Archivio Novembre 2006

 

30 novembre

In un'intervista a Rtl 102.5 il carabiniere ribadisce: "Mi auguro di poter contribuire
ad accertare la verità, anche se mi hanno detto che non uscirà mai"
Placanica accusa: "Hanno inquinato le prove"
ma la Procura non riapre l'inchiesta

I magistrati di Genova scettici: "Non ha detto nulla di nuovo. Doveva parlare in tribunale"

<B>Placanica accusa: "Hanno inquinato le prove"<br>ma la Procura non riapre l'inchiesta</B>

Mario Placanica

ROMA - Lancia nuove accuse Mario Placanica, il carabiniere incriminato e poi prosciolto per la morte di Carlo Giuliani al G8 di Genova: "A Genova hanno inquinato le prove", ma la Procura di Genova non riaprirà le indagini. Il procuratore capo Francesco Lalla lo ha detto chiaramente: "La nostra posizione per ora è assolutamente negativa. Placanica non ha detto nulla di nuovo sul fatto per cui è stato indagato. Quando Placanica dice cose parzialmente nuove - ha aggiunto Lalla - non le riferisce per scienza diretta ma per sentito dire da altri. Placanica avrebbe potuto
raccontare le sue verità nella sede propria del processo,non adesso in un'intervista".

Ma Placanica non tace: "Alla fine ho pagato solo io. Mi auguro di poter contribuire ad accertare la verità - ha detto Placanica in una intervista a Rtl 102.5 - anche se già mi hanno detto che non uscirà mai".

Sulla vicenda interviene anche il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, che afferma: "La via maestra da seguire è quella della riapertura dell'inchiesta giudiziaria. Per i casi di Genova risollevati dalle presunte rivelazioni dell'ex-carabiniere Placanica che uccise negli scontri del G8 il povero giovane Giuliani, è certo necessario fare chiarezza nello stesso interesse dell'Arma", ha motivato Cossiga.

Nell'intervista a Rtl 102.5, Placanica ricostruisce quel giorno del 2001. "Io ero addetto al lancio dei lacrimogeni, ma... me lo tirò dalle mani perchè diceva che non ero idoneo a sparare, perchè non sapevo sparare... invece io ho sparato a parabola, normalmente, come si spara sempre, in regola. Ma lui mi diceva che dovevo sparare ad altezza d'uomo... stavo male, mi hanno spostato vicino a Piazza Alimonda, dove ho visto pestare a sangue dei manifestanti, fino a che non gli uscivano le bave bianche dalla bocca. Sono salito sulla camionetta, un plotone ci faceva da scudo, ma poi i manifestanti hanno attaccato e i carabinieri sono arretrati, scappando".

"Hanno lasciato i mezzi senza protezione e a quel punto - ricorda Placanica - i manifestanti ci hanno aggrediti, c'era lancio di pietre, di oggetti, hanno rotto i vetri della camionetta... ricordo benissimo, io quel giorno ho sparato in aria, e davanti a me c'era solo il fumo dei lacrimogeni e della pistola, io Carlo non l'ho visto, ho mirato in aria, avvertivo pericolo, la camionetta era piena di oggetti, io li scalciavo fuori con i piedi...".

Placanica conferma quindi di aver sparato in aria: "Si, io ho sparato in aria, e loro ci hanno abbandonato, non sono intervenuti, anche se potevano: erano in numero superiore ai manifestanti, invece ci hanno lasciato soli, non hanno fatto niente, hanno aspettato che qualcuno di noi morisse".

 

1.245 voli segreti Cia Nient'affatto segreti

Il rapporto finale della commissione europea presentato oggi a Bruxelles
Alberto D'Argenzio
Bruxelles

Ci va giù duro Claudio Fava. Il rapporto preliminare sulle operazioni della Cia in Europa, firmato dall'euro-deputato dei Ds per la Commissione temporanea del parlamento europeo, non risparmia governi, servizi segreti e nemmeno i rappresentanti delle istituzioni comunitarie e della Nato. In pratica non guarda in faccia a nessuno. Alcuni tra loro hanno collaborato con la Cia, altri, più semplicemente, hanno mentito o hanno guardato da un'altra parte.

Il rapporto verrà presentato stamane a Bruxelles dallo stesso autore, ma già eri sera è iniziata la sua discussione all'interno della Commissione ad hoc in vista della votazione prevista ad inizio 2007. Poi anche i governi verranno obbligati a guardare dentro alla scatola nera delle attività della Cia in Europa e, eventualmente, render conto delle loro responsabilità. «I 25 hanno taciuto e mentito - avverte Fava - molti governi sapevano da più di un anno delle detenzioni illegali, l'hanno saputo direttamente da Condoleezza Rice. Adesso speriamo che sappiano assumersi le loro responsabilità». Intanto Amnesty international applaude al lavoro svolto.

Dopo quasi un anno di indagini, dopo diverse audizioni in cui sono sfilate 154 persone e tra loro una decina di vittime (o i loro rappresentanti), dopo varie missioni all'estero, da Washington ai Balcani fino alla Polonia ed alla Romania, il rapporto si riempie di una serie di dati utili a disegnare un panorama inquietante. Almeno 10 sono state le extraordinary rendition, le detenzioni illegali, messe in atto dalla Cia sul territorio Ue anche grazie alla collaborazione o all'inazione dei servizi di intelligenza o dei governi europei. 1245 è il numero dei voli che dopo l'11 settembre 2001 atterranno negli aeroporti comunitari trasportando, a volte, anche dei detenuti imprigionati illegalmente e quindi trasportati a Guantanamo, in Afghanistan o in paesi amici come l'Egitto o la Giordania, e qui interrogati e sottoposti a tortura e/o a regime di incomunicabilità. E «serie» sono le «evidenze circostanziali» che indicano la possibile esistenza di un centro di detenzione, ossia di una prigione segreta, a Stare Kiejkuty in Polonia. Discorso analogo per la Romania.

L'Italia viene citata soprattutto per via del rapimento di Abu Omar, delle reticenze dell'ex direttore del Sismi Pollari (ora consigliere speciale di Prodi), ma anche per il prezioso ruolo svolto dalla procura di Milano. Con l'Italia «colpevoli» altri 10 Stati membri - Regno unito, Polonia, Germania, Spagna, Portogallo (all'epoca dei fatti il premier era il commissario europeo Barroso), Austria, Irlanda, Grecia, Cipro e Danimarca - uno che entrerà a gennaio - la Romania - due candidati - Turchia e Macedonia. Poi il Kosovo e la Bosnia Erzegovina.

«La prima conclusione - spiega Fava - è che non si tratta di episodi isolati, ma di elementi che disegnano un sistema consolidato che gli Stati uniti hanno potuto applicare in modo strutturato grazie alla cooperazione dei governi europei». E qui emergono due tipi di collaborazione: «C'è quella grossolana dei servizi di intelligenza italiani (nel caso del rapimento di Abu Omar, ndr) ed un'altra che passa attraverso la legittimazione degli abusi. Membri dei servizi britannici e tedeschi si sono recati in alcuni paesi terzi per interrogare delle persone, dei loro concittadini, rapite illegalmente. In questa maniera hanno legittimato il metodo della Cia».

Gli elementi che inchiodano servizi e governi sono tanti, alcuni inconfutabili, come quelli sui voli, altri fortissimi, come quelli figli delle indagini «rigorose» svolte dalla giustizia italiana, spagnola e tedesca, altri, infine, forniti da fonti considerate attendibili, come ex agenti della Cia e ong. Per non citare la ciliegina: lo stesso Bush che ammette l'uso delle rendition.

Ma dal Consiglio, dai 25, per ora è arrivata poca cooperazione e molto ostruzionismo. Per questo il rapporto Fava accusa di reticenza il Regno unito, la Polonia e la Romania; esprime la sua «profonda preoccupazione per le omissioni» di Javier Solana, il superesponsabile della politica estera dell'Unione; si interroga sull'utilità e sul contenuto reale delle funzioni di Gijs de Vries, alias Mr. Terrorismo; «deplora» il rifiuto del direttore di Europol a comparire di fronte alla Commissione temporanea ed esprime «insoddisfazione» per l'analogo comportamento tenuto Jaap de Hoop Scheffer, il segretario generale della Nato.

Il rapporto sarà votato a gennaio dalla Commissione ad hoc, poi a febbraio dall'euro-parlamento, quindi la palla tornerà agli Stati membri. «Starà a loro decidere». Quel che è certo è che non potranno più negare.

 

Corno d'Africa

Somalia ed Etiopia verso la guerra

Primi scontri Battaglia nella Somalia centrale. Le Corti: jihad contro il nemico

Emilio Manfredi

Addis Abeba

Ormai non è più solo guerra verbale tra l'Unione delle Corti islamiche somale e l'Etiopia, le forze dispiegate sul terreno da entrambe le parti sono pronte a darsi battaglia. Anzi, stando a Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, capo dell'esecutivo delle Corti, il conflitto sarebbe già cominciato ieri, con uno pesante scambio di colpi di mortaio nei pressi del villaggio di Bandiradley, nella Somalia centro-settentrionale. «Le truppe etiopiche sono ormai dislocate in molte aree del territorio somalo con l'intenzione di occupare il nostro Paese. Tutto ciò è inaccettabile», ha dichiarato Sheikh Sharif, intervenendo ieri ad una grande manifestazione contro l'Etiopia a Mogadiscio. «È dovere di ogni uomo e di ogni donna somali sacrificare la propria vita per la difesa della patria, poiché Melese Zenawi (il Primo Ministro etiope, ndr) vuole occupare la Somalia e sconfiggere l'Islam», ha urlato Sharif alla folla mentre donne col viso velato impugnavano mitragliatori, dichiarandosi pronte a morire per la guerra santa. «Un'enorme quantità di truppe di Addis Abeba, equipaggiate con carri armati e artiglieria pesante hanno raggiunto oggi il villaggio di Bandiradley, dove sono di stanza i nostri uomini. Ora sta a voi, popolo di Somalia, non aspettare il nemico ma attaccarlo», ha concluso il leader islamico. Dunque, pare certo che il primo fronte della guerra stia per aprirsi a Bandiradley, 700 chilometri a nord di Mogadiscio. Bandiradley è un villaggio strategico della Somalia centrale, nei pressi di Galkayo, sulla via del Puntland, una regione semiautonoma politicamente molto legata all'Etiopia. Proprio a Galkayo, le prime linee etiopiche sono giunte a meno di 5 chilometri dagli avamposti dei miliziani islamisti, stando a fonti locali contattate dal manifesto. Il secondo fronte della guerra, invece, sarà a Bur Aqaba, ultima città controllata dalle Corti Islamiche in direzione di Baidoa, cittadina periferica a 250 chilometri dalla capitale, dove ha sede il governo di transizione (Tfg), isolato e mantenuto in vita dalla massiccia presenza di soldati di Addis Abeba.

Il comizio di ieri è servito alle Corti anche per respingere i piani americani per la Somalia. Infatti, siamo alla vigilia di una riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in cui si discuterà una mozione Usa sulla rimozione dell'embargo sulle armi in vigore in Somalia, che dovrebbe autorizzare l'intervento di una forza di peacekeeping africana. Per Washington l'iniziativa dovrebbe restituire stabilità alla Somalia, mentre secondo molti analisti (e l'Unione Europea) la decisione statunitense avrà solo l'effetto di una tanica di benzina gettata su in incendio già acceso. Parlando ieri, il capo militare degli islamisti, Sheikh Yusuf «Inda'ade» ha accusato gli Stati Uniti di premere sull'Etiopia per l'invio di un maggior numero di truppe sul fronte somalo. «Chiunque abbia supportato Zenawi è per noi un obiettivo, ovunque sia», ha detto il capo militare degli islamisti, invitando i Paesi del Corno d'Africa a non inviare truppe in Somalia. Inda'ade ha poi aggiunto: «se il mondo non fermerà gli Stati Uniti, inviteremo tutti i guerrieri islamici a venire in Somalia per respingere il nemico».

 

Violenze e segregazioni Allarme razzismo nell'Ue

Antislamismo e antisemitismo, immigrati discriminati su casa e lavoro, rom ghettizzati. Un dossier presentato al Parlamento europeo accusa i paesi Ue. Palma nera alla Danimarca e alla Francia
A. D'Arg.
Bruxelles

Antisemitismo, islamofobia, violenza contro i rom o più semplicemente contro immigrati, stranieri e richiedenti asilo. Discriminazione e segregazione nell'accesso alla casa, nell'educazione e sul posto di lavoro, mancanza di strumenti efficaci per contrastare i crimini legati al razzismo e, a volte, addirittura mancanza di chiare informazioni ufficiali sui fenomeni di violenza razziale e di discriminazione. Il panorama disegnato ieri dall'Osservatorio europeo contro il razzismo e la xenofobia, presentando il rapporto 2005 al Parlamento europeo, è francamente desolante: in Europa l'odio razziale è sempre più di moda. E non sempre i governi attuano con la dovuta decisione. È anche vero che non mancano buone pratiche e una certa presa di coscienza da parte di alcuni esecutivi, oltre a molto lavoro di campo svolto dalle Ong, ma l'integrazione ed il rispetto delle minoranze restano ancora una chimera nella Ue.

I problemi emergono già alla base. Solo Regno unito e Finlandia hanno infatti un efficace e completo sistema di rilevamento dei crimini legati al razzismo ed alla discriminazione, altri nove - Austria, Repubblica Ceca, Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Polonia, Slovacchia e Svezia - possiedono un «buon sistema», indica l'Osservatorio, un istituto comunitario con base a Vienna. Gli altri paesi ricevono dei giudizi insufficienti, vuoi perché hanno un metodo «limitato», vuoi perché direttamente non raccolgono i dati, come succede in Italia, Spagna, Grecia, Cipro e Malta. E si tratta di una doppia mancanza visto che proprio nel lato sud del Mediterraneo è più forte la pressione migratoria. A dire il vero in Italia, tra il 2002 ed il 2003, l'Istat ha pubblicato le statistiche legate ai crimini di «discriminazione razziale», ma poi basta. «Questi paesi - afferma Beate Winkler, direttrice dell'Osservatorio - non possono valutare in che misura sono riusciti a rompere il circolo vizioso delle privazioni, dei pregiudizi e della discriminazione visto che non hanno dati chiave che gli permettono di studiare come le loro politiche sociali ed economiche influiscono sulle minoranze etniche e sui migranti». Il vuoto informativo lasciato dagli Stati viene spesso riempito con le informazioni fornite dalla Ong, ma ciò non toglie responsabilità ai governi europei. Altre volte il vuoto è doppiamente colpevole, visto che si tratta di abusi perpetrati dagli stessi funzionari pubblici.

E se poi si va a spulciare nei paesi in cui i dati sugli incidenti razziali e sulla discriminazione vengono raccolti con criterio, emerge un trend assai negativo. Nel periodo 2000-2005 sono infatti aumentati i crimini praticamente dappertutto, con la Danimarca che fa registrare la maggior crescita, un più 68,7%, seguita dalla Slovacchia, più 43,1%, e la Francia, più 34,3%. Il 2005 è d'altronde ricordato soprattutto come l'anno della rivolta nelle banlieues, simbolo diretto del senso di frustrazione e di discriminazione, vissuto quotidianamente da una larga fascia di immigrati francesi di terza-quarta generazione.

Guardando all'Italia, il rapporto sottolinea la situazione di sfruttamento a cui vengono sottoposti gli immigrati sul posto di lavoro, soprattutto quando si guarda ai lavoratori agricoli nel Meridione. Non sfuggono poi i requisiti imposti per l'assegnazione delle case popolari da parte della regione Lombardia e dei comuni di Parma e Brescia, che di fatto limitano l'accesso degli immigrati. Negli ultimi anni, sottolinea sempre il rapporto, non è migliorata la situazione dei rom, una comunità che vive episodi di ghettizzazione urbana e di segregazione scolastica, in Italia come in molti altri paesi europei, soprattutto ad est. Per sostenere la causa dei rom si è presentato ieri al Parlamento europeo anche Joaquin Cortes. Il ballerino ha ricordato come la sua etnia, forte di 10-12 milioni di persone, faccia registrare vari record in Europa, a partire dalla disoccupazione per finire con l'abbandono scolastico. Dati peggiori di quelli di qualsiasi altro gruppo etnico presente sul vecchio continente, immigrati compresi. «I rom sono particolarmente vulnerabili alla violenza e delinquenza razzista, anche dei funzionari pubblici», ricorda l'Osservatorio. Ma non sono gli unici a passarsela male. «I membri della comunità ebraica continuano a soffrire l'antisemitismo e la crescente islamofobia è una questione alquanto preoccupante». «Non ci sono stati miglioramenti importanti in Europa» è la conclusione finale.

 

Tatozzi: «Ecomafie sistema eversivo»

Le attività degli ecocriminali condizionano e gestiscono il mondo del lavoro e interi settori economici. L'allarme dell'Alto commissario anticorruzione / Mastella: «Preveniamo gli ecoreati» / LEGAMBIENTE: «Business da 18miliardi l'anno»

L'ecomafia è diventata un vero e proprio «sistema eversivo di contropotere capillare ed insidioso in grado di condizionare e gestire il mondo del lavoro e rilevanti settori economici ed amministrativi». E il risultato è "un impatto ambientale devastante" e un "abusivismo edilizio imponente e indiscriminato". A lanciare l'allarme è lo studio dell'alto commissario anticorruzione sui "pericoli di condizionamento della pubblica amministrazione da parte della criminalità organizzata", presentato oggi al Cnel dall'Alto commissario Gianfranco Tatozzi.

E se, secondo il dossier, «vicende quali l'emergenza rifiuti in Campania, Porto Marghera, Priolo, Punta Perotti, gli spiaggiamenti di navi sulle coste meridionali, testimoniano di un'emergenza ambientale che incombe da tempo sul nostro paese», sono in realtà solo la punta dell'iceberg, «casi eclatanti», rispetto a «molte altre realtà cresciute all'ombra di condizionamenti economico-sociali di diversa natura», da quelli industriali a quelli imposti dalla criminalità organizzata.

«L'inserimento nel ciclo del cemento - si legge nella relazione - rappresenta per la criminalità organizzata un interesse di tipo strategico ed il mezzo per imporre tangenti ed estorsioni che, unite ad una illecita gestione delle procedure di assegnazione degli appalti, determinano un sistema eversivo di contropotere capillare ed insidioso». «L' impatto per l'ambiente che ne deriva - scrive l'alto commissario - è devastante per ampie aree, investite anche da abusivismo edilizio imponente e indiscriminato». Lo studio dell'Alto commissario sottolinea come ormai «il traffico di rifiuti pericolosi trattati e smaltiti con sistemi illegali costituisce una vera attività economica, lucrosa e ben sviluppata».

 

Parla l'ex carabiniere coinvolto nella morte del manifestante durante il G8

"Non l'ho ucciso io, ma i colleghi ridevano e mi dicevano 'benvenuto tra gli assassini'"

La confessione di Placanica: "Non sparai a Carlo Giuliani"

"Troppi interrogativi non risolti, cerco la verità"

CATANZARO - "Continuavano con il lancio di oggetti, io ho gridato che avrei sparato. Poi ho sparato in aria. Due colpi, tutti e due in aria". E sul selciato rimase Carlo Giuliani, colpito in testa dal proiettile. E' quanto racconta in una lunga intervista al quotidiano Calabria Ora, Mario Placanica. L'ex carabiniere accusato e poi prosciolto per la morte di Giuliani avvenuta durante il G8 di Genova, descrive in modo parzialmente nuovo quelle drammatiche ore del 20 luglio 2001.

Placanica ricostruisce così una tra le pagine più nere della storia d'Italia. Dall'arrivo a Genova: "I superiori ci dicevano di stare attenti, ci raccontavano che ci avrebbero tirato le sacche di sangue infetto. Ci dicevano di attacchi terroristici. La sensazione era come se dovessimo andare in guerra".

Un clima che generò violenze continue. Poi arrivò piazza Alimonda, il Defender con a bordo Placanica che resta intrappolato e accerchiato dai manifestanti: "Ci hanno lasciato soli, ci hanno abbandonato. Potevano intervenire perchè c'erano i carabinieri e anche gli agenti della polizia. Potevano fare una carica per disperdere i manifestanti e invece non hanno fatto niente. Quel momento è durato una vita". E tornano alla mente le immagini di un plotone dei carabinieri fermo a poca distanza dalla jeep attaccata.

Poi la morte di Giuliani. Al rientro di Placanica in caserma, i colleghi "mi hanno fatto una festa, mi hanno regalato un basco del Tuscania, 'benvenuto tra gli assassini', mi hanno detto. Si, erano contenti. Dicevamo Morte sua vita mia, cantavano canzoni. Hanno fatto una canzone anche su Carlo Giuliani. Io ero assente, non volevo stare con nessuno, mi sentivo troppo male".

Poi il processo. Che, però, non fuga tutte le ombre e si conclude con l'assoluzione del militare: il colpo è stato deviato da un sasso. Una carambola mortale che sarebbe costata la vita a Giuliani. "Sono stato un capro espiatorio usato per coprire qualcuno. Le porte sono chiuse per Placanica. Però se vengo congedato per problemi psichici chi mi crede" continua l'ex carabiniere.

A distanza di cinque anni dalla morte di Giuliani, Placanica ritiene di essersi trovato in "un ingranaggio più grande di me. Ero nel posto sbagliato, non si potevano mandare ragazzi inesperti e armati in quella situazione". Molti gli interrogativi che si pone l'ex carabinieri: "Secondo me sul G8 non è stata detta tutta la verità. Ci sono troppe cose che non sono chiare, come ad esempio: perchè alcuni militari hanno 'lavorato' sul corpo di Giuliani? Perchè gli hanno fracassato la testa con una pietra? Ritengo che cremare il corpo di Giuliani sia stato un errore, forse si sarebbe potuto scoprire di più. Sono alla ricerca della verità. Come fanno a dire che l'ho sparato in faccia. Non è vero. E' impossibile. Non potevo colpire Giuliani. Ho sparato sopra la ruota di scorta del Defender".

Una versione che, riferisce il 'Quotidiano della Calabria' sarebbe circolata anche "negli ambienti del Viminale" dove ieri si parlava di un "colloquio confidenziale" dello stesso Placanica.

 

28 novembre

 

Correa verso il trionfo

L'Ecuador dice no all'uomo più ricco del paese e impone al timone l'economista di sinistra Correa

“Ho vinto, ho vinto, ho vinto e continuerò a lottare per i poveri”. Con queste parole, Rafael Correa, candidato di Alianza Pais, colaizione di sinistra, al ballottaggio per le presidenziali in Ecuador, svoltosi ieri, ha posto un sigillo alla sua vittoria, sempre meno virtuale. Le urne ecuadoriane contengono ancora molte schede da vagliare, ma i giochi sembrano ormai fatti: il Tribunale supremo elettorale, dopo averne scrutinate il 46.82 percento, ha annunciato che in favore di Correa si è espresso il 68.49 percento dei cittadini. Un vantaggio di oltre 33 punti, dunque, sul multimilionario Alvaro Noboa, il re delle banane, il quale, Bibbia alla mano, ha precisato che al minimo segno di broglio imporrà di ricontare i voti scheda per scheda.

Il male minore. E così, da ieri sera, quando le prime proiezioni hanno evidenziato la tendenza mai mutata di un Correa in netto vantaggio, molti simpatizzanti in festa hanno sfidato il freddo e invaso le strade della capitale fino alle prime luci dell’alba, anche se con compostezza. Secondo quanto riferisce al quotidiano argentino Pagina 12 Diego Araujo Sanchez, editorialista del giornale ecuadoriano Hoy, il paese è rimasto avvolto da un clima di relativa passività. “Il 35 percento guadagnato da Correa in questo ballottaggio non è formato da voti di persone totalmente convinte del suo progetto. Sono perlopiù voti contro Noboa”.

Ed è la sensazione anche durante il voto: “Ho scelto il male minore”, si sono sentiti ripetere i giornalisti inviati nei più disparati seggi.

Un voto “anti”. Secondo le prime analisi, Correa si è imposto nella regione della sierra, bastione dei settori moderati e professionali, a Quito e nelle aree dei piccoli produttori di banane, come la provincia dell’Oro, dove è stato forte il disagio dimostrato contro i grandi e spietati impresari alla Noboa. Anti-Noboa anche il voto della classe media e dei professionisti, schierati contro l’uomo più ricco del paese.

Contropiede. “Dopo tutti questi anni di politiche sociali ed economiche conservatrici, colpevoli di questa tragedia chiamata emigrazione, non ci hanno potuto rubare la speranza. Abbiamo vinto”. Questo il discorso del 43enne economista che sarà il nuovo presidente dell’Ecuador. Mostrando una compostezza consapevole del difficile compito che è stato chiamato a svolgere, Correa ha deciso di lasciare sin da subito in disparte i toni di una campagna elettorale che non poteva che essere aggressiva e, con pacatezza, ha voluto nuovamente allontanare i fantasmi che lo hanno perseguitato in questi mesi, precisando che manterrà il dollaro come moneta ufficiale e ribadendo la necessità di chiamare al governo gente dalle mani e dalla coscienza pulite. Quindi, contro ogni aspettativa, ha annunciato parte della squadra di governo.

I nomi del potere. Agli Interni andrà Gustavo Larrea, responsabile della sua campagna elettorale, esperto in diritti umani e da sempre uomo di sinistra; al ministero per l’Energia, Alberto Acosta, duro critico della dollarizzazione e all’Economia, invece, Ricardo Patiño, ex sottosegretario del dicastero economico, nonché forte oppositore al pagamento del debito estero. L’uomo chiave ai vertici dell’impresa statale Petroecuador, infine, sarà Carlos Pareva Yannuzzelli, l’ideatore della strategia che è culminata con la rottura del contratto con l’impresa Usa Occidental e ha portato all’espropriazione di tutti i suoi beni, costando al paese le ire della Casa Bianca, la quale è arrivata a sospendere le trattative per il trattato di libero commercio (Tlc).

“Il nostro sogno – ha precisato l’economista a nome di tutti – è costruire una patria nella quale nessuno debba più uscire dal paese per necessità, dove possano tornare coloro che già sono partiti e trovare salute, educazione, cibo, lavoro e dignità”.

Stella Spinelli

 

Ionio inquinato, 21 denunce

Cinque insediamenti industriali sotto sequestro a Catanzaro per 100 milioni di euro. Secondo i Carabinieri smaltivano illegalmente rifiuti speciali deturpando il tratto di mare antistante il Lido. Reflui fognari non depurati nei fiumi Corace e Amato

Cinque insediamenti industriali, terreni per 120 mila metri quadrati e otto camion, per un valore complessivo di circa 100 milioni di euro, sono stati sequestrati dai carabinieri di Catanzaro nell'ambito di una serie di servizi finalizzati alla tutela ambientale.

Ventuno persone sono state denunciate. In particolare i Carabinieri, coordinati dalla Procura della Repubblica di Catanzaro, hanno individuato le probabili cause dell'inquinamento del tratto di mare Ionio antistante il quartiere Lido del capoluogo della regione. Nel corso dei servizi sono stati sequestrati, oltre agli insediamenti industriali, anche discariche abusive ed impianti di lavorazione di inerti.

Durante i controlli sono emerse gravi violazioni della normativa ambientale, che vanno dalla raccolta, trasporto e smaltimento di rifiuti speciali al deturpamento ambientale in luoghi con vincoli paesaggistico-ambientali. Gli impianti industriali non autorizzati all'emissione di fumi in atmosfera, gli scarichi di reflui fognari non depurati e l'immissione di fanghi industriali nella rete fognaria, sono, per i carabinieri, tra le cause accertate che potrebbero avere provocato l'inquinamento dei fiumi Corace e Amato.

 

Libertà di repressione

Un reportage dall'Egitto, dove esprimere liberamente un'opinione è sempre più dura

scritto per noi da Federica Zoja

La libertà d’espressione è sempre più nel mirino del regime egiziano. A denunciarlo è Amnesty International, che in un rapporto sulla Repubblica araba d’Egitto segnala due casi recenti, quello del blogger Abdel Karim Sulaiman Amer e quello di Tal’at Sadat, nipote del presidente assassinato il 6 ottobre 1981.

Diritti calpestati. Amer, già studente della moschea universitaria di Al Azhar, è stato arrestato ed è tuttora imprigionato per le sue critiche all’ateneo cairota e alle autorità religiose egiziane.Tal’at Sadat, membro del Parlamento egiziano, è stato processato per direttissima da un tribunale militare per “aver diffuso voci false e insultato le forze armate”. In occasione dell’anniversario della morte dello zio, Tal’at ha sostenuto il coinvolgimento di alcuni ufficiali delle forze armate e dello stesso presidente Hosni Mubarak nell’assassinio, materialmente eseguito da sei integralisti islamici. Al momento, il blogger Amer, dopo una prima detenzione di quattro giorni per aver “incitato l’odio nei confronti dei musulmani” e “diffamato il presidente della Repubblica”, è ancora in prigione: in virtù della legge d’emergenza, in vigore in Egitto proprio dall’uccisione di Anwar Sadat, la detenzione può essere rinnovata senza limite e i cittadini processati da tribunali militari.

Tal’at Sadat, privato della propria immunità parlamentare, è stato condannato a un anno di lavori forzati.

Sulla stessa linea della denuncia di Amnesty International anche il rapporto di Reporter senza frontiere (Rsf) sui cosiddetti ‘paesi nemici del web’. Rispetto all’elenco del 2005 vi è qualche cambiamento, con l’uscita di scena di Nepal, Maldive e Libia, e l’ingresso dell’Egitto fra i super-censori.

Liberi di tacere. L’evoluzione negativa della libertà d’espressione in Egitto desta particolare preoccupazione, se si pensa che proprio nell’ultimo anno il paese nordafricano è stato sotto i riflettori della comunità internazionale in occasione delle elezioni presidenziali del 7 settembre 2005 e di quelle legislative del novembre dello stesso anno. Durante la campagna elettorale, su pressione di Stati uniti e Unione europea, l’Egitto ha concesso maggiore libertà agli organi di stampa, con una relativa apertura del dibattito politico anche all’opposizione. Se il rapporto diffuso dall’organizzazione è fondato, viene da pensare che, appena terminato il processo elettorale, le autorità egiziane non solo siano tornate sui propri passi, ma abbiano scatenato una dura repressione nei confronti del mezzo per sua natura più libero, internet.
Che internet sia comunque fra le priorità del grande fratello egiziano lo dimostra una recente decisione di una corte amministrativa del Consiglio di Stato: le autorità possono disporre l’oscuramento di qualsiasi sito considerato pericoloso per la ‘sicurezza nazionale’.

 

L'afroamericano Sean Bell festeggiava l'addio al celibato
La sparatoria davanti a un locale. Esplode la protesta

Cinquanta colpi per uccidere un innocente
Sotto accusa la polizia di New York

Gli agenti sembrano aver agito senza alcuna giustificazione

<B>Cinquanta colpi per uccidere un innocente<br>Sotto accusa la polizia di New York</B>

Candele sul luogo della sparatoria

NEW YORK - La polizia l'ha ucciso sparandogli 50 colpi di pistola. Lui, Sean Bell, 23 anni, afroamericano, padre di due bimbe, stava festeggiando il suo addio al celibato. Il giorno dopo avrebbe sposato la fidanzata Nicole, conosciuta ai tempi del liceo. Era disarmato. Ancora non è chiara la dinamica dei fatti, le voci sono contrastanti. Ma l'altissimo numero di proiettili esplosi contro Bell e due suoi amici - Joseph Guzman e Trent Benefield rimasti gravemente feriti - ha fatto scrivere al New York Times che la polizia della Grande Mela sarebbe affetta da "grilletto facile". Polemiche e durissime critiche sono già sui gornali di oggi e sui siti internet. Ma in città c'è anche rabbia e non si possono escludere reazioni pesanti.

La ricostruzione dei fatti, seppure con molte approssimazioni, inizia alla centrale di polizia del Queens che indaga su un caso di presunto sfruttamento della prostituzione. In atto, questa l'ipotesi, in un locale di spogliarelliste. Dalla centrale inviano cinque agenti, in borghese. Quando alle quattro del mattino il futuro sposo e i suoi amici escono dal night, probabilmente un po' alticci, pare che uno di loro abbia chiesto ad un altro di tornare nel locale a prendere un arma. Questo secondo uno dei detective appostati. Gli agenti, sempre secondo la stessa fonte, avrebbero intimato poco dopo ai tre di alzare le mani. L'ordine sarebbe stato ignorato e il trio di amici avrebbe anzi tentato la fuga scontrandosi con il minivan della polizia, privo di segni di riconoscimento poiché gli agenti erano in borghese. Da qui la sparatoria.
Una delle ballerine del club ha invece dichiarato che la polizia non si sarebbe identificata, e non avrebbe neanche intimato ai giovani di consegnare le eventuali armi prima di aprire il fuoco. La versione dei detective è stata parzialmente smentita anche dal capo della polizia Raymond Kelly, che ha dichiarato più volte che "non è ancora chiaro se i cinque poliziotti avessero palesato la loro identità ai ragazzi. Come non sono chiari i motivi per cui sarebbe iniziata la sparatoria", ha concluso Kelly. Una folla di più di cento persone s'è riunita davanti all'ospedale in cui sono ricoverati i due amici di Bell feriti chiedendo le dimissioni di Kelly.

"Non abbiamo tutte le risposte. Indagheremo a fondo perchè un caso del genere non si ripeta", ha detto il sindaco di New York, Michael Bloomberg, che oggi ha incontrato i leader dei neri di New York nel tentativo di fare pace. Non è stato un colloquio facile: "Ci sentiamo come in un piccolo Iraq, soprattutto noi neri, non ci sentiamo protetti", ha detto il reverendo Lester Williams, che ieri avrebbe dovuto celebrare il matrimonio di Sean e della fidanzata. A Nicole Paultre, non è rimasto che recarsi stamattina ad accendere una candela davanti al locale dove il fidanzato ha trascorso l'ultima notte brava della sua vita.

Non è la prima volta che la polizia di New York è accusata di brutalità condita di razzismo: le centinaia di manifestanti che ieri hanno protestato chiedendo le dimissioni del capo della polizia avevano in bocca altri nomi tragicamente famosi: quello di Amadou Diallo, immigrato della Guinea ucciso con 41 colpi: era disarmato; o Ousmane Zongo, del Burkina Faso, anche lui innocente, anche lui ucciso con diversi colpi di pistola, due nella schiena o ancora dell'haitiano Abner Louima, sodomizzato due anni prima con un manico di scopa in un commissariato di Brooklyn. "Quando parli di 50 colpi, a che punto un poliziotto riesce ad accorgersi che nessuno lo sta minacciando?", si è chiesto il reverendo Al Sharpton, ex candidato presidenziale nero e capofila della protesta della comunità afro-americana di New York. "Come Louima e Diallo, questo sarà un caso spartiacque", ha detto Sharpton.

Quanto accaduto sabato al Club del Queens è davvero incredibile: un poliziotto, veterano con 12 anni di servizio, ha premuto il grilletto 31 volte, fermandosi a ricaricare; un altro, con cinque anni nella polizia, undici volte. Gli altri tre in tutto otto volte. Statisticamente questi numeri sono un'aberrazione: il numero di colpi sparati per agente coinvolto quest'anno in uno dei 112 scontri a fuoco è stato di 3,2 (erano cinque nel 1995).


 
Il «fantasma» sospeso e reintegrato
Una lavoratrice di una coop di servizi per l'ospedale S. Andrea era stata licenziata per aver parlato con quelli di «Report»
Francesco Piccioni
Roma
Se ci hanno provato le Ferrovie dello stato, si devono esser detti ai vertici della cooperativa Begonia, perché non dovremmo provarci noi? Detto fatto, appena finita la trasmissione di RaiTre Report sulle incredibili condizioni di lavoro all'interno della sanità, hanno «sospeso» la signora Eleonora Bussa, loro dipendente in servizio presso l'ospedale Sant'Andrea. La colpa? Ha risposto alle domande dei giornalisti sulla sua situazione contrattuale, sullo stipendio, il tipo di lavoro, ecc. Per lo stesso motivo, ricordiamo - e per la stessa trasmissione - erano stati licenziati quattro ferrovieri che avevano indicato alcuni buchi evidenti nella sicurezza del trasporto. Quella vicenda si sta trascinando ancora oggi tra scioperi e tribunali (uno di loro è già stato riassunto), mentre a Eleonora è giunta una lettera che la invitava a rispondere - tramite avvocato - entro 5 giorni alle accuse: affermazioni «aventi contenuto palesemente diffamatorio», che «hanno gravemente compromesso l'immagine della cooperativa». Stranamente, però, non è partita nessuna querela nei confronti di Report, segno che i contenuti non erano contestabili. Il lavoratori dell'ospedale - senza troppo stare a distinguere tra «stabili» (ossia dipendenti pubblici) e «fantasmi precari» (dipendenti dalle cooperative), si sono immediatamente mobilitati. Fino a convincere l'assessore regionale alla sanità, Augusto Battaglia (Ds), a premere sulla cooperativa per il reintegro immediato di Eleonora. In serata l'assessorato era ancora presidiato dai lavoratori; il presidente di Begonia assicurava gli assessori Battaglia e Tibaldi che il provvedimento era stato ritirato. Ma la lettera a Eleonora non ancora arrivata.
Nella sanità pubblica, l'esternalizzazione di molti servizi non ha neppure una motivazione economica (spesso costano molto di più che se non fossero fatti con dipendenti interni). Spesso si tratta di pura intermediazione di manodopera, peraltro vietata persino da una normativa ultrapadronale come la «legge 30». La coop Begonia, per esempio, nel S. Andrea usa cinque lavoratori per gestire l'«ufficio relazioni col pubblico», ovvero coloro che dietro lo sportello rispondono a domande come «dove sta il paziente Tal de tali?». Non proprio un «lavoro autonomo».
La trasmissione ha scatenato un putiferio nel mondo delle «cooperative» che forniscono agli ospedali infermieri, portantini, pulitori, addetti al catering, ecc, perché ha illuminato un verminaio cui si era spesso parlato su giornali come questo, ma che non era mai arrivato sotto l'occhio impietoso delle telecamere. La prima reazione - per esempio delle cooperative Osa e Capodarco - è stata quella di far firmare ai propri «soci lavoratori» una lettera in cui ci si dichiara in vario modo «orgogliosi» di appartenere a quelle coop e «personalmente offesi» dalla trasmissione. Peccato che la firma, stando alle testimonianze dirette, venga loro chiesta dai dirigenti al momento di incassare la busta paga. Ma il caso è ormai esploso ed è estremamente difficile «rattopparlo» con i metodi usati fin qui. L'immediata presa di posizione di numerosi consiglieri regionali, sia della nuova maggioranza di centrosinistra che dei vecchi colleghi di Storace (cui viene da molti imputato un grande ruolo nel promuovere l'irresistibile ascesa dei costi della sanità, nel Lazio e poi in Italia), dimostra che i vertici politici sono consapevoli di dover «fare qualcosa». Delle teste (ovvero dei contratti di appalto) dovranno cadere. Delle regole dovranno cambiare. E in modo visibile. Il Coordinamento dei «lavoratori fantasma», che ha immediatamente preso in mano la vertenza di Eleonora, punta l'indice contro la causa delle esternalizzazioni a favore delle coop degli «amici degli amici»; ovvero il «blocco della pianta organica» negli ospedali. Per il S. Andrea, ad esempio, è stata prodotta una ipotesi di nuovo organigramma, spedito alla Regione per l'approvazione. Ma dopo tre mesi ancora non è tornato indietro. Eppure da lì si può partire per «stabilizzare i fantasmi», fornire servizi migliori, garantire i diritti di chi lavora e... persino risparmiare qualcosa.

 
 
Sindaci «sceriffi», Sarkozy sotto accusa
Legge e ordine Le nuove norme contro la delinquenza non piacciono nemmeno al premier De Villepin e ai sindaci di destra
Anna Maria Merlo
Parigi
La legge di Sarkozy che trasforma i sindaci in «sceriffi», con ampi poteri di polizia e persino giudiziari, non piace a nessuno. Persino a destra protestano. Il primo ministro, Dominique de Villepin, ha impedito al ministro degli interni di inserire due norme particolarmente repressive nella legge sulla prevenzione della delinquenza che è in discussione da due giorni all'Assemblea nazionale (dopo essere già stata approvata in prima lettura al Senato a settembre): non ci saranno pene minime per la recidiva, imposte ai magistrati, e neppure verrà abbassata da 18 a 16 anni la maggiore età penale, che avrebbe permesso di fatto l'abolizione dell'ordinanza del '45 sui minorenni delinquenti (che garantisce, per esempio, che le pene ai minorenni vengano dimezzate rispetto agli adulti). Ma Sarkozy non si dà per vinto. La «sua» legge, in preparazione dal 2003, sarà applicata in tutta la sua estensione se sarà lui a vincere le presidenziali. Le due norme cancellate figurano nel programma politico dell'Ump per le legislative di giugno.
Contro la legge Sarkozy sta nascendo nella società un fronte di resistenza. Sindacati e associazioni, a cui partecipano anche magistrati e lavoratori sociali, hanno fondato un Collettivo nazionale unitario di resistenza alla delazione per combattere la legge «liberticida», che «minaccia la prevenzione, il diritto del lavoro, l'educazione, le cure e le libertà individuali». Secondo la Lega dei diritti dell'uomo, questa legge è la dimostrazione che «lo stato penale si rafforza mentre lo stato sociale si sfascia e vengono indicati dei capri espiatori: mendicanti, senza tetto, prostitute, immigrati, rom, zingari, giovani, famiglie considerate come inadempienti e lassiste». Il Collettivo rimprovera alla legge di «voler rafforzare i poteri dei sindaci e imporre il controllo e la schedatura di persone che presentano delle difficoltà sociali, educative e finanziarie, criminalizzare la psichiatria, rendere più severa la giustizia per i minorenni, trasformare la scuola in un centro di controllo della popolazione incitandola alla delazione».
I sindaci, anche quelli di destra, sono molto perplessi sui nuovi poteri che la legge assegna loro. Considerano che perderanno così il ruolo tradizionale di mediatori, che si è rivelato molto utile, per esempio, durante la rivolta delle banlieues dell'anno scorso. Ma Sarkozy ha fatto della «tolleranza zero» il suo credo politico. Per Sarkozy «è necessaria una maggiore fermezza, perché se troviamo delle scuse alla violenza, non dovremo poi stupirci di scoprire la barbarie. La sanzione è il primo strumento della prevenzione».
La legge si articola in quattro grandi capitoli: il primo riguarda la riforma della giustizia per i minorenni. Ci sarà ricorso sistematico al giudizio per direttissima, la giustizia low cost dei tribunali francesi, dove in poche ore sfilano di seguito gli accusati, senza che né i magistrati né gli avvocati - in genere d'ufficio - abbiano avuto il tempo di analizzare le accuse. I giovani potranno essere rinchiusi in centri educativi. Il secondo capitolo riguarda i poteri accresciuti dei sindaci, trasformati in sceriffi: i primi cittadini dovranno essere informati dagli insegnanti dei problemi di ogni singolo allievo e dagli operatori sociali, trasformati in delatori, toccherà a loro chiedere alla magistratura di sospendere gli assegni famigliari ai genitori lassisti, dirigeranno in ogni comune un consiglio per i diritti e i doveri delle famiglie. Il terzo capitolo riguarda di nuovo i sindaci: dà loro maggiori poteri per decidere se un cittadino deve essere rinchiuso d'ufficio in un ospedale psichiatrico (in Francia la maggior parte delle persone che si trovano nei manicomi sono state piazzate d'ufficio, su richiesta di un terzo, in genere un familiare). Infine, sull'onda di fatti di cronaca recenti, Sarkozy ha deciso nuove aggravanti, che comporteranno una maggiorazione della pena: agguati in banda contro pubblici ufficiali, per esempio, con condanne aggravate anche per chi non è stato direttamente responsabile dell'aggressione ma solo testimone.

 

Zimbabwe, sesso e benzina

L’economia è a pezzi, le prostitute si fanno pagare in carburante
Sull’autostrada che corre dalla capitale dello Zimbabwe Harare a Beitbridge, verso il confine con il Sudafrica, si affolla una miriade di improvvisati negozianti che vendono di tutto: dischi e vestiti usati, saponette, marijuana. Ma da un po’ di tempo, l’attrazione principale della zona sono diventate le highway girls, le ragazze dell’autostrada: provenienti dalle regioni centrali dello Zimbabwe, si prostituiscono in cambio di benzina.

Due prostitute in ZimbabweFuel for sex
.
E’ la prima volta che la pratica della vendita “privata” del carburante si allarga alle prostitute, le quali offrono prestazioni sessuali in cambio di taniche di benzina da 20 litri che rivendono poi ai camionisti nei periodi di carenza, ricavando larghi profitti dopo che, a settembre, il governo ha imposto un calmiere sui prezzi che ha provocato una cronica mancanza di carburante. Al mercato nero, un litro di benzina può arrivare a costare otto dollari, al posto degli 1,2 del prezzo ufficiale. I ripetuti tentativi della polizia per combattere questo strano scambio sono sistematicamente falliti. Quello che ormai è conosciuto nel Paese come il fenomeno del fuel for sex sta causando non pochi problemi alle autorità, prima di tutto a livello sanitario. A séguito della crisi economica, la prostituzione si è diffusa a macchia d’olio, favorendo ancora di più l’innalzamento del tasso di Hiv, uno dei più alti di tutta l’Africa. Le autorità stimano che almeno 3 mila persone alla settimana muoiano di Aids in Zimbabwe.

Il presidente dello Zimbabwe Robert MugabeCrisi.
Ma l’emergenza sanitaria non è l’unica che il Paese deve affrontare: in ottobre, l’inflazione è arrivata al 2000 percento, polverizzando di fatto i (pochi) risparmi della popolazione e gli stipendi. Tanto che, nelle sempre più frequenti manifestazioni contro il carovita, la popolazione ha cominciato a bruciare le banconote in segno di protesta. La crisi economica ha raggiunto livelli così preoccupanti che nel Paese la forma di scambio più conveniente è diventata il baratto. Il presidente Robert Mugabe non si aspettava certo che il suo Paese arrivasse a questo punto quando, nel 2000, varò la tanto sospirata riforma agraria per concedere la terra fertile, ancora in mano ai farmers bianchi, alla maggioranza nera. Un provvedimento sacrosanto, ma applicato male e troppo in fretta: lo choc per il Paese è stato troppo forte, facendo crollare la produttività e trasformando quello che un tempo era il granaio dell’Africa in un Paese che dipende per un terzo dagli aiuti alimentari esteri. La siccità degli ultimi anni ha fatto il resto, riducendo in miseria le un tempo prospere fattorie e i braccianti agricoli, che sono finiti ad ingrossare le bidonvilles di Harare.

Marcia di protesta ad HarareConti in rosso.
La crisi agricola ha trascinato con sé l’intera economia, facendo schizzare il tasso di disoccupazione al 70 percento. La maggioranza della popolazione si arrangia come può, grazie al mercato nero e al lavoro sommerso, mentre si calcola che almeno un terzo della popolazione sia emigrato all’estero. Le autorità non riescono a far fronte al problema. Ormai privo di riserve di valuta forte, lo  Zimbabwe ha i conti perennemente in rosso. Tanto che la mancanza di carburante è dovuta al fatto che i due fornitori storici, Libia e Kuwait, hanno chiuso i rubinetti dopo essersi resi conto che Harare non sarebbe stata in grado di pagare. L’ultra ottantenne Mugabe, sempre più arroccato in difesa del suo potere, dà la colpa della crisi a un complotto ordito dai Paesi occidentali, a cui neanche i suoi elettori credono più. Prime fra tutti, le highway girls.

 

Cessate il fuoco
Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n.47 - 2006 dal 16/11 al 22/11
 
Israele – Palestina.
Il 16, un palestinese armato è stato ucciso dai militari israeliani a Nablus, in Cisgiordania.
Il 18, un palestinese di 20 anni e uno di 16 sono stati uccisi nel corso di un raid israeliano a Umm Nasser, nel nord della Striscia di Gaza.
Il 19, un drone israeliano ha sparato un missile contro un auto con a bordo uomini di Hamas, uccidendone uno, nel quartiere Zeitoun di Gaza city.
Il 21, un leader locale di Hamas e una donna di 60 anni sono stati uccisi durante un’incursione dell’esercit israeliano nel quartiere Zeitoun di Gaza city.
Il 22, un palestinese è stato ucciso da un missile israeliano a Beit Lahiya, a nord di Gaza city. Un israeliano di Sderot è stato ucciso da un razzo palestinese.
 
Libano.
Il 21, Pierre Gemayel, ministro dell’Industria e e leader della comunità cristiana libanese, è stato assassinato da tre uomini armati nel quartiere cristiano di Beirut.

Colombia.
Il 20, 2 agenti di polizia sono morti e almeno altri 5 sono rimasti feriti in due distinti attentati nella città di Calì.
Il 21, l'esercito colombiano ha ammesso che tre civili sono stati uccisi durante le operazioni militari contro un gruppo di guerriglieri delle Farc, nel municipio di Garzon, nel sud del paese, a 350 chilometri da Bogotá.

Haiti.
Il 20, 3 persone sono morte a causa di una violenta sparatoria frai caschi blu delle nazioni unite e i residenti delle bidonville armati di pistole. Nella sparatoria sarebbero rimaste ferite altre 5 persone, 3 delle quali bambini.

Nigeria.
Il 22, le forze dell'ordine nigeriane hanno tentato un blitz per liberare alcuni dipendenti dell'Eni rapiti da un'imbarcazione al largo delle coste nigeriane. Nella battaglia contro i ribelli del delta del fiume Niger sono morte 4 persone, tra cui due ribelli e un dipendente britannico. I rapimenti dei dipendenti delle compagnie petrolifere si sono moltiplicati nel 2006, costringendo la Nigeria a tagliare la produzione del 20 percento.

Repubblica Democratica del Congo.
Il 20, fonti ospedaliere hanno riportato la notizia di 8 morti e 27 feriti negli scontri tra le comunità Nunu e Tende che, fra il 15 e il 19 novembre, hanno interessato la provincia di Bandundu, nella parte occidentale del Paese.

Somalia.
Il 16, le Corti islamiche hanno sciolto a Mogadiscio una manifestazione di protesta contro il bando all'importazione delle foglie di khat, una sorta di droga piuttosto popolare nel Paese. Il bilancio degli scontri tra manifestanti e miliziani parla di un morto e di un numero imprecisato di feriti.
Il 19, un convoglio militare etiope sarebbe stato attaccato da milizie vicine alle Corti islamiche presso la città di Bardaleh, 85 km a sud-ovest della capitale somala Mogadiscio, secondo quanto riferito da una fonte vicina alle Corti. Negli scontri sarebbero morti almeno 6 militari etiopi.
La Somalia sta faticosamente tentando di uscire da una guerra civile che in 15 anni ha provocato più di mezzo milione di vittime.

Madagascar.
Il 18, è stato di almeno un soldato morto il bilancio degli scontri esplosi alla base militare di Ivato, nell'aeroporto della capitale Antanarivo. I combattimenti hanno visto le truppe regolari del Madagascar contrapposte ai soldati guidati dal generale Andrianafidisoa, ammutinatosi per protestare contro il regime del presidente Ravalomana.

Sudan.
Il 16, i ribelli del Sudan Liberation Army hanno accusato l'esercito sudanese e le milizie arabe Janjaweed, sostenute dal governo, di aver ucciso oltre 50 persone in un raid sulle posizioni dei ribelli nel nord del Darfur.
Il 22, il Slm ha accusato Khartoum di nuovi massacri condotti dalle milizie Janjaweed presso Um Beyy, nel Darfur meridionale. Nell'attacco sarebbero morti 80 civili, un bilancio che gli osservatori dell'Unione Africana al momento non sono in grado di confermare. La guerra in Darfur, scoppiata nel febbraio 2003, ha provocato finora 300 mila vittime.
 
Sri Lanka.
Il 16, i militari governativi hanno ucciso in uno scontro a fuoco 27 ribelli delle Tigri Tamil nel distretto di Batticaloa, nell'est dello Sri Lanka.
Il 18, l'esercito afferma di aver affondato tre imbarcazioni dei ribelli Tamil uccidendo 15 persone, mentre i Tamil sostengono di aver riportato solo tre feriti e di avere, a loro volta, ucciso 10 soldati governativi.
Il 19, 4 soldati dell'esercito dello Sri Lanka e 4 civili sono morti a Vanunuya, nel nord del Paese. Secondo l'esercito le quattro vittime civili sono state uccise dal fuoco dei ribelli Tamil. Secondo i ribelli, invece, una bomba è esplosa davanti a un istituto di agraria della città e dopo l'esplosione i militari hanno fatto irruzione nel cortile della scuola, uccidendo tre giovani Tamil e un musulmano.
 
India.
Il 17, un soldato indiano si è tolto la vita a Ramban, nel distretto di Doda, nel Kashmir indiano.
Il 18 a Moirabari, nello Stato nord-orientale dell'Assam, alcuni scontri tra studenti e polizia hanno causato la morte di 3 poliziotti e 4 studenti. I ragazzi erano scesi in piazza per chiedere il rilascio di due giovani arrestati dalla polizia in seguito a un incidente stradale.
Il 20, una bomba è esplosa su un treno nel distretto di Jalpaiguri, nel Bengala Occidentale, uccidendo 6 pesone e ferendone almeno 40.
Il 21 a Patan, nel Kashmir indiano, sospetti ribelli musulmani hanno ucciso a colpi di arma da fuoco un civile. Nella città di Awantipora, sempre nel Kashmir indiano, uno studente universitario è stato rapito da sospetti miliziani ed è stato poi ritrovato impiccato.
Il 23, una bomba è esplosa nella stazione della città di Guwahati, nello stato indiano nord-orientale dell'Assam, uccidendo due persone e ferendone altre dieci.
 
Thailandia. 
Il 17, tre bombe sono esplose nel sud della Thailandia, provincia di Narathiwat, provocando almeno un morto e 27 feriti.
 
Pakistan.
Il 17, l'esplosione di una bomba nei pressi dello Stadio Geddafi a Lahore, a sud della capitale Islamabad, ha ferito 13 persone, di cui cinque in modo grave. Un attentatore suicida si è fatto esplodere nei sobborghi della città nord-orientale di Peshawar, presso un posto di polizia, uccidendo un passante e ferendo due poliziotti.
 
Bangladesh.
Tra il 21 e il 22, 4 persone sono morte a Bogra, a 250 km dalla capitale Dacca, negli scontri fra polizia e manifestanti dell'opposizione. I manifestanti chiedono la rimozione del capo della commissione elettorale MA Azize altri provvedimenti per garantire che le prossime elezioni si svolgano in modo "equo e giusto".

 

23 novembre

 

SICILIA: STOP AI QUATTRO INCENERITORI

 di Agostino Spataro

 Tutto da rifare per i quattro termovalorizzatori  fortissimamente voluti dal presidente della Regione on. Cuffaro, nella veste di commissario per l’emergenza rifiuti.

Questo è l’esito della conferenza dei servizi, svoltasi ieri a Roma fra i ministeri dell’Ambiente, della Sanità, dell’Economia e il presidente della Regione, che ha sospeso le autorizzazioni rilasciate in precedenza, sulla base di un iter “oggettivamente viziato”, come lo definisce un comunicato del ministero dell’ambiente.

I primi effetti del provvedimento sono chiari: saranno bloccati i lavori di costruzione dei quattro impianti in attesa delle nuove autorizzazioni che, ai sensi delle recente normativa UE, saranno rilasciate dal ministero dell’Ambiente.

Un risultato più che positivo per le popolazioni interessate alla vicenda che in mattinata, nonostante il maltempo, avevano inscenato manifestazioni di protesta nei quattro siti destinati ad ospitare gli inceneritori.

Come si ricorderà, questi ed altri vizi erano stati denunciati pubblicamente e nelle sedi parlamentari dai rappresentanti di un movimento di lotta variegato e deciso, composto di forze politiche e sociali, di associazioni ambientaliste, cittadini, sindaci e altri soggetti. Ma il presidente-commissario non se n' è curato, andando dritto per la strada intrapresa.

Tanto a Roma, fino a pochi mesi addietro, c’era un governo amico e disponibile anche a viziare la procedura autorizzativa.

Non c’è dubbio che l’esito di quest' importante riunione apre una prospettiva nuova non solo per la questione inceneritori, ma per una revisione dell’intero piano regionale dei rifiuti che era stato preparato, in solitudine, proprio a supporto della piena produttività degli impianti contestati.  

Tutto ciò grazie alla provvidenziale, eterna “emergenza” che attribuisce ai signori commissari un potere di manovra enorme, praticamente incontrollato, su ingenti investimenti pubblici per operare scelte discutibili sul piano dell’utilità sociale e, in questo caso, secondo molti gravate dal rischio per la salute delle popolazioni e per la salubrità dell’ambiente.

Un aspetto da non sottovalutare alla luce del dramma umano e sociale che, in questi giorni, si sta rivivendo a Gela (come prima a Melilli, a Priolo) per il rilevamento di un elevato indice di malattie tumorali e di neonati malformati dovuto, secondo un’inchiesta giudiziaria, alle emissioni di sostanze nocive fuoriuscite dal petrolchimico che gli esperti hanno ritenuto, e taluni ancor oggi ritengono, “nella norma”.

La sospensione dovrebbe essere utilizzata per svolgere accertamenti più accurati onde prevenire tali conseguenze e rassicurare i cittadini allarmati con i quali i governanti devono abituarsi a parlare prima di assumere decisioni così impegnative.

Come si sta facendo in val di Susa con quella popolazione che rifiuta non l’inceneritore, ma la linea ferroviaria ad alta velocità che in Sicilia, attualmente, ci possiamo solo sognare.

Per altro, la sospensione è opportuna in attesa dell’esito del procedimento per infrazione delle norme sugli appalti, pendente presso la Corte di giustizia europea che potrebbe anche decidere l’annullamento delle gare.

Ovviamente, il no a tali impianti non può essere di tipo ideologico o pregiudiziale. La cosa importante è infatti la salvaguardia della salute pubblica e dell’ambiente. Tuttavia, c’è un problema di un sovradimensionamento dei termovalorizzatori che non può essere misconosciuto e pertanto va corretto.

Anche questo è un punto importante, dirimente. Perché quattro termovalorizzatori con una capacità produttiva che si stima al di sopra delle quantità di rifiuti prodotti nell’Isola?

A quali criteri si è riferito il commissario nell’intraprendere questa contorta via?  C’è chi sostiene che ne basterebbe uno, al massimo due.

Infine, un’annotazione che evidenzia una grave contraddizione che, in nome dell’emergenza, ha provocato, in Sicilia e in altre regioni meridionali, una condizione politica e amministrativa anomala, perfino inquietante.

Emergenza vuol dire un accidenti momentaneo, circoscritto, che richiede un intervento mirato e limitato nel tempo; è una sorta di parentesi che si apre e si chiude. 

Invece, qui, la cosiddetta emergenza si è protratta per ben sette anni; un vero e proprio ciclo sul quale un po’ tutti si sono adagiati, anche i rappresentanti di quelle istituzioni, dall’Ars agli enti locali, i cui poteri sono stati usurpati dal commissario.

Dopo la vittoria del centro sinistra, la musica è cambiata. L’ufficio del commissario per i rifiuti è stato trasformato in Agenzia regionale, alla quale dovranno essere accorpate, a fine anno, le competenze del commissario per l’emergenza idrica, che è ancora il presidente della Regione. Un passo avanti, anche se la struttura operativa e di comando è rimasta la stessa.

                                     

22 novembre

E voi dove eravate

di Roberto Saviano
Gli omicidi ignorati per anni con cinismo. L'ascesa mondiale dei clan. Le minacce contro chi aveva la forza di reagire. Il disastro ambientale di tutto il Sud. Il degrado che ha corroso una città e una regione. Sotto gli occhi di tutti, senza che nessuno intervenisse. L'urlo di denuncia di uno scrittore che non vuole tacere
 

Nelle foto le 'Tracce di Gomorra'

Sono le 'Tracce di Gomorra', la lunga cronaca per immagini del Sistema criminale che ha preso il controllo della Campania e si estende in tutta Europa grazie al potere dei capitali facili. Un percorso scandito da foto choc di delitti e da scatti di ordinaria rassegnazione raccolto dai migliori fotoreporter napoletani, che scorre parallelo al racconto del libro di Roberto Saviano. Il progetto è diventato mostra per un'esposizione temporanea e presto sarà libro ...
Leggi tutta la scheda
Roberto Saviano
 
Roberto Saviano
Danilo Dolci nel 1956 a Partinico stava ristrutturando una strada dissestata come forma di protesta. Una sorta di sciopero attivo, una rivolta rovesciata. Se a Sud si doveva marcire nella disoccupazione, Dolci proponeva di attivarsi, iniziare a fare, rendere accessibile ciò che non lo era. Iniziare a farlo ristrutturando strade, quelle che avrebbe dovuto mettere a posto il comune. Lo faceva lui assieme ai suoi disoccupati. La polizia arrivò sul luogo e arrestò tutti. Si racconta che un poliziotto gli si avvicinò dicendogli: "Signor Dolci, ma perché non torna a casa a scrivere i suoi libri invece di farsi arrestare?". Come dire, torni alla sua più innocua attività e tutti vivremo più tranquilli. Dopo aver perquisito molti disoccupati-lavoratori, i poliziotti videro che tanti avevano nelle tasche e a casa gli scritti di Dolci. Lo stesso poliziotto, dopo averlo arrestato, lo avvicinò ancora in manette dicendogli: "Signor Dolci le troveremo un lavoro duro, così finalmente smetterà di scrivere questi libri che ci creano solo guai!". Quel poliziotto aveva in una manciata di ore cambiato idea perché aveva esperito il peso specifico della parola.

La cosa che genera scandalo è che uno scrittore, il mestiere considerato più innocuo e incapace di poter avere alcun tipo di forza sulla realtà, possa d'improvviso divenire responsabile di una luce che prima era sbiadita e sbilenca, di uno sguardo infame che spiffera ciò che si vuole celato, che urla quello che è sussurrato, che traduce in sintassi e insuffla vita a quello che prima era disperso in frasi frammentarie di cronaca e sentenze giudiziarie. La vita o la si vive o la si scrive, diceva Pirandello, eppure ci sono momenti in cui la vita, la si scrive per mutarla. Ciò che mi è capitato in questi giorni ha generato apprensione e scandalo, ma in realtà non per quello che è accaduto - dalle mie parti ciò che mi è accaduto capita a moltissime persone, quotidianamente e per molto meno - ma perché è accaduto a uno scrittore. Per uno scrittore il modo per innestarsi nel reale è raccontarlo. È uno scrittore che può congetturare, immaginare ciò che non vede. La sua immaginazione e la sua congettura però non seguono l'arbitrio della licenza poetica, ma sono strumenti necessari per avvicinarsi ancora più al vero in ciò che osserva: oltre ai nomi, ai documenti, alle sentenze, alle intercettazioni, ai fatti rispettati e ripresi. Quando racconti un processo, quando raccogli la cronaca nera, quando ascolti le intercettazioni comprendi che l'unico modo per capire è raccontare tutto questo come parte di un corpo che nasconde i suoi organi. E d'improvviso quello che nel perimetro di certe zone conoscevano tutti, passandosi le storie di bocca in bocca, impastandole di particolarità soggettive e leggende, quello che finiva negli articoli di cronaca, quello che sembrava essere territorio di addetti ai lavori, operatori sociali invisibili ed esperti sociologi dell'antimafia, diviene il racconto di un intero paese, l'epica fascinosa e terribile di un capitalismo vincente che vede nel cemento, nei trasporti, nel tessile, nei subappalti, nei rifiuti, nella distribuzione e in quant'altro possa creare respiro al profitto, il proprio sterminato territorio di conquista.
 
Pierluigi Vigna, quando era procuratore nazionale Antimafia, dichiarò che era di 100 miliardi di euro il profitto annuale dei maggiori gruppi criminali italiani. Una cifra che lo stesso procuratore segnalò essere riscontrata per difetto. Nessuno tremò per questa cifra. Nessuno trema se la Germania segnala che negli ultimi anni 90 milioni di euro sono stati investiti dalla 'ndrangheta nel settore turistico e immobiliare. Nessuno trema nel pensare che la più grande azienda italiana è formata dalla camorra, dalla 'ndrangheta, da Cosa Nostra e dalla Sacra Corona Unita. E anche se qualcuno inizia a tremare, sembra che riesca a farlo solo per qualche giorno, per qualche settimana, fino a quando i fatti inanellati in cronaca di emergenza non vengono soppiantati da emergenze nuove. D'improvviso mi sono fermato in questi giorni, fermato da una sorta di ansia, e anche una sorta di svuotamento, quando vedevo un'attenzione a una terra, costante, che desideravo ci fosse stata da sempre, prima che galleggiassero in superficie gli elementi del disastro. E giravo intorno a una domanda rivolta a una potenza impersonale che ha gli occhi dei media, la testa della politica e le sembianze di me stesso: Ma dov'eravate? Dov'eravate quando si ammazzavano due persone al giorno. Dov'eravate quando si concludeva il processo Spartacus presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) - 21 ergastoli e oltre 500 anni di reclusione, più di sette anni di dibattimento passati in silenzio sulla stampa nazionale. Dov'eravate quando i magistrati, come Raffaele Cantone, portavano avanti indagini che dimostravano chiaramente che erano l'Emilia Romagna e Roma i centri degli affari del clan dei Casalesi, dov'eravate quando Tano Grasso attraversava in lungo e in largo la Campania, cercando di raccogliere forze, persone, associazioni in una battaglia alle vecchie e nuove forme di racket e controllo del territorio. Dov'eravate quando giornalisti della mia terra venivano sistematicamente minacciati, come Rosaria Capacchione che entrò nel mirino dei clan a causa dei suoi articoli - secondo il pentito Luigi Diana - venne condannata dal boss Vincenzo De Falco, fratello del mandante dell'omicidio di don Peppino Diana, ma il boss fu eliminato prima di realizzare il suo piano, quando Enzo Palmesano riceveva proiettili nella cassetta della posta per il suo impegno di cronista contro i clan mafiosi presenti nell'Agro-caleno. Dov'eravate quando qui crepavano innocenti, come Attilio Romanò, colpevole di essere dipendente di un negozio che i clan hanno creduto essere ascrivibile a un parente lontano di un camorrista, quando nel 2002 spararono in faccia a un sindacalista, Federico Del Prete, e la notizia neanche giunse sulla stampa nazionale.

Per anni, quando si scriveva di queste cose al di fuori del lecito territorio della cronaca, la voce era la stessa, si veniva presi per matti, malati, figli di un passato lontano. Mi sembrava di sentire le parole dell''Huckleberry Finn' di Mark Twain, quando d'improvviso, dopo uno scoppio in una stiva, qualcuno chiede: "Che cosa è successo?" e rispondono: "Niente, è morto un negro". Niente. E l'acido razzismo è simile al niente che veniva battuto come dispaccio dal Sud. Dispacci di guerre senza storia, di vicende di margine, un niente da seppellire sotto le mostre di quadri, i vernissage museali, un niente che è molto simile e non soltanto speculare al 'succede di tutto' che viene pronunciato nei giorni d'emergenza. Niente, perché riguarda feccia. Non è successo niente. Ma non è vero.

Penso spesso a come devono essersi sentiti molti magistrati campani quando, chiudendo il più importante processo di mafia degli ultimi anni, il processo Spartacus, superando difficoltà logistiche e cavilli politico-giudiziari, hanno visto la loro sentenza ignorata per larga parte. Penso spesso al giudice Lello Maggi, a quando si è trovato a scrivere la sentenza, e nelle prime pagine fa cenno alla figura di uno scrittore che sarebbe stato in grado di raccontare quel che lui stava per analizzare con gli strumenti e i parametri della disciplina giuridica, raccontare quel potere che non riguardava soltanto gli spazi di un territorio di provincia, e non soltanto il sangue delle centinaia di ammazzati, ma riguardava molto di più. E Raffaele Marino, uno dei magistrati in prima linea nella lotta alla camorra napoletana, quando gli chiesi se lui non ritenesse in fondo innocua una narrazione basata sui fatti che lui stesso contribuiva ad accertare, mi rispose: "La scrittura letteraria non è innocua per niente, ha rotto una delle croste che relegavano questi meccanismi e questi poteri a una mortale dialettica tra magistrato, camorrista, tribunali e cronaca nera. La città, l'intero paese credeva di esserne escluso, credeva che tutto fosse relegato a una trascurabile parte del territorio. Ora ha lasciato quest'esilio e ha coinvolto tutti. Nessuno può più sentirsi escluso".

In tutti questi anni, mentre persino la guerra di Secondigliano non riusciva ad avere la stessa visibilità dei fatti riportati in questi giorni, a Napoli e intorno a Napoli continuava a formarsi e trasformarsi un modo nuovo per raccontare quel che stava accadendo. Come se fosse divenuto un imperativo necessario iniziare a raccontare quel che stava sotto gli occhi. Così Maurizio Braucci, scrittore in grado di farsi accompagnatore di ragazzi di quartiere, capace di tenerli lontani dal Sistema non strappandoli dalla loro vita, ma dandogli strumenti per scegliere di andare avanti senza la sola certezza di giocarsi la morte come vantaggio sugli altri per fare affari, capace come nessun altro di tradurre in narrazione la conoscenza di una vita spesa nel cuore della città. E poi le foto di Mario Spada, foto senza curiosità esotica che puntano l'obiettivo sulla ferocia, ma senza farne scandalo, quasi con familiarità. E i video di Pietro Marcello che raccontano la silenziosa emigrazione notturna dal Sud verso il Nord dei treni espresso, le nuove rapaci borghesie corrotte raccontate nella deformazione pantagruelica di Giuseppe Montesano, lo sguardo sui ragazzini di Diego De Silva che sembrava annunciare quello che sarebbe di lì a poco diventata una realtà molto più estesa e feroce, le donne di Valeria Parella strappate alla patina d'ogni folklore, le città distratte e soffocanti di Antonio Pascale, i deliri della terra dei terremoti e della Pozzuoli infernale di Davide Morganti, i primi libri che mettevano mani nel fango di Peppe Lanzetta. I gruppi rap, gli A67 e i Co' Sang', che nascono non più nei centri sociali, ma nelle periferie di camorra, che danno voce a una rabbia che non è più soltanto contro qualcosa, ma dentro, che parlano per e contro quelli cui vivono accanto, a cui appartengono, che sono come loro. Tutti loro hanno trovato modi nuovi e non concilianti per raccontare il proprio tempo e agire in esso. Sguardi diversi, linguaggi differenti che deformano il reale per scarnificarne le verità e lo inchiodano con freddezza e lo urlano con rabbia, ma tutti nati e vincolati da un territorio che così raccontato non è più soltanto Napoli, ma qualcosa che ha a che fare con le dinamiche di ogni metropoli occidentale dove si vanno foggiando nuove e rapaci piccole borghesie, incoscienti di essere piccole, ma ben coscienti di come si fa ad affermarsi e di quali mezzi usare. Ed è in questa Napoli visibile sempre solo nel singolo libro, disco o film che riesce ad avere successo oltre i confini locali, mai però come movimento esteso e costante, come humus che stava generando una cultura capace di mostrare e anticipare meglio di ogni altra fonte più oggettiva quel che stava e che doveva ancora accadere, che mi sono formato.

Da tutto questo le mie parole scritte sono state create e non vorrei che continuasse a essere ignorato, così come non vorrei che si parlasse oggi di camorra per continuare a ignorare la rete ampissima in cui tutte le organizzazioni criminali avvolgono e coinvolgono tutto il paese e l'Europa intera. Della cultura e dell'immaginario nato nel ultimo decennio a Napoli e dintorni, nato insieme e accanto alla trasformazione turbocapitalista dei clan campani, nei resoconti e commenti dei media nazionali e internazionali delle passate settimane non v'era quasi traccia. È stato strano ascoltare alcune parole che il mio libro aveva contribuito a divulgare - il termine 'Sistema' usato dai clan per definire la camorra è l'esempio perfetto - e percepirle come un abito nuovo calato addosso a un corpo vecchio e decrepito. Un immaginario completamente sbagliato. Quel che sta avvenendo a Napoli viene fissato da uno sguardo che non si spinge oltre al cerchio della città, non contempla quasi mai nemmeno i comuni della provincia con i suoi clan potentissimi da decenni, ma cerca di risolvere il tutto allacciando il filo della storia, come se l'oggi fosse l'ultimo frutto impazzito della vittoria del popolo sanfedista sull'aristocrazia giacobina di Eleonora Fonseca Pimentel e Domenico Cirillo. Il trionfo drogato della suburra, un delirio da disperati. Prima che me ne andassi dai Quartieri Spagnoli, vedevo che i clan del centro storico meno potenti si stavano riorganizzando. E il primo passaggio è stato quello di ritornare sul territorio, negozi, magazzini, salumerie, le nuove leve dei clan stanno invece pensando a come tornare ad apparire mediaticamente i più temibili, divenire nuovamente quelli appartenenti al quartiere che più fa paura: "Dobbiamo far vedere a quelli di Scampia che noi siamo i peggio". Il medesimo stile che sta facendo comprare a moltissimi ragazzi dell'area nord di Napoli lo scooter T-max perché usato dalle paranze di fuoco dei Di Lauro per la parte maggiore degli agguati, una sorta di cavallo meccanico dell'apocalisse. Ma la loro ferocia è la medesima di chiunque possa considerarla uno strumento per crescere economicamente, iniziare un percorso nel mercato. L'ossessione del divenire commercianti e imprenditori, e di considerare lecita ogni forma per raggiungere una meta, l'ossessione che, rendendoli rivali, accomuna non solo i quartieri storici del centro alle periferie e ai paesi del hinterland, ma apparenta Napoli a Mosca o a Rio de Janeiro e mette in relazione le bande che rubano ed estorcono con l'uso di una violenza spropositata, strafatta, adrenalinica con le gang che dilagano per il Centro e Nordamerica, in Africa, in ogni altra parte del mondo.

È questo, qui e altrove, che rende la ferocia un arnese del successo. È questo ciò che viene occultato quando si usano ancora parole come 'plebe', 'lazzari' o 'subculture'. Si parla di subculture, ma la musica dei neomelodici viene ascoltata in tutto il Mezzogiorno, anzi in tutta Italia, e alcune delle loro canzoni, tra cui quelle scritte da Lovigino Giuliano, il boss di Forcella, entrano nella hit parade, rimbalzano nei villaggi turistici, finiscono in tv come se fossero esistite da sempre e per tutti. Plebe è parola che tiene a distanza, che esprime il rifiuto di annusare, di fissare da vicino qual è la forza, la logica, ma anche le contraddizioni, le vulnerabilità, le violente trasformazioni che subiscono coloro che si trovano così definiti, parola che la letteratura per istinto vitale rigetta come chi non vuole farsi curare la febbre coi salassi. Plebe perché sembra impossibile che le gang che fanno rapine siano altro che una forza oscura che contamina la città con la paura e la ferocia, perché sembra impossibile che la contaminazione non conosca limiti di classe, perché sembra molto più rassicurante individuare una direzione unica del contagio in corso. Ma quando i boss scrivono libri, discettano di psicoanalisi, investono in opere d'arte, quando fanno crescere nuove leve istruite alle università, quando si dimostrano capaci di gestioni e investimenti sofisticati, di strategie economiche lanciate su scala mondiale, come è possibile non vedere che sono altro di quel che è sempre stato, non accorgersi che la loro vittoria in queste e simili terre ha un peso e una forza d'attrazione quasi irresistibile?

Nulla è statico, delimitato, univoco, nel mondo e nel tempo stravolto in cui si trova Napoli. Nulla comincia dove comincia, nulla finisce dove finisce. I rifiuti, le montagne di rifiuti, la monnezza napoletana divenuta simbolo del disastro, ficcata dentro a colori forti e odori nauseabondi in ogni articolo scritto da Roma a Londra, Parigi e Berlino, l'assurdo dei rifiuti campani spediti d'emergenza al Nord, persino in Germania, mentre le aziende di Veneto, Lombardia e persino Toscana come dimostrano le inchieste della Procura di Santa Maria Capua Vetere, hanno sversato da oltre trent'anni in Campania e più allargatamente nel Mezzogiorno i loro veleni, quando le organizzazioni ambientaliste, le iniziative locali hanno gridato invano che stava avvenendo una contaminazione catastrofica che avrebbe contagiato tutto: terre, coltivazioni, bestie e uomini destinati a crepare di cancro come di una nuova peste moderna. Quando si attraversa la campagna casertana piuttosto che quella calabrese, in molte zone senti gli odori marci, i sapori rancidi o corrosivi. E tutto questo brucia. Ti brucia dentro, rovente. L'immagine dei rifiuti tossici intombati e bruciati nelle campagne campane e calabresi è l'esatto rovescio dell'immagine dei rifiuti ammonticchiati e bruciati nei cassonetti napoletani, l'immagine che dice che il problema della criminalità e del degrado puzza fino al cielo e scava sotto terra ed è di tutti: di tutto il paese, di tutta la politica che lo governa. E ora non possono non far nulla.

Ogni regione che ha ospitato aziende che hanno avvelenato facendo appalti con i clan dovrebbe prendere parte alla bonifica del territorio. E la politica campana dovrebbe confrontarsi con i suoi errori madornali, gli sprechi e gli affari sui rifiuti. Eppure ciò che la camorra dimostra è che il paradigma politico-mafioso è ribaltato. Si credeva che la politica fosse il volano per la crescita dei clan. Ora i clan hanno egemonizzato la possibilità di decidere gli affari e, a partire dagli affari, tutto ciò che ne consegue. Così accade che i clan riescono a tenere la politica in pugno senza, come in passato, legarsi direttamente a un politico o cercare alleanze stabili con una parte politica, e invece scelgano di volta in volta come conviene. E non vale più soltanto il meccanismo politica-appalto-impresa criminale, ma sempre più quello contrario: impresa criminale-appalto-politica. L'impresa criminale è così potente e presente in ogni ambito che vince appalti e condiziona qualità e prezzi e divenendo vincente, determina la politica: usandola e non essendone usata. E sempre più il territorio criminale è un territorio così labile che ha l'immagine dell'intermittenza. Ormai la politica si rapporta sempre meno ai bisogni e ai desideri delle persone. Si passa da una dichiarazione all'altra, da una decisione spettacolare all'altra. I politici spesso non conoscono più il territorio, non ascoltano, non sanno cosa sta accadendo, ma ne danno interpretazione. La politica quando inizia a spartire posti, quando in cambio di favori e lavoro riceve voti, quando appalti e sanità divengono miniere in cui racimolare consenso e ricchezza, già si predispone alle logiche da clan, e in queste logiche, i clan vivono si alimentano e trionfano.

Così può accadere nel Mezzogiorno che le regioni con i gruppi criminali più potenti d'Europa possono senza problema alcuno vedere vincitori l'intera compagine dell'arco parlamentare. Si è creduto per troppo tempo che dopo tangentopoli la stagione dei clan egemoni in ogni parte della vita economica e sociale del paese fosse circoscritta e relegabile ad alcuni territori geografici e politici, ma i clan entrano vincenti nel mercato, entrano nel cemento, nei trasporti, nel tessile, nelle forniture, mercati, carni, benzina, entrano nella finanza e nell'economia globale, porte a cui nessuna politica si rifiuta di obbedire. Nessuna parte politica può sentirsi al riparo, nessuna parte politica può sentirsi innocente per ciò che accade. Tutto è da rifare. Ad oggi sembra esserci ancora nell'aria il sapore amaro delle parole di Antonino Caponnetto, quelle pronunciate dopo la morte di Paolo Borsellino: "È tutto finito".

Ma per la scrittura non è mai tutto finito, la scrittura si alimenta della possibilità di equiparare veleno e zucchero, assaggiare come stanno le cose al di là di ogni categoria, al di là del buono e del malamente, con l'unica certezza che la rabbia espressa vale più di qualsiasi cosa e più del silenzio. Si racconta, come una leggenda, ciò che disse don Peppino Diana, il prete ucciso dalla camorra nel 1994, una volta mentre celebrava un funerale e le stesse parole furono poi di don Tonino Bello. Don Peppino era stanco di celebrare funerali in una terra che aveva il primato per morti ammazzati e morti bianche sul lavoro. Iniziò così la sua provocazione: "A me non importa sapere chi è Dio". Non è difficile immaginare il brusio delle navate di una chiesa di paese che sente pronunciare tali parole roventi: "Mi importa sapere da che parte sta". Avere una parte, essere in grado di capire ancora che natura ha un paese, in che condizioni si trova, come avvicinarlo con uno sguardo che voglia vedere, vedere per capire, per comprendere e per raccontare. Prima che sia troppo tardi, prima che tutto torni ad essere considerato normale e fisiologico, prima che non ci si accorga più di nien
te.

21 novembre

Guerra di cifre sulle tragedie nei cantieri. L'Inail: casi in calo
I sindacati: statistiche solo sul lavoro regolare, strage sommersa
Cento operai morti ogni mese
"Più vittime qui che a Bagdad"

Se la vittima è un immigrato, non arriva neanche in ospedale
e se anche ci arriva non risulta che stesse lavorando
di ATTILIO BOLZONI

<B>Cento operai morti ogni mese<br>"Più vittime qui che a Bagdad"</B>
IN TUTTO il mondo, ogni anno ne muoiono più che in guerra. E in Italia più dei marines a Bagdad. Da tre a quattro al giorno. Se ne vanno in silenzio, nell'indifferenza. Se poi sono rumeni o moldavi o magrebini, a volte non fanno neanche statistica. Li raccolgono come sacchi e li buttano. Da Milano a Palermo i caduti sul lavoro dal 2001 sono stati più di 7 mila, gli incidenti quasi 5 milioni.

E' quando comincia la settimana che il rischio è estremo, il lunedì. Verso le dieci del mattino nei campi, poco prima dell'ora di pranzo nei cantieri edili.

E' una strage che non finisce mai. Al Sud, a Roma, in Veneto e in Lombardia e in Emilia Romagna, regioni che hanno il primato delle tragedie conosciute e legalmente riconosciute. Poi ci sono le altre, le tragedie fantasma. Gli immigrati che spariscono all'improvviso, che volano giù da un'impalcatura e vengono abbandonati in una discarica oppure li lasciano lì, in agonia sotto le macerie. E' accaduto nemmeno due mesi fa davanti al mare di Licata, in provincia di Agrigento.

Sono in spaventoso aumento, secondo sindacati e organizzazioni onlus. E soprattutto per l'Associazione nazionale mutilati e invalidi sul lavoro. Sono in calo, secondo l'Inail. Nei primi tre mesi del 2006 l'istituto per le assicurazioni contro gli infortuni ha certificato che gli incidenti sono stati settemila in più rispetto all'anno scorso. A fine marzo erano già 222 mila. Ma a ottobre sarebbero scesi del 9 per cento. I dati dell'Inail parlano di "un risparmio di vite" nel quinquennio precedente, i suoi rapporti più recenti sostengono che ogni annata va sempre meglio di quella prima e che dal 2000 c'è "una tendenza complessiva al ribasso". Dati e valutazioni contestatissimi. È la "guerra dei numeri" su quei morti.

Tanti sono ragazzini. Bambini anche. Soltanto nel 2005, in Italia, sono stati 8.530 quelli che non avevano ancora 17 anni e sono rimasti vittime di una "disgrazia" sul lavoro. Dalla perdita della falange di un dito della mano sinistra all'infermità totale. La falange di un dito vale 3 mila euro l'anno di "rendita", 250 al mese. Nel linguaggio burocratico dell'Inail l'indennizzo ha proprio quel brutto nome: rendita.

I numeri raccontano tanto ma non raccontano tutto. "E noi quelli dell'Inail li critichiamo sempre perché ci lasciano stupiti, sono fluttuanti, disomogenei", accusa Sandro Giovannelli, il direttore dell'Anmil, l'Associazione mutilati e invalidi sul lavoro. Spiega: "Non ci importa di segnalare se c'è una vittima in più o in meno, sono comunque sempre tante, troppe. E non giustificano mai i toni così ottimistici dell'Inail". I dati che diffonde l'Inail non possono essere considerati "consolidati" se non passa almeno qualche mese, è questa una delle ragioni della distanza fra i suoi numeri e quelli di tutti gli altri. Una divergenza che accende furiose polemiche, anno dopo anno e report dopo report.

Per scoprire come si contano i morti e come si sfornano tabelle e grafici e si azzardano persino previsioni, venerdì scorso siamo andati in via Morgagni negli uffici della Fillea, il sindacato degli edili della Cgil. Abbiamo incrociato i dati da fonti diverse. E' stata una prova rivelatrice per il riscontro dell'andamento degli infortuni in Italia, dei processi di stima e della loro attendibilità.

Secondo l'Inail, nei primi sei mesi di quest'anno, gli incidenti sul lavoro nel settore delle costruzioni hanno subito una flessione dell'0,8 per cento. Ma alla Fillea, dove quotidianamente raccolgono le segnalazioni e le denunce di tutte le sciagure nei cantieri, al 15 novembre avevano registrato 228 incidenti mortali, 47 in più dello stesso periodo dell'anno precedente e già 37 in più di tutto il 2005. Da un meno 0,8 per cento dell'Inail a un più 26 per cento della Fillea Cgil. Due verità, due Italie.

"Quello che ci preoccupa è che le statistiche fotografano solo il lavoro regolare, quella vastissima area di sommerso nelle costruzioni arriva a punte del 50 per cento e sfugge a qualsiasi controllo", denuncia Franco Martini, il segretario generale degli edili. Uno su cinque dei 191 edili ammazzati sul lavoro nel 2005 era immigrato, i lavoratori stranieri morti quest'anno nei cantieri sono già quasi il doppio, 52. E due erano minorenni. In testa alla luttuosa classifica del settore delle costruzioni c'è la Lombardia, subito dopo il Lazio. Le cause più frequenti di morte: caduta dall'alto; travolto da gru o ruspa; crollo di una struttura; colpiti da materiale, ribaltamento di mezzo; folgorato.

Dossier e contro dossier. L'ultimo è dell'Associazione mutilati e invalidi sul lavoro: nei primi sei mesi dell'anno 583 gli incidenti mortali. "La situazione è drammatica", dice ancora il direttore dell'Anmil Sandro Giovannelli. E aggiunge: "La tutela degli infortunati è diminuita, le aziende pagano troppo e i lavoratori ricevono poco. Nel 2000, in verità, il governo di centrosinistra aveva avviato una campagna per la sicurezza sul lavoro, però poi con Berlusconi si è fermato tutto". E attacca il presidente dell'Anmil Pietro Mercandelli, che da ragazzino faceva l'idraulico e a 18 anni ha perso una parte di gamba: "E' un'ecatombe quotidiana, ci vogliono più controlli, i costi delle sicurezza non possono essere considerati costi aggiuntivi e l'Inail continua incredibilmente a ridurre il fenomeno".

Uno sterminio con morti invisibili. C'era stato il grido di dolore del presidente Giorgio Napolitano a fine giugno, quando un ragazzo messinese se n'era andato mentre stava tirando su i piloni dell'autostrada per Siracusa. Ai funerali di Antonio Veneziano c'era la corona di fiori del Quirinale, c'era un deputato della Regione siciliana che prima faceva il sindacalista e poi in chiesa solo panche vuote. Né un consigliere comunale, un rappresentante del governo, uno della Provincia. Ed era italiano Antonio.

"Degli altri spesso non sappiamo nulla, spesso non arrivano nemmeno in ospedale e quando ci arrivano non risultano vittime di incidenti sul lavoro", racconta Gino Rotella, responsabile del dipartimento del mercato del lavoro e immigrazione della Flai Cgil. Svela il sindacalista: "C'è un mondo parallelo e anche un sistema sanitario parallelo per quei disgraziati".

Chi si fa male sul lavoro ed è un irregolare, se gli va bene viene portato in un ambulatorio clandestino. Ogni gruppo etnico ha i suoi ospedali volanti e i suoi medici. E' l'altra Italia, quella che nelle tabelle non compare mai. L'Italia della vergogna. Come quella dei morti di amianto. Come quella dei morti degli stabilimenti petrolchimici.

Chi lo sa quanti sono stati e quanti sono ancora i casi di tumore in quelle 13 aree a rischio ambientale, che vanno da Porto Marghera fino a Marina di Melilli? E quante sono le industrie killer che buttano sempre i loro fumi e i loro veleni? Si fa calcolo con certezza solo per quei cadaveri ancora caldi, il lunedì mattina, il giorno più carogna sul lavoro.

 
Cina - 21.11.2006
Cina, rivolta permanente
Centinaia di proteste al giorno. Non solo nelle campagne. Il regime ricorre all'esercito
Chen Qian è un contadino del villaggio di Dongzhou, nella provincia meridionale di Guandong. Qui nessuno ha dimenticato il massacro dello scorso 6 dicembre, quando la polizia aprì il fuoco sui contadini in rivolta contro le corrotte autorità locali, uccidendone almeno una ventina. Chen, oltre a non dimenticare, ha deciso di non arrendersi. In vista del primo anniversario di quei tragici fatti, ha iniziato ad attaccare ai muri del villaggio manifestini in cui si denuncia la corruzione dei funzionari locali.
 
Gli scontri di XinduDongzhou. Il 9 novembre la polizia lo ha sorpreso e lo ha arrestato. Il giorno dopo, centinaia di persone del villaggio hanno circondato la stazione di polizia chiedendone la liberazione. Ma gli agenti, invece di rilasciarlo, hanno arrestato altre persone “sgradite” alle autorità, come l’uomo che un anno fa suonò il gong del villaggio per avvertire la popolazione dell’arrivo della polizia, o un altro che aveva litigato con un poliziotto che aveva molestato suo moglie.
La reazione della folla è stata immediata: hanno fatto irruzione nell’ufficio, portando via otto funzionari del partito con l’intenzione di proporre uno “scambio di prigionieri”. Gli otto “ostaggi” sono stati rinchiusi in un piccolo tempio buddista del villaggio”.
Fino a sabato scorso, 18 novembre. Durante la notte, intorno alle 3, un migliaio di agenti della polizia in tenuta antisommossa hanno circondato il villaggio, assaltato il tempio con l’ausilio di cani e liberato gli ostaggi. Non si sa niente altro, dato che la zona è stata isolata da un cordone di polizia che impedisce l’accesso a chiunque e le comunicazioni, telefoniche e via Internet, sono state interrotte.
 
Scontri a DongzhouIn campagna. I fatti di Dongzhou sono l’ennesimo episodio di un ondata di proteste, e repressioni, sempre più frequenti nelle campagne cinesi.
Il 12 novembre nell’adiacente provincia di Fujian, i contadini del villaggio di Xindu hanno manifestato contro l’esproprio forzato delle loro terre per la costruzione di una centrale elettrica. Un centinaio di poliziotti anti-sommossa sono intervenuti disperdendo la protesta a manganellate.
 
Il 9 novembre, centinaia di poliziotti armati di bastoni, cani e lancia-granate lacrimogene hanno violentemente posto fine alla protesta contadina in corso nel villaggio di Sanzhou, sempre nella provincia di Guandong (v. articolo), dove la sera prima la popolazione locale aveva preso in ostaggio centinaia di funzionari locali e manager stranieri per protestate contro l’esproprio delle loro terre per la costruzione di un granaio.
Il 5 novembre, nella provincia di Shandong, per gli stessi motivi i contadini del villaggio di Zhangzhuang si sono rivoltati, sequestrando un funzionario locale: 1.400 poliziotti anti-sommossa sono stati inviati per reprimere i manifestanti. Negli scontri sono rimaste ferite almeno 37 persone.
 
Scontri a ZhangzhuangIn città. Ma non sono solo i contadini poveri della campagne a ribellarsi. Le proteste e le rivolte interessano anche le città.
L’11 novembre Pechino ha visto la più massiccia manifestazione popolare dall'epoca delle proteste di Piazza Tienanmen: migliaia di persone scese in piazza per protestare contro il decreto che impone un solo cane per famiglia e l’uccisione di tutti gli altri: la polizia anti-sommossa è intervenuta con la forza disperdendo i manifestanti.
Il 12 novembre a Guang'an, provincia di Sichuan, è stata guerriglia urbana tra polizia e manifestanti che avevano assaltato il locale ospedale dopo la morte di un bambino a cui i medici hanno rifiutato le cure perché suo padre non aveva i soldi per pagarle (v. articolo).
Il 13 novembre e i giorni successivi Nanchang, provincia di Jiangxi, è stata un campo di battaglia tra polizia e studenti universitari, inferociti per la truffa dei fasulli diplomi rilasciati dalle facoltà private (v. video).
 
Poliziotti cinesiRicorso all’esercito. Secondo dati ufficiali diffusi dalle stesse autorità cinesi, ogni giorno in Cina si registrano fra le 120 e le 230 proteste (sia manifestazioni pacifiche che rivolte violente), la maggioranza delle quali avviene nelle zone rurali. Rispetto al 2005 – che ha contato 87mila proteste pubbliche con i coinvolgimento di 3 milioni e 760 mila persone – ci sarebbe un calo sensibile, di circa il 22 per cento, stando ai dati diffusi da Pechino. La realtà appare però ben diversa. Non solo per l’evidente aumento del numero degli episodi che sfuggono alla censura, e quindi, a logica, degli episodi in generale. Ma anche per la recente proposta del governo di impiegare per motivi di ordine pubblico non più la polizia ma l’esercito: una scelta che la dice lunga su quale sia la percezione della situazione da parte dei vertici del regime.
 

 

Cessate il fuoco
Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n.46 - 2006 dal 9/11 al 15/11
Colombia
Il 9, 4 guerriglieri di un gruppo non identificato e un soldato sono morti durante uno scontro a fuoco nel dipartimento del Nord de Santander (nordeste). Lo riferiscono fonti ufficiali.
Il 10, la Forza aerea colombiana ha rintracciato i cadaveri di 8 guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) nelle montagne della regione di Cordoba, nord est del paese, 700 chilometri da Bogotá.
Il 12, sono state assassinate 6 persone a Buonaventura, il principale porto colombiano sul Pacifico. Si allunga così la lista dei morti dovuti alla guerra che si combatte nella zona, prevalentemente per il controllo del traffico di cocaina. Sono 300 le vittime dall’inizio dell’anno.
 
Haiti.
Il 12, 2 caschi blu delle Nazioni Unite di origine giordana sono stati uccisi durante uno scontro a fuoco nella baraccopoli di Citè Soleil, la più pericolosa bidonville della capitale haitiana, Port au Prince. Stando alle informazioni i due soldati della Minustah erano di pattuglia quando un gruppo di uomini armati li ha attaccati.
 
Israele e Palestina.
Il 12, un ragazzo palestinese di 16 anni è rimasto ucciso in un raid aereo israeliano contro miliziani che lanciavano un razzo dalla Striscia di Gaza.  Lo stesso giorno, a Khan Yunes, un bambino è stato ucciso da un proiettile vagante.
Il 13, a Beit Lahya, 2 donne sono state uccise in uno scontro armato innescato da una lite familiare.
Il 14, è stato ucciso un militante palestinese di 20 anni del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, durante uno scontro a fuoco con i militari israeliani nel campo profughi di Ain Bit Ilma, a Nablus, nel nord della Cisgiordania.
 
Algeria.
L’11, in un'imboscata dei guerriglieri islamici vicino a Lakhdaria, a est di Algeri, sono rimasti uccisi 7 militari algerini e 13 sono rimasti feriti. L'attacco, attribuito a una falange del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (Gspc), è avvenuto contro una pattuglia in perlustrazione. 
 
India.
Il 10 sospetti militanti islamici hanno lanciato una granata in una moschea di un villaggio nel Kashmir indiano, uccidendo 5 persone e ferendone una cinquantina. Lo ha riferito la polizia locale. L'attacco è avvenuto a Tahab, 35 chilometri a sud di Srinagar, la capitale estiva del Jammu e Kashmir.
L'11 le forze speciali della polizia indiana hanno ucciso 9 guerriglieri maoisti, di cui cinque donne, nello stato di Andra Pradesh. I commando anti-guerriglia hanno teso un'imboscata ai ribelli nel distretto di Kadapa, circa 400 chilometri a sud della capitale statale di Hyderabad. 
 
Sri Lanka.
Il 10 un importante esponente dell'Alleanza Nazionale Tamil, considerata il braccio politico dei ribelli, è stato ucciso a Colombo con un colpo alla testa. Lo ha riferito la polizia cingalese. Nadarajah Raviraj, questo il nome del politico, è morto in ospedale per le ferite riportate.
L'11 i ribelli delle Tigri Tamil sostengono di aver ucciso 26 militari della Marina cingalese e di averne catturati altri quattro, negli scontri avvenuti al largo della penisola settentrionale di Jaffna. 
 
Etiopia.
Il 14, una radio vicina ai ribelli Oromo ha riferito di scontri avvenuti, tra il 2 e il 6 novembre scorso, nei distretti di Moyale, al confine con il Kenya, e di Bule Hora, tra gli uomini dell'Oromo Liberation Army e l’esercito etiope. Il bilancio sarebbe di 35 soldati dell'esercito etiope uccisi e 56 feriti. Gli Oromo sono il più grande gruppo etnico dell'Etiopia e combattono da oltre dieci anni contro il governo di Addis Abeba.
 
Sudan.
Il 12, i ribelli darfurini del National Redemption Front hanno accusato le milizie Janjaweed di aver attaccato la città di Sirba, nel Darfur occidentale, uccidendo 32 persone e ferendone altre 18. Le accuse sarebbero state confermate da alcuni osservatori internazionali. La guerra in Darfur, scoppiata nel marzo 2003, ha provocato la morte di 300 mila persone.
 
Somalia.
Il 12, una violenta battaglia tra truppe fedeli al governo di transizione somalo e milizie islamiche, avvenuta nella regione settentrionale del Puntland, ha provocato almeno 13 morti e 25 feriti. La Somalia sta faticosamente tentando di uscire da una guerra civile durata 15 anni e che ha provocato la morte di mezzo milione di persone.
 
Ciad.
Il 9, l'Alto Commissariato Onu per i Rifugiati ha lanciato l'allarme per i recenti scontri avvenuti nella zona sud-orientale del Paese, dove uomini armati non identificati avrebbero attaccato una serie di villaggi uccidendo 220 persone. Già la scorsa settimana, secondo quanto dichiarato dalle autorità ciadiane, scontri tra tribù arabe e Kibet avevano provocato 128 morti. Le autorità hanno proclamato lo stato d’emergenza.
 
Repubblica Democratica del Congo.
L’11, violenti scontri scoppiati a Kinshasa tra la guardia presidenziale di Joseph Kabila e i fedelissimi del vicepresidente Jean-Pierre Bemba hanno causato la morte di 4 persone e decine di feriti. La guerra civile congolese, durata 5 anni, ha provocato la morte di almeno 4 milioni di persone. 
 
Pakistan.
Il 10 novembre in Sud Waziristan un attentato contro un capo tribale filo-governativo a Shakai ha provocato la morte di 9 civili, lui compreso.
Il 13 in Balucistan un attentato in un bazar di Quetta ha ucciso 2 civili, tra cui un bambino.

Cecenia.
Il 12 novembre nel distretto ceceno di Achkhoy-Martan la polizia ha aperto il fuoco contro un’auto, uccidendo un civile.
Nel distretto di Vedenò un soldato russo è morto in un combattimento con i guerriglieri.
Il 13 si è suicidato un poliziotto russo appena tornato da una missione in Cecenia.
Il 15 nel distretto ceceno di Vedenò un soldato russo è morto saltando su una mina durante una missione di perlustrazione. 
 

17 novembre

 

La “Nuova Europa” veste Bolkestein

Siro Asinelli – Rinascita

E’ scattata la trappola Bolkestein. Il Parlamento europeo ha votato a favore della Direttiva sui Servizi che seppellisce definitivamente il concetto di Stato sociale, annullando i diritti dei lavoratori, trasformando ufficialmente il cittadino in consumatore.

Approdata alla seconda lettura dopo un burrascoso iter, la cosiddetta Direttiva Bolkestein, frutto di un progetto presentato nel 2003 dall'omonimo commissario al Mercato Interno con il sostegno dell'allora presidente della Commissione Romano Prodi, rappresenta una vera e propria rivoluzione nel mercato europeo dei lavoro. Nel nome di una presunta “armonizzazione" dei mercato, i fautori del liberismo urbi et orbi incassano una vittoria senza precedenti, imponendo la loro selvaggia visione del circuito domanda-offerta: una fitta normativa che regolerà un settore che il cui giro d’affari rappresenta il 70 cento circa del totale della ricchezza prodotta in Unione. Il tutto, ovviamente, nel nome di una spinta alle privatizzazioni ed alla cosiddetta mobilità di mercato.

I sostenitori della direttiva, britannici in prima fila, parlano di una regolamentazione che "renderà veramente funzionale il mercato interno"; a queste prospettive si aggiungono i risultati di molte compagnie di consulenza economica che annunciano come la Direttiva darà impulso alla creazione di nuovi posti di lavoro (si parla di almeno 600 mila unità nuove in tutto il territorio Ue). La rinomata “Copenaghen Economics” si spinge ancora oltre e, conti alla mano, parla di un incremento annuale del giro di affari dei Venticinque pari a 37 miliardi di euro. In una lettera edita ieri dal “Financial Times”, l'economista britannico Stuart Popham, nell'elogiare la liberalizzazione del mercato europeo, difende la 'Bolkestein' a spada tratta: “Le persone a cui realmente stanno a cuore le questioni sociali e dell'occupazione non possono che sostenere la liberalizzazione dei servizi”.

A supporto delle tesi ultra liberiste viene citato il Trattato di Roma del 1957 che già lanciava l'idea di un'armonizzazione del mercato dei servizi: la "Nuova Europa" non nasce dal nulla.

Ma dove andrà a finire? A fronte della possibilità di abbattere le molte barriere poste dai singoli Stati membri alla libera circolazione dei prestatori di servizio, quali diritti i lavoratori potranno ancora invocare? Seppure modificato nel nome, l'ambiguo Principio dei Paese di Origine (PPO), asse portante della Direttiva, mantiene tutte le sue prerogative anti sociali: sarà possibile installare legalmente un'azienda in un qualsiasi Paese ove non sussistono, o sono deboli, leggi di tutela dei lavoratori. La stessa azienda potrà lavorare in un Paese ove tali leggi esistono, continuando a rispondere però alla legislazione del Paese d'origine. Masse mobili di lavoratori non tutelati (niente TFR, niente tetti massimi sulle ore lavoro, niente assistenza economica, niente contratti definitivi, niente tredicesime, etc.) saranno riversate sul mercato europeo per garantire servizi a prezzi abbattuti. Per i fautori della Bolkestein si tratta di "favorire la concorrenza", ma in realtà si favorirà lo scontro tra categorie di lavoratori, tra chi pur di lavorare rinuncerà ai diritti offerti in regime di Stato sociale e chi sarà costretto a rinunciare all'occupazione di una concorrenza che offre a sottocosto. In una parola determinerà quello che gli economisti definiscono "dumping sociale". Seicentomila nuovi occupati (a contratto, a progetto: ma mai più con un'occupazione a tempo determinato) pronti a lavorare oltre le 48 ore lavorative settimanali attualmente accettate in Ue.

Ma cosa sono questi "servizi”? Sono tutto: sono l'erogazione di energia elettrica e di qualsiasi altra risorsa energetica, l’erogazione di acqua, i servizi di sicurezza, al turismo, allo sport, alla cultura, alla sanità (sic!).

E tutto quanto altro non espressamente citato nella Direttiva. Esclusi dal pacchetto la fornitura di servizi finanziari, perché già contemplata da un apposto Piano d'Azione Ue, la fornitura di servizi riguardanti il settore delle comunicazioni elettroniche, anch’esso regolato da un pacchetto di direttive approvato quattro anni fa (2002/19/EC, 2002/20/EC, 2002/21/EC, 2002/22/EC e 2002/58/EC), e la fornitura di servizi in materia di tasse, probabilmente perché ancora al centro di una controversia che vede opposta gran parte dell’Ue, favorevole all’armonizzazione delle leggi fiscali, alla Gran Bretagna. Esclusi questi tre campi, il resto sarà appannaggio del privato, con conseguente collasso delle strutture pubbliche sino ad oggi prestatrici di servizi. In paesi come l’Italia, già fortemente azzoppati da riforme e campagne d svendita del bene pubblico in stile Prodi, la Direttiva contribuirà alla definitiva scomparsa dello Stato sociale. L’Europa è morta, evviva la “Nuova Europa”.

 

tratto dal sito WWW.DISINFORMAZIONE.IT

Comunicato stampa

SALVIAMO GIAMBURRASCA

Psicofarmaci ai bambini italiani, è uno scandalo.

Ministro Turco, intervenga subito.

In cinque anni in Italia le prescrizioni sono aumentate del 280 per cento. Negli Usa, la metà.

E ora, addirittura, si aprono 82 Centri in tutta Italia per somministrare psicofarmaci ai bambini iperattivi.

Alla vigilia della Giornata Mondiale dell’Infanzia, gli esperti dicono “Giù le Mani dai Bambini”

Roma, 17 novembre

Psicofarmaci ai bambini italiani, è uno scandalo. Troppi e somministrati con troppa leggerezza. In cinque anni in Italia la prescrizione di psicofarmaci ai bambini è aumentata addirittura del 280 per cento. Negli Usa, dove i bambini in terapia sono più di undici milioni, l’aumento è stato del 150 per cento. Ministro Turco, intervenga subito”. E’ l’appello che hanno lanciato, in una conferenza stampa svolta ieri a Roma, Luca Poma portavoce di “Giù le Mani dai Bambini”, la più visibile campagna di farmacovigilanza in Italia, e Federico Bianchi di Castelbianco psicoterapeuta dell’età evolutiva. E con loro più di cento Associazioni e 230mila addetti ai lavori del settore della Salute rappresentati dal Comitato GiùleManidaiBambini.

"Ma gli scandali non finiscono qui - dice Luca Poma - si stanno aprendo in Italia, su tutto il Territorio 82 Centri per la somministrazione di psicofarmaci ai bambini “iperattivi”. E pensare che le Autorità di controllo sanitario  avevano garantito di istituire un solo Centro di eccellenza per regione in modo da prevenire gli abusi.  E il rosario degli scandali continua: l’Emea, l’Agenzia Europea per i farmaci, ha autorizzato la somministrazione del Prozac, la discussa e potente “pillola della felicità”, ai bambini già da otto anni dopo appena 4-6 sedute di psicoterapia senza risultati. Di scandalo, in scandalo: le scuole non hanno risorse per affrontare il problema dei “bambini-giamburrasca” e così si sono già registrati i primi casi di alunni allontanati da scuola. Intervenga anche il ministro Fioroni".

"Chi all’EMEA ha deciso ciò - dice Federico Bianchi di Castelbianco, psicoterapeuta dell’età evolutiva e Direttore dell’Istituto di Ortofonologia di Roma e membro del Comitato scientifico di “Giù le Mani dai Bambini” - è incompetente non solo nella conoscenza della psicoterapia ma soprattutto dei bambini. In quattro-sei settimane nessuno può dichiarare fallita una psicoterapia, che è una strada seria da percorrere. Ecco perché il ministro Turco deve subito intervenire per neutralizzare la corsa agli psicofarmaci e limitare i danni della decisione dell’EMEA. E il ministro Fioroni deve emettere una circolare affinché le scuole siano messe in condizione di gestire i “bambini-giamburrasca”.

Dietro ai numeri ci sono i bambini e le loro famiglie. E sono numeri grandi, drammatici. Sono 30mila i bambini italiani che già oggi assumono psicofarmaci secondo uno studio del “Mario Negri” pubblicato su una prestigiosa rivista scientifica che sottolinea come si tratti della punta di un iceberg visto che il dato è fortemente sottostimato.
E se oggi sono 30mila i bambini italiani in terapia con psicofarmaci potrebbero presto diventare oltre 700mila e questo perché, secondo dati del Ministero della Salute, questo è il numero dei bambini che sarebbero affetti da disturbi psichici. "Se questo dato rispecchiasse la verità - aggiunge Luca Poma -, e non lo credo, vorrebbe dire che ogni cento bambini italiani nove sono candidati ad assumere psicofarmaci. E’ come dire che in ogni classe, dalla materna alle medie, almeno due bambini dovrebbero essere medicalizzati. Psicofarmaci “facili” per diagnosi troppo “disinvolte”.

"Le troppe prescrizioni di psicofarmaci ai bambini – dice Massimo Di Giannantonio, Ordinario di psichiatria all’Università di Chieti - sono dovute a diagnosi non corrette formulate da medici di medicina generale e da pediatri che non hanno il necessario bagaglio di informazioni per compiere un passo così importante come quello di somministrare uno psicofarmaco ad un bambino. Ma anche a diagnosi formulate da medici competenti come neuropsichiatri infantili e psichiatri adolescenziali, che ritengono che alla base del disturbo dei bambini ci sia un fattore biologico curabile quindi solo con i farmaci".

Molto importanti le prese di posizione di personalità del mondo sociale, sanitario e politico. Giovanni Pirone, Direttore Generale dell’Istituto Italiano di Medicina Sociale ha detto in una nota che “i piccoli consumatori di oggi rischiano di diventare adulti farmaco-dipendenti. Va arrestato il materialismo sanitario incentrato su una soluzione farmacologica anche di problemi che attengono alla sfera psichica ed emozionale”.

Marina D’Amato, Presidente dell’Istituto degli Innocenti di Firenze, in una nota ha spiegato che “la Società di oggi dovrebbe prendere atto che il suo futuro è l’infanzia. Le trasformazioni della famiglia italiana incidono molto sulla vita dei bambini e degli adolescenti”.
In questa occasione, con una nota, tre personalità del mondo politico hanno assicurato il loro impegno istituzionale. L’onorevole Dorina Bianchi, vicepresidente della Commissione Affari Sociali della Camera, ha proposto un piano di investimenti sociali sul Territorio insieme alle Regioni, di supporto ai giovani e l’implementazione dei consultori. La senatrice Paola Binetti, è una neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta dell’età infantile, ha assicurato un’interrogazione parlamentare “perché venga in ogni caso bloccata, non solo qualunque forma di abuso, ma anche qualunque somministrazione impropria che contrasti con lo sviluppo sereno del bambino”. La senatrice Anna Maria Serafini, Presidente della Commissione Bicamerale per l’Infanzia ha annunciato che “questo sarà uno dei temi su cui lavorerò in Commissione e che metterò all’ordine del giorno. Porrò particolare attenzione a tutte le segnalazioni e denuncie finalizzate”.

L’APPELLO ALLA TURCO
"Abbiamo presentato ieri – dicono Luca Poma e Federico Bianchi di Castelbianco - una lettera aperta al Ministro della Salute con un vero e proprio "decalogo di buone prassi". Alcuni dei punti degni di maggior interesse di questo decalogo sono: l'attivazione di un tavolo presso il MInistero per approfondire il fenomeno delle prescrizioni indiscriminate di psicofarmaci ai bambini; lo psicofarmaco solo come ultimissima risorsa terapeutica, e quindi il rafforzamento concreto di tutte le strade alternative alla medicalizzazione; un' informazione alle famiglie davvero completa sui gravi rischi derivanti dalla somministrazione di psicofarmaci ai bambini ed adolescenti e, perchè no, il "black box", il riquadro nero sulle confezioni - come quello adottato per le sigarette - già adottato negli Stati Uniti con l'evidenza degli effetti collaterali più pericolosi".

GLI ITALIANI DICONO NO AGLI PSICOFARMACI AI BAMBINI
“Giù le Mani dai Bambini” ha svolto un sondaggio fra 1600 italiani dai 16 ai 65 anni di età chiedendo il loro parere sull’uso degli psicofarmaci ai bambini. Il 97 per cento ha detto “no” all’uso degli psicofarmaci per risolvere i disagi psichici dei minori. Il 97,1 per cento ha detto che le diagnosi fatte oggi con i questionari non sono affidabili.

Per ulteriori informazioni i colleghi giornalisti possono contattare il Portavoce nazionale del Comitato:
Luca Poma: 337415305 – portavoce@giulemanidaibambini.org

SCHEDA SULL’INCIDENZA DEI PRESUNTI DISTURBI DEL COMPORTAMENTO INFANTILE IN ITALIA RICLASSIFICATA REGIONE PER REGIONE

Regione

Popolazione

Totale

Popolazione

0÷14

affetti da presunti disturbi psichici

9,1% (0÷14)

presunti affetti da ADHD ≈2%[1] (0÷14)

Piemonte

4.214.677

508.618

46.284

10.172

Valle d'Aosta

119.548

15.447

1.406

309

Lombardia

9.032.554

1.189.599

108.254

23.792

Liguria

1.571.783

166.496

15.151

3.330

Trentino

940.016

151.112

13.751

3.022

Veneto

4.527.694

609.849

55.496

12.197

Friuli Venezia

1.183.764

135.374

12.319

2.707

Emilia-Romagna

3.983.346

462.791

42.114

9.256

Toscana

3.497.806

408.610

37.184

8.172

Umbria

825.826

101.072

9.198

2.021

Marche

1.470.581

189.811

17.273

3.796

Lazio

5.112.413

707.891

64.418

14.158

Abruzzo

1.262.392

175.829

16.000

3.517

Molise

320.601

45.775

4.166

915

Campania

5.701.931

1.056.708

96.160

21.134

Puglia

4.020.707

671.257

61.084

13.425

Basilicata

597.768

93.542

8.512

1.871

Calabria

2.011.466

335.858

30.563

6.717

Sicilia

4.968.991

851.334

77.471

17.027

Sardegna

1.631.880

226.212

20.585

4.524

ITALIA

56.995.744

8.103.185

737.390

162.063

 

 

 

 


 

SCHEDA DEI DATI INEDITI RELATIVI AL NUMERO DI CENTRI PER LA SOMMINISTRAZIONE DI PSICOFARMACI A BAMBINI ED ADOLESCENTI (ADHD) IN CORSO DI ATTIVAZIONE IN ITALIA, REGIONE PER REGIONE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

LE PRESCRIZIONI DEI PIU’ COMUNI PSICOFARMACI AD OGGI: DATI ITALIA, RIELABORATI REGIONE PER REGIONE  

Regione

Popolazione 0÷18

Farmaci psicoattivi in generale

2,91‰

assunzione di farmaci antidepressivi 2,36‰

assunzione di farmaci antipsicotici 0,68‰

assunzione di litio 0,05‰

Piemonte

649.646

1.890

1.533

442

32

Valle d'Aosta

19.458

57

46

13

1

Lombardia

1.511.111

4.397

3.566

1.028

76

Liguria

205.067

597

484

139

10

Trentino

314.910

916

743

214

16

Veneto

646.783

1.882

1.526

440

32

Friuli

180.564

525

426

123

9

Emilia

583.974

1.699

1.378

397

29

Toscana

524.035

1.525

1.237

356

26

Umbria

131.316

382

310

89

7

Marche

245.033

713

578

167

12

Lazio

911.352

2.652

2.151

620

46

Abruzzo

230.672

671

544

157

12

Molise

60.455

176

143

41

3

Campania

1.371.373

3.991

3.236

933

69

Puglia

876.213

2.550

2.068

596

44

Basilicata

123.613

360

292

84

6

Calabria

444.451

1.293

1.049

302

22

Sicilia

1.107.133

3.222

2.613

753

55

Sardegna

303.365

883

716

206

15

ITALIA

10.440.524

30.382

24.640

7.100

522

ATTENZIONE: la tabella è stata elaborata a scopo statistico, proiettando la media delle prescrizioni nazionali sulla popolazione residente di ogni regione appartenente alla fascia di età oggetto d’indagine.  Il dato sopra riportato come “Farmaci psicoattivi in generale” si riferisce alle somministrazioni di ogni tipo di farmaco psicoattivo ed è sottostimato. Le successive tre colonne riportano i dati afferenti la somministrazione delle specifiche categorie di psicofarmaci. Il dato generale non è l’esatta somma dei dati parziali in quanto esistono casi di prescrizioni contemporanee di più tipologie di farmaci (il dato complessivo è quindi quello al quale far riferimento per praticità d’interpretazione). 
Da questi dati sono esclusi tutti gli ansiolitici/ipnotici, dei quali si fa un uso sempre più disinvolto
(p. es. il Nopron®, psicofarmaco utilizzato per regolarizzare il ciclo sonno/veglia nei bimbi, o l’EN®, utilizzato dagli studenti come tranquillante prima degli esami); i dati inoltre sono relativi solo ed esclusivamente agli psicofarmaci rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale: oltre a ciò, vi sono ovviamente anche i farmaci non rimborsati. E poi le somministrazioni effettuate grazie a ricette e prescrizioni emesse in Repubblica di San Marino, Città del Vaticano e Canton Ticino, dove a volte le famiglie si approvvigionano di psicofarmaci senza le restrizioni proprie del nostro sistema nazionale di controllo sanitario. Sono anche sempre più frequenti gli acquisti in internet: sul web è possibile reperire pressochè ogni genere di farmaco psicoattivo senza necessità di alcuna ricetta, grazie a siti internet domiciliati in paesi off-shore non soggetti ad alcun controllo (pagamento con carta di credito, spedizioni a casa in pacco anonimo). 
Nell’ultimo quinquennio esaminato con certezza statistica (1997/2002, il successivo sarà il 2002/2007, ma i dati non sono ancora disponibili) in Italia vi è stato in incremento delle prescrizioni di psicofarmaci ai minori del 280%, contro il 150% in USA. L’Italia si presenta quindi come nazione ad alto tasso d’incremento di prescrizioni di psicofarmaci ai minori. Il trend negli anni successivi non ha comunque accennato a diminuire, specie per gli antidepressivi, nonostante i numerosi recenti “warning” dagli USA circa l’ispirazione di idee suicidarie nei minori che fanno uso di queste molecole (induzione al suicidio a normale dosaggio terapeutico). Il “mercato” è aperto ed in crescita, basti considerare come l’80% degli adolescenti che nel 2004 ha ricevuto prescrizioni di antidepressivi siano “nuovi utilizzatori” di queste sostanze.

[1] Il numero 2% è stato sostituito con 1,9999 in quanto la relazione finale del progetto PRISMA utilizza la dicitura “meno del 2%”
[2]
L’Emilia Romagna ha coinvolto tutta la propria rete di Neuropsichiatria Infantile, composta da un totale di 106 centri. In allegato (1), l’elenco di questi centri.

 

15 novembre

Drammatica audizione in Senato dell'ad Moretti e del presidente Cipolletta

"Senza ricapitalizzazione Trenitalia costretta a portare i libri in tribunale"

Il vertice delle Ferrovie lancia l'allarme: "Siamo sull'orlo del fallimento"

I manager del gruppo puntano l'indice sulla Finanziaria 2006

Le Fs rischiano la bancarotta

ROMA - "Siamo sull'orlo del fallimento. Le Ferrovie si sono svenate, non hanno più risorse e lo sbilancio è tale che non permette più di andare avanti in una situazione di indebitamento finanziario". Un quadro netto e chiaro quello fornito da Mauro Moretti, amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, in audizione davanti la commissione Lavori Pubblici del Senato.

Ai tagli e allo sbilancio va aggiunta una situazione difficile per Trenitalia: "Lo sbilancio per il 2006 è stimato a 1,707 miliardi". Per questo, spiega Moretti, "è assolutamente indispensabile per noi la ricapitalizzazione di Trenitalia altrimenti corriamo il rischio, non in tempi lunghi, ma brevi, di portare i libri in tribunale". "Se lo stato decide di tagliare i trasferimenti - ha aggiunto Moretti - può farlo, ma deve però decidere a quali servizi rinunciare. Siamo sull'orlo del fallimento".

"Noi - ha sottolineato Moretti - non possiamo più essere un vaso di coccio e non abbiamo le spalle larghe. Il problema riguarda sia la nostra capacità imprenditoriale e gestionale, dove pesano le inefficienze della gestione precedente, che il corretto rapporto con lo Stato perché gli impegni presi devono essere onorati. Lo Stato ha tutto il diritto di ridurre i trasferimenti ma ha anche il dovere di dirci quali servizi debbano essere ridotti. Se vuole - ha insistito - può ridurre i trasferimenti, questa è una libera scelta. Ma se si vuole così, bisogna poi dire cosa tagliare. Non si può perpetuare una situazione che ci ha portato sull'orlo del fallimento".

All'audizione ha preso parte anche il presidente delle Fs Innocenzo Cipolletta, che ha fornito un'analisi analoga a quella di Moretti. All'intero sistema ferroviario, ha spiegato, necessitano circa 6,1 miliardi di euro. "A determinare tale squilibrio - ha detto Cipolletta - è stata sia la riduzione dei trasferimenti dalla Finanziaria 2006 sia l'aumento dei costi in larga parte attribuibili ai servizi Trenitalia".

"La Finanziaria 2007 - ha aggiunto il presidente delle Fs - assegna maggiori risorse, ma non riesce a soddisfare tutte le esigenze del sistema ferroviario. Mancano 3,5 miliardi per l'alta velocità, 1,4 miliardi per la rete convenzionale, 500 milioni di euro per le convenzioni e 700 milioni per la ricapitalizzazione di Trenitalia, che è necessaria per non portare i libri in tribunale".

Riguardo al piano industriale, Cipolletta ha poi ribadito che occorre prima attendere di conoscere le risorse certe disponibili in finanziaria, "vogliamo vedere quali saranno i flussi di finanziamento per i prossimi tre anni", specificando che il management sta facendo delle ipotesi di ricavi "per quanto riguarda una modifica delle tariffe per la parte non in convenzione".

 

Ossezia del Sud spaccata in due

Il doppio voto di domenica dà vita a due governi: uno indipendentista e uno unionista

Si complica sempre di più la guerra fredda “per procura” che contrappone Stati Uniti e Russia alle pendici meridionali del Caucaso. Le votazioni parallele svoltesi domenica nella regione separatista georgiana dell’Ossezia del Sud hanno creato una frattura che renderà ancora più difficile una soluzione negoziale a questo conflitto “congelato” che si trascina ormai da quindici anni.

Le elezioni indipendentiste. Le votazioni organizzate dalle autorità dell’autoproclamata Repubblica dell’Ossezia del Sud (riconosciuta solo dalla Russia) si sono svolte solo nei villaggi sotto il loro controllo, ovvero quelli a maggioranza osseta. Si votava per un referendum sull’indipendenza dalla Georgia e per l’elezione del nuovo “presidente della repubblica”. Secondo il governo di Tskhinvali (“capitale” dell’Ossezia del Sud) hanno votato circa 50mila persone (il 90% degli aventi diritto) e, ovviamente, al referendum ha stravinto il “sì” e alla presidenza è stato confermato il leader indipendentista Eduard Kokoity.

Stati Uniti, Nato e Unione europea hanno disconosciuto e criticato il voto.

Per la Russia invece, che sostiene apertamente i separatisti osseti e si richiama al precedente del Kosovo, i risultati di queste elezioni non potranno essere ignorati.

Le elezioni unioniste. Ma, parallelamente alle elezioni indipendentiste, il governo di Tbilisi ha organizzato un voto alternativo nei villaggi sud-osseti sotto il suo controllo, ovvero quelli a maggioranza georgiana. Qui si è votato per un referendum alternativo e per l’elezione di un presidente alternativo. L’ong “Unione per la Salvezza degli Osseti” (legata ai servizi segreti georgiani) sostiene che 42.000 persone hanno votato, quindi non solo la popolazione georgiana, ma anche moltissimi osseti in disaccordo con le autorità indipendentiste. Il risultato è stato la vittoria schiacciante dei “sì” a un’Ossezia del Sud integrata con la Georgia e l’elezione di Dimitri Sanakoev come “presidente alternativo” riconosciuto dal governo georgiano.

Sanakoev formerà ora un “governo alternativo” dell’Ossezia del Sud nel villaggio di Kurta, pochi chilometri a nord-est di Tskhinvali. Il presidente georgiano Mikheil Saakashvili lo riconoscerà come l’unico legittimo della regione, indebolendo così il peso politico e diplomatico delle autorità separatiste sud-ossete e dimostrando che in Ossezia del Sud c’è chi vuole stare con la Russia, ma anche chi vuole rimanere in Georgia. Il rischio, però, è quello di una formale spaccatura della regione su base etnica.

Guerra fredda per procura. Secondo il Cremlino, la nuova situazione che si è venuta a creare potrebbe portare addirittura a una nuova guerra tra georgiani e osseti. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, teme che il governo parallelo filo-georgiano che nascerà nella regione contesa si doterà di apparati di sicurezza propri e che così “le già esistenti divisioni tra osseti e georgiani residenti in Ossezia del Sud sfoceranno in un nuovo confronto armato.

Ma a differenza del 1991, quando solo i separatisti osseti ebbero un appoggio esterno (la Russia, e per questo vinsero la guerra), stavolta i georgiani possono contare sul pieno sostegno politico e militare degli Stati Uniti e della Nato. La posta in gioco è ben superiore allo status dell’Ossezia del Sud: Washington contende a Mosca l’egemonia del Caucaso meridionale, regione attraversata dalle rotte del petrolio e del gas del Mar Caspio e porta settentrionale del Medio Oriente a ridosso dell’Iran.

Enrico Piovesana

 

14 novembre

 

Cessate il fuoco
Il bollettino settimanale delle guerre e dei conflitti in corso n.45 - 2006 dal 2/11 al 8/11

Israele e Palestina.
Il 2, 6 palestinesi e 1 militare israeliano sono morti durante i violenti scontri scoppiati nelle vie di Beit Hanun, quando l’esercito israeliano ha fatto irruzione per cercare i razzi che vengono sparati contro Israele. Lo stesso giorno, 2 palestinesi sono morti a causa del raid aereo israeliano contro il campo profughi di Jabaliya, nel nord della Striscia di Gaza.
Il 3, 10 palestinesi sono stati uccisi durante gli scontri seguiti all’incursione dell’esercito israeliano a Beit Hanun, nella Striscia di Gaza. Lo stesso giorno, sempre a Beit Hanun, l’ersercito israeliano ha aperto il fuoco contro la folla che proteggeva una moschea dove erano asserragliati miliziani palestinesi, uccidendo tre donne e 4 uomini. Ancora il 3, Un attacco aereo israeliano contro un'auto nel nord della Striscia di Gaza ha causato la morte di due militanti palestinesi.
Il 4, nei combattimenti tra esercito israeliano e miliziani palestinesi a Beit Hanun e nel campo profughi di Jabaliya, a nord di Gaza City, hanno perso la vita 7 palestinesi, tra i quali una bimba di 12 anni. Lo stesso giorno, 3 palestinesi sono stati uccisi in diversi attacchi israeliani nella striscia di Gaza.
Il 5, il bilancio dell’operazione dell’esercito israeliano chiamata ‘Nuvole d’autunno’, secondo fonti mediche palestinesi, riporta che in 5 giorni di combatttimenti, i palestinesi uccisi sono 47 e i feriti 250. Delle vittime, 21 erano civili: fra questi 3 donne, 3 paramedici, e 7 minorenni.
Il 6, una donna palestinese si è fatta esplodere contro i militari israeliani, uccidendo solo se stessa, a Beit Hanun. Lo stesso giorno, un caccia israeliano
ha sparato in direzione di un gruppo di miliziani, ma il missile è esploso nelle vicinanze di un minibus carico di studenti. Mahmud Sharfi, 15 anni, è rimasto ucciso sul posto, il suo compagno Mohammed Ashur, 16 anni, è deceduto in seguito in ospedale. Fra i feriti, nove ragazzini di età compresa fra 5 e 13 anni.
Il 7, una unità dell'esercito israeliano, nella zona di Beit Lahya ha ucciso 2 miliziani della Jihad Islamica. Ancora il 7, nella zona di Shuhada, fra Beit Hanun e Jabalya, l’esercito di Tel Aviv ha ucciso 3 palestinesi.
L’8, l’esercito israeliano ha bombardato Beit Hanun, uccidendo 19 persone, fra
cui 9 bambini e alcune donne, tutti civili colti nel sonno, e ferendone 40. Lo stesso giorno, un palestinese è stato ucciso da un cecchino israeliano nella zona di Jabalya. Ancora l’8, 2 palestinesi sono stati uccisi dal razzo sparato da un caccia israeliano a Gaza City.
  
Cecenia e Inguscezia.
Il 4 novembre in Inguscezia 3 guerriglieri sono morti in uno scontro a fuoco con le forze russe nel distretto di Sunjen.
Il 5 in Cecenia un poliziotto ceceno è morto in un incidente stradale.
Il 6 nel distretto ceceno di Kurchaloi 2 soldati russi sono morti per l’esplosione di una bomba radiocomandata posta sul ciglio della strada. Nel distretto di Shali i ribelli sostengono di aver ucciso alcuni soldati russi in un agguato. Un militare russo è morto un altro agguato nella zona di Sharoysk. In Inguscezia i ribelli hanno ucciso una donna accusata di stregoneria nel villaggio di Orjonikijevsk.
Il 7 nel distretto ceceno di Shatoi in un’imboscata della guerriglia sono morti 7 militari russi.
L’8 nel distretto di Kurchaloi 3 soldati russi sono morti per l’esplosione di una bomba radiocomandata.
 
Pakistan.
Il 2 novembre a Quetta 3 persone sono morte in un attentato degli indipendentisti baluci contro gli uffici della polizia.
L’8 nell’agenzia tribale di Malakand un kamikaze ha ucciso 42 soldati facendosi esplodere nella base militare di Dargai. Una vendetta per il bombardamento della madrasa della vicina agenzia tribale di Bajaur, in cui sono rimasti uccisi 83 studenti coranici accusati di terrorismo.
 
Algeria.
Il 4, 8 militari algerini sono rimasti uccisi in un'imboscata nella regione di Ain Defla, 120 chilometri a sud ovest di Algeri. La magistratura algerina è convinta che si tratti di un attacco del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (Gspc), ritenuto affiliato con al-Qaeda e unico gruppo armato fondamentalista a non aver deposto le armi dopo la fine della guerra civile nel Paese.
 
Colombia.
Il 2, è stato di almeno 2 morti e 5 feriti il bilancio delle vittime dell’esplosione di un’autobomba a Fusagasuga, Cundinamarca, nel centro del paese, un giorno dopo che uno scontro a fuoco fra la guerriglia e le forze militari, nel nord, aveva provocato la morte di 30 persone fra poliziotti, ribelli e civili.
 
Sri Lanka. 
Il 5 nei pressi di Batticaloa uomini armati hanno ucciso un pescatore ritenuto un informatore della guerriglia Tamil.
Il 6 tre cadaveri di ragazzi non identificati sono stati rinvenuti stamane vicino a Trincomalee, sulla costa nord-oreintale. Nella zona settentrionale di Jaffna due guerriglieri delle Tigri Tamil sono morti dopo aver attaccato una pattuglia dell'esercito singalese.
L'8 l'esercito cingalese ha ucciso 45 civili, ferendone altri 125, in un attacco a colpi di artiglieria ad un campo per sfollati interni a Kathiraveli, nella provincia orientale di Batticaloa.
 
India.
Il 3 un gruppo di militanti islamici ha attaccato Srinagar, capitale estiva del Kashmir indiano, uccidendo un soldato e ferendone un altro.
Il 5 sono morte 10 persone, e altre 12 sono rimaste ferite nella città di Guwahati, nello stato di Assam, a seguito di due esplosioni in un affollato mercato e in un'installazione industriale.
Il 7 due poliziotti sono morti a seguito di un attacco compiuto da miliziani islamici nel distretto di Kupwara settentrionale, nel Kashmir indiano.
L'8 l'esercito indiano ha ucciso 2 comandanti dei ribelli islamici nel distretto di Doda, nel Kashmir indiano.
 
Costa d’Avorio.
Il 4, incidenti scoppiati ad Abidjan tra gli uomini del Gruppo Patriottico per la Pace, fedeli al presidente ivoriano Laurent Gbagbo, e i giovani disoccupati che stavano protestando contro il governo per le strade del quartiere di Youpougon, hanno provocato 4 morti. Dal 2002 il Paese è diviso, a séguito della guerra civile, in due zone controllate rispettivamente dalle forze governative e dai ribelli delle Forces Nouvelles.
 
Nigeria.
Il 31, 4 persone sono morte e altre 2 sono rimaste gravemente ferite in scontri avvenuti tra gruppi appartenenti a culti segreti nella città nigeriana di Oloibiri, nello stato meridionale di Bayelsa. Gli scontri tra gruppi appartenenti a culti segreti sono piuttosto frequenti nel Paese, e provocano ogni anno decine di vittime.
 
Uganda.
Il 7, l'esercito ugandese ha comunicato di aver ucciso almeno 12 persone nel corso dei bombardamenti condotti nel fine settimana sulla regione nord-orientale del Karamoja. I Karamojong conducono da anni sanguinosi raid ai confini con Kenya e Sudan per impadronirsi del bestiame allevato da altre tribù. I numerosi tentativi fatti dalle autorità per disarmare i guerriglieri non hanno prodotto risultati.
 
Ciad.
Il 7, le autorità ciadiane hanno riferito che scontri avvenuti nel sud-est del Paese tra diverse comunità avrebbero provocato più di 100 morti. Le violenze avrebbero avuto come protagonisti Arabi e Kibet, ma non è chiaro quale sia stato il motivo scatenante del conflitto.
 
Sudan.
Il 29, un'imboscata organizzata da uomini armati non identificati, avvenuta sulla strada che collega le città di Torit e Juba, nel Sudan meridionale, avrebbe portato alla morte di 11 persone, secondo quanto riferito da personale delle Nazioni Unite. Il 3, i ribelli del National Redemption Front, operanti nella regione occidentale sudanese del Darfur, hanno accusato le milizie Janjaweed di aver ucciso almeno 63 civili, tra cui 33 bambini, negli attacchi lanciati nell'ultima settimana ai campi profughi presso Jebel Moon. Il conflitto in Darfur, scoppiato nel febbraio 2003, ha provocato finora almeno 300 mila vittime. 

 

13 novembre

Ulivi senza pace

Palestina: inizia la raccolta delle olive, una risorsa essenziale per un’economia in crisi

All’inizio di novembre è iniziato nei territori palestinesi il periodo della raccolta delle olive, che durerà due mesi. Il ministro della Difesa israeliano, Peretz, aveva promesso che quest’anno la raccolta sarebbe stata diversa e anche un’ingiunzione dell’Alta Corte israeliana –che impone all’esercito di proteggere i raccoglitori palestinesi e consentire loro l’accesso ai campi - sembrava confermare l’ottimismo.

Donna palestinese durante la raccolta delle oliveRaccolta a ostacoli. Da giugno a oggi però la situazione è cambiata: sono arrivate le sanzioni dell’Unione Europea e le tasse sull’esportazione trattenute da Israele, la cattura del caporale Shalit e i continui raid nella Striscia di Gaza, la guerra in Libano e la fine del piano di Olmert per il disimpegno dalla Cisgiordania, fino all’ingresso dell’estrema destra di Liebermann nel governo israeliano. Tutti questi fattori hanno fatto sì che l‘indigenza dei palestinesi si sia aggravata. Sempre più persone nei Territori Occupati fanno affidamento sulla raccolta delle olive per sopravvivere, ma anche quest’anno le difficoltà si annunciano numerose. I volontari di un’organizzazione israeliana per i diritti umani, che hanno monitorato la situazione dei raccolti, riferiscono che l’esercito israeliano ha già bloccato l’ingresso alle zone coltivate di cinque villaggi, in altri sei villaggi i campi sono stati chiusi o sequestrati e in altri dieci, l’accesso è stato consentito solo in date specifiche.
 
Famiglia palestiense durante la raccoltaI coloni e il muro. Per i raccoglitori di olive le difficoltà sono le violenze dei coloni e il muro di separazione. In un villaggio vicino a Tulkarem, ad esempio, i campi e il paese sono divisi dal muro, e i cancelli che consentono il passaggio da una parte all’altra vengono aperti solo tre volte al giorno e per pochi minuti. Il muro può essere oltrepassato solo con un permesso speciale, i cui criteri sono molto restrittivi. La raccolta delle olive richiede molta manodopera, eppure capita spesso che solo il proprietario riesca a ottenere l’autorizzazione dall’esercito israeliano, che pretende il permesso anche per gli asini. Quanto ai coloni, gli episodi di attacchi contro agricoltori palestinesi, anche in presenza di osservatori internazionali, sono innumerevoli. I coloni si sono resi responsabili di aggressioni e furti che raramente sono stati sanzionati. Secondo un’ordinanza dell’Alta Corte israeliana, la violenza dei coloni non è un motivo sufficiente per chiudere l’accesso ai terreni, invece, in molti casi si è ugualmente scelto di proibire la raccolta nelle aree a rischio. Un giudice israeliano ha dichiarato: “impedire ai residenti palestinesi di raggiungere i loro campi per proteggerli dagli attacchi dei coloni è come ordinare a delle persone di non entrare in casa per paura dei ladri”. Anche quest’anno molte aree coltivate sono state dichiarate inaccessibili, ma per non violare la disposizione della Corte la motivazione addotta è stata “per proteggere i coloni”.
 
Bulldozer israeliano distrugge un campo di uliviL’economia dell’ulivo. Quasi la metà delle famiglie palestinesi in Cisgiordania vive sotto la soglia della povertà e il tasso di disoccupazione supera il 27 percento. Nella Striscia di Gaza i dati sono peggiori. Oltre alle famiglie proprietarie dei campi, la raccolta delle olive coinvolge direttamente migliaia di persone, dai raccoglitori ai lavoratori delle macine, passando per chi si occupa del trasporto e della vendita dell’olio, che rappresenta il 22 percento della produzione agricola dei Territori. È stato calcolato che gli ostacoli posti tra gli agricoltori palestinesi e i campi coltivati sono oltre 500, cui si aggiungono tutte le complicazioni legate al tracciato del muro, che oggi passa i 700 chilometri di lunghezza e non è ancora terminato. Quando sarà completo, su nove milioni di alberi di ulivo censiti nei Territori Occupati, un milione sarà irraggiungibile.
 

 

Il vento è cambiato
Marco d'Eramo
Ha trionfato il referendum contro George W. Bush. E ha vinto il referendum contro la guerra in Iraq. Perché questo erano diventate le elezioni di mezzo termine: un pronunciamento del popolo americano pro o contro la presidenza, pro o contro la guerra. È inequivocabile il messaggio inviato dagli elettori alla Casa bianca. Previsione unanime era che i democratici avrebbero conquistato uno dei due rami del parlamento (la Camera). Invece hanno superato le aspettative. Oltre la Camera dei deputati, in cui alla fine guadagneranno più di 30 seggi, hanno pareggiato al Senato, conquistando cinque seggi, e sono ben piazzati in Virginia per un sesto seggio che darebbe loro la maggioranza anche nella Camera alta.
Gli elettori potevano votare su temi locali, hanno votato sui grandi temi nazionali, e hanno votato contro. Contro i repubblicani, non a favore dei democratici che non offrivano nessun programma chiaro, nessuna strategia seria di disimpegno dall'Iraq, nessun Contratto con l'America, neanche uno slogan memorabile: hanno essenzialmente sconfitto qualcosa con niente. Ma offrivano un traghetto per il cambiamento, la fine del monopolio politico repubblicano, un uscio dischiuso su una correzione di rotta. E gli elettori hanno accolto l'unica sponda offerta loro con un inaspettato livore, persino malanimo, contro quella stessa presidenza autocratica che nel 2004 avevano riconfermato con 4 milioni di voti di vantaggio.
Le fulminee dimissioni del ministro della difesa Donald Rumsfeld, e il suo immediato ricambio con Bob Gates (capo della Cia tra il '91 e il '93) dimostrano che il messaggio è stato recapitato alla Casa bianca. Ieri il presidente si è presentato in conferenza stampa con il sorriso più soave, la cortesia più mielosa. Ha congratulato i democratici per la loro «grande vittoria», per la «bravura dimostrata nella loro campagna», ha chiesto di superare gli spartiacque, di «unire invece di dividere l'America» (ma lui cosa altro ha fatto per sei anni?). Ha offerto loro un ramoscello d'olivo che rischia di diventare un boccone avvelenato.
Non poteva fare altro che rilanciare la palla in campo avversario: avete vinto, tocca a voi giocare, io sono pronto a cooperare, ma quali compromessi siete pronti a fare voi? Se i democratici compromettono subito, si sputtanano; se rifiutano il compromesso, si rivelano faziosi e intolleranti. Ma le profferte di pace di Bush sono solo l'apertura del bizantino balletto politico cui assisteremo nei prossimi due anni. Da ieri ha infatti preso il via la campagna presidenziale del 2008. È cominciato il «biennio dei lunghi coltelli», e all'interno dei due partiti le lame si stanno già affilando.
Nel frattempo, in attesa di sviluppi, altri aspetti del voto non vanno sottovalutati. I democratici hanno conquistato 6 governatori e 9 parlamenti statali. I repubblicani hanno perso i feudi che ritenevano inalienabili: il Midwest, il Sudovest. È cambiata la geografia politica degli Stati uniti. Ancor più importante, è cambiato il vento culturale.
Due anni dopo l'onda di marea dei puritani cristiani, per la prima volta - e in uno stato reazionario, l'Arizona - è stato battuto un referendum per vietare i matrimoni omosessuali. Un altro stato di destra, il Sud Dakota, ha bocciato un referendum per vietare l'aborto. Il Missouri ha approvato un referendum a favore della ricerca sulle cellule staminali. La risposta, amici miei, soffia nel vento.

 

Il commissario Ue: proporrò l'avvio di un'inchiesta sullo stop del governo alla fusione con la spagnola Abertis. Ma lascia aperta la porta al negoziato

Autostrade, l'annuncio di Mc Creevy: "Procedura di infrazione contro Italia"

Il ministro Antonio Di Pietro

BRUXELLES - Il commissario Europeo al mercato interno Charlie McCreevy ha dichiarato che "in un futuro prossimo" proporrà, al Collegio dei commissari Ue, l'apertura di una procedura di infrazione contro l'Italia, sul caso Autostrade-Abertis. In pratica, la Ue potrebbe contestare al nostro governo di aver detto un "no" immotivato alla fusione della società italiana con il gruppo spagnolo (fortemente osteggiata dal ministro Antonio Di Pietro). L'ipotesi è quella di violazione delle regole comunitarie sulla libera circolazione dei capitali.

L'annuncio del commissario. Ecco le parole di McCreevy: "Durante i nostri contatti con le autorità italiane abbiamo sottolineato che la legge italiana impone restrizioni forti e ingiustificate alla libera circolazione dei capitali: questa è la base su cui abbiamo avuto contatti con le autorità italiane e questa è la base sulla quale poggia la mia intenzione di proporre l'apertura formale di una procedura (di infrazione) contro l'Italia".

I tempi. Su quando la proposta verrà presentata formalmente al collegio Ue, NcCreevy non si è sbilanciato. "Non avverrà domani, ma molto presto - ha dichiarato il suo portavoce - adesso non posso dare indicazioni più precise rispetto a quanto ha già detto il commissario". E di fronte all'ipotesi della prossima settimana, ha risposto: "Sì, è possibile".

Soluzione negoziale? In realtà, con le dichiarazioni di oggi, il commissario non ha chiuso le porte a un tentativo di mediazione. Anzi, ha tenuto a precisare che "durante i nostri contatti continui con le autorità italiane, queste questioni potrebbero essere risolte". Non è detto, insomma, che si arrivi a una condanna, con relativa supermulta a carico del nostro Paese.

Abertis spera ancora. Sempre oggi, la società spagnola ha fatto sapere che la fusione con Autostrade potrà andare in porto solo se il Parlamento italiano modificherà l'articolo 12 del decreto fiscale. "Speriamo che la legge venga modificata in Parlamento e da questo dipenderà la nostra posizione finale - ha detto oggi il direttore finanziario, Josè Aljaro - siamo fiduciosi sul fatto che il parlamento italiano cambierà la legge e ci permetterà di portare in porto la fusione entro la fine dell'anno". Questo perché, a suo giudizio, "non è possibile accettare una legge che modifica sostanzialmente le condizioni della fusione che è stata approvata a giugno".

Le reazioni a Piazza Affari. Subito dopo l'annuncio del commissario, Ue, il titolo Autostrade in Borsa è salito di circa un punto e mezzo percentuale.

9 novembre

 

Call center, Napoli cerca un lavoro migliore

 

Sfruttamento e pressioni dai capi: cocoprò e dipendenti non se la passano bene. I sindacati e le nuove leggi regionali

Roberto Fantasma

Napoli

«Quando si usavano i cococò la situazione era grave, ma ora con i contratti a progetto la precarietà è diventata una condanna con effetti devastanti per migliaia di lavoratori». Quella di Gianluca Daniele - segretario Slc-Cgil Campania, tra i promotori del seminario «Il lavoro nei call center», ieri a Napoli - è la fotografia impietosa del mercato del lavoro, in particolare al sud. «Con la flessibilità dei contratti offerta dalle norme vigenti - continua - i grandi operatori telefonici tengono per sé la gestione della clientela più redditizia, come quella business, e lasciano che aziende subappaltatrici si occupino del segmento di mercato peggiore».

Così, imprese come il Gruppo Cos e la Telecontact si trovano a gestire servizi come il 190 della Vodafone o il 181 della Telecom: «Se nei grossi gruppi - aggiunge Daniele - i lavoratori arrivano al posto fisso, nelle aziende di outsourcing l'inquadramento è molto basso, quasi sempre il terzo livello, e i salari molto più leggeri. Parliamo di differenze tra i 300 e i 700 euro al mese». Ma gli aspetti peggiori del lavoro esternalizzato sono la mancanza di formazione e l'impossibilità di fare carriera: «Lavoro da 6 anni e sto ancora in cuffia - racconta Marco - Ho una laurea in Economia, quando mi assunsero speravo di passare rapidamente all'amministrazione, ormai ci ho rinunciato».

Donatella, laureata in giurisprudenza, è stata assunta dalla Cos come apprendista: «Dovevano applicare il contratto di apprendistato professionalizzante ma non l'hanno fatto e così mi ritrovo con molte meno tutele. All'inizio guadagnavo 120 euro al mese in part time, dopo due anni sono arrivata a 480, ma non ho ferie pagate né permessi per malattia. La formazione, poi, me la fanno fare nei giorni liberi».

Nessuna crescita professionale ma molto stress psicofisico: «Lavoriamo con monitor obsoleti - prosegue Salvatore - abbiamo problemi di vista, di udito e andiamo soggetti a polipi alle corde vocali. Tutto è un problema, persino fare pausa se ti cala la voce o devi andare in bagno. Il senior lo impedisce se ci sono telefonate dei clienti in coda». Il senior è il primo livello di controllo, seguito dal team manager. Entrambi utilizzano ogni sistema di pressione per aumentare la produttività: «Quando vengono richiamati dai piani alti ci minacciano con le lettere di contestazione - racconta ancora - Alla terza rischiamo il posto. Quando però raggiungiamo l'obiettivo richiesto la Cos riceve un premio produttività dal cliente, ma a noi non arriva nulla in busta paga».

I turni cominciano alle 7 di mattina e vanno avanti fino alle 2 di notte, gli interinali coprono anche le ore notturne, dalla mezzanotte alle 8 di mattina, per ritrovare in busta paga appena il 15% in più l'ora. Certo è così in tutta Italia, ma al Nord in molti casi il call center è una fase in attesa di un'occasione migliore, al Sud invece è spesso la sola occasione che capita.

La regione Campania ha recentemente approvato il disegno di legge per la promozione della qualità del lavoro, obiettivo contrastare il sommerso e la precarietà attraverso il «premio di trasformazione», che mira alla compressione della flessibilità ai primi due anni incentivando poi le aziende a cambiare il contratto portandolo a tempo indeterminato, e l'Area Aql (Alta qualità lavoro) che premia le aziende virtuose (quelle cioè a norma e con dipendenti assunti a tempo indeterminato) con linee di finanziamento agevolato in tempi rapidi. «Gli obiettivi del provvedimento - dichiara l'assessore regionale al lavoro Corrado Gabriele - sono bloccare la precarietà, rendendo estremamente convenienti le assunzioni a tempo indeterminato, contrastare la criminalità, accompagnando verso l'emersione le imprese che utilizzano il lavoro nero, e fermare la vera e propria guerra del lavoro, che ci consegna ormai con tragica stabilità 4 morti al giorno».

 

8 novembre

 

Il vento è cambiato

Marco d'Eramo

Ha trionfato il referendum contro George W. Bush. E ha vinto il referendum contro la guerra in Iraq. Perché questo erano diventate le elezioni di mezzo termine: un pronunciamento del popolo americano pro o contro la presidenza, pro o contro la guerra. È inequivocabile il messaggio inviato dagli elettori alla Casa bianca. Previsione unanime era che i democratici avrebbero conquistato uno dei due rami del parlamento (la Camera). Invece hanno superato le aspettative. Oltre la Camera dei deputati, in cui alla fine guadagneranno più di 30 seggi, hanno pareggiato al Senato, conquistando cinque seggi, e sono ben piazzati in Virginia per un sesto seggio che darebbe loro la maggioranza anche nella Camera alta.

Gli elettori potevano votare su temi locali, hanno votato sui grandi temi nazionali, e hanno votato contro. Contro i repubblicani, non a favore dei democratici che non offrivano nessun programma chiaro, nessuna strategia seria di disimpegno dall'Iraq, nessun Contratto con l'America, neanche uno slogan memorabile: hanno essenzialmente sconfitto qualcosa con niente. Ma offrivano un traghetto per il cambiamento, la fine del monopolio politico repubblicano, un uscio dischiuso su una correzione di rotta. E gli elettori hanno accolto l'unica sponda offerta loro con un inaspettato livore, persino malanimo, contro quella stessa presidenza autocratica che nel 2004 avevano riconfermato con 4 milioni di voti di vantaggio.

Le fulminee dimissioni del ministro della difesa Donald Rumsfeld, e il suo immediato ricambio con Bob Gates (capo della Cia tra il '91 e il '93) dimostrano che il messaggio è stato recapitato alla Casa bianca. Ieri il presidente si è presentato in conferenza stampa con il sorriso più soave, la cortesia più mielosa. Ha congratulato i democratici per la loro «grande vittoria», per la «bravura dimostrata nella loro campagna», ha chiesto di superare gli spartiacque, di «unire invece di dividere l'America» (ma lui cosa altro ha fatto per sei anni?). Ha offerto loro un ramoscello d'olivo che rischia di diventare un boccone avvelenato.

Non poteva fare altro che rilanciare la palla in campo avversario: avete vinto, tocca a voi giocare, io sono pronto a cooperare, ma quali compromessi siete pronti a fare voi? Se i democratici compromettono subito, si sputtanano; se rifiutano il compromesso, si rivelano faziosi e intolleranti. Ma le profferte di pace di Bush sono solo l'apertura del bizantino balletto politico cui assisteremo nei prossimi due anni. Da ieri ha infatti preso il via la campagna presidenziale del 2008. È cominciato il «biennio dei lunghi coltelli», e all'interno dei due partiti le lame si stanno già affilando.

Nel frattempo, in attesa di sviluppi, altri aspetti del voto non vanno sottovalutati. I democratici hanno conquistato 6 governatori e 9 parlamenti statali. I repubblicani hanno perso i feudi che ritenevano inalienabili: il Midwest, il Sudovest. È cambiata la geografia politica degli Stati uniti. Ancor più importante, è cambiato il vento culturale.

Due anni dopo l'onda di marea dei puritani cristiani, per la prima volta - e in uno stato reazionario, l'Arizona - è stato battuto un referendum per vietare i matrimoni omosessuali. Un altro stato di destra, il Sud Dakota, ha bocciato un referendum per vietare l'aborto. Il Missouri ha approvato un referendum a favore della ricerca sulle cellule staminali. La risposta, amici miei, soffia nel vento.

 

"Sono lampanti due cose: si deve porre fine alla guerra e impedire al signor Bush di arrecare ulteriori danni"

Amici,

ce l'avete fatta! Ce l'abbiamo fatta! L'impossibile si è verificato: la maggioranza degli statunitensi ha sottratto nettamente e con la forza la Camera dei rappresentanti dal controllo del partito di Bush. E, ad un certo punto della giornata odierna, potremmo assistere allo stesso miracolo in Senato. Qualsiasi sia il risultato, il popolo americano ha reso lampanti due cose: porre fine alla guerra e impedire al signor Bush di arrecare ulteriori danni a questo Paese che amiamo. A questo sono servite le elezioni. A nient'altro. Solo a questo. E' un messaggio che ha fatto tremare tutta Washington - e una nota di speranza in questo travagliato pianeta.

Adesso comincia il lavoro vero. Finchè non staremo col fiato sul collo di questi Democratici affinché facciano la cosa giusa, faranno ciò che hanno sempre fatto: casino. Un gran casino. Hanno aiutato Bush a cominciare questa guerra. E adesso dovrebbero correre ai ripari.

Ma prendiamoci un giorno per gioire e far festa in una rara vittoria per noi - noi che non crediamo in invasioni deliberate di altri Paesi. Oggi è il vostro giorno, amici miei. Avete lavorato duro per arrivarci. Non vi dico quale orgoglio provo nel considerarvi parte di quella grande maggioranza che adesso formiamo. Grazie per tutto il tempo che avete dedicato a questa settimana decisiva per il voto. Alcuni di voi hanno lavorato a questo obiettivo dalle imponenti manifestazioni del febbraio 2003, quando abbiamo cercato di fermare la guerra prima che iniziasse. Solo il 10-20 per cento del Paese era d'accordo con noi allora. Vi ricordate come eravamo soli? Qualcuno ci fischiava anche! Adesso, il 60 per cento è dalla nostra parte. Loro sono noi e noi siamo loro. Che strano, fiducioso e piacevole sentimento. Una donna, per la prima volta nella nostra storia, sarà presidente della Camera. Il tentativo di vietare l'aborto nello stato conservatore del South Dakota è stato impedito. Sono passate leggi per aumentare il salario minimo. I Democratici sono stati eletti per riempire i posti di Tom DeLay e Mark Foley. John Conyers Jr. di Detroit diventerà presidente della Commissione giudiziaria della Camera. Il governatore Democratico del Michigan ha battuto l'amministratore delegato di Amway. La piccola cittadina vicina a dove vivo in Michigan ha votato Democratico per la prima volta da...sempre. E facciamo in modo che il Congresso ascolti finalmente la maggioranza.

Se oggi volete fare qualcosa, mandate una mail o una lettera ai vostri Senatori e ai vostri membri del Congresso (http://www.visi.com/juan/congress/) e dite loro, senza mezzi termini, ciò che significano queste elezioni: porre fine alla guerra e non permettere a Bush di farla franca con altre delle sue brillanti idee.

Congratulazioni, di nuovo! Adesso andiamo a mettere sulle spine i Democratici perché facciano il lavoro per il quale li abbiamo votati.

Vostro, nella vittoria (per una volta!),

Michael Moore

 

Un popolo di eroi, navigatori e spioni

di Michele Serra

L'emergenza spionaggio ha origini antiche, con agenti segreti che scoprono dossier su loro stessi e che mentre si chinano a raccogliere indizi vengono frugati da altri, fino a formare lunghe file come alla prima di Harry Potter

Come fronteggiare l'emergenza spionaggio? È fallito il tentativo di formare una commissione parlamentare d'inchiesta. Un'ora dopo la sua istituzione, tutti i membri della commissione hanno scoperto di avere una cimice in tasca, il conto corrente riportato sui tabelloni luminosi delle autostrade e la moglie pedinata da una troupe tv della Guardia di Finanza.

In difficoltà anche il Garante della Privacy: il suo duro comunicato contro questa pratica intrusiva è stato corretto in automatico, via Internet, da un'impiegata delle Poste che nella pausa pranzo si diverte a ritoccare la Gazzetta Ufficiale e qualunque altro documento dello Stato per far ridere le amiche. Ma com'è cominciato questo fenomeno, un tempo limitato a pochi professionisti e oggi divenuto una passione nazionale, al punto che non si trova più una lente d'ingrandimento in tutta Italia? Chi ha cominciato a spiare chi, per primo? Impossibile saperlo. È una specie di catena di Sant'Antonio, con agenti segreti che frugando nei cassetti di un ministero scoprono dossier su loro stessi e le loro famiglie, spioni che mentre si chinano a raccogliere un indizio vengono a loro volta frugati nella tasca dei pantaloni da un secondo spione, ignaro del fatto che un terzo misterioso figuro, alle sue spalle, gli sta toccando il culo (i famosi servizi deviati), e così via fino a formare file lunghe come alla prima di Harry Potter. Proviamo, comunque, a ricostruire almeno alcuni dei principali casi di spionaggio.

Fiat La schedatura illegale degli operai è stata, per decenni, pratica abituale alla Fiat. Valletta aveva dato incarico alla vigilanza interna di scoprire chi erano i comunisti. La vigilanza si rivolse alla Cia e fu addestrata secondo un protocollo molto accurato. Se per esempio un operaio entrava in fabbrica con 'l'Unità' in tasca, salutava con il pugno chiuso gridando ad alta voce "Salute compagni!" e a ogni fine turno saliva in piedi sulla scocca di una Seicento e arringava il reparto cercando di assumere la posizione di Lenin nelle foto più celebri, allora scattava il sospetto di una sua simpatia politica per la sinistra. La pratica della schedatura illegale è finita, alla Fiat, da pochi anni: da quando gli operai, quasi tutti berlusconiani, hanno cominciato a schedare i dirigenti sospettati di votare Ulivo.

Sifar Caso simile al precedente, ma su scala molto più vasta. Il servizio segreto militare, preoccupato dall'avvicinamento del Pci al governo, spiava e schedava politici e intellettuali di sinistra ritenuti pericolosi. Per esempio Giorgio Napolitano venne pedinato per oltre cinque anni, tutti i giorni, da uno stesso agente del Sifar lungo il tragitto casa-edicola-bar-Parlamento-casa, compreso il mese d'agosto nel quale Napolitano andava a controllare che il Parlamento fosse davvero chiuso e non ci fossero perdite d'acqua o fughe di gas. L'agente si tolse la vita per la noia prima di riuscire a stendere il suo rapporto. Le liste degli elementi sovversivi come Napolitano venivano poi consegnate a golpisti, repubblichini, neonazisti, generali pazzi, bombaroli, picchiatori neri e killer nevropatici affinché gli italiani dormissero sonni tranquilli.

Prodi I risparmi di Romano Prodi e di sua moglie Flavia, presso la filiale di Bebbio del Piccolo Credito Rurale e Artigiano di Bebbio, sono stati setacciati abusivamente da funzionari della Finanza. Penetrare nell'archivio della filiale non è stato facile: bisognava prima attraversare carponi il pollaio adiacente. Una volta all'interno dell'edificio, gli spioni hanno rovistato nel libretto di risparmio della coppia scoprendo che il celebre economista ha investito tutto in titoli di Stato del Mali ed è rovinato.

Gardini-Luxuria Un caso davvero incredibile di accanimento contro la privacy. La parlamentare di Forza Italia è stata in agguato per oltre un mese nei gabinetti della Camera pur di poter avvistare il pirolo di Vladimir Luxuria, fotografarlo e completare il suo dossier di profili di personaggi celebri.

 

L'assassino quotidiano

Chi uccide chi in edicola? I colpevoli sono gli editori che hanno trasformato uno spazio pubblico di carta in un negozio di gadget e di pressione politica sulla società. Poi è free press

«Is web killing the press»? Il web sta uccidendo la stampa? Questo il convegno che il centro studi Thinktel organizza con il Sole 24 Ore per il prossimo 24 novembre, a Milano, chiaramente ispirandosi a un dossier dell'Economist del 24 agosto che aveva un titolo altrettanto sanguinolento: «Who killed the newspaper?», ovvero «Chi ha ucciso il quotidiano?». Si notino le sfumature: per il settimanale inglese il processo è già avvenuto e si tratta semmai di capire chi è il colpevole.

Qui in Italia ci si chiede più speranzosi se il delitto stia davvero avvenendo.

Il mercato dei quotidiani è stato finora protetto dalla barriera linguistica (non sono possibili, in maniera massiccia, invasioni di prodotti stranieri), da una tecnologia stabile - semmai razionalizzata dalla sostituzione delle linotype con i computer - e da un compito socialmente riconosciuto e apprezzato, la diffusione tra i cittadini di notizie utili e interessanti per la vita civile.

Ma non deve sfuggire il fatto che i media da sempre si sono assegnati un'altra missione, anche più importante, quella di stabilire la cornice, il frame, in cui le notizie hanno rilevanza e dunque di fissare l'agenda alla politica. Se la CocaCola ha come ragione sociale il vendere più lattine possibili, il fine vero di molti editori non è di fare profitti vendendo notizie, ma di influenzare i governi, sostenendo, sia direttamente, che indirettamente, gli interessi, legittimi ma di parte, dei loro proprietari.

Sono lobby a tutti gli effetti che da un lato cercano di ispirare il pubblico dei propri lettori e dall'altro il quadro politico.

Il tema del frame è stato studiato dal docente di Berkeley George Lakoff e la sua specificità nel giornalismo italiano è analizzata dallo studioso Carlo Sorrentino nel suo ultimo saggio (Il campo giornalistico, Carocci).

Si noti anche che la questione dei nuovi media che incalzano e minacciano la stampa, di questi tempi, è agitata come un comodo alibi, un nemico oscuro, dalla Federazione degli editori (Fieg) che rifiuta di aprire le trattative con il sindacato dei giornalisti (Fnsi).

La federazione sostiene infatti che l'emergere dei nuovi mezzi di comunicazione rende onerose le condizioni dell'editoria classica e che perciò di contratto non se ne parla nemmeno, a meno che non sia al ribasso.

La posizione della federazione degli editori è leggibile sul loro sito web (www.fieg.it), la cui totale bruttezza conferma che effettivamente essi sono assai arretrati quanto a capacità di comunicare in rete.

Qualche nota tuttavia è utile. Intanto la crisi dei giornali non è di oggi e non ha come unica causa lo sviluppo impetuoso del web. Guardiamo i grafici americani: il picco massimo di vendite è del 1985, con quasi 63 milioni di copie vendute, dopo di che, e in particolare negli anni '90, la discesa si fa netta e inarrestabile, fino ai 53 milioni dell'anno scorso. Dunque ha multiple cause, anche se la presenza del web probabilmente ha accelerato il fenomeno negli ultimi anni, spingendo in giù la curva.

Gli editori per lungo tempo hanno sottovalutato la crisi anche perché, mentre le copie calavano, restavano alti gli introiti pubblicitari.

Erano 25,1 miliardi di dollari, in America nel 1985 e sono stati 47,4 nel 2005. Sabato scorso i due settimanali femminili italiani, Io Donna (Corriere della Sera) e Donna D (Repubblica), avevano entrambi 500 pagine, per un peso complessivo di 1,8 kg circa.

Ma se i lettori scendono troppo, anche gli inserzionisti saranno meno attratti e questo è uno dei motivi per cui sono stati inventati i supplementi e i gadget con i quali poter certificare una tiratura dignitosa.

Ed è esattamente il meccanismo in base al quale alcuni gruppi editoriali hanno deciso di saltare il fosso passando alla free-press dove il modello si rovescia da capo a piedi. Nel giornalismo classico contano i contenuti di valore, che porteranno lettori, i quali, se numerosi, attireranno a loro volta l'interesse degli investitori di pubblicità. Nella free press, i contenuti sono quasi inessenziali, hanno un costo di produzione basso, la carta è poca e brutta, ma l'importante è poter dimostrare ai centri media che pianificano le inserzioni, che quelle paginette vanno in mano a milioni di persone, tutti i giorni. Non per caso è in atto un robusto braccio di ferro da parte degli editori gratuiti che chiedono di essere anche loro certificati, per poter sventolare con credibilità i numeri della loro diffusione. Quello free è un giornale che non si sceglie (non c'è un atto d'acquisto), ma che viene messo in mano; non presume di essere di qualità, ma si fa accettare solo perché non costa nulla a chi lo riceve. Fa eccezione in questo quadro il recente lancio di e-polis (www.epolis.sm/), un quotidiano gratuito dell'editore Nicola Grauso, presente in 15 città, da Treviso a Roma e Milano, che con le sue 64 pagine vuole essere un giornale-giornale. Il progetto (25 milioni di investimento) è ambiziosissimo e visto con grande preoccupazione dagli altri editori: se avrà successo molti potrebbero fare a meno del Messaggero o della Stampa (che non per caso sta correndo verso il tabloid).

 

La rivolta dei generali alla vigilia del voto USA

Tratto da Movisol http://www.movisol.org/znews206.htm

di Jeff Steinberg (EIR del 3 novembre 2006)

Sono almeno 219 i militari in servizio che hanno sottoscritto un appello al Congresso in cui si chiede il ritiro delle truppe USA dall'Iraq, secondo un volontario del sito www.appealforredress.org, che raccoglie adesioni. L'appello sarà consegnato al Congresso il 18 gennaio 2007, il Martin Luther King Day.
L’iniziativa da parte dei militari in servizio non ha precedenti ma c’è una legge americana che garantisce ai militari il diritto legale di fare appelli o denunce al Congresso. L’appello va considerato insieme alla richiesta di allontanamento di Rumsfeld dal Pentagono, avanzata da un numero crescente di ex alti ufficiali che ritengono questo l’unico modo per porre fine alla bancarotta dell’operazione militare in Iraq. Questi stessi ambienti militari più razionali ora si stanno rivolgendo anche agli elettori chiedendo loro di bocciare la maggioranza repubblicana alle prossime elezioni del 7 novembre in cui avviene il rinnovo parziale del Senato e della Camera dei Rappresentanti.

Evitare un’altra guerra ancor più disastrosa

Il principale settimanale della sinistra americana The Nation ha pubblicato nel numero del 16 ottobre un articolo intitolato “Rivolta dei Generali — gli ufficiali contro una guerra fallita”. L’autore dell’articolo, annunciato in copertina, è Richard J. Whalen, affermato esperto di strategia del partito repubblicano. “La rivolta ribolle tra i generali in congedo ... Questa ribellione — silenziosa, senza polemica aperta, ma comunque notevole — non si verifica perché le rispettive forze debbono sostenere l’urto dei combattimenti di terra in Iraq, ma perché l’avventura USA in Mesopotamia è da essi considerata un altro Vietnam, una guerra fallita strategicamente, ed essi ne attribuiscono la colpa alla dirigenza avventurista e incompetente del Pentagono” afferma Whalen.

Il fatto che il principale settimanale della sinistra si offre come tribuna per un noto conservatore schierato per decenni nelle prime file repubblicane evidentemente riflette la crescente preoccupazione bipartitica che l’amministrazione Bush-Cheney possa passare ad aggredire l’Iran, anche con armi nucleari, provocando così uno “scontro di civiltà” senza fine.
A conclusione del lungo articolo su The Nation, Whalen nota che “La rivolta dei generali in congedo potrebbe essere ispirata dalla preoccupazione per un allargomento del conflitto mediorientale fino a colpire l’Iran e il suo potenziale nucleare”. Whalen cita anche il colonnello dell’Air Force in congedo Karen Kwiatkowski: “Lei ritiene che i generali possano cercare di sbarazzarsi di Rumsfeld subito per evitare un conflitto con l’Iran. L’amministrazione Bush ha piani di contingenza per bombardare i siti nucleari dell’Iran che non hanno l’approvazione dell’ONU. Qualche ufficiale sfaccendato della Marina o dell’Air Force fa pressioni per colpire l’Iran, ma le forze di combattimento di terra già sotto stress per i dispiegamenti eccessivi sono decisamente contrari ritenendola la peggiore delle guerre possibili”.

Altri ufficiali in congedo hanno espresso la stessa preoccupazione che se lasciata fuori dal controllo, la Casa Bianca di Bush e Cheney finirà presto per aggredire l’Iran e fors’anche la Corea. In un recente articolo sulla rivista New Yorker, il noto giornalista Seymour Hersh ha riferito come diversi ufficiali in congedo da lui consultati valutano la recente invasione del Libano da parte di Israele come “un preludio ad un possibile attacco preventivo americano per distruggere le istallazioni nucleari dell’Iran”. L’ex vice segretario di Stato Richard Armitage, ex ufficiale di marina, ha detto ad Hersh: “Se la principale forza della regione — le Forze di Difesa Israeliane — non riesce a pacificare un paese come il Libano, che conta una popolazione di quattro milioni, occorre pensarci bene prima di riproporre lo stesso dispiegamento in Iran, che dispone di una profondità strategica e di una popolazione di settanta milioni ... L’unica cosa che i bombardamenti sono riusciti ad ottenere è unire la popolazione libanese contro gli israeliani”.
Nonostante le lezioni del Libano, Hersh e le sue fonti militari concordano tutti sul fatto che un attacco aereo preventivo americano sia ormai sicuro, ferma restando l’attuale traiettoria politica della Casa Bianca, prima del gennaio 2009, quando subentrerà una nuova presidenza.

Votare contro il partito della guerra

Riflettendo questa stessa idea diversi ex ufficiali che hanno avuto recenti esperienze di combattimento in Iraq, hanno lanciato un appello agli elettori americani affinché il 7 novembre eleggano una maggioranza democratica al Congresso. I generali John Batiste e Paul Eaton hanno rilasciato interviste alla rivista online Salon in cui auspicano una vittoria democratica. “La cosa migliore che adesso può accadere è che in una o tutt’e due le camere prevalgano i democratici in modo da poter stabilire un qualche controllo”, ha detto il gen. Batiste.
“La via d’uscita che mi pare possibile sta nel conferire la maggioranza ai democratici alla Camera e al Senato in modo che si possa fare un’inversione di rotta”, ha detto in gen. Eaton, riferendosi al disastro della guerra irachena. Citando diversi colleghi, in servizio ed in congedo, il gen. Eaton ha detto a Salon: “La maggior parte di noi vede altri due anni di tutto questo se i repubblicani restano al potere”. Come il collega Batiste, anche Eaton è stato sempre repubblicano, ed a questo proposito ha spiegato: “Non ci saresti riuscito a farmi votare per Kerry o Gore neanche con la turtura, ma adesso non sono davvero entusiasta per ciò che ho votato”. Un alto ufficiale ancora in servizio, quindi protetto dall’anonimato, recentemente rientrato dall’Iraq, ha detto a Salon: “Posso riferirvi, dalla discussioni a cui ho partecipato nei miei ambienti, che l’unico modo di consentire o arrivare a dei cambiamenti è cambiare leadership”.
La rivolta serpeggia anche nel mondo dell’intelligence. Ad esempio un professionista del settore in contatto con l’EIR ha carattrizzato la situazione in Iraq come: “cento volte peggio del quadro presentato dai mezzi d’informazione americani e dall’Amministrazione”.

Il col. W. Patrick Lang, ex Ufficiale dell’Intelligence della difesa per il Vicino Oriente e l’Asia meridionale, molto conosciuto attraverso il suo sito web «Sic Semper Tyrannis 2006» ha recentemente bollato come sciocchezze le presunte voci sulle “correzioni di rotta” diffuse ad arte a Washington come espediente pre-elettorale. Secondo il col. Lang il Congresso ha qualche possibilità di mettere sotto controllo il partito della guerra alla Casa Bianca. Esso può ritirare il permesso concesso al presidente di fare la guerra nell’ottobre 2002 e può tagliare i fondi per continuare la disavventura irachena.

 

Cessate il fuoco (tratto dal sito di "Peacereporter")

Israele e Palestina.

Il 26, un ufficiale di polizia palestinese è rimasto vittima di una sparatoria a Khan Younis, nel sud della Striscia, dopo che i soldati israeliani erano entrati nel villaggio e hanno ingaggiato una sparatoria con le forze di sicurezza palestinesi. Lo stesso giorno, a Beit Hanoun, nel nord della Striscia, l'esercito israeliano ha ucciso un uomo che stava dando la caccia a degli uccelli.
Il 27, nei pressi di Jenin, sono rimasti uccisi 2 civili che lanciavano pietre contro le truppe israeliane e un altro civile è stato ucciso durante un’incursione dall'esercito israeliano nel centro abitato di Yamoun, a ovest della città. Il 30, un palestinese è stato ucciso da un colpo di cannone sparato da un carro armato israeliano su Bet Hanun, nel nord della striscia di Gaza. Il 31, 3 miliziani delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa sono stati uccisi a Khan Younis, nella Striscia di Gaza. L’1, 9 palestinesi sono stati uccisi nel corso di un raid israeliano a Bet Hanun, nel nord della striscia di Gaza. Nel corso dell’attacco è stato ucciso anche un soldato israeliano.

Costa d’Avorio.

Il 1° novembre, membri di una milizia vicina al presidente Laurent Gbagbo si sono scontrati con i residenti del quartiere di Yopougon, nella città di Abidjan. Negli incidenti, durati fino a sera, un miliziano è rimasto ucciso. Dal 2002 il Paese è diviso, a séguito della guerra civile, in due zone controllate rispettivamente dalle forze governative e dai ribelli delle Forces Nouvelles.

Nigeria.

Il 31, 4 persone sono morte in scontri avvenuti tra gruppi appartenenti a culti segreti nella città nigeriana di Oloibiri, nello stato meridionale di Bayelsa. Gli scontri tra gruppi appartenenti a culti segreti sono piuttosto frequenti nel Paese, e provocano ogni anno decine di vittime.

Uganda.

Il 31, il governo ugandese ha reso noto che gli scontri avvenuti negli ultimi giorni nella parte nord-orientale del Paese tra esercito e guerriglieri Karamojong hanno provocato 27 morti. I Karamojong conducono da anni sanguinosi raid ai confini con Kenya e Sudan per impadronirsi del bestiame allevato da altre tribù. I numerosi tentativi fatti dalle autorità per disarmare i guerriglieri non hanno prodotto risultati.

Repubblica Centrafricana.

Il 30, i combattimenti tra ribelli ed esercito che hanno investito la città di Birao, nel nord del Paese, avrebbero provocato la morte di 10 soldati e 2 ribelli, secondo quanto riferito da un portavoce dell'Union des Forces Démocratiques pour le Rassemblement, uno dei tanti gruppi armati attivi in Rep. Centrafricana che mirano a rovesciare il presidente François Bozizé.

Repubblica Democratica del Congo.

Il 27, nella città settentrionale di Gbadolite scontri fra i sostenitori del candidato alla presidenza Jean-Pierre Bemba e le guardie del corpo di Nzanga Mobutu, che conduceva la campagna elettorale cittadina in favore del presidente Joseph Kabila, hanno provocato la morte di 4 persone.
Il 29, le violenze scoppiate in un seggio elettorale di Bumba, nella provincia di Equatore, hanno causato la morte di un civile.
Il 30, un soldato ha ucciso 2 ufficiali elettorali presso Fatika, un villaggio a circa 90 km da Bunia, capoluogo della regione nord-orientale dell'Ituri.

Ciad.

Il 29, nuovi scontri avvenuti al confine con il Sudan tra ribelli dell’Union des Forces pour la Démocratie et le Développement ed esercito avrebbero provocato centinaia di vittime, secondo quanto riferito dal governo ciadiano. I ribelli, che hanno ripreso da alcune settimane i raid in territorio ciadiano, mirano a rovesciare il presidente Idriss Deby, già sopravvissuto lo scorso aprile ad un attacco contro la capitale N'Djamena.

Eritrea.

Il 21, i caschi blu della Unmee, la missione Onu che monitora la zona cuscinetto al confine tra Eritrea ed Etiopia, hanno ucciso un civile nei pressi della città eritrea di Barentu. I 1.500 caschi blu sono schierati al confine tra Eritrea ed Etiopia, dopo la guerra che dal 1998 al 2000 ha opposto i due Paesi provocando 70 mila vittime.

Burundi.

Il 26, uno scontro a fuoco scoppiato tra guardie di frontiera congolesi e burundesi presso il fiume Rusizi ha provocato la morte di 3 soldati, tutti congolesi, secondo quanto riferito dalle autorità del Burundi. I soldati si stavano contendendo la carne di un ippopotamo ucciso dai congolesi in territorio burundese.

Sudan.

Il 28, un attacco condotto da un gruppo di uomini armati in un villaggio nel Sudan meridionale, nei pressi del confine con l'Uganda, ha fatto 5 vittime. L'incursione è solo l'ultima di una serie di razzie nei villaggi della zona condotte da bande armate fuori controllo, che hanno buon gioco nello sfruttare l’impossibilità del Sudan People’s Liberation Army di controllare alcune zone del Sudan meridionale.

Sri Lanka.

Il 26, uno squadrone della morte delle Tigri Tamil ha ucciso 2 civili nella parte orientale del Paese.
Il 27, il gestore di un mini-cinema di Jaffna, nell'omonima penisola nel nord dello Sri Lanka, è stato ucciso da una pistolettata.
Il 29 almeno 6 persone sono morte dopo un'esplosione avvenuta nella penisola di Jaffna, nel nord dello Sri Lanka.
Il 31, un militare è morto e altri tre sono rimasti feriti a causa dell'esplosione di una mina nascosta sul ciglio della strada che la pattuglia stava percorrendo. Fonti militari singalesi indicano nei ribelli separatisti delle Tigri Tamil i responsabili dell'attentato.

Kashmir indiano.

Il 26, sospetti ribelli musulmani hanno ucciso due fratelli e un ex poliziotto nel Kashmir indiano.
Il 28 una persona è stata uccisa e 34 sono rimaste ferite a seguito di un'esplosione avvenuta nella città di Sopore, nel Kashmir indiano.
Il 30, le forze di sicurezza indiane hanno ucciso uno dei leader del gruppo Hizbul Mujahedden nel Kashmir indiano. L'uomo è stato ucciso dopo uno scontro a fuoco nel distretto di Doda.Il 31 ottobre un soldato indiano ha ucciso un ufficiale dell'esercito in un accampamento militare poco fuori Srinagar, la capitale estiva del Kashmir.

Pakistan.

Il 30 ottobre nel bombardamento aero di una scuola coranica nell’agenzia tribale di Bajaur sono morte 83 persone: giovani studenti secondo i locali, terroristi di al Qaeda secondo il governo.

Cecenia.

Il 1° novembre un guerrigliero ceceno è rimasto ucciso in uno scontro a fuoco con le forze russe.

Colombia.

Il 28, un'auto bomba è esplosa a Villavicencia, capitale del Meta, cittadina a 129 chilometri da Bogotá. Il bilancio è di due morti e tre feriti. Il generale Guillermo Quiñónez, comandante della quarta Divisione dell'Esercito, ha attribuito l'attentato alle Farc "per il metodo usato, per il tipo di esplosivo e per il modo in cui è stato attivato".
Il 1° novembre, uno scontro a fuoco fra la guerriglia delle Farc e le forze di polizia locali, nella zona di Tierradentro, nel dipartimento di Cordoba, ha provocato 29 morti, fra cui 17 poliziotti, 11 guerriglieri e un civile, e il ferimento di due poliziotti e un civile. Lo riferisce Jorge Castro, il capo della polizia di Monteria, capitale del Cordoba.

 

3 novembre

 Rovinati 150 chilometri di costa

Libano, disastro in mare

Libano, inquinamento a JiyyehInquinamento sulla costa di Jiyyeh

L'inquinamento causato dai bombardamenti israeliani del luglio scorso. Il rapporto di Greenpeace, Icram e Apat intitolato "Testimoni di guerra". In acqua tra 10 e 15mila tonnellate di greggio

La marea nera causata dai bombardamenti sui depositi di carburante della centrale di Jiyeh, a Sud di Beirut, nel luglio scorso, rappresentano una delle "maggiori catastrofi ambientali del Mediterraneo": è quanto emerge dal rapporto della missione effettuata dalla nave ammiraglia "Rainbow Warrior", effettuato sotto la direzione scientifica di esperti del Ministero dell'Ambiente (Icram e Apat), per mitigare gli effetti della marea nera in Libano, intitolato “Testimoni di guerra”.

Nel corso delle ricerche si è visto che il catrame si è depositato in gran parte nelle aree immediatamente adiacenti al luogo del disastro e in maniera più sporadica, ma talvolta con cospicui quantitativi, a distanza maggiore lungo la costa. Sono state versate in mare tra le 10 mila e le 15 mila tonnellate di greggio che, spinto dal vento e dalle correnti, si é disperso parzialmente verso il mare aperto o lungo la costa. La marea nera ha colpito circa 150 chilometri di costa rocciosa e sabbiosa, fino alla costa della Siria. I subacquei di Greenpeace hanno monitorato la presenza di residui catramosi nei fondali marini nelle aree di Jiyeh (appena a nord dell'impianto colpito), a Byblos (circa 20 chilometri a nord di Beirut) e presso l'arcipelago delle Palm Islands (Jazirad an Nakl, Jazirad Sanani e Jazirad Ramkin e altri isolotti), un'area protetta circa 70 chilometri a nord di Beirut, presso Tripoli, non lontana dal confine con la Siria.

«Tra gli edifici colpiti - racconta Alessandro Giannì, biologo marino e sub, responsabile della campagna mare di Greenpeace - ci sono nove impianti industriali: a parte il sito di Jiyeh, sono state colpite altre cinque cisterne di idrocarburi ubicate in vari punti della costa. Come il petrolio in mare, anche altre sostanze chimiche rilasciate da industrie colpite dai bombardamenti hanno contaminato pesantemente l'aria, i fiumi, il terreno e il mare con effetti che potrebbero potenzialmente colpire due milioni di persone, quasi la metà della popolazione libanese».

 

2 novembre

 

«Stop precarietà sarà un bel corteo. Scende in piazza il popolo della Cgil»

Nicolosi (Cgil Lavoro e Società): stiamo insieme per ricostruire il movimento nell'era dell'Unione. Così come avvenne a Genova

Antonio Sciotto

Tre treni speciali, decine di pullman, una nave dalla Sardegna e tante automobili: da tutta Italia il popolo che dice no alla precarietà sta scaldando i motori per partecipare alla manifestazione del 4 novembre. «Stop precarietà ora!» potrebbe segnare la ripresa del movimento. In vista della manifestazione per la pace prevista il prossimo 18 novembre. Le divisioni nella Cgil, gli anatemi lanciati contro il corteo sembrano non aver smosso una larghissima parte di dirigenti e lavoratori che hanno deciso di confermare la partecipazione nonostante la bufera seguita alla pubblicazione della manchette dei Cobas. La mobilitazione è capillare (basta guardare l'elenco che pubblichiamo sotto), e parte dalle camere del lavoro. Ma si ribadisce l'impegno di due grossi pezzi della Cgil, le aree che potevano essere «due minoranze» ma che hanno scelto all'ultimo Congresso di votare il documento unitario: Lavoro e Società e l'area che si è raccolta intorno alle tesi di Gianni Rinaldini, senza contare che la stessa Fiom ha aderito come organizzazione al 4 novembre; c'è anche la Rete 28 aprile di Giorgio Cremaschi.

Sul futuro del movimento e le scelte della Cgil abbiamo sentito il leader di Lavoro e Società, Nicola Nicolosi.

Come vi preparate al 4 novembre?

Ci stiamo preparando con un grande entusiasmo: lavoratori partono da tutta Italia, alcuni si stanno autotassando per raggiungere Roma. Io penso che sarà una grande manifestazione, colorata e pacifica. E c'è da segnalare un «paradosso»: l'incidente dei Cobas ha portato una grande pubblicità all'evento. Anche se, ovviamente, ci dispiace che alcuni pezzi della Cgil siano usciti. Il valore che abbiamo tentato di costruire portando gran parte della Cgil in piazza era proprio quello di riproporre il movimento del dopo Porto Alegre e di Genova: a Genova la Cgil non aveva aderito come organizzazione, ma a sfilare c'era il popolo della Cgil. Adesso alcuni compagni sono usciti, ma con la Fp, la Flc e la Fiom stiamo comunque lavorando perché dopo il 4 la Cgil si faccia promotrice di una grande iniziativa contro la precarietà. Da proporre, è ovvio, a Cisl e Uil: ma se non dovessimo raggiungere una piattaforma unitaria, allora credo che dovremmo andare da soli.

Ma la rottura sul 4 novembre non rischia di indebolire il vostro fronte? Facciamo un esempio: con la Fiom e la Rete 28 aprile avete posto il problema dell'avviso comune sui call center, che contraddice in modo lampante le conclusioni congressuali. Ora in Cgil si rafforzano le componenti «moderate»?

La Cgil non può tornare indietro, né pensare che si possa disapplicare quanto deciso al Congresso. Negli ultimi anni abbiamo costruito un'opposizione al governo di centrodestra non su astratte posizioni identitarie, ma su temi concreti come la redistribuzione del reddito e la lotta alla precarietà. La precarietà mina alla base la democrazia, perché crea lavoratori con diritti diversi e dunque cittadini diversi. Ma mina anche il sindacato, la solidarietà che sta alla base. La forza che abbiamo oggi ci viene da quelle proposte di legge firmate da 5 milioni di persone, dalla mobilitazione in difesa dell'articolo 18 e dalle conclusioni - non dimentichiamolo, unitarie - dell'ultimo Congresso. Lì si è sancito che la Cgil è per riunificare il lavoro, a partire dall'eliminazione della parasubordinazione per affermare un contratto unico dipendente. L'avviso comune sui call center sancisce che si possano dare minori garanzie ai lavoratori sulla base di distinzioni da «azzeccagarbugli», tra chi fa le telefonate e chi le riceve. Chiederemo il ritiro della firma, e una riscrittura dell'avviso: su questo tema, come sugli altri che si richiamano ai documenti congressuali che vincolano tutti, noi lavoreremo con quei segmenti della Cgil che hanno una sensibilità simile alla nostra.

In piazza il 4 dunque andrete nonostante la «condanna» espressa dai vertici Cgil?

Non si tratta di una condanna: c'è stata una netta presa di posizione rispetto alle idee espresse dai Cobas nella manchette. Usare determinati linguaggi che richiamano l'espressione violenta, o, peggio, attaccare una singola persona in quei termini, come si fa con il ministro Damiano, è sbagliato e provocatorio. Dall'altro lato, credo che sia stato un errore politico uscire facendosi dettare l'agenda da chi usa quel linguaggio. Io sono convinto che gli aderenti ai Cobas non sono violenti, però una parte del gruppo dirigente usa un linguaggio ai confini della correttezza come arma di propaganda politica e di offesa personale. Ma ripeto: non dobbiamo farci dettare l'agenda da questi incidenti. Ricostruire il movimento contro la globalizzazione neoliberista, sul tema della precarietà come su quello della pace il 18 novembre, è troppo importante: tantopiù oggi che c'è un governo di centrosinistra. Se non facciamo pressione dalla società, non possiamo pensare che nella maggioranza politica e nell'esecutivo abbiano spazio le sintesi più avanzate: quell'inversione di rotta sul lavoro, l'economia e la pace che tutti ci auguriamo.

 

Disoccupati di tutto il mondo

Rapporto Ilo: 85 milioni di giovani senza lavoro. Altri 300 milioni vivono sotto la soglia di povertà, con meno di 2 dollari al giorno. I dannati del capitalismo moderno
Maurizio Galvani
Rapporto choc dell'Ilo: 85 milioni di giovani di età compresa tra i 15 e i 25 anni sono disoccupati, mentre 300 milioni lavorano ma con un'entrata di appena due dollari al giorno. In dieci anni, tra il 1995 ed il 2005, il numero dei disoccupati è salito dalle 74 milioni di persone alle 85 milioni. Sovrastimato o sottostimato, questo dato conferma che la globalizzazione non ha creato opportunità di sviluppo egualitario. Piuttosto, ha allargato le differenze e ha aumentato il numero dei poveri.
Trecento milioni di giovani lavoratori vivono dunque con meno di due dollari al giorno. La loro condizione di precarietà e l'utilizzazione nel lavoro «informale» non è più un fatto casuale, piuttosto, è coerente e «strutturale» al capitalismo. Le nazioni colpite rappresentano tutto il mondo sviluppato e non: sono 25,7% i disoccupati in Medioriente o Nordafrica, seguono i paesi dell'ex-Unione sovietica con il 19,9% di senzalavoro, un'alta percentuale è presente in America latina (16,6%) e in Asia al 10%. «E' stato registrato un calo della disocupazione nel mondo più sviluppato - secondo l'Ilo - ma il fatto è da imputare a una diminuizione della manodopera più che ad efficaci strategie sull'occupazione». Questo dato, ovviamente, non tratta le condizioni di schiavitù nella quale lavorano molti bambini e adolescenti: recentemente, la catena dei supermercati inglesi Tesco è stata accusata di avere utilizzato ragazzi di circa 12 anni in India: venivano fatti figurare all'anagrafe come quattordicenni. Non è stata una casualità, purtroppo accade in molti e diversi paesi.
L'Ilo, per bocca del suo direttore generale Juan Somavia, denuncia inoltre che «la disoccupazione e la precarietà sta colpendo i giovani sparsi in tutto il mondo» (senza distinzione) e aggiunge: «quando il primo impiego non è un lavoro decente, fin dalla giovane età potrà essere compromessa tutta la carriera professionale del ragazzo: mancheranno, in futuro, opportunità occupazionali e di miglioramento».
Tra le altre cose, sempre nel periodo preso in esame, la popolazione più giovane è cresciuta a un tasso pari al 13,2% mentre la disponibilità di posti di lavoro è stata solo di un più 3,5%. Occorrerebbero circa 500 milioni di opportunità di impiego (posti di lavoro) per poter risanare questa realtà, nei prossimi dieci anni. Altrimenti - e questa è l'altra grande «sconfitta» - questi lavoratori tanto giovani saranno senza lavoro, disperderanno valori, saranno più marginalizzati. «Più marginalizzati e - a parere dell'Ilo - sarà una gioventù più "oziosa" e più "costosa"». Ovvero più esposta, poco incline (per ovvia necessità) al risparmio e più avvicinabile dal mondo criminale e da quello della droga.
L'ultima strigliata, l'Ilo, l'ha riservata al mondo della scuola: l'ultimo rapporto registra un aumento del numero consistente di adolescenti o giovani adulti che non studia e non lavora (abbandona precocemente anche le aule scolastiche). La cifra più consistente di questi giovani «pigri» vive nei paesi orientali e centrali dell'Europa (34%). Seguono gli africani (27%), e i giovani dell' America latina (21%).
Ma c'è anche un 13% di giovani che risiede nelle nazioni più industrializzate. Ragazzi che non partecipano a nessun tipo di scuola, nè cercano (o trovano) un lavoro. Per prima cosa sta crescendo il numero di analfabeti, e tuttavia - è questa l'altra faccia della medaglia - «chi ha un titolo di studio, sottolinea l'Ilo, non troverà un'occupazione adeguata al suo curriculum scolastico».

 

Chi ha ucciso Enrico Mattei?

Eufemia Riannetti – tratto da Rinascita www.rinascita.info 

Enrico Mattei fu assassinato, il suo caso insabbiato, i testimoni messi a tacere. Ma una cosa è certa: l’aereo su cui viaggiava il presidente dell’ENI e che cadde la sera del 27 ottobre 1962 a Bascapé, alle porte di Milano, fu sabotato.

Era un uomo che dava molto fastidio. La strategia di Mattei era volta a spezzare il monopolio delle “sette sorelle”, non soltanto per il tornaconto del nostro ente petrolifero, ma anche per stabilire rapporti nuovi tra i paesi industrializzati e i fornitori di materie prime.
Una strategia semplicemente inaccettabile per le grandi compagnie petrolifere che si spartiscono le ricchezze del mondo.

Dall’inchiesta della Procura di Pavia, riaperta a metà degli anni ‘90, risulta inoltre evidente che l’insabbiamento di quel crimine fu diretto dai vertici dei servizi. Per il sostituto procuratore di Pavia Vincenzo Calia il fondatore dell’ENI fu “inequivocabilmente” vittima di un attentato. Vincenzo Calia giunge vicino alla soluzione del caso e formula l’ipotesi dell’attentato, ma non può provarla. Scrive Calia: “L’esecuzione dell’attentato venne pianificata quando fu certo che Enrico Mattei non avrebbe lasciato spontaneamente la presidenza dell’ente petrolifero di Stato”. Calia ha dimostrato che l’esplosione che abbatté il bimotore Morane-Saulnier su cui viaggiavano il presidente dell’ENI, il pilota Irnerio Bertuzzi e il giornalista americano William McHale fu causata da una bomba collocata nel carrello d’atterraggio del velivolo. Le prove contenute nelle 208 pagine del fascicolo dimostrano anche che l’inchiesta del 1962, presieduta dal generale dell’Aeronautica Ercole Savi, conclusasi dichiarando l’impossibilità di “accertare la causa” del disastro, fu in realtà un mostruoso insabbiamento.

Finora davanti alla sbarra è finito soltanto un contadino di Bascapé, Mario Ronchi, accusato di “favoreggiamento personale aggravato”. Secondo l’accusa vide l’aereo di Mattei esplodere in volo, rilasciò alcune interviste in questo senso a diversi organi di stampa e alla Rai e poi... si rimangiò tutto. Chi ha sabotato l’aereo? Chi sono i mandanti? Il pubblico ministero Calia non riesce ad accertarlo, ma è probabile che vi siano responsabilità di uomini inseriti nell’Eni e negli organi di sicurezza dello Stato. E ancora depistaggi, manipolazioni, soppressioni di prove e di documenti, pressioni che impediscono l’accertamento della verità. 
Il 27 luglio 1993 dal “pentito” di mafia Gaetano Iannì giungono dichiarazioni importanti.

Secondo Iannì per l’eliminazione di Mattei ci fu un accordo tra non meglio identificati “americani” e Cosa nostra siciliana. A mettere una bomba sull’aereo di Mattei fuono alcuni uomini della famiglia mafiosa capeggiata da Giuseppe Di Cristina. Anche Tommaso Buscetta rivela che la mafia americana chiese a Cosa nostra il favore di eliminare Enrico Mattei “nell’interesse sostanziale delle maggiori compagnie petrolifere americane”. In Italia, poi, Mattei era un finanziatore della politica, nemico dei circoli economici e politici legati ai grandi interessi.
La certezza è che il presidente dell’ENI Enrico Mattei, il più potente manager di stato italiano viene uccisola sera del 27 ottobre 1962 insieme al pilota Irnerio Bertuzzi e al giornalista americano William Mc Hale. Parallelamente all’inchiesta amministrativa condotta dall’Aeronautica Militare, la Procura di Pavia apre un’inchiesta per i reati di omicidio pluriaggravato e disastro aviatorio. L’inchiesta militare si chiude rapidamente, nel marzo 1963, senza avere sostanzialmente accertato la causa dell’incidente; Pavia chiude le indagini penali il 7 febbraio 1966, accogliendo le richieste della procura e pronunciando sentenza “di non luogo a procedere perché i fatti non sussistono”. A ridare fiato alla vicenda sul finire degli anni Settanta sono un libro e un film. Il libro, scritto da Fulvio Bellini e Alessandro Previdi, è intitolato “L’assassinio di Enrico Mattei”. Il film è “Il caso Mattei” di Francesco Rosi.

Contemporaneamente Italo Mattei, fratello di Enrico, chiede che venga istituita una commissione parlamentare di inchiesta. Sono troppi i dubbi sull’incidente e inoltre la scomparsa di Mattei ha fatto comodo a troppe persone, in Italia e all’estero, dal momento che i suoi rapporti con i paesi del terzo mondo produttori di petrolio avevano urtato il cartello petrolifero delle sette sorelle. La riapertura delle indagini viene chiesta anche da una campagna stampa del settimanale “Le ore della settimana” e da una serie di interrogazioni parlamentari. L’interesse attorno alla misteriosa fine del “re del petrolio italiano” riceve nuovo impulso dalle indagini sulla scomparsa del giornalista dell’ “Ora” di Palermo Mauro De Mauro, il 16 settembre 1970. Una delle piste seguita dall’inchiesta sulla fine di De Mauro ipotizza infatti che il giornalista palermitano sia stato sequestrato e ucciso per aver scoperto qualcosa di molto importante circa la morte del presidente dell’E.N.I.: De Mauro aveva infatti ricevuto dal regista Rosi l’incarico di collaborare alla preparazione della sceneggiatura del film “Il caso Mattei”, ricostruendo gli ultimi due giorni di vita trascorsi dal presidente dell’E.N.I. in Sicilia.

L’indagine sulla scomparsa di De Mauro si conclude in un nulla di fatto, nonostante la richiesta di ulteriori investigazioni formulata dal GIP di Palermo ancora nel 1991. Il procedimento viene archiviato il 18 agosto 1992: De Mauro non poteva aver scoperto nulla di particolare intorno alla morte di Enrico Mattei, dal momento che la magistratura di Pavia aveva ritenuto del tutto accidentale la natura del disastro di Bascapè. Il 20 settembre 1994 il gip di Pavia autorizza la riapertura delle indagini nei confronti di ignoti. La riapertura era stata chiesta dalla procura pavese che, per competenza, aveva ricevuto dalla procura di Caltanisetta l’estratto delle dichiarazioni rese da un pentito di mafia. Il 5 novembre 1997 il pubblico ministero di Pavia Vincenzo Calia giunge a questa conclusione: “l’aereo, a bordo del quale viaggiavano Enrico Mattei, William Mc Hale e Inrneio Bertuzzi, venne dolosamente abbattuto nel cielo di Bascapè la sera del 27 ottobre 1962. Il mezzo utilizzato fu una limitata carica esplosiva, probabilmente innescata dal comando che abbassava il carrello e apriva i portelloni di chiusura dei loro alloggiamenti”. Di più non si riesce a scoprire e le domande rimangono. Enrico Mattei stava per spezzare la morsa costruita attorno a lui dal cartello petrolifero che escluse l’ENI dal mercato petrolifero internazionale, negandogli concessioni nei paesi produttori alla pari con le altre compagnie petrolifere. Mattei allora dichiarò guerra al sistema neocoloniale delle concessioni, offrendo ai paesi produttori un accordo rivoluzionario, il 75% dei profitti contro il 50% finora offerto dalle compagnie, e la qualificazione della forza lavoro locale. Il cartello reagì furiosamente, giungendo a rovesciare governi, come quello libico, che avevano accettato l’offerta e aperto all’ENI prospettive di grandi forniture. Nel 1962, quando si andava prospettando la soluzione della questione algerina, Mattei era riuscito ad aggirare il blocco.

Sostenendo il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), Mattei aveva ipotecato un trattamento preferenziale verso l’ENI dal futuro governo. Si pensava allora che l’Algeria possedesse, al confine con la Libia , le più vaste riserve di petrolio inesplorate del mondo. Parallelamente a Mattei si mosse De Gaulle, che decise di riconoscere l’indipendenza algerina. Come contropartita, la compagnia petrolifera francese ottenne gli stessi privilegi dell’ENI. L’ingresso trionfale dell’ENI sul mercato petrolifero era quindi quasi assicurato.
Non solo, l’Executive Intelligence Review, attraverso una ricostruzione minuziosa del caso Mattei, afferma che il presidente dell’Eni, alla fine, era riuscito ad aprire un dialogo con la Casa Bianca , nonostante la stampa internazionale avesse dipinto Mattei come un pericoloso sovversivo anti-americano. Mattei, per l’Eir, era riuscito a far capire alla nuova amministrazione Kennedy che tutto ciò che desiderava era essere trattato alla pari, che egli non ce l’aveva con l’America ma con i metodi coloniali applicati dalle “sette sorelle” del petrolio. L’amministrazione Kennedy accettò il dialogo e fece pressioni su una compagnia petrolifera, la Exxon , per concedere all’Eni dei diritti di sfruttamento. L’accordo sarebbe stato celebrato con la visita di Mattei a Washington, dove avrebbe incontrato Kennedy, e dal conferimento di una laurea honoris causa da parte di una prestigiosa università statunitense.

Alla vigilia di quel viaggio, il 27 ottobre 1962, Mattei fu assassinato. Un anno dopo, fu ucciso Kennedy. In un rapporto confidenziale del Foreign Office del 19 luglio 1962, si leggeva che “il Matteismo” era “potenzialmente molto pericoloso per tutte le compagnie petrolifere che operano nell’ambito della libera concorrenza (...). Non è un’esagerazione asserire che il successo della politica ‘Matteista’ rappresenta la distruzione del sistema libero petrolifero in tutto il mondo”. E quindi Mattei andava eliminato, in un modo o nell’altro.

 

 

TORNA ALLA PAGINA INIZIALE