Archivio notizie Agosto 2007

 

 

28 agosto

 

La denuncia delle associazioni dei consumatori: le scuole ignorano i tetti di spesa .

Maglia nera a Napoli: alla media "Falcone" per i testi si spenderanno 394 euro.

Il salasso di libri, zaini e diari, nel nuovo anno rincari fino all'11%

Per evitare la stangata, meglio gli ipermercati e i mercatini del libro usato.

Il ministero: "Vigiliamo sul rispetto dei limiti fissati". La Cgil: "Aumenti ingiustificati".

di DANIELE SEMERARO

ROMA - Le vacanze stanno ormai per terminare e per migliaia di genitori italiani si riaffaccia il problema dell'acquisto dei libri e del materiale scolastico. E anche quest'anno dalle ricerche delle associazioni che tutelano i consumatori emergono aumenti, nell'ordine dell'11 per cento circa, sia per l'acquisto dei libri che per il cosiddetto corredo scolastico (astucci, diari, zaini).

Un'indagine di Altroconsumo su 355 classi di 55 scuole medie a Milano, Roma e Napoli dimostra che, pur avendo il ministro dell'Istruzione Fioroni indicato un tetto di spesa di 280 euro per alunno, questo non venga quasi mai rispettato, con aumenti che possono arrivare anche a 394 euro, cifra che dovranno sborsare i genitori degli alunni che frequenteranno la sezione "D" della scuola "Giovanni Falcone" di Napoli. E proprio al capoluogo campano, con circa 300 euro di spesa media per la dotazione libraria (e di conseguenza uno sforamento dei limiti imposti dal Ministero) spetta la maglia nera. Un po' meglio a Milano e Roma, con 275 euro di spesa media. Inoltre, in una classe su quattro si spenderà di più di quanto si è speso lo scorso anno.

La ricerca mette poi in luce che a sforare il tetto di spesa sono poco meno della metà delle classi considerate, con una percentuale che sale al 65 per cento nel capoluogo partenopeo. Le classi che superano il tetto rimanendo al di sotto del 10 per cento (con una spesa fino a 308 euro) sono il 29 per cento, mentre quelle che superano i 308 euro sono 54 (quindi il 15 per cento del totale), di cui la maggior parte, ancora, a Napoli. Deludente anche il monitoraggio effettuato presso le scuole medie che l'anno scorso avevano sforato: 20 su 35 lo hanno fatto anche quest'anno.

Il Ministero dell'Istruzione il 22 maggio scorso aveva fissato i tetti per la dotazione libraria per il 2007-2008, confermando sostanzialmente quelli decisi per il 2006: 280 euro per la prima media, 180 per la seconda, 124 per la terza. Il decreto permette uno sforamento dei tetti del 10 per cento, se quello che si paga in più viene poi recuperato gli anni successivi (situazione che però puntualmente poi non si verifica). I risultati dell'inchiesta, fa sapere Altroconsumo, sono stati inviati al ministro Fioroni "affinché provveda a rivalutare le scelte di manica larga degli istituti scolastici", vigilando di più sulle adozioni dei testi.

I rincari non si fermano però solo ai libri di testo: secondo Federconsumatori quest'anno la spesa delle famiglie italiane per mandare i figli a scuola (considerati anche per astucci, zaini e diari) è cresciuta dell'11 per cento rispetto al 2006. A lievitare maggiormente sono i costi del corredo scolastico: gli accessori come quaderni e matite colorate incideranno, a seconda dell'età del ragazzo, fino al 7,2 per cento rispetto allo scorso anno. A far crescere i prezzi, come sempre, le pubblicità, che consigliano a ogni inizio d'anno di acquistare nuovi articoli, nonostante sia possibile nella maggior parte dei casi riutilizzare quelli dell'anno precedente.

Adusbef e Federconsumatori consigliano di effettuare le proprie spese presso i supermercati e gli ipermercati, dove il risparmio rispetto alle cartolerie può arrivare anche al 25 per cento. Per i libri, invece, dove possibile è sempre meglio comprarli usati: ormai ogni città ha il suo mercatino, e muoversi in tempo può portare a fare dei veri e propri affari.

"Accogliamo le segnalazioni pervenute in merito al superamento dei tetti di spesa per la scuola media che vanno ad integrare le rilevazioni effettuate e le azioni di controllo attualmente in corso dalle singole regioni da parte degli Uffici Scolastici Regionali", comunica in una nota il direttore generale per gli Ordinamenti scolastici, Mario Giacomo Dutto. "Il ministero - continua la nota - è impegnato a rendere agevole la partecipazione alla scuola con misure che limitino il più possibile il peso economico a carico delle famiglie".

"Anche quest'anno - sottolinea Dutto - le scelte dei libri di testo sono state oggetto di monitoraggio esteso e di dettaglio soprattutto per quanto si riferisce ai costi e al rispetto dei tetti di spesa fissati per la scuola media. Già prima della fine di luglio sono stati informati tutti i direttori scolastici regionali e a quella data la copertura dei dati riguardava per le scuole medie il 95% delle scuole statali. Su questa base i direttori regionali sono in grado di individuare le scuole nelle cui classi la scelta dei libri di testo ha comportato il superamento dei tetti previsti; il controllo è tuttora in corso".

Il caro-prezzi per libri, zaini e diari ha suscitato immediatamente la reazione dei sindacati. Il segretario generale della Cgil Scuola, Enrico Panini, ha definito gli aumenti "ingiustificati". E ha proseguito: "Temo che, a causa dei tagli alle risorse degli enti locali, i rincari riguarderanno anche i servizi scolastici, come mensa e trasporti, che sono di loro competenza". Per la Cgil il problema del 'caro scuola' può essere arginato solo col rilancio delle politiche per il sostegno allo studio. Se "il corso degli studi si è allungato molto nel tempo", determinando "un costo insostenibile per le famiglie", l'unica soluzione è l'istituzione di una "Banca del tempo educativo, che si configuri come un contributo economico dello Stato per ogni anno di studio".

 

Non sparo più

Da cecchino in Iraq ad attivista contro la guerra. La storia di Eleonai 'Eli' Israel

pubblicato su Courage to Resist*

Due mesi fa, ho preso una decisione che ha cambiato la mia vita per sempre. Come soldato, un agente Jbv (Joint Visitors Bureau n.d.r.) del servizio di sicurezza, e come cecchino dell'esercito che ha trascorso un periodo di un anno in Iraq (prendendo parte ad oltre 250 missioni di combattimento), mi sono rifiutato di continuare a far parte dell'occupazione. Non ho rimpianti. Questa è la mia storia. In questo momento, ora che scrivo, sono parcheggiato qui in Kuwait, in “stand by”, attendendo di tornare negli Stati Uniti, spero un giorno di questa settimana. Dopo essere uscito dal carcere militare la scorsa settimana, è ora previsto il mio congedo dalle forze armate entro questo mese. Sono in attesa di potermi unire ai movimenti che si oppongono al conflitto in Iraq, come ad esempio Courage to resist e Iraqi Veterans Against the War
Cosa è stato a condurre qui la mia vita?

L'arruolamento. La prima volta sono entrato nel Corpo dei Marines degli Stati Uniti nella primavera del 1999, nel mese del mio diciottesimo compleanno. Sono cresciuto sotto la custodia dello stato del Kentucky, e avendo soltanto sporadici contatti con i miei genitori naturali, dall'età di tredici anni. Non avevo nessun sostegno di tipo familiare, e sono presto finito sulla strada, a fare ciò che fanno tutti i ragazzi di strada.
Ancor prima di aver compiuto 16 anni avevo conosciuto le droghe pesanti. Ho smesso di andare a scuola a metà del nono livello ed ero esperto soltanto di astuzie da strada, sentivo in me una incontrollabile spinta all' ambizione e avevo modi da duro.
Quando entrai nella stazione di reclutamento ho appreso che per poter entrare a far parte del corpo dei Marines, avrei dovuto essere in possesso di un diploma di high school oppure di un Ged (General Educational Development, un diploma equivalente a quello che si può ottenere al termine della high school, e che è previsto per coloro che da adulti vorrebbero recuperare e ottenere un titolo di studio equipollente n.d.r.), a meno che non avessi certi documenti di un college. Quando ho detto loro che avevo sedici anni e che avevo frequentato la scuola soltanto fino all'ottavo livello, mi hanno liquidato in fretta, pensando di non rivedermi. Si sbagliavano.
Non soltanto ho ottenuto il mio Ged, ma ho anche completato un semestre presso il college locale. Un anno e mezzo dopo, quando ho compiuto diciotto anni nel marzo del 1999, sono tornato in quella stessa stazione, ho parlato con lo stesso addetto al reclutamento, gli ho mostrato il mio Ged e i documenti del college, e ho provato per la prima volta una profonda sensazione di orgoglio.
Tredici settimane dopo il mio arrivo a Parris Island, ero cambiato per sempre. Mi sono laureato a capo di un plotone, in seguito ad una promozione per merito, ed ero pronto ad iniziare la mia fulgida carriera nel corpo dei Marines. Poi, arrivò l'11 settembre 2001.

Di nuovo nell'esercito, per la mia nazione. Come molti altri, dopo l'11 settembre volevo rimettermi al servizio della patria. Sentivo di poter dare alla mia nazione qualcosa in più, dopo gli anni di addestramento. Credevo fermamente che il mio presidente e i miei superiori mi stessero dicendo la verità. Avevo inoltre fiducia nella mia integrità. Sapevo che non avrei mai fatto volontariamente nulla che fosse immorale o sbagliato. Sono tornato nelle forze armate nel 2004, stavolta nell'Esercito della Guardia Nazionale. All'epoca pensavo che coloro che si mettevano al servizio della “Guerra globale al terrorismo” lo scegliessero perché credevano in ciò che stavano facendo, e non perché obbligati da un contratto oppure costretti a restare per via della politica statunitense dello stop-loss (nel 2004 l’amministrazione americana decise di mantenere in servizio le truppe coinvolte nella “lotta globale al terrorismo” prolungando il periodo di permanenza dei soldati contro la loro volontà, impedendone di fatto il ritorno a casa al termine del servizio volontario n.d.r.). Dopo aver visto la situazione sul campo, sono certo che mi sbagliavo. Nel 2006, mi sono imbarcato per l’Iraq.
In Iraq avevo il compito di agente di sicurezza presso il Jbv (Joint Visitors Bureau), ufficio che si occupava di garantire il servizio di sicurezza ai “generali a tre stelle e superiori e ai loro equivalenti civili”, vale a dire anche il Vicepresidente, il Segretario della Difesa, il capo del Joint Chiefs of Staff (che racchiude tutte le maggiori cariche a capo dei rami in cui si snodano le forze armate statunitensi n.d.r.), gli uomini con carica equivalente per ciascuno dei “nostri alleati”, e altri. Mi sono addestrato a fare il mio lavoro di membro di questa “unità speciale”, prima di essere impiegato, e ho trascorso la maggior parte dei miei viaggi in compagnia delle persone più potenti connesse alla “guerra globale al terrorismo”. Anche come agente Jbv, il mio compito principale restava la fanteria. Nei giorni in cui non erano previste missioni di sicurezza, potevamo essere chiamati per missioni “search and cordon” (missione di ricerca dei miliziani all’interno del cordone di sicurezza della città di Baghdad senza preavviso, in italiano “isola e ricerca” n.d.r.)e altri compiti di fanteria. Perciò, anche se lavoravo per il Jbv, ero anche nell’elenco di un plotone di cecchini impiegati in svariate missioni “fuori dalla zona di sicurezza”, come ad esempio lo sniper overwatch (letteralmente il pattugliamento dei cecchini n.d.r.)o le incursioni nelle case. Mi convincevo che le mie azioni trovassero una giustificazione nella “legittima difesa”. Ma comunque, sono arrivato a comprendere quanto sbagliata fosse la mia percezione. Ero in una nazione nella quale non avevo nessun diritto di stare, violando l’esistenza delle persone, e facendolo senza alcuna attenzione a mantenere gli stessi livelli di dignità e lo stesso rispetto che noi americani portiamo alle nostre case e alle nostre vite.

Distruggendo vite. Ho tolto e/o distrutto la vita di persone che stavano cercando soltanto di proteggere la propria famiglia, affinché non diventasse il “danno collaterale” del giorno. I giovani iracheni stanno unendosi a gruppi come Al Quaeda per gli stessi motivi che spingono i ragazzi di strada negli Usa a unirsi a bande come i Cribs o i Bloods. Si tratta di proteggere se stessi, di un senso di dignità, e di resistere.
Al ragazzo cui abbiamo “accidentalmente” ucciso il padre ed un cugino, con madre e fratelli che piangono ogni volta che un carrarmato attraversa il quartiere, non interessa sapere chi sia Osama Bin Laden. I “miliziani” che abbiamo attaccato erano solitamente molto simili ad un gruppo di controllo armato del quartiere che non riconosceva il governo. Nemmeno noi credevamo al governo, ma lo abbiamo ugualmente messo al potere! I nostri sacrifici, per quanto tragici ( e lo sono, tragici), sono minimi, se paragonati alla carneficina che è stata perpetrata contro la gente dell’Iraq. Il vero “successo” in Iraq non è una questione di “calo” del numero delle vittime nelle forze della coalizione. Il successo sarebbe la fine della catastrofe che abbiamo inflitto ad un’intera società, e il ripristino della sua dignità e sovranità.
Gli iracheni continuano a morire con un tasso dieci-venti volte superiore a quello delle forze della coalizione. Nella sola Baghdad, e dopo cinque anni e 950 miliardi di dollari spesi, la popolazione soffre per la mancanza di acqua ed energia, che può protrarsi anche per settimane. Il giorno in cui ho visto me stesso riflesso nello sguardo carico di odio di un giovane ragazzo iracheno che stava di fronte a me, è stato il giorno in cui ho capito che non avrei più potuto continuare a giustificare il mio prendere parte all’occupazione.
Provo invidia per quel soldato che è stato in grado di intuire l’ingiustizia di questa guerra da subito, e che ha il coraggio e la convinzione di opporsi ad essa. Ci sarà chi biasimerà i soldati che hanno volontariamente anteposto la propria morale all’ambizione politica. Ciò che importa è decidere. Non importa se hai scelto di non arruolarti affatto, o se ti sei reso conto dopo il tuo ingresso nelle forze armate di essere stato deluso da un livello di integrità di molto inferiore a quello che pensavi, il momento in cui hai capito quale era la verità, quello era il momento di fare una scelta. Il mio arrivò quando mi mancavano soltanto tre settimane di servizio in missione, durante l’anno che ho trascorso in Iraq. La consapevolezza della propria etica non ha un momento preciso per manifestarsi. Quando ho fatto la mia scelta, ho informato la catena di comando riguardo i miei convincimenti. Potevo già immaginare da questa prima conversazione che le cose non sarebbero andate bene da quel momento in avanti. Dissi loro che ritenevo illegale la nostra presenza in Iraq. Ho spiegato che non credevo più in una strategia politica di guerra, e che avrei fatto domanda per fare obiezione di coscienza. In parole povere, non potevo più in coscienza partecipare ad azioni di combattimento contro la gente irachena.

Mai più. Pochi secondi dopo aver pronunciato queste parole, la mia vita è cambiata. Ho sentito in me la più profonda sensazione di pace mai provata da più di un anno. Ero certo di aver fatto la cosa giusta. Subito dopo, sono stato disarmato, messo in isolamento, e mi è stato proibito di avere contatti con qualsiasi famigliare o parente.
Sono stato messo illegalmente in isolamento, su di una branda in una sala operatoria, sorvegliato 24 ore su 24, seguito da una scorta persino al bagno, prima di essere formalmente accusato, due settimane più tardi, di aver rifiutato di eseguire un ordine. Sono rimasto confinato fino a quando non mi sono dichiarato colpevole (non avevo molta scelta) ,meno di una settimana dopo questi fatti. Sono stato immediatamente trasferito a Camp Arifjan, in Kuwait, per restare trenta giorni dentro la prigione locale. Sono stato rilasciato l’altro giorno e ora sto per essere “cacciato” con un “tutt’altro che onorevole” congedo. Non rimpiango nulla. Una volta che ho parlato al mio comando chiarendo le mie convinzioni, e una volta che i miei superiori hanno capito che non mi sarei fatto intimidire, hanno deciso di iniziare contro di me una “guerra dell’informazione”.
Avevo molti amici contrari alla guerra su My Space e altri canali internet che divulgavano informazioni riguardo la mia prigionia e le facevano circolare in tutto il mondo, letteralmente in un baleno. Prima che lo sapessi, fui convocato nell’ufficio del sergente capo e iniziarono a lamentarsi e ad urlare perché i loro nomi apparivano “dappertutto su internet”. Non hanno cercato di negare le cose che venivano dette di loro, o il fatto che io fossi stato maltrattato e che loro rifiutassero di riconoscere la mia richiesta di fare obiezione di coscienza, bensì erano infuriati per via dell’esposizione mediatica cui erano sottoposti.

Il soldato al contrattacco. Il giorno dopo mi dissero che ero stato “segnalato” come problema dell’Opsec (Operational Security, “sicurezza operativa” n.d.r.). Non mi è stata data nessuna spiegazione. Erano ostili e ossessionati dalla volontà di fare di me “un esempio”, cercando in ogni modo di screditarmi e rovinare la mia reputazione. Hanno trascorso giorni interi a produrre pagine di “richiami” (“counseling statements” nel testo, ovvero richiami ufficiali che seguono violazioni del regolamento o della condotta militare n.d.r.)per screditare in maniera retroattiva il mio curriculum militare. Il fatto che non ci fossero precedenti documenti che attestassero queste presunte violazioni fece sì che le accuse cadessero, e loro lo sapevano.
Avevano bisogno di “qualcosa di più”. Chiesero ripetutamente quali fossero i miei nomi utente e le mie password su internet e MySpace, posta elettronica privata, tutto. Tutto ciò sotto la minaccia di “maggiori e più gravi accuse a mio carico” nel caso mi fossi rifiutato.
Hanno voluto leggere le mie e-mail, tutti i miei blog, qualunque cosa, nel tentativo di trovare qualcosa. Niente che potessero usare per far sì che sembrasse che fossi colpevole di aver divulgato informazioni riservate. Volevano accusarmi e rovinare al massimo la mia credibilità, e avevano un disperato bisogno di giustificare in qualche maniera la mia detenzione illegale in isolamento.
Due settimane più tardi, quando finalmente hanno capito che non sarebbero stati in grado di accusarmi per “divulgazione di informazioni riservate”, mi hanno accusato di una serie di “rifiuti di eseguire gli ordini”. Questi ultimi non comprendevano soltanto il mio rifiuto di partecipare alle missioni di combattimento, ma anche cose ridicole tipo “non si mette sull’attenti” e “si è presentato in ritardo alle mansioni assegnate”. Potete immaginare. Il mio comandante ha infine offerto di “lasciarmi libero” se mi fossi immediatamente dichiarato colpevole di tutto e avessi accettato una sommaria corte marziale. Le opzioni che mi si presentavano erano chiare. Avrei potuto accettare, passare trenta giorni in prigione, e riavere indietro la mia vita. Oppure avrei potuto farmi sbattere di nuovo in isolamento per altri due mesi, dando loro la possibilità di fare di me un esempio per tutto il battaglione, dicendo “questo è quello che succede a chi si oppone alla guerra”.
Lascerò che credano di aver vinto, per ora.

Libertà. La verità verrà allo scoperto, e non c’è nulla che possano fare per nasconderla. L’occupazione è un disastro. Sono convinto che ogni giorno in più di questo stato di cose renda sia l’America che l’Iraq meno sicuri. Oppormi alla guerra e mantenere la schiena dritta di fronte ai miei superiori è stata senza alcun dubbio una delle migliori decisioni che abbia mai preso. Ho fatto la scelta giusta, e in regalo ho avuto indietro la mia libertà. Forse tra dieci anni quelli di noi che hanno resistito dall’interno alla forza militare oggi, saranno visti come i primi pochi coraggiosi ad aver detto la verità, facendo seguire i fatti alle parole. Anche adesso ci sono molti intorno a me che mi ricordano che non sono il solo a pensarla in questo modo, vale a dire la maggioranza degli americani, che si sono resi conto che i pezzi che compongono il mosaico di questo conflitto semplicemente non combaciano.
Cercate la verità. Prendete una decisione.

dall'agente speciale dell'esercito della Guardia Nazionale degli Stati Uniti d'America

Elonai 'Eli' Israel

 

Io Saviano, condannato a morte

di Gianluca Di Feo

La sentenza dei Casalesi: aspetteremo il momento giusto. La vita blindata senza più libertà. Le paure per i familiari. E il coraggio di scrivere e accusare. Per dare una speranza ai giovani. Colloquio con Roberto Saviano

Foto di Mario Spada

Sono tardarielli ma non scurdarielli. "I Casalesi arrivano tardi, ma non dimenticano mai". Lo spiegò ai magistrati l'unico vero pentito della camorra casertana, ricostruendo come i boss avessero atteso 11 anni prima di eseguire la sentenza contro un loro nemico. Hanno fatto calmare le acque, ridotto al minimo l'attenzione sulla vittima e solo a quel punto sono partiti i killer. Clemenza o perdono non gli appartengono: i signori della nuova mafia hanno dimostrato con il piombo e con il sangue che la loro parola è peggio di una fatwa. Perché loro sanno ricordare.

Oggi le dichiarazioni raccolte nelle carceri e l'attività informativa nel triangolo dei boss, tra Casapesenna, Casal di Principe e San Cipriano d'Aversa, il feudo dei Casalesi, sono concordi: anche contro Roberto Saviano è stato emesso il verdetto. I padrini hanno lasciato in bianco solo la data dell'esecuzione: "Basta aspettare, verrà il momento giusto. E allora si chiuderanno i conti". L'autore di 'Gomorra' non si sente un condannato a morte. Quando gli poni la domanda, il volto si illumina con un sorriso ingenuo che tradisce i suoi 28 anni. Perché non accetta nemmeno l'idea di essere costretto all'esilio: "Napoli mi manca tantissimo. Come per tutte le cose che si perdono aumenta il carico di nostalgia. La mia esperienza viene da lì". Oggi può tornare a Napoli quando vuole, circondato però da carabinieri e auto corazzate. E ogni movimento deve essere concordato con la scorta. Il che lo spinge a stare chiuso in casa, a leggere e scrivere. Ma senza radici, senza succhiare linfa alla vita reale, tutto diventa un isolamento sterile. Un incubo che fa passare in secondo piano ogni altra preoccupazione.

"Paura non ne ho. Fin quando c'è la parola, la possibilità di trasmettere le proprie idee, quella è la vera difesa. Certo, con il mio lavoro ho esposto anche i miei familiari. L'unico motivo per cui ho maledetto il mio libro è per le pressioni che hanno subito i miei cari e di cui non mi perdonerò".


Roberto Saviano con la scorta
Attorno a lui spesso c'è il vuoto. Il condominio del centro di Roma dove viveva in una stanza da studente ha protestato per la quiete disturbata dalla scorta. E i vicini della madre hanno addirittura scritto al Comune chiedendo che alla donna venisse 'assegnata una residenza più sicura': un modo burocratico per chiederne il trasloco. Alla 'Süddeutsche Zeitung' ha parlato di una quotidianità randagia, senza fissa dimora, senza più punti cardinali. Tranne quello che considera più importante: la scrittura. "Scoprire quanto potesse essere potente la scrittura è stato uno choc. Non solo per lo sconvolgimento totale della mia esistenza. In genere, un libro non riesce a influire sulla vita dell'autore. Invece intorno a 'Gomorra' si è creato subito un passaparola, una catena di persone che attraverso il libro si sentivano a me vicine e io ho sentito questo contatto con loro. Non avrei mai immaginato tanto. Due siti Web di solidarietà, la vicinanza di amici nuovissimi che hanno protetto le mie parole. E quella di alcuni colleghi".

Ci tiene anche a ricordare le persone che si sono occupate della sua sicurezza, gli stessi investigatori che portano avanti le indagini sui Casalesi: il coordinatore della Procura antimafia di Napoli, Franco Roberti; i pm Antonello Ardituro e Raffaele Marino, il colonnello Gaetano Maruccia. A Raffaele Cantone, il pubblico ministero che conduce i processi più importanti contro la camorra casertana, lo unisce anche la pressione continua dei clan. E c'è poi Tano Grasso che lo ha consolato con l'esperienza di chi ha vissuto sotto scorta per un intero decennio.

Molte cose l'hanno sorpreso negativamente. "Soprattutto l'accusa di aver infangato la mia terra. Di aver speculato sul suo dolore. C'è stata prima diffidenza e poi ostilità per il modo con cui ho raccontato la criminalità. Da molta intellighenzia napoletana e dal mondo puritano delle lettere che si è sentito invaso da nuovi codici, nuove visioni e soprattutto nuovi lettori".

Poi c'è stata una gelosia verso il successo, come se fosse frutto di chissà quale operazione di marketing editoriale. "Invece 'Gomorra' sancisce l'ascesa del lettore e dimostra la grande possibilità della scrittura. Rivoluzionaria. Perché non è la scrittura che apre la testa, non è lo scrittore che rende liberi i lettori. No: è il lettore che rende libero lo scrittore, che cancella la censura. Pamuk, Politkovskaja, Rushdie - che hanno dovuto affrontare situazioni ben più gravi della mia come testimonia il sacrificio della giornalista russa - hanno imposto le loro idee grazie alla spinta dei lettori. È un meccanismo che trasforma il mercato, legando consumo e libertà di scrittura".

Innegabile che le prime minacce dei padrini campani abbiano fatto da volano al successo del volume. "Sono rimasti spiazzati pure loro. Finora in quel territorio persino l'omicidio di un sindacalista non aveva fatto notizia, persino il piano per assassinare un magistrato con il tritolo già pronto non era arrivato sui media nazionali. Non si preoccupavano di intimidire un ragazzotto che aveva scritto un libro di cui si parlava troppo: perché avrebbe dovuto mai attirare attenzione?". La lezione di 'Gomorra' non è passata inosservata anche dentro le altre mafie: le pagine stampate hanno cominciato a dare fastidio. Saviano cita la vicenda di Lirio Abate, costretto a lasciare Palermo dopo il saggio sui complici illustri di Provenzano. Il segno di un'insofferenza crescente contro chi smaschera il vero volto della nuova mafia.

Per i Casalesi quella dello scrittore è diventata una sfida continua. Il discorso sulla piazza di Casal di Principe, chiamando per nome i padrini latitanti e invitando la gente a ribellarsi, non è stata perdonato. Poi la presenza in tribunale nel giorno della requisitoria, di fronte ai killer detenuti. "Da anni la criminalità organizzata non si trova più davanti persone che vogliano svelare il meccanismo delle loro attività, il sistema del loro potere. Hanno preso come una sfida il mio guardargli in faccia. Loro accettano i professionisti: accettano di venire descritti negli atti dei magistrati, degli avvocati, degli investigatori e in qualche misura anche dei giornalisti. Non accettano invece la mia volontà di usare strumenti 'sporchi' che non possono gestire. Personaggi come Raffaele Cutolo sanno condizionare l'immagine: hanno cercato la pubblicità, le interviste. Ne hanno fatto come uno strumento. Cutolo o altri boss come Augusto La Torre invece hanno reagito perché 'Gomorra' ha spezzato lo schema. Si sono sentiti gestiti da qualcun altro: gli piace essere raccontati, ma alle loro condizioni. La piazza di Casale? Ho chiesto ai cittadini di cacciare i boss, gli ho spiegato che la camorra non portava ricchezza, ma la distruggeva. Nessuno pronuncia mai quei nomi in pubblico a Casale e quel giorno in piazza c'erano tanti ragazzi: bisognava farlo".

Nel pensiero di Saviano c'è un chiodo fisso: la questione meridionale. Un concetto su cui si è discusso fino al punto da renderlo logoro, svuotandolo di ogni proposta e soprattutto di qualunque progetto. Ma che oggi si incarna nella realtà di una generazione senza futuro. "Una speranza può nascere solo dai giovani meridionali. La mia è l'unica generazione che emigra in massa, l'unica dagli anni Cinquanta. Si sta imponendo un modello culturale secondo il quale chi resta è un incapace, un fallito, un traffichino. È una cosa pericolosa, contro la quale bisogna reagire. Perché si lasciano andare via i talenti migliori e si spengono le speranze di chi resta, destinandolo a un futuro di mediocrità". E accusa: "La politica ha perso la sua carica riformista, che era stata una caratteristica continua del dopoguerra". Elenca come modelli Gaetano Salvemini, Giustino Fortunato, Ernesto Rossi. "Se i politici di oggi si fossero formati su questi libri, invece di avere sul comodino gli scritti di Ho Chi Min o di altri mostri sacri del '68, adesso riuscirebbero a inquadrare i problemi. Il Sud ha prodotto pensatori che avevano capito tutto. Bisogna ripartire da lì: non dimenticare che esiste una questione meridionale".

Ma il Sud cambierà? Saprà reagire alla grande slavina che lentamente sommerge la vita civile, l'imprenditoria, la cultura, la politica. Saviano schiera un'ironia amara e inverte il canone di Giacomo Leopardi: "Io ho l'ottimismo della ragione e il pessimismo della volontà".

Cambiare richiederà tempo, almeno un'intera generazione: "Nemmeno io riuscirò a vederlo. Ma se non si comincia, non accadrà mai. Io credo che ci siano realtà che non hanno l'ossessione del turismo, l'idea di un Meridione ridotto a bacheca. Ci sono imprenditori agricoli che recuperano l'eccellenza, maestranze tra le migliori in Europa nel cemento, una leva dinamica di piccoli imprenditori che sono la forza dell'economia campana". Già, ma sono anche i settori più esposti all'assalto della mafia. "Certo, la criminalità organizzata investe dove c'è eccellenza e potenzia queste aziende. Non è vero che la camorra non genera crescita. No. Ma genera una crescita distorta, che non migliora la qualità della vita delle persone; che fa arricchire solo pochi e trasferisce i capitali lontano. È una crescita che impoverisce il Sud". L'altra faccia della medaglia è una classe politica e intellettuale che considera lesa maestà denunciare il dramma della regione. "Sono un'intellighenzia che parla solo di presunta bellezza e ignora i problemi reali. Spendono ore per Caravaggio e non si guardano intorno. È ora di finirla con questo sistema. Chi osserva non ignora la bellezza di Napoli ma proprio da essa parte per denunciare: da Caravaggio bisogna apprendere la forza del guardare in faccia la vita. Loro invece si cullano in una visione consolatoria del Sud, una visione che piuttosto che essere innovativa è terribilmente oscurantista".

I leader di partito lo hanno quasi corteggiato, stupiti dalla sua capacità di parlare ai giovani. Da Fassino a Fini, da Visco a Berlusconi, tanti gli hanno trasmesso interesse e manifestato solidarietà. "A parole, ci sarebbero nell'intero arco costituzionale le condizioni per rilanciare la lotta alla camorra". La prova di concretezza verrà anche dalle risposte all'appello del procuratore Roberti, che ha invocato le migliori forze per rispondere alle nuove minacce dei Casalesi. Perché in Campania la grande politica fa come i boss: latita. "Fausto Bertinotti è stato l'unico esponente nazionale ad andare a Casal di Principe, non era mai accaduto prima". Saviano è rimasto colpito dalla scoperta che anche nella base della destra, inascoltata spesso dalle dirigenze, è ancora viva quella mobilitazione antimafia, punto di forza del Msi legalitario di Almirante. Un risveglio che diventa provocazione verso il torpore della sinistra. "È stato bello vedere che c'è una forma di destra sociale che sul territorio sta riscoprendo l'orgoglio di un'identità che non scende a patti con la camorra. La sinistra continua a vivere in un equivoco. Gli slogan sono quelli che vengono da un passato di militanza concreta, ora non hanno più niente dietro. Ma la consapevolezza degli elettori è superiore a quella dei politici. O la politica lo capisce o è finita".

 

Cgil: "Ancora pochi i permessi rilasciati"

La Cgil chiede una riforma radicale della Bossi-Fini e annuncia una grande mobilitazione per il prossimo autunno insieme a Cisl e Uil.

Per il sindacato il tema più scottante rimane "il malfunzionamento dei rinnovi dei permessi di soggiorno a partire dai casi di variazioni, di minori e numerosità familiare". Su 881mila domande presentate ne rimarrebbero da vagliare ancora 525mila.

ROMA – La Cgil chiede una riforma radicale della Bossi-Fini e annuncia una grande mobilitazione di massa nel prossimo autunno con Csil e Uil.

“Oggi siamo ancora agli interventi di rattoppo - spiega Pietro Soldini, responsabile dell'ufficio per le politiche dell'immigrazione - occorre puntare all'obiettivo strategico della riforma”.

Il tema più scottante per la Cgil è “il malfunzionamento dei rinnovi dei permessi di soggiorno a partire dai casi di variazioni, di minori e numerosità familiare”.

I dati al primo agosto, forniti dalla Cgil, rilevano 881 mila domande presentate, 72 mila permessi elettronici pronti e 284 mila domande anomale. Per quest'ultime verrà approntato un piano di smaltimento che sarà avviato il 20 agosto e terminerà il 31 ottobre 2007. Rimangono 525 mila domande ancora da lavorare, con appuntamenti fissati anche a 8 mesi.

“E' necessario - aggiunge Soldini - intervenire nei confronti delle 16 questure più esposte che ricevono il 54% delle domande con un aumento delle apparecchiature tecniche e con un aumento di personale”. Su questo punto, fa sapere la Cgil, il ministero sta predisponendo un piano e sul personale si è chiesto di dare attuazione ad un accordo sindacale con le rappresentanze sindacali unitarie del ministero dell'Interno e il sottosegretario Marcella Lucidi che prevede un incremento di 1.250 unità di personale civile.

 

Fine di un'epoca

Anche Karl Rove, lo stratega-ombra del presidente, lascia l'amministrazione Bush

Il suo capo l'aveva definito “l'architetto” e “il piccolo genio” delle campagne elettorali. Per chi lo criticava ma ne ammirava le qualità organizzative, era “il cervello” di George W. Bush. Quelli che lo vedevano come il diavolo in persona, invece, lo chiamavano “turd blossom”. Che sarebbe sì un termine in slang texano per indicare un tenero fiorellino reso forte dal concime più naturale che ci sia, ma nel caso di Karl Rove diventava anche il letterale “ciò che germoglia da un pezzo di m....”, a indicare la sua presunta assenza di scrupoli morali. Comunque lo si voglia chiamare, il consulente più fidato di Bush ha deciso di farsi da parte, l'ultimo tra “tutti gli uomini del presidente” a defilarsi da un partito repubblicano sempre più in difficoltà.

L'ascesa. Vice capo di gabinetto della Casa Bianca, l'ultima carica formalmente ricoperta da Rove, è un'espressione che non rende giustizia all'importanza del braccio destro dell'attuale presidente. Dopo aver lavorato nello staff di Bush padre fin dagli anni Settanta, dal 1994 Rove è stato l'ombra di George W., lo stratega che ha pianificato tutte le sue mosse, riuscendo a trasformarlo dall'ex alcolizzato e pecora nera della famiglia che era, a governatore del Texas e presidente degli Stati Uniti poi. Ha portato Bush alla Casa Bianca nel 2000, battendo il vice del presidente che aveva guidato gli Usa durante il boom della new economy. Lo ha fatto rieleggere nonostante le difficoltà della guerra in Iraq. Ha creato un clima in cui qualsiasi critica al “comandante in capo” veniva facilmente bollata come anti-patriottica. Ed è riuscito a cementare il sostegno del grande business con l'emergere di un movimento cristiano evangelico sempre più influente in politica, capendo prima di tutti la sua importanza. In sostanza, Rove ha modellato l'immagine del movimento conservatore dell'ultimo decennio.

Il gioco sporco. Neanche chi lo odia mette in dubbio il suo acume. Ma di Karl Rove si è discusso e si parlerà ancora anche per i metodi che ha portato nella battaglia politica, riuscendo a giocare sporco pur tenendo gli schizzi di fango lontani da sé. Attaccare l'avversario sul piano personale ha dato risultati in ogni campagna elettorale di George W. Bush. Nel 1994 si sparse la voce che Ann Richard, la governatrice democratica del Texas a cui Bush avrebbe soffiato il posto, era lesbica. Sei anni dopo, quando l'uomo da battere nella corsa alla nomination repubblicana era John McCain, il senatore dell'Arizona dovette combattere contro i pettegolezzi sul suo (inesistente) figlio illegittimo di colore. Nel 2004 un'imponente campagna mediatica organizzata dal fin lì sconosciuto gruppo “Swift Boat Veterans for the Truth” distrusse l'immagine di John Kerry, che in Vietnam ci andò davvero e rimase pure ferito, facendo dimenticare che Bush aveva evitato quella guerra grazie ai buoni uffici del padre.

La caduta. In molti hanno visto la mano dell' “architetto” anche nel cosiddetto Ciagate: ossia lo scandalo emerso dopo che fu resa pubblica l'identità dell'agente segreto Valerie Plame, moglie dell'ex ambasciatore Joseph Wilson, che aveva accusato l'amministrazione Bush di aver inventato l'affaire della vendita di uranio del Niger a Saddam per giustificare l'invasione dell'Iraq. Ma l'unico funzionario a pagare (finché la pena non fu commutata da Bush) nella faccenda è stato Lewis “Scooter” Libby, capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney. Nonostante diverse testimonianze contro di lui, Rove è uscito illeso dallo scandalo. Ma anche se il presidente l'ha protetto, l'influenza di Rove all'interno dell'amministrazione Bush stava già scendendo, trascinata verso il basso dal crollo di popolarità del suo capo. Dopo l'inefficienza della risposta al disastro causato dall'uragano Katrina, anche la gestione della guerra in Iraq è stata vista con nuovi occhi da sempre più persone negli Usa.

Fine di un'epoca. Era semplicemente ora di togliere il disturbo, ha detto Rove nell'intervista al Wall Street Journal in cui ha annunciato le sue dimissioni il 31 agosto, citando l'esigenza di voler stare più tempo con la famiglia. Ma il braccio destro di Bush ha ammesso di aver voluto lasciare già dal novembre dell'anno scorso, quando i repubblicani hanno perso il controllo del Congresso. Ora, ancor più che nove mesi fa, l'invincible armada forgiata da Rove sembra alle corde. I sondaggi danno ormai per inevitabile una riconquista democratica anche della Casa Bianca, nel novembre 2008. Gli analisti sottolineano che si tratta più di un tracollo di fiducia verso i repubblicani, che non un improvviso amore dell'elettorato per i democratici. Molti funzionari minori dell'amministrazione Bush, negli ultimi mesi, hanno già abbandonato una barca che fa sempre più acqua. Ma sarà l'addio di Rove, dopo il tramonto di neo-con della prima ora come Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz, a essere ricordato come uno di quei segni di un'epoca che sta per finire. Magari il suo atteso libro di memorie, dato in preparazione dai più informati, l'arricchirà di particolari oggi sconosciuti.

 

Mare nero

di Fabrizio Gatti

Acque inquinate a due passi da paradisi naturali. Tesori della natura messi in pericolo da rifiuti, scarichi e depuratori assenti. Ecco cosa succede a Porto Venere, all'isola d'Elba e a Numana

Foto di Marco Mori - Sestini

Avanti così e dalla collana dei nostri mari sfileremo altre perle. Perfino le spiagge più famose sono minacciate da scarichi di ogni tipo. Una catena di depuratori avrebbe dovuto proteggerle. Avrebbe potuto difendere la loro bellezza e la nostra salute da streptococchi, enterococchi, colibatteri e microschifezze simili. Abbiamo perso pure questa occasione. Mancano soldi per costruire nuovi impianti. E quelli che già esistono sono troppo vecchi, o troppo piccoli, o troppo costosi per essere mantenuti.

La colpa è anche di questo barman sulla passeggiata di Porto Venere, ricoperto di cotone bianco come un marinaio dell'Amerigo Vespucci. "Lo scontrino, per favore". E lui, prima di battere il prezzo della focaccia e di una limonata sul registratore di cassa, se lo fa ripetere tre volte. Sbuffa scocciato mentre pigia i tasti. Chissà da quanti mesi non se lo sentiva chiedere. Dieci euro di consumazione senza ricevuta sono un'evasione totale di reddito. Oltre a un furto di due euro di Iva. Moltiplicateli voi per i milioni di clienti serviti questa estate dal mar Ligure allo Ionio. Sommateli all'italica furbizia contro il fisco. E provate a immaginare quanto di questo capitale poteva essere destinato al salvataggio delle coste e del turismo.

Il risultato è che ancora oggi come quarant'anni fa centinaia di paesi, migliaia di fabbriche, milioni di persone affondano i loro liquami in tubi e sbocchi sommersi vicino a baie e scogliere conosciute in tutto il mondo. Paradisi come le Cinque Terre, l'isola d'Elba, Numana e la riviera del Conero. Dove amministratori locali, ambientalisti e operatori turistici combattono soli la loro battaglia quotidiana per la pulizia dell'acqua. Perché alla fine il mare, puntuale e sincero, riporta tutto a galla.

Ecco Porto Venere, il paese cartolina sulla strada per le Cinque Terre. Si può partire da qui. Un viaggio dal Tirreno all'Adriatico, alla ricerca di quello che nelle cartoline non si vede. E che nemmeno i siti Internet mostrano quando promuovono bandiere blu, immersioni o tintarelle sul bagnasciuga. Oltre il borgo genovese, verso il promontorio dominato dalla chiesa di San Pietro, si scende alla grotta Arpaia che una lapide dedica al passaggio qui di George Gordon Byron, il poeta romantico inglese e "ardito nuotatore". La bocca nella roccia chiude l'insenatura e cattura tutto quello che passa tra le onde. La mattina è uno spettacolo di riflessi. Un cormorano si tuffa. Illuminato dal sole si immerge in profondità, veloce come un siluro. E l'acqua cristallina lo smaschera fino al momento in cui apre il becco e si pappa un pesce. Il pomeriggio cormorani e gabbiani se ne vanno. La brezza soffia forte. E le raffiche recapitano quello che il mare non può digerire. La chiazza si affaccia lenta davanti alla grotta e al pubblico di bagnanti. Basta nuotare poche bracciate per trovarsela di fronte con il suo seguito di piccoli ombrelli di meduse scure. È uno strato di frammenti di polistirolo. Sacchetti di plastica. Fluff anatomici e indistruttibili di pannolini e assorbenti. Una moltitudine di bastoncini di plastica lunghi quattro dita. E altre nefandezze meno identificabili.

Ogni pezzo ha la sua storia. I bastoncini sono la conseguenza di anni di accurata pulizia delle orecchie. Bisogna prendere un cottonfioc e osservarlo da vicino. I due batuffoli sono biodegradabili. Ma gli stecchini di plastica no. Sono indistruttibili come gli atomi radiottivi usciti da Chernobyl. Uno stecchino per ogni paio di orecchie, per ogni mattina, per ogni sera, per ogni abitante di Porto Venere, per ogni ospite, per ogni turista. Passeranno secoli prima che tanta igiene personale si decomponga. Una volta scaricati nel water, i bastoncini finiscono in mare. E da lì non li toglie più nessuno. Galleggiano avanti e indietro. Di notte la brezza di monte li nasconde al largo. Il pomeriggio il vento contrario li riporta a riva. Lo stesso andirivieni che scandisce le giornate di tutto questo campionario di vita. Come i filtri delle sigarette e altri accessori che, per precauzione e per galateo, è preferibile non toccare.

Porto Venere, nonostante anni di discussione, studi proposti e progetti bocciati, non ha depuratori. La fogna finisce ancora in mare. Con un tubo sommerso, calato molti anni fa. Qualcosa sparisce negli abissi. Ma plastica e affini tornano indietro. Forse basterebbe scrivere ben grande sulle confezioni che cottonfioc, assorbenti, filtri di sigaretta e condom vanno gettati nella spazzatura. Purtroppo nessuno ci pensa. Così anche intorno a questo gioiello protetto dall'Unesco, il delicato equilibrio tra l'Italia e il suo paesaggio si sta incrinando.

I segnali sono già arrivati. Il 3 luglio l'equipaggio di Goletta verde presenta i risultati della campagna di prelievi in Liguria. E Porto Venere è prima in tutte le classifiche. Con la spiaggia più bella: sull'isola di Palmaria. E quella più infetta: il lido di Calata Doria. Paradiso e inferno a pochi minuti di barca. Calata Doria si prende le quattro stelle negative per l'acqua "fortemente inquinata". La provetta rivela nel giorno delle analisi una concentrazione di coliformi fecali e altri regali della digestione. Almeno dieci volte sopra i limiti di legge. Era così anche l'anno scorso. Un peggioramento repentino. Perché fino al 2005 tutta Porto Venere aveva sempre avuto acque cristalline.

Calata Doria non è solo un lido. È il salotto naturale nel centro del piccolo paese. Una mezzaluna di sabbia soffice, una rarità in Liguria, stretta tra il porticciolo e l'ombra dei pini marittimi. La spiaggia preferita dalla mamme per far giocare i bimbi più piccoli. La stessa riva su cui il 5 settembre 1849, come ricorda il monumento, "approdò ramingo, vinto non domo, il generale Giuseppe Garibaldi salutato dagli amici cui fatidico confortava a ben sperare delle sorti italiche". L'acqua è bassa e l'insenatura tiene lontano onde e correnti. Giuseppe Gioffré è il primo a calpestare la sabbia di mattina. Prima ancora che il sole cominci a picchiare. È in pensione. Ha passato la vita come ufficiale di macchina sulle navi militari e poi sui mercantili. La Spezia è appena oltre il promontorio. In agosto il Nostromo, così lo chiamano a Porto Venere, cammina lungo il bagnasciuga e raccoglie carta, cicche di sigaretta, piume di cormorani e gabbiani. Non lo paga nessuno, è un volontario. "Eh", dice lui, "è il nostro biglietto da visita. Le piume, poi. Vanno dappertutto. Le piume fanno parte della natura, ma danno fastidio, eh? Magari uno, se vede le piume, pensa che il mare sia sporco". Non ci sono netturbini a Porto Venere? "Sì certo, eh", sorride il Nostromo, "ma loro puliscono a terra. Non entrano in acqua. Noi siamo dell'associazione Amici del mare. E puliamo il mare. Altrimenti bisogna aspettare che lo sporco arrivi sulla spiaggia prima che lo raccolgano i netturbini". Le piume si vedono, ma i colibatteri? "Ne ho sentito parlare, ma non c'è divieto di balneazione", spiega il Nostromo, "per queste cose dovete sentire il Comune". Nessuno però va a raccogliere l'immondizia alla deriva davanti alla grotta. "No, resto di qua del promontorio, in paese. Io", sorride ancora Giuseppe Gioffré, "non ho più l'età".

In Comune il sindaco assicura che a Calata Doria l'acqua adesso è pulita. "Lo confermano le analisi dell'Arpa, l'agenzia regionale per la protezione ambientale", dice Salvatore Calcagnini: "La questione si è risolta dopo quattro giorni. Abbiamo trovato un'incrinatura nella condotta di una fognatura privata. È bastato quello per far sballare i valori. Riparata la rottura, ora siamo perfetti. Abbiamo anche approvato il progetto di una condotta che, con una serie di pompe, collegherà lo scarico di Porto Venere alla rete di La Spezia". In attesa che il progetto venga finanziato e realizzato, la chiazza di immondizia, vento permettendo, continuerà a far visita alla grotta Arpaia. Soprattutto in agosto, quando gli abitanti di Porto Venere passano da poco più di 4 mila a 8 mila. Apparirà nelle fotografie di innamorati, poeti, romantici. E temerari, come Malcomx, così si firma un ragazzo su Internet che proprio in questi giorni chiede al popolo dei blog: "Se mi tuffo da 25 metri in acqua dalla grotta Byron a Porto Venere, posso farmi male?".

Duecentoquaranta chilometri lungo la costa e una traversata in traghetto portano a Capoliveri, il paese sospeso tra cielo e mare in cima alle salite dell'Elba. Anche qui la mancanza di finanziamenti rischia di mettere in pericolo il grande paradiso naturale. Dai 3.600 residenti invernali si passa d'estate a 40 mila abitanti, più del 10 per cento di tutto il turismo dell'isola. Gli scarichi fognari sono la principale minaccia all'ambiente. I liquami finiscono al largo attraverso tre condotte subacquee. Se ne parla molto in questi giorni. Perché in luglio le analisi di Goletta verde rivelano livelli fuorilegge dei soliti batteri fecali: quattro stelle di giudizio negativo davanti alla spiaggia di Margidore a Lacona, nel comune di Capoliveri. Fino a giugno, secondo le analisi dell'Arpa Toscana, i valori erano normali. E confermavano il solito, lieve aumento che da anni si registra dopo le vacanze di Pasqua e durante le ferie estive. Per raggiungere parametri almeno dieci volte superiori al limite di legge qualcosa dev'essere successo. "Siamo convinti che l'acqua sia sempre stata in buone condizioni", risponde l'assessore all'Ambiente di Capoliveri, Milena Briano, "lo confermano le analisi del 4 luglio dell'Arpa che saranno presto pubblicate. Probabilmente i prelievi di Goletta verde sono stati fatti involontariamente poco dopo lo scarico di liquami da qualche imbarcazione. E questo può aver fatto salire i valori". Proprio in questi giorni però il Comune di Capoliveri allaccerà alla rete fognaria la nuova condotta subacquea di Margidore. Milleduecento metri di tubatura che sostituiranno la vecchia messa sotto accusa dopo i risultati di Goletta verde. Delle altre due condotte sottomarine, quella del Lido è stata rifatta lo scorso anno. La tubatura nuova sul fondale di Naregno, pronta per essere allacciata, è già stata danneggiata da due ancoraggi maldestri.

Isola d'Elba
La sostituzione dei tubi corrosi può ridurre i rischi di inquinamento sotto costa. Ma non elimina i liquami in mare. Perché non tutti gli scarichi di Capoliveri (e di altri paesi dell'Elba) passano attraverso i depuratori. E non tutti i depuratori funzionano. Proprio a Lacona hanno costruito uno degli impianti più grossi. È fermo da anni. Un cubo di cemento armato nella pineta dove corrono le lepri. Le vasche di ossigenazione dell'acqua ricoperte di erbacce. La solita cattedrale nel deserto. "Andrebbe riammodernato con le nuove tecnologie", spiega l'assessore di Capoliveri, "ma i comuni da soli non ce la fanno. Impegnarsi a costruire un grosso depuratore per un Comune come il nostro significa bloccare tutte le altre spese". L'isola d'Elba ha perso anni preziosi. Grazie a un braccio di ferro burocratico tra comuni, agenzie pubbliche e comunità montana. Perché qui, pur essendo l'isola più grande della Toscana, valevano le stesse regole di Courmayeur. L'ultima speranza per trovare in fretta finanziamenti è accettare senza modifiche la proposta del ministero dell'Ambiente sull'istituzione del parco marino. E in cambio chiedere allo Stato di pagare i depuratori. Ma, come previsto, non tutti gli imprenditori sono d'accordo.

Molti proprietari di hotel, ristoranti e bar non sembrano affatto sensibili alla questione dei depuratori. Anzi, come a Porto Venere, fanno di tutto per sottrarre il loro contributo alle spese pubbliche. Sperare di avere da loro uno scontrino è come chiedere una sigaretta a una comitiva di non fumatori. Non deve sorprendere. Per non pagare le tasse ai francesi, la gente di Capoliveri ha osato tenere testa a Napoleone e al suo esercito. Figuriamoci che effetto possono fare gli appelli di Romano Prodi. Alla fine, i turisti non mancano. L'acqua, anche a Lacona, è trasparente. E pesci, balene, tursiopi, zifi, stenelle continuano a frequentare la zona.

Cristiano Perego, 45 anni, guida e amministratore della scuola di sub a Lacona, accompagna ogni giorno decine di appassionati. "Stamattina abbiamo visto un banco di barracuda sopra di noi. Bellissimi", racconta. Il problema che più preoccupa chi porta i turisti in mare non è l'inquinamento: "Se c'è, lo risolveranno", dice Perego: "Il problema è la proposta di protezione marina del ministero. Se la applicano così com'è, ammazzano realtà economiche che già esistono. Perché nelle riserve integrali che vogliono istituire noi non potremo entrare nemmeno con le barche a remi".

Al di là degli Appennini, in fondo a 420 chilometri di curve e saliscendi appare, solitario, il monte Conero. È il paradiso più a Nord dell'Adriatico. Il poggio meridionale della montagna di calcare e ginestre nasconde Numana, la spiaggia bandiera blu che con Sirolo da anni è il borgo più fotografato per pubblicizzare le vacanze nelle Marche. Non vengono fin qui soltanto turisti italiani e stranieri. Anche tartarughe e delfini sono attratti dall'acqua del promontorio che il giro delle correnti mantiene limpida. L'anno scorso due tartarughe, Jacopo e Titania, sono state pescate e rilasciate con un trasmettitore satellitare per una ricerca diretta dall'Università di Pisa. Jacopo lo hanno trovato morto in settembre: ucciso, sembra, dalle reti di un peschereccio. Titania ha trasmesso un nuovo segnale poco prima delle 10 di mattina del 6 agosto. È al largo della Libia (il suo percorso può essere seguito sul sito seaturtle.org). Ma basterebbe un temporale più forte degli altri. Oppure una piena fuori stagione. E Numana perderebbe il suo patrimonio. La minaccia è il Musone, il fiume delle grandi querce, che segna il confine del territorio comunale e il limite tra le province di Ancona e Macerata. Proprio questo è il problema: il confine. "Le province di Ancona e di Macerata non si mettono d'accordo su chi deve intervenire", dice il sindaco di Numana, Mirko Bilò, confermando una tradizione nella storia di questa terra: "E noi paghiamo il prezzo. Noi e i comuni vicini mandiamo i nostri scarichi al depuratore. Nessuno però controlla cosa scende dai paesi a monte".

In luglio i prelievi di Goletta verde bocciano la qualità dell'acqua lungo la spiaggia alla foce. Quattro stelle, cioè dieci volte oltre i limiti di streptococchi o coliformi fecali. Stesso giudizio del 2006. Dieci anni fa andava meglio. Il solito scherzo delle correnti lascia pulite le spiagge a Sud del Musone: da Scossicci a Porto Recanati. E spinge i liquami verso Nord. Così anche una perla del mare come Numana ha la sua zona vietata alla balneazione. "L'area vietata si allunga per seicento metri dalla foce", spiega Luca Amico, geologo e direttore della Protezione civile comunale, "poi l'acqua del fiume si diluisce e i livelli rientrano nella norma. Fino alle spiagge con la bandiera blu, dove l'inquinamento manca del tutto. La zona di divieto della balneazione è facile da trovare. Dovrebbe essere indicata dai cartelli".

I cartelli invece non ci sono. Quando il Comune li mette, qualcuno li toglie. Forse perché i bagni privati ad appena 350 metri dalla foce sono i più cari di tutta la riviera del Conero: 16,50 euro al giorno per ombrellone, due lettini e un tuffo nell'acqua torbida contro i 13,50 di Numana Bassa, la spiaggia per anni premiata con la bandiera blu a oltre due chilometri dalla foce. Anche nei campeggi dalle parti del fiume i prezzi non scherzano. Una settimana in bungalow a quattro stelle con aria condizionata può costare fino a 1.140 euro. Numana, per gli imprenditori del turismo, vale la sua fama. Nessuno è disposto a fare sconti. Almeno fino a quando il precario equilibrio ambientale non si romperà.

L'inquinamento non è solo dovuto alle fogne senza depuratori. Le fabbriche hanno una quota di responsabilità. Soprattutto le piccole imprese che producono crocefissi e Madonne in argento, ottone e altri metalli più o meno preziosi. La zona industriale di Loreto, ai piedi del colle con il grande santuario, esporta arte sacra in tutto il mondo. E proprio lì, a valle dei nuovi capannoni, il Musone puzza di solventi e detersivo. Cinquanta chilometri a monte, il fiume è già inquinato dal limo delle cave. Come a Cingoli, con gli scarichi nascosti dalla vegetazione, il grande lago di decantazione dei fanghi e la diga che lo contiene. Un muraglione di terra alto dieci metri che sovrasta la campagna, una strada e qualche casa. Non sembra molto rassicurante, in una zona sismica come le Marche. Crepe profonde e larghe più di una mano attraversano la sommità della diga.

A pochi minuti di macchina da Numana, Pasquale Rinaldi, 72 anni, ogni sera scende a controllare il fiume nel borgo di Villa Musone. Le ultime carpe sono morte il mese scorso. "È arrivato un limo denso come cemento liquido", racconta, "quando è così, anche i pesci soffocano. C'erano quintali di carpe morte sommerse dalla melma. È per questo che in alcuni giorni il mare è torbido. Ma nessuno va a punire i responsabili". Da anni Pasquale Rinaldi appoggia la sua bicicletta a un albero e si ferma accanto al canneto a guardare la corrente. Viene qui perché, dice, è appassionato di pesca. Quest'anno però non c'è più niente da pescare.

 

9 agosto

 

India e Bangladesh, una terra alla deriva
Quasi 500 morti in dieci giorni, ben oltre un migliaio da giugno, decine di milioni di sfollati: le grandi piogge travolgono l'Asia meridionale. Ampie zone non hanno ancora ricevuto aiuti, e molti protestano
Paola Desai
 
L'acqua, e poi la fame. Oltre trenta milioni di persone in India una ventina in Bangladesh e altre ancora in Nepal meridionale sono in balia delle alluvioni causate dalle piogge battenti di questa stagione di monsone. O forse di più, alcune agenzie umanitarie parlano di 30 m ilioni. Almeno 487 persone sono morte in dieci giorni, superano il migliaio da quando sono cominciate le piogge in giugno. Nella sola India 14 milioni sono sfollati.
E ora che il ritmo delle piogge calaa, e le acque cominciano (molto lentamente per la verità) a recedere, quei 20 o 30 milioni di persone affrontano il rischio di fame e della mancanza di acqua potabile. Non che le piogge siano finite, avvertono i meteorologi, ma forse il peggio è passato - per quanto riguarda ciò che cade dal cielo. Non così sul terreno: cibo, acqua potabile e medicine sono l'emergenza, governi e agenzie umanitarie sono in corsa per assistere gli sfollati e raggiungere le zone remote: ma molti non hanno ancora visto alcun aiuto, le cronache segnalano scontri e proteste...
Stiamo parlando di una zona che va dalle terre affacciate sul Golfo del Bengala (il Bangladesh e il Bengala occidentale in India) alla parte orientale dell'immensa pianura del Gange con gli stati del Bihar e parte dell'Uttar Pradesh, fino alle prealpi dell'Himalaya. La zona più disastrata probabilmente è il Bihar, rurale e povero: là si trovano 12 di quei venti milioni di persone colpite, mentre centinaia di migliaia di persone sono homeless e alla deriva.
Le vittime sono persone annegate, uccise da serpenti velenosi, o più banalmente dalla fame o malattie, o schiacciate dal crollo di muri o pali della corrente elettrica trascinati dall'acqua. O morte nel naufragio di battelli e barche con cui cercavano di mettersi in salvo: lunedì l'episodio più grave, un n aufragio sul Gange (13 morti recuperati e una 50ina di dispersi).
Quello che ora preoccupa le autorità nelle tre nazioni alluvionate è distribuire i soccorsi. Molte strade sono allagate e non percorribili, così in India ad esempio le autorità procedono con lanci di pacchi di cibo e medicinali nei villaggi non raggiungibili via terra. Ma quattro elicotteri dedicati a questo compito non bastano, lamentano gli operatori di agenzie umanitarie come l'Unicef, che ieri ha diffuso una nota allarmata sull'emergenza sanitaria: l'acqua è il vettore ideale per molte malattie, a cominciare dalle malattie diarroiche se non c'è altro da bere che l'acqua dei fiumi. «Milioni di bambini sono a rischio», dice l'agenzia dell'Onu per l'infanzia: in effetti i bambini sono il 40% della popolazione, in Asia meridionale.
Un cronista dell'agenzia Reuter ieri ha raggiunto Sekhpur, villaggio come tanti altri sulle rive del Gange in Bihar. Ecco cos'ha trovato. «Circondato dall'acqua, il signor Rupesh Kumar, 23 anni, si mette a ridere alla domanda se la sua famiglia abbia ricevuto gli aiuti lanciati dagli elicotteri. "Lanci aerei? Scordatelo, non abbiamo neppure visto gli elicotteri e neanche una barca delle autorità da quando è cominciata l'alluvione 15 giorni fa", risponde Kumar, che fa l'agricoltore».
La popolazione alluvionata è stata lasciata a contendersi i pochi rifornimenti di cibo, continua la reuter. «In Bihar migliaia di persone ormai infuriate aspettano soto ripari improvvisati con teloni lungo le strade e gli argini, da cui lo sguardo abbraccia solo distese d'acqua e i tetti di bambù di case semisommerse. «Siamo affamati, stiamo quasi morendo» dice affranta Radhika Devi, sulla 40ina, accovacciata all'entrata del suo precario riparo fatto con pali di bambu e una tela cerata gialla che svolazza nel vento, minacciando di volare via. Devi vive in quella casa improvvisata al lato della strada con una decina di familiari, e dice che la famiglia ha ricevuto dalla autorità un chilo di riso spezzato in dieci giorni: «Non è bastato neppure per un giorno", dice».
Le agenzie umanitarie dicono che i soccorsi alimentari non stanno arrivando dove sono più necessari, e che alcune zone sono del tutto isolate da oltre una settimana. I soccorsi non sono adeguati alla realtà sul terreno, accusano alcune Ong. Le cronache riferiscono anche episodi criminali: nello stato dell'Assam, India nord-orientale, la polizia conferma che gli abitanti di alcuni villaggi hanno sorpreso i notabili politici e gli amministratori locali mentre rubavano e facevano accaparramento dei rifornimenti di cibo destinati agli sfollati, preludio al mercato nero.
Le cose sono difficili anche nel vicino Bangladesh, dove migliaia di sfollati sono raccolti in campi profughi: questo rende più facile distribuire aiuti, ma la macchina umanitaria si è messa in modo con lentezza. E anche in Bangladesh restano ampie zone ancora isolate. E poi qui l'alluvione riguarda anche le vicinanze di Dakha, la capitale, città di 11 milioni di abitanti circondata di fiumi e canali. Il monsone è essenziale alla vita e all'agricoltura di gran parte del subcontinente indiano, le piogge sono attese con impazienza, i raccolti ne dipenderanno: ma oggi quelle terre sommerse sono in ginocchio. Senza contare che nell'ultimo mese il monsone ha provicato alluvioni in ampie zone del Pakistan meridionale a ovest, e in gran parte della Cina meridionale a est.

 

Una campagna divina
Paraguay, è partita ufficialmente la campagna elettorale dell'ex vescovo cattolico prestato alla politica, Fernando Lugo
Di tempo a dire il vero ce n'è ancora molto a disposizione ma Fernando Lugo, ex vescovo paraguyano regalato alla politica non ne vuole perdere. Le elezioni presidenziali non sono certo alle porte, la tornata elettorale è prevista per il 20 aprile 2008, ma è meglio portarsi avanti con il lavoro.

Un comizio di Fernando LugoI fatti. La campagna elettorale dell'opposizione paraguayana formata dalla coalizione Concertacion Nacional, anche se con qualche defezione, è definitivamente partita. Dalla città di Villa Hayes, Lugo ha parlato a lungo ai suoi possibili elettori. “La nostra coalizione è il frutto di una richiesta unanime che arriva dalla gente che lavora nei campi che ci rafforza nel restare uniti e ci darà la forza per portare a termine un vero cambio, quello di cui la gente ha bisogno” ha detto l'ex prelato che da circa un mese è diventato ufficialmente il candidato presidenziale. Come in tutte le migliori famiglie politiche, però, la coalizione si scontra sulla scelta del candidato alla vice presidenza. Nessun nome, per il momento, ma l'unica certezza che su questo argomento ci sarà molto da discutere: il braccio destro di Lugo se vincerà le elezioni potrà essere un dirigente del Partido Liberal radical Autentico, la seconda forza politica del Paese.
Questa decisione ha lasciato perplessi gli aderenti a Partido Patria Querida e all'Union Nacional De Ciudadanos Eticos, rispettivamente seconda e terza forza politica dello schieramento di opposizione. Concertaccion Nacional, oltre ai classici partiti politici congloba al suo interno anche i movimenti in difesa dei contadini, dei diritti civili e tutta la società civile del paese sudamericano.

Fernando Lugo, candidato alle elezioni presidenzialiUn prete scomodo. La candidatura di Fernando Lugo ha suscitato in Paraguay e non solo molte polemiche.
I vertici ecclesiastici avevano tuonato contro la sua scelta di scendere in campo e giocare una partita politica di notevole importanza. “Mi offro alla politica per dare il mio contributo a costruire un paese senza esclusioni” aveva detto e ripetuto l'ex vescovo emerito di Asuncion. E Fernando Lugo non si era fermato nemmeno davanti alla scomunica paventata dalla chiesa cattolica in caso avesse deciso di andare avanti per la sua strada. Ma tant'è; oggi che la posizione di Lugo è chiara i sondaggi lo danno come favorito a rappresentare l'opposizione alle elezioni. Dietro di lui spicca, però, un'altra figura emblematica del Paraguay: l'ex generale golpista Lino Oviedo che però non potrà partecipare alla tornata elettorale in virtù di una condanna a dieci anni di reclusione inflitta da un tribunale per aver partecipato al tentativo di golpe nel 1996. Per farlo partecipare alle elezioni i suoi avvocati stanno cercando di portare il caso davanti alla Corte Suprema, l'unico organismo in grado di rivedere la sentenza.
La battaglia politica, dunque, ha avuto inizio. La maggioranza della popolazione del Paraguay ha la speranza che le prossime elezioni portino alla luce una figura di spicco capace di far entrare il Paese nel processo di sviluppo socio-economico in atto in quasi tutta l'area latinoamericana. Per le risposte appuntamento al prossimo mese di aprile 2008.

 

5 agosto

L'amico colonnello
La Francia vende armi alla Libia, subito dopo il lieto fine per le infermiere bulgare
Dieci giorni fa la trionfale missione libica di Monsieur Sarkozy e signora, per riportare a casa le sei infermiere bulgare e il medico palestinese condannati a morte. Ora una cospicua fornitura di armi, la prima dopo la revoca dell'embargo internazionale al regime di Muhammar Gheddafi. C'è un legame tra i due eventi? Il figlio del colonnello lo ha ammesso candidamente, il presidente francese nega, il leader dell'opposizione a Parigi vuole un'inchiesta parlamentare per appurare i fatti. Dovunque stia la verità, la vendita di missili e radio militari a Tripoli conferma che la Libia, fino a qualche anno fa considerata uno sponsor del terrorismo internazionale, è di nuovo un soggetto con cui fare affari.
 
Il lancio di un missile anticarro Milano, del tipo venduto alla LibiaL'accordo. Venerdì 3 agosto la Eads – il colosso aerospaziale europeo nato dalla fusione tra compagnie francesi, spagnole e tedesche – ha confermato la vendita alla Libia, per 168 milioni di euro, di missili anticarro “Milano” da parte della sua controllata Mbda, una joint venture tra la Eads, la britannica Bae Systems e l'italiana Finmeccanica. Un secondo contratto da 128 milioni di euro per la vendita di sistemi avanzati di comunicazione militare “è in corso di finalizzazione”, ha aggiunto il comunicato della compagnia. Secondo la Eads, l'accordo è arrivato dopo un anno e mezzo di trattative, concluse con una stretta finale iniziata lo scorso giugno.
 
Nuovi affari. Tutta iniziativa privata, o c'è la mano del governo francese? Se anche così fosse, sarebbe legale: l'Unione Europea ha tolto l'embargo alla fornitura di armi alla Libia nell'ottobre 2004, dopo che Gheddafi accettò di risarcire i parenti delle vittime dell'attentato di Lockerbie nel 1988, quando un aereo di linea statunitense precipitò uccidendo 270 persone. In un'intervista concessa a Le Monde Saif al-Islam Gheddafi, uno dei figli del colonnello, ha ammesso che la soluzione della vicenda delle infermiere bulgare ha spianato la strada all'affare tra Parigi e Tripoli, accennando anche a operazioni militari congiunte. Soprattutto, il giovane Gheddafi ha affermato che la Francia ha accettato di risarcire, con 338 milioni di euro, le famiglie dei bambini libici che hanno contratto il virus Hiv nell'ospedale dove lavoravano le infermiere bulgare. “Non so dove abbiano trovato i soldi”, ha detto.
 
Nicolas Sarkozy e Muhammar GheddafiLe polemiche. Sarkozy ha negato qualsiasi correlazione tra la liberazione delle infermiere e la vendita di armi, anche se un suo portavoce ha concesso che il blitz libico del presidente francese ha “accelerato le cose a vantaggio delle compagnie francesi”. Ma nonostante il colonnello abbia fatto mea culpa per rilanciarsi a livello internazionale, fare affari con lui per molti rimane tabù. Il leader dei socialisti francesi, Francois Hollande, vuole vederci chiaro e non accetta il fatto che ora Gheddafi sia un interlocutore degno. “Se non c'è stato nessuno scambio, nessun baratto, perché è stato firmato un accordo militare con il regime di Gheddafi, un ex 'stato canaglia' responsabile di atti di terrorismo?”, ha detto Hollande. Per il ministro della difesa, Hervé Morin, queste critiche costituiscono una “procedura sistematica per demolire un vero successo diplomatico francese”. E comunque sia, ha aggiunto Morin, il beneplacito all'accordo fu dato lo scorso febbraio dall'allora presidente Jacques Chirac. Se è vero, Sarkozy è passato presto al sodo.

 

3 agosto

La distrazione dell'Occidente
Un richiamo disperato alla nostra indifferenza

di GABRIELE ROMAGNOLI

<B>La distrazione dell'Occidente<br>Un richiamo disperato alla nostra indifferenza</B>
Ci voleva la mano di cinquecento bambini per dirci che la storia dell'orrore non ha tempo né luogo. È un pozzo universale dove cadono le vittime dei massacri, unite dalla stessa catena. Dai villaggi del Darfur a quelli della Bosnia, dagli accampamenti degli indiani d'America alle città sudamericane saccheggiate dai conquistadores, la stessa linea di sangue e un unico tratto di matita. Metti che i disegni consegnati come materiale probatorio dalla Corte internazionale di giustizia fossero finiti sulla scrivania di qualcuno chiamato a interpretarli senza conoscerne la provenienza, che cosa avrebbe potuto dedurne?

Che siamo davanti all'ennesimo capitolo troppe volte già affrontato e solo a parole superato. È accaduto qualcosa di terribile ("morte" "morti", scrivono in didascalia sotto i cadaveri). Le vittime abitavano in villaggi, in case semplici come la vita che conducevano. I massacratori venivano dalla città. Le prime si muovevano a piedi. I secondi avevano quanto meno cavalli, ma anche veicoli a motore, carri armati, elicotteri, addirittura aerei per quanto dagli allegri colori. Le une, se reagivano, lo facevano tirando frecce dagli archi. Gli altri disponevano di armi tecnologicamente avanzate. E, ah sì, inevitabilmente, gli aggressori avevano la pelle più chiara, gli aggrediti la pelle scura. Sono rispettate in pieno le condizioni di base del massacro modello.

Ma ci sono anche le modalità ulteriori. Un disegno mostra un edificio le cui porte sono sprangate (benché da ingenui lucchetti), probabilmente dopo averci rinchiuso dentro centinaia di persone e in attesa della spianata dei bulldozer, come accadeva durante il conflitto etnico in Ruanda. Un altro, l'elicottero che uccide dal cielo, come in Vietnam, dove era "piacevole l'odore del napalm al mattino". In un terzo il fiume trascina i cadaveri, come avveniva negli insediamenti dei pellerossa spazzati via dai soldati con la giubba. I massacratori si portano via le donne come bottino di guerra, torturano i bambini, decapitano i morti. Come in Bosnia. E altrove.

Questa dei bambini del Darfur è veramente una galleria universale. Lo specifico è dato soltanto dai tetti di paglia delle capanne, dalla pancia gonfia di donne e bambini denutriti, dalle scritte d'accompagnamento, che qualcuno ha tracciato in arabo, altri in francese. O forse c'è anche qualcosa di più e d'altro, ma noi non siamo in grado di accorgercene perché a quel che accadeva in Sudan abbiamo prestato un occhio disattento, appena distraendoci dall'Iraq o da Gaza (a essere ottimisti e a non dire da Corona e Ricucci), quando il grido di dolore veniva levato non tanto dagli orfani, quanto da Angelina Jolie (per i più coscienziosi, anche da Emma Bonino).

A ben pensarci, la sensazione di orrore più profonda che questi disegni comunicano è proprio la nostra capacità di riconoscervi qualcosa che abbiamo già visto altrove e con questo abbassare la nostra soglia d'attenzione e di ribrezzo. Gli analoghi disegni dei bambini americani dopo l'11 settembre ci stupivano perché ci riproponevano qualcosa di inedito e (forse, speriamo) irripetibile. E perché ci trasmettevano la loro forza di reazione (Superman ferma gli aerei prima che arrivino alle Torri) derivante dalla mancanza nel Dna di ogni precedente trauma da massacro.

Questi disegni ci raccontano qualcosa che conosciamo e che in fondo, cinicamente, pensiamo sia inevitabile debba ripetersi, in luoghi lontani dai nostri riflettori e dai nostri interessi economici. Sono una prova, non solo di quanto accaduto nel Darfur, ma anche della nostra indifferenza passata e futura.

 

1 agosto

 
Voci illustri contro il muro
Il presidente argentino Nestor Kirchner coglie l'occasione durante la sua visita in Messico e critica il muro voluto dagli Usa per difendersi dall'invasione di immigrati clandestini
Il presidente argentino Kirchner durante la sua visita in Messico definisce il muro di frontiera “vergognoso” e lancia un appello in favore del dialogo e della pace fra i popoli.
Una speciale task force di specialisti sostiene che la barriera comprometta anche la biodiversità dell'area, ricca di flora e fauna.
 
Clandestini lungo la frontieraKirchner e il muro. Non si è fatto pregare, non ha aspettato che qualcuno lo indirizzasse per il verso giusto. Il presidente argentino Nestor Kirchner durante la sua visita in Messico che terminerà oggi, ha voluto dire la sua sul muro che delimita la frontiera fra Messico e Stati Uniti. “E' vero oltraggio per tutti i popoli dell'America Latina” ha puntualizzato il peronista Kirchner che anche in questa circostanza ha dimostrato di voler lavorare a fondo per l'integrazione regionale latinoamericana.
Impegnato in un dsicorso ufficiale davanti a decine di rappresentanti del Senato messicano, il leader argentino ha chiesto simbolicamente all'amministrazione di Washington di riflettere a fondo sull'opportunità di continuare nei lavori di costruzione di quello che ha definito senza paura “il muro della vergogna”. E non ha nemmeno perso l'occasione per sottolineare le evidente differenze fra il suo pensiero di mondo e quello, facilmente presumibile, dei nordamericani. “Il mondo deve andare avanti per altri tipi di cammino – ha detto Kirchner – che sono quelli della pace, della conciliazione, della convergenza e del rispetto delle diversità. Per andare avanti servono migliori relazioni bilaterali e il rispetto a tutte le nazioni del mondo”. Chiari i riferimenti alla guerra in Iraq portata avanti ormai da anni dagli Usa che ha giù causato più di 3.500 morti fra i soldati dello zio Sam e circa 655 mila vittime irachene nel loro totale.

 
cartelli che indicano la presenza di specie animali pericoloseL'aspetto ecologico. La barriera fra i due stati, voluta dall'ex presidente Usa Bill Clinton e visibilmente apprezzata anche dall'attuale presidente rientrava nell'ottica del progetto “Gatekeeper” o “Operacion Guardian” che mirava, fra le altre cose, a bloccare drasticamente l'immigrazione clandestina proveniente da tutto il centro e sud America via Messico.
Oggi il problema immigrazione non è stato risolto, si calcola che dal 1994 non sia mai diminuito il numero di persone che entra senza documenti negli Usa, ma altri questioni si affacciano lungo la linea di confine. Il più attuale e forse il più importante riguarda l'aspetto ecologico del muro.
Uno studio realizzato da più di 50 specialisti (gran parte dei quali statunitensi) avrebbe messo in luce gli aspetti inquinanti e fortemente deleteri della presenza del muro tanto che il governo di Città del Messico potrebbe decidere di portare la questione davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja. Secondo gli studiosi, infatti, la presenza della barriera artificiale presente in un'area di circa 100 mila chilometri quadrati metterebbe a rischio la vita di innumerevoli specie animali, come l'orso nero messicano e il giaguaro che già sono specie in serio pericolo d'estinzione. Ma, prima di ricorrere a queste misure estreme il governo messicano è disposto a analizzare anche altre ipotesi. Ad esempio si pensa alla costruzione di un corridoio ecologico che non sia in alcun modo utilizzabile dai clandestini e dai loro sfruttatori.
“Il muro in costruzione pone in serio pericolo l'ecosistema che si dividono i due paesi e le specie animali che lo abitano”, dice Juan Rafael Elvira dalla segreteria del ministero dell'Ambiente messicano.

 
La barriera arriva fino al mare di San Diego/TijuanaLa frontiera sud. Forse per spostare l'attenzione su nuovi obiettivi, forse per far vedere che i controlli di polizia funzionano bene, dalla frontiera sud del Messico con il Guatemala giungono notizie inquietanti. Decine di immigrati irregolari provenienti da ogni angolo del centroamerica sono stati scoperti all'interno di camion che transitavano la frontiera. Per una cifra che si aggira fra i 3 e i 6 mila dollari i clandestini credono di comprarsi un nuovo stile di vita che li possa condurre con facilità alla conquista dell'american dream. Ma non sempre tutto funziona per il verso giusto e ci si ritrova a dover tristemente fare il conteggio delle vittime di quello che è considerato uno dei traffici più redditizi per le organizzazioni malavitose presenti in sudamerica. Nelle ultime settimane, infatti, più di 300 clandestini sono stati “scoperti” mentre tentavano di entrare clandestinamente in Messico. Erano quasi tutti in condizioni di salute pessime.


 

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