime che arriva dalla gente che lavora nei campi che ci
rafforza nel restare uniti e ci darà la forza per portare a
termine un vero cambio, quello di cui la gente ha bisogno” ha
detto l'ex prelato che da circa un mese è diventato
ufficialmente il candidato presidenziale. Come in tutte le
migliori famiglie politiche, però, la coalizione si scontra
sulla scelta del candidato alla vice presidenza. Nessun nome,
per il momento, ma l'unica certezza che su questo argomento ci
sarà molto da discutere: il braccio destro di Lugo se vincerà le
elezioni potrà essere un dirigente del Partido Liberal radical
Autentico, la seconda forza politica del Paese.
Questa decisione ha lasciato perplessi gli
aderenti a Partido Patria Querida e all'Union Nacional De
Ciudadanos Eticos, rispettivamente seconda e terza forza
politica dello schieramento di opposizione. Concertaccion
Nacional, oltre ai classici partiti politici congloba al suo
interno anche i movimenti in difesa dei contadini, dei diritti
civili e tutta la società civile del paese sudamericano.
Un
prete scomodo. La candidatura di Fernando Lugo ha suscitato
in Paraguay e non solo molte polemiche.
I vertici ecclesiastici avevano tuonato
contro la sua scelta di scendere in campo e giocare una partita
politica di notevole importanza. “Mi offro alla politica per
dare il mio contributo a costruire un paese senza esclusioni”
aveva detto e ripetuto l'ex vescovo emerito di Asuncion. E
Fernando Lugo non si era fermato nemmeno davanti alla scomunica
paventata dalla chiesa cattolica in caso avesse deciso di andare
avanti per la sua strada. Ma tant'è; oggi che la posizione di
Lugo è chiara i sondaggi lo danno come favorito a rappresentare
l'opposizione alle elezioni. Dietro di lui spicca, però,
un'altra figura emblematica del Paraguay: l'ex generale golpista
Lino Oviedo che però non potrà partecipare alla tornata
elettorale in virtù di una condanna a dieci anni di reclusione
inflitta da un tribunale per aver partecipato al tentativo di
golpe nel 1996. Per farlo partecipare alle elezioni i suoi
avvocati stanno cercando di portare il caso davanti alla Corte
Suprema, l'unico organismo in grado di rivedere la sentenza.
La battaglia politica, dunque, ha avuto
inizio. La maggioranza della popolazione del Paraguay ha la
speranza che le prossime elezioni portino alla luce una figura
di spicco capace di far entrare il Paese nel processo di
sviluppo socio-economico in atto in quasi tutta l'area
latinoamericana. Per le risposte appuntamento al prossimo mese
di aprile 2008.
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5 agosto
L'amico colonnello |
La Francia vende armi alla Libia, subito dopo il lieto fine
per le infermiere bulgare |
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Dieci giorni fa la trionfale missione libica di Monsieur Sarkozy
e signora, per riportare a casa le sei infermiere bulgare e il
medico palestinese condannati a morte. Ora una cospicua
fornitura di armi, la prima dopo la revoca dell'embargo
internazionale al regime di Muhammar Gheddafi. C'è un legame tra
i due eventi? Il figlio del colonnello lo ha ammesso
candidamente, il presidente francese nega, il leader
dell'opposizione a Parigi vuole un'inchiesta parlamentare per
appurare i fatti. Dovunque stia la verità, la vendita di missili
e radio militari a Tripoli conferma che la Libia, fino a qualche
anno fa considerata uno sponsor del terrorismo internazionale, è
di nuovo un soggetto con cui fare affari.
L'accordo.
Venerdì 3 agosto la Eads – il colosso aerospaziale europeo
nato dalla fusione tra compagnie francesi, spagnole e tedesche –
ha confermato la vendita alla Libia, per 168 milioni di euro, di
missili anticarro “Milano” da parte della sua controllata Mbda,
una joint venture tra la Eads, la britannica Bae Systems e
l'italiana Finmeccanica. Un secondo contratto da 128 milioni di
euro per la vendita di sistemi avanzati di comunicazione
militare “è in corso di finalizzazione”, ha aggiunto il
comunicato della compagnia. Secondo la Eads, l'accordo è
arrivato dopo un anno e mezzo di trattative, concluse con una
stretta finale iniziata lo scorso giugno.
Nuovi affari. Tutta iniziativa privata, o c'è la mano del
governo francese? Se anche così fosse, sarebbe legale: l'Unione
Europea ha tolto l'embargo alla fornitura di armi alla Libia
nell'ottobre 2004, dopo che Gheddafi accettò di risarcire i
parenti delle vittime dell'attentato di Lockerbie nel 1988,
quando un aereo di linea statunitense precipitò uccidendo 270
persone. In un'intervista concessa a Le Monde Saif
al-Islam Gheddafi, uno dei figli del colonnello, ha ammesso che
la soluzione della vicenda delle infermiere bulgare ha spianato
la strada all'affare tra Parigi e Tripoli, accennando anche a
operazioni militari congiunte. Soprattutto, il giovane Gheddafi
ha affermato che la Francia ha accettato di risarcire, con 338
milioni di euro, le famiglie dei bambini libici che hanno
contratto il virus Hiv nell'ospedale dove lavoravano le
infermiere bulgare. “Non so dove abbiano trovato i soldi”, ha
detto.
Le
polemiche. Sarkozy ha negato qualsiasi correlazione tra la
liberazione delle infermiere e la vendita di armi, anche se un
suo portavoce ha concesso che il blitz libico del presidente
francese ha “accelerato le cose a vantaggio delle compagnie
francesi”. Ma nonostante il colonnello abbia fatto mea culpa per
rilanciarsi a livello internazionale, fare affari con lui per
molti rimane tabù. Il leader dei socialisti francesi, Francois
Hollande, vuole vederci chiaro e non accetta il fatto che ora
Gheddafi sia un interlocutore degno. “Se non c'è stato nessuno
scambio, nessun baratto, perché è stato firmato un accordo
militare con il regime di Gheddafi, un ex 'stato canaglia'
responsabile di atti di terrorismo?”, ha detto Hollande. Per il
ministro della difesa, Hervé Morin, queste critiche
costituiscono una “procedura sistematica per demolire un vero
successo diplomatico francese”. E comunque sia, ha aggiunto
Morin, il beneplacito all'accordo fu dato lo scorso febbraio
dall'allora presidente Jacques Chirac. Se è vero, Sarkozy è
passato presto al sodo.
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3 agosto
La distrazione dell'Occidente
Un richiamo disperato alla nostra indifferenza
di
GABRIELE ROMAGNOLI
Ci voleva la mano di cinquecento bambini per dirci che
la storia dell'orrore non ha tempo né luogo. È un pozzo universale dove
cadono le vittime dei massacri, unite dalla stessa catena. Dai villaggi del
Darfur a quelli della Bosnia, dagli accampamenti degli indiani d'America
alle città sudamericane saccheggiate dai conquistadores, la stessa linea di
sangue e un unico tratto di matita. Metti che i disegni consegnati come
materiale probatorio dalla Corte internazionale di giustizia fossero finiti
sulla scrivania di qualcuno chiamato a interpretarli senza conoscerne la
provenienza, che cosa avrebbe potuto dedurne?
Che siamo davanti all'ennesimo capitolo troppe volte già affrontato e solo a
parole superato. È accaduto qualcosa di terribile ("morte" "morti", scrivono
in didascalia sotto i cadaveri). Le vittime abitavano in villaggi, in case
semplici come la vita che conducevano. I massacratori venivano dalla città.
Le prime si muovevano a piedi. I secondi avevano quanto meno cavalli, ma
anche veicoli a motore, carri armati, elicotteri, addirittura aerei per
quanto dagli allegri colori. Le une, se reagivano, lo facevano tirando
frecce dagli archi. Gli altri disponevano di armi tecnologicamente avanzate.
E, ah sì, inevitabilmente, gli aggressori avevano la pelle più chiara, gli
aggrediti la pelle scura. Sono rispettate in pieno le condizioni di base del
massacro modello.
Ma ci sono anche le modalità ulteriori. Un disegno mostra un edificio le cui
porte sono sprangate (benché da ingenui lucchetti), probabilmente dopo
averci rinchiuso dentro centinaia di persone e in attesa della spianata dei
bulldozer, come accadeva durante il conflitto etnico in Ruanda. Un altro,
l'elicottero che uccide dal cielo, come in Vietnam, dove era "piacevole
l'odore del napalm al mattino". In un terzo il fiume trascina i cadaveri,
come avveniva negli insediamenti dei pellerossa spazzati via dai soldati con
la giubba. I massacratori si portano via le donne come bottino di guerra,
torturano i bambini, decapitano i morti. Come in Bosnia. E altrove.
Questa dei bambini del Darfur è veramente una galleria universale. Lo
specifico è dato soltanto dai tetti di paglia delle capanne, dalla pancia
gonfia di donne e bambini denutriti, dalle scritte d'accompagnamento, che
qualcuno ha tracciato in arabo, altri in francese. O forse c'è anche
qualcosa di più e d'altro, ma noi non siamo in grado di accorgercene perché
a quel che accadeva in Sudan abbiamo prestato un occhio disattento, appena
distraendoci dall'Iraq o da Gaza (a essere ottimisti e a non dire da Corona
e Ricucci), quando il grido di dolore veniva levato non tanto dagli orfani,
quanto da Angelina Jolie (per i più coscienziosi, anche da Emma Bonino).
A ben pensarci, la sensazione di orrore più profonda che questi disegni
comunicano è proprio la nostra capacità di riconoscervi qualcosa che abbiamo
già visto altrove e con questo abbassare la nostra soglia d'attenzione e di
ribrezzo. Gli analoghi disegni dei bambini americani dopo l'11 settembre ci
stupivano perché ci riproponevano qualcosa di inedito e (forse, speriamo)
irripetibile. E perché ci trasmettevano la loro forza di reazione (Superman
ferma gli aerei prima che arrivino alle Torri) derivante dalla mancanza nel
Dna di ogni precedente trauma da massacro.
Questi disegni ci raccontano qualcosa che conosciamo e che in fondo,
cinicamente, pensiamo sia inevitabile debba ripetersi, in luoghi lontani dai
nostri riflettori e dai nostri interessi economici. Sono una prova, non solo
di quanto accaduto nel Darfur, ma anche della nostra indifferenza passata e
futura.
1 agosto
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Voci illustri
contro il muro |
Il presidente
argentino Nestor Kirchner coglie l'occasione
durante la sua visita in Messico e critica il
muro voluto dagli Usa per difendersi
dall'invasione di immigrati clandestini |
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Il presidente argentino
Kirchner durante la sua visita in Messico
definisce il muro di frontiera “vergognoso”
e lancia un appello in favore del dialogo e
della pace fra i popoli.
Una speciale task force
di specialisti sostiene che la barriera
comprometta anche la biodiversità dell'area,
ricca di flora e fauna.
Kirchner
e il muro. Non si è fatto pregare, non
ha aspettato che qualcuno lo indirizzasse
per il verso giusto. Il presidente argentino
Nestor Kirchner durante la sua visita in
Messico che terminerà oggi, ha voluto dire
la sua sul muro che delimita la frontiera
fra Messico e Stati Uniti. “E' vero
oltraggio per tutti i popoli dell'America
Latina” ha puntualizzato il peronista
Kirchner che anche in questa circostanza ha
dimostrato di voler lavorare a fondo per
l'integrazione regionale latinoamericana.
Impegnato in un dsicorso
ufficiale davanti a decine di rappresentanti
del Senato messicano, il leader argentino ha
chiesto simbolicamente all'amministrazione
di Washington di riflettere a fondo
sull'opportunità di continuare nei lavori di
costruzione di quello che ha definito senza
paura “il muro della vergogna”. E non ha
nemmeno perso l'occasione per sottolineare
le evidente differenze fra il suo pensiero
di mondo e quello, facilmente presumibile,
dei nordamericani. “Il mondo deve andare
avanti per altri tipi di cammino – ha detto
Kirchner – che sono quelli della pace, della
conciliazione, della convergenza e del
rispetto delle diversità. Per andare avanti
servono migliori relazioni bilaterali e il
rispetto a tutte le nazioni del mondo”.
Chiari i riferimenti alla guerra in Iraq
portata avanti ormai da anni dagli Usa che
ha giù causato più di 3.500 morti fra i
soldati dello zio Sam e circa 655 mila
vittime irachene nel loro totale.
L'aspetto
ecologico. La barriera fra i due stati,
voluta dall'ex presidente Usa Bill Clinton e
visibilmente apprezzata anche dall'attuale
presidente rientrava nell'ottica del
progetto “Gatekeeper” o “Operacion Guardian”
che mirava, fra le altre cose, a bloccare
drasticamente l'immigrazione clandestina
proveniente da tutto il centro e sud America
via Messico.
Oggi il problema
immigrazione non è stato risolto, si calcola
che dal 1994 non sia mai diminuito il numero
di persone che entra senza documenti negli
Usa, ma altri questioni si affacciano lungo
la linea di confine. Il più attuale e forse
il più importante riguarda l'aspetto
ecologico del muro.
Uno studio realizzato da
più di 50 specialisti (gran parte dei quali
statunitensi) avrebbe messo in luce gli
aspetti inquinanti e fortemente deleteri
della presenza del muro tanto che il governo
di Città del Messico potrebbe decidere di
portare la questione davanti alla Corte
Internazionale di Giustizia dell'Aja.
Secondo gli studiosi, infatti, la presenza
della barriera artificiale presente in
un'area di circa 100 mila chilometri
quadrati metterebbe a rischio la vita di
innumerevoli specie animali, come l'orso
nero messicano e il giaguaro che già sono
specie in serio pericolo d'estinzione. Ma,
prima di ricorrere a queste misure estreme
il governo messicano è disposto a analizzare
anche altre ipotesi. Ad esempio si pensa
alla costruzione di un corridoio ecologico
che non sia in alcun modo utilizzabile dai
clandestini e dai loro sfruttatori.
“Il muro in costruzione
pone in serio pericolo l'ecosistema che si
dividono i due paesi e le specie animali che
lo abitano”, dice Juan Rafael Elvira dalla
segreteria del ministero dell'Ambiente
messicano.
La
frontiera sud. Forse per spostare
l'attenzione su nuovi obiettivi, forse per
far vedere che i controlli di polizia
funzionano bene, dalla frontiera sud del
Messico con il Guatemala giungono notizie
inquietanti. Decine di immigrati irregolari
provenienti da ogni angolo del centroamerica
sono stati scoperti all'interno di camion
che transitavano la frontiera. Per una cifra
che si aggira fra i 3 e i 6 mila dollari i
clandestini credono di comprarsi un nuovo
stile di vita che li possa condurre con
facilità alla conquista dell'american
dream. Ma non sempre tutto funziona per
il verso giusto e ci si ritrova a dover
tristemente fare il conteggio delle vittime
di quello che è considerato uno dei traffici
più redditizi per le organizzazioni
malavitose presenti in sudamerica. Nelle
ultime settimane, infatti, più di 300
clandestini sono stati “scoperti” mentre
tentavano di entrare clandestinamente in
Messico. Erano quasi tutti in condizioni di
salute pessime.
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