Archivio Novembre 2006
30
novembre
In un'intervista a Rtl 102.5 il
carabiniere ribadisce: "Mi auguro di poter contribuire
ad accertare la verità, anche se mi hanno detto che non uscirà
mai"
Placanica accusa:
"Hanno inquinato le prove"
ma la Procura non riapre l'inchiesta
I magistrati di
Genova scettici: "Non ha detto nulla di nuovo. Doveva parlare in
tribunale"
Mario
Placanica
ROMA -
Lancia nuove accuse Mario Placanica, il carabiniere incriminato
e poi prosciolto per la morte di Carlo Giuliani al G8 di Genova:
"A Genova hanno inquinato le prove", ma la Procura di Genova non
riaprirà le indagini. Il procuratore capo Francesco Lalla lo ha
detto chiaramente: "La nostra posizione per ora è assolutamente
negativa. Placanica non ha detto nulla di nuovo sul fatto per
cui è stato indagato. Quando Placanica dice cose parzialmente
nuove - ha aggiunto Lalla - non le riferisce per scienza diretta
ma per sentito dire da altri. Placanica avrebbe potuto
raccontare le sue verità nella sede propria del processo,non
adesso in un'intervista".
Ma Placanica non tace: "Alla fine ho pagato solo io. Mi auguro
di poter contribuire ad accertare la verità - ha detto Placanica
in una intervista a Rtl 102.5 - anche se già mi hanno detto che
non uscirà mai".
Sulla vicenda interviene anche il presidente emerito della
Repubblica Francesco Cossiga, che afferma: "La via maestra da
seguire è quella della riapertura dell'inchiesta giudiziaria.
Per i casi di Genova risollevati dalle presunte rivelazioni
dell'ex-carabiniere Placanica che uccise negli scontri del G8 il
povero giovane Giuliani, è certo necessario fare chiarezza nello
stesso interesse dell'Arma", ha motivato Cossiga.
Nell'intervista a Rtl 102.5, Placanica ricostruisce quel giorno
del 2001. "Io ero addetto al lancio dei lacrimogeni, ma... me lo
tirò dalle mani perchè diceva che non ero idoneo a sparare,
perchè non sapevo sparare... invece io ho sparato a parabola,
normalmente, come si spara sempre, in regola. Ma lui mi diceva
che dovevo sparare ad altezza d'uomo... stavo male, mi hanno
spostato vicino a Piazza Alimonda, dove ho visto pestare a
sangue dei manifestanti, fino a che non gli uscivano le bave
bianche dalla bocca. Sono salito sulla camionetta, un plotone ci
faceva da scudo, ma poi i manifestanti hanno attaccato e i
carabinieri sono arretrati, scappando".
"Hanno lasciato i mezzi senza
protezione e a quel punto - ricorda Placanica - i manifestanti
ci hanno aggrediti, c'era lancio di pietre, di oggetti, hanno
rotto i vetri della camionetta... ricordo benissimo, io quel
giorno ho sparato in aria, e davanti a me c'era solo il fumo dei
lacrimogeni e della pistola, io Carlo non l'ho visto, ho mirato
in aria, avvertivo pericolo, la camionetta era piena di oggetti,
io li scalciavo fuori con i piedi...".
Placanica conferma quindi di aver sparato in aria: "Si, io ho
sparato in aria, e loro ci hanno abbandonato, non sono
intervenuti, anche se potevano: erano in numero superiore ai
manifestanti, invece ci hanno lasciato soli, non hanno fatto
niente, hanno aspettato che qualcuno di noi morisse".
1.245 voli segreti Cia
Nient'affatto segreti
Il rapporto
finale della commissione europea presentato oggi a Bruxelles
Alberto D'Argenzio
Bruxelles
Ci va giù duro Claudio Fava. Il
rapporto preliminare sulle operazioni della Cia in Europa, firmato
dall'euro-deputato dei Ds per la Commissione temporanea del
parlamento europeo, non risparmia governi, servizi segreti e nemmeno
i rappresentanti delle istituzioni comunitarie e della Nato. In
pratica non guarda in faccia a nessuno. Alcuni tra loro hanno
collaborato con la Cia, altri, più semplicemente, hanno mentito o
hanno guardato da un'altra parte.
Il rapporto verrà presentato stamane a
Bruxelles dallo stesso autore, ma già eri sera è iniziata la sua
discussione all'interno della Commissione ad hoc in vista della
votazione prevista ad inizio 2007. Poi anche i governi verranno
obbligati a guardare dentro alla scatola nera delle attività della
Cia in Europa e, eventualmente, render conto delle loro
responsabilità. «I 25 hanno taciuto e mentito - avverte Fava - molti
governi sapevano da più di un anno delle detenzioni illegali,
l'hanno saputo direttamente da Condoleezza Rice. Adesso speriamo che
sappiano assumersi le loro responsabilità». Intanto Amnesty
international applaude al lavoro svolto.
Dopo quasi un anno di indagini, dopo
diverse audizioni in cui sono sfilate 154 persone e tra loro una
decina di vittime (o i loro rappresentanti), dopo varie missioni
all'estero, da Washington ai Balcani fino alla Polonia ed alla
Romania, il rapporto si riempie di una serie di dati utili a
disegnare un panorama inquietante. Almeno 10 sono state le
extraordinary rendition, le detenzioni illegali, messe in atto dalla
Cia sul territorio Ue anche grazie alla collaborazione o
all'inazione dei servizi di intelligenza o dei governi europei. 1245
è il numero dei voli che dopo l'11 settembre 2001 atterranno negli
aeroporti comunitari trasportando, a volte, anche dei detenuti
imprigionati illegalmente e quindi trasportati a Guantanamo, in
Afghanistan o in paesi amici come l'Egitto o la Giordania, e qui
interrogati e sottoposti a tortura e/o a regime di incomunicabilità.
E «serie» sono le «evidenze circostanziali» che indicano la
possibile esistenza di un centro di detenzione, ossia di una
prigione segreta, a Stare Kiejkuty in Polonia. Discorso analogo per
la Romania.
L'Italia viene citata soprattutto per
via del rapimento di Abu Omar, delle reticenze dell'ex direttore del
Sismi Pollari (ora consigliere speciale di Prodi), ma anche per il
prezioso ruolo svolto dalla procura di Milano. Con l'Italia
«colpevoli» altri 10 Stati membri - Regno unito, Polonia, Germania,
Spagna, Portogallo (all'epoca dei fatti il premier era il
commissario europeo Barroso), Austria, Irlanda, Grecia, Cipro e
Danimarca - uno che entrerà a gennaio - la Romania - due candidati -
Turchia e Macedonia. Poi il Kosovo e la Bosnia Erzegovina.
«La prima conclusione - spiega Fava -
è che non si tratta di episodi isolati, ma di elementi che disegnano
un sistema consolidato che gli Stati uniti hanno potuto applicare in
modo strutturato grazie alla cooperazione dei governi europei». E
qui emergono due tipi di collaborazione: «C'è quella grossolana dei
servizi di intelligenza italiani (nel caso del rapimento di Abu
Omar, ndr) ed un'altra che passa attraverso la legittimazione degli
abusi. Membri dei servizi britannici e tedeschi si sono recati in
alcuni paesi terzi per interrogare delle persone, dei loro
concittadini, rapite illegalmente. In questa maniera hanno
legittimato il metodo della Cia».
Gli elementi che inchiodano servizi e
governi sono tanti, alcuni inconfutabili, come quelli sui voli,
altri fortissimi, come quelli figli delle indagini «rigorose» svolte
dalla giustizia italiana, spagnola e tedesca, altri, infine, forniti
da fonti considerate attendibili, come ex agenti della Cia e ong.
Per non citare la ciliegina: lo stesso Bush che ammette l'uso delle
rendition.
Ma dal Consiglio, dai 25, per ora è
arrivata poca cooperazione e molto ostruzionismo. Per questo il
rapporto Fava accusa di reticenza il Regno unito, la Polonia e la
Romania; esprime la sua «profonda preoccupazione per le omissioni»
di Javier Solana, il superesponsabile della politica estera
dell'Unione; si interroga sull'utilità e sul contenuto reale delle
funzioni di Gijs de Vries, alias Mr. Terrorismo; «deplora» il
rifiuto del direttore di Europol a comparire di fronte alla
Commissione temporanea ed esprime «insoddisfazione» per l'analogo
comportamento tenuto Jaap de Hoop Scheffer, il segretario generale
della Nato.
Il rapporto sarà votato a gennaio
dalla Commissione ad hoc, poi a febbraio dall'euro-parlamento,
quindi la palla tornerà agli Stati membri. «Starà a loro decidere».
Quel che è certo è che non potranno più negare.
Corno d'Africa
Somalia ed
Etiopia verso la guerra
Primi scontri Battaglia nella
Somalia centrale. Le Corti: jihad contro il nemico
Emilio Manfredi
Addis Abeba
Ormai non è più solo guerra verbale
tra l'Unione delle Corti islamiche somale e l'Etiopia, le forze
dispiegate sul terreno da entrambe le parti sono pronte a darsi
battaglia. Anzi, stando a Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, capo
dell'esecutivo delle Corti, il conflitto sarebbe già cominciato
ieri, con uno pesante scambio di colpi di mortaio nei pressi del
villaggio di Bandiradley, nella Somalia centro-settentrionale. «Le
truppe etiopiche sono ormai dislocate in molte aree del territorio
somalo con l'intenzione di occupare il nostro Paese. Tutto ciò è
inaccettabile», ha dichiarato Sheikh Sharif, intervenendo ieri ad
una grande manifestazione contro l'Etiopia a Mogadiscio. «È dovere
di ogni uomo e di ogni donna somali sacrificare la propria vita per
la difesa della patria, poiché Melese Zenawi (il Primo Ministro
etiope, ndr) vuole occupare la Somalia e sconfiggere l'Islam», ha
urlato Sharif alla folla mentre donne col viso velato impugnavano
mitragliatori, dichiarandosi pronte a morire per la guerra santa.
«Un'enorme quantità di truppe di Addis Abeba, equipaggiate con carri
armati e artiglieria pesante hanno raggiunto oggi il villaggio di
Bandiradley, dove sono di stanza i nostri uomini. Ora sta a voi,
popolo di Somalia, non aspettare il nemico ma attaccarlo», ha
concluso il leader islamico. Dunque, pare certo che il primo fronte
della guerra stia per aprirsi a Bandiradley, 700 chilometri a nord
di Mogadiscio. Bandiradley è un villaggio strategico della Somalia
centrale, nei pressi di Galkayo, sulla via del Puntland, una regione
semiautonoma politicamente molto legata all'Etiopia. Proprio a
Galkayo, le prime linee etiopiche sono giunte a meno di 5 chilometri
dagli avamposti dei miliziani islamisti, stando a fonti locali
contattate dal manifesto. Il secondo fronte della guerra, invece,
sarà a Bur Aqaba, ultima città controllata dalle Corti Islamiche in
direzione di Baidoa, cittadina periferica a 250 chilometri dalla
capitale, dove ha sede il governo di transizione (Tfg), isolato e
mantenuto in vita dalla massiccia presenza di soldati di Addis
Abeba.
Il comizio di ieri è servito alle
Corti anche per respingere i piani americani per la Somalia.
Infatti, siamo alla vigilia di una riunione del Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite in cui si discuterà una mozione Usa
sulla rimozione dell'embargo sulle armi in vigore in Somalia, che
dovrebbe autorizzare l'intervento di una forza di peacekeeping
africana. Per Washington l'iniziativa dovrebbe restituire stabilità
alla Somalia, mentre secondo molti analisti (e l'Unione Europea) la
decisione statunitense avrà solo l'effetto di una tanica di benzina
gettata su in incendio già acceso. Parlando ieri, il capo militare
degli islamisti, Sheikh Yusuf «Inda'ade» ha accusato gli Stati Uniti
di premere sull'Etiopia per l'invio di un maggior numero di truppe
sul fronte somalo. «Chiunque abbia supportato Zenawi è per noi un
obiettivo, ovunque sia», ha detto il capo militare degli islamisti,
invitando i Paesi del Corno d'Africa a non inviare truppe in
Somalia. Inda'ade ha poi aggiunto: «se il mondo non fermerà gli
Stati Uniti, inviteremo tutti i guerrieri islamici a venire in
Somalia per respingere il nemico».
Violenze e
segregazioni Allarme razzismo nell'Ue
Antislamismo e antisemitismo,
immigrati discriminati su casa e lavoro, rom ghettizzati. Un dossier
presentato al Parlamento europeo accusa i paesi Ue. Palma nera alla
Danimarca e alla Francia
A. D'Arg.
Bruxelles
Antisemitismo, islamofobia, violenza
contro i rom o più semplicemente contro immigrati, stranieri e
richiedenti asilo. Discriminazione e segregazione nell'accesso alla
casa, nell'educazione e sul posto di lavoro, mancanza di strumenti
efficaci per contrastare i crimini legati al razzismo e, a volte,
addirittura mancanza di chiare informazioni ufficiali sui fenomeni
di violenza razziale e di discriminazione. Il panorama disegnato
ieri dall'Osservatorio europeo contro il razzismo e la xenofobia,
presentando il rapporto 2005 al Parlamento europeo, è francamente
desolante: in Europa l'odio razziale è sempre più di moda. E non
sempre i governi attuano con la dovuta decisione. È anche vero che
non mancano buone pratiche e una certa presa di coscienza da parte
di alcuni esecutivi, oltre a molto lavoro di campo svolto dalle Ong,
ma l'integrazione ed il rispetto delle minoranze restano ancora una
chimera nella Ue.
I problemi emergono già alla base.
Solo Regno unito e Finlandia hanno infatti un efficace e completo
sistema di rilevamento dei crimini legati al razzismo ed alla
discriminazione, altri nove - Austria, Repubblica Ceca, Danimarca,
Francia, Germania, Irlanda, Polonia, Slovacchia e Svezia -
possiedono un «buon sistema», indica l'Osservatorio, un istituto
comunitario con base a Vienna. Gli altri paesi ricevono dei giudizi
insufficienti, vuoi perché hanno un metodo «limitato», vuoi perché
direttamente non raccolgono i dati, come succede in Italia, Spagna,
Grecia, Cipro e Malta. E si tratta di una doppia mancanza visto che
proprio nel lato sud del Mediterraneo è più forte la pressione
migratoria. A dire il vero in Italia, tra il 2002 ed il 2003, l'Istat
ha pubblicato le statistiche legate ai crimini di «discriminazione
razziale», ma poi basta. «Questi paesi - afferma Beate Winkler,
direttrice dell'Osservatorio - non possono valutare in che misura
sono riusciti a rompere il circolo vizioso delle privazioni, dei
pregiudizi e della discriminazione visto che non hanno dati chiave
che gli permettono di studiare come le loro politiche sociali ed
economiche influiscono sulle minoranze etniche e sui migranti». Il
vuoto informativo lasciato dagli Stati viene spesso riempito con le
informazioni fornite dalla Ong, ma ciò non toglie responsabilità ai
governi europei. Altre volte il vuoto è doppiamente colpevole, visto
che si tratta di abusi perpetrati dagli stessi funzionari pubblici.
E se poi si va a spulciare nei paesi
in cui i dati sugli incidenti razziali e sulla discriminazione
vengono raccolti con criterio, emerge un trend assai negativo. Nel
periodo 2000-2005 sono infatti aumentati i crimini praticamente
dappertutto, con la Danimarca che fa registrare la maggior crescita,
un più 68,7%, seguita dalla Slovacchia, più 43,1%, e la Francia, più
34,3%. Il 2005 è d'altronde ricordato soprattutto come l'anno della
rivolta nelle banlieues, simbolo diretto del senso di frustrazione e
di discriminazione, vissuto quotidianamente da una larga fascia di
immigrati francesi di terza-quarta generazione.
Guardando all'Italia, il rapporto
sottolinea la situazione di sfruttamento a cui vengono sottoposti
gli immigrati sul posto di lavoro, soprattutto quando si guarda ai
lavoratori agricoli nel Meridione. Non sfuggono poi i requisiti
imposti per l'assegnazione delle case popolari da parte della
regione Lombardia e dei comuni di Parma e Brescia, che di fatto
limitano l'accesso degli immigrati. Negli ultimi anni, sottolinea
sempre il rapporto, non è migliorata la situazione dei rom, una
comunità che vive episodi di ghettizzazione urbana e di segregazione
scolastica, in Italia come in molti altri paesi europei, soprattutto
ad est. Per sostenere la causa dei rom si è presentato ieri al
Parlamento europeo anche Joaquin Cortes. Il ballerino ha ricordato
come la sua etnia, forte di 10-12 milioni di persone, faccia
registrare vari record in Europa, a partire dalla disoccupazione per
finire con l'abbandono scolastico. Dati peggiori di quelli di
qualsiasi altro gruppo etnico presente sul vecchio continente,
immigrati compresi. «I rom sono particolarmente vulnerabili alla
violenza e delinquenza razzista, anche dei funzionari pubblici»,
ricorda l'Osservatorio. Ma non sono gli unici a passarsela male. «I
membri della comunità ebraica continuano a soffrire l'antisemitismo
e la crescente islamofobia è una questione alquanto preoccupante».
«Non ci sono stati miglioramenti importanti in Europa» è la
conclusione finale.
Tatozzi: «Ecomafie
sistema eversivo»
Le attività degli ecocriminali
condizionano e gestiscono il mondo del lavoro e interi settori
economici. L'allarme dell'Alto commissario anticorruzione / Mastella:
«Preveniamo gli ecoreati» / LEGAMBIENTE: «Business da 18miliardi
l'anno»
L'ecomafia è diventata un vero e
proprio «sistema eversivo di contropotere capillare ed insidioso in
grado di condizionare e gestire il mondo del lavoro e rilevanti
settori economici ed amministrativi». E il risultato è "un impatto
ambientale devastante" e un "abusivismo edilizio imponente e
indiscriminato". A lanciare l'allarme è lo studio dell'alto
commissario anticorruzione sui "pericoli di condizionamento della
pubblica amministrazione da parte della criminalità organizzata",
presentato oggi al Cnel dall'Alto commissario Gianfranco Tatozzi.
E se, secondo il dossier, «vicende
quali l'emergenza rifiuti in Campania, Porto Marghera, Priolo, Punta
Perotti, gli spiaggiamenti di navi sulle coste meridionali,
testimoniano di un'emergenza ambientale che incombe da tempo sul
nostro paese», sono in realtà solo la punta dell'iceberg, «casi
eclatanti», rispetto a «molte altre realtà cresciute all'ombra di
condizionamenti economico-sociali di diversa natura», da quelli
industriali a quelli imposti dalla criminalità organizzata.
«L'inserimento nel ciclo del cemento -
si legge nella relazione - rappresenta per la criminalità
organizzata un interesse di tipo strategico ed il mezzo per imporre
tangenti ed estorsioni che, unite ad una illecita gestione delle
procedure di assegnazione degli appalti, determinano un sistema
eversivo di contropotere capillare ed insidioso». «L' impatto per
l'ambiente che ne deriva - scrive l'alto commissario - è devastante
per ampie aree, investite anche da abusivismo edilizio imponente e
indiscriminato». Lo studio dell'Alto commissario sottolinea come
ormai «il traffico di rifiuti pericolosi trattati e smaltiti con
sistemi illegali costituisce una vera attività economica, lucrosa e
ben sviluppata».
Parla l'ex carabiniere coinvolto
nella morte del manifestante durante il G8
"Non l'ho ucciso io, ma i colleghi
ridevano e mi dicevano 'benvenuto tra gli assassini'"
La confessione
di Placanica: "Non sparai a Carlo Giuliani"
"Troppi interrogativi non risolti,
cerco la verità"
CATANZARO - "Continuavano con il
lancio di oggetti, io ho gridato che avrei sparato. Poi ho sparato
in aria. Due colpi, tutti e due in aria". E sul selciato rimase
Carlo Giuliani, colpito in testa dal proiettile. E' quanto racconta
in una lunga intervista al quotidiano Calabria Ora, Mario Placanica.
L'ex carabiniere accusato e poi prosciolto per la morte di Giuliani
avvenuta durante il G8 di Genova, descrive in modo parzialmente
nuovo quelle drammatiche ore del 20 luglio 2001.
Placanica ricostruisce così una tra le
pagine più nere della storia d'Italia. Dall'arrivo a Genova: "I
superiori ci dicevano di stare attenti, ci raccontavano che ci
avrebbero tirato le sacche di sangue infetto. Ci dicevano di
attacchi terroristici. La sensazione era come se dovessimo andare in
guerra".
Un clima che generò violenze continue.
Poi arrivò piazza Alimonda, il Defender con a bordo Placanica che
resta intrappolato e accerchiato dai manifestanti: "Ci hanno
lasciato soli, ci hanno abbandonato. Potevano intervenire perchè
c'erano i carabinieri e anche gli agenti della polizia. Potevano
fare una carica per disperdere i manifestanti e invece non hanno
fatto niente. Quel momento è durato una vita". E tornano alla mente
le immagini di un plotone dei carabinieri fermo a poca distanza
dalla jeep attaccata.
Poi la morte di Giuliani. Al rientro
di Placanica in caserma, i colleghi "mi hanno fatto una festa, mi
hanno regalato un basco del Tuscania, 'benvenuto tra gli assassini',
mi hanno detto. Si, erano contenti. Dicevamo Morte sua vita mia,
cantavano canzoni. Hanno fatto una canzone anche su Carlo Giuliani.
Io ero assente, non volevo stare con nessuno, mi sentivo troppo
male".
Poi il processo. Che, però, non fuga
tutte le ombre e si conclude con l'assoluzione del militare: il
colpo è stato deviato da un sasso. Una carambola mortale che sarebbe
costata la vita a Giuliani. "Sono stato un capro espiatorio usato
per coprire qualcuno. Le porte sono chiuse per Placanica. Però se
vengo congedato per problemi psichici chi mi crede" continua l'ex
carabiniere.
A distanza di cinque anni dalla morte
di Giuliani, Placanica ritiene di essersi trovato in "un ingranaggio
più grande di me. Ero nel posto sbagliato, non si potevano mandare
ragazzi inesperti e armati in quella situazione". Molti gli
interrogativi che si pone l'ex carabinieri: "Secondo me sul G8 non è
stata detta tutta la verità. Ci sono troppe cose che non sono
chiare, come ad esempio: perchè alcuni militari hanno 'lavorato' sul
corpo di Giuliani? Perchè gli hanno fracassato la testa con una
pietra? Ritengo che cremare il corpo di Giuliani sia stato un
errore, forse si sarebbe potuto scoprire di più. Sono alla ricerca
della verità. Come fanno a dire che l'ho sparato in faccia. Non è
vero. E' impossibile. Non potevo colpire Giuliani. Ho sparato sopra
la ruota di scorta del Defender".
Una versione che, riferisce il
'Quotidiano della Calabria' sarebbe circolata anche "negli ambienti
del Viminale" dove ieri si parlava di un "colloquio confidenziale"
dello stesso Placanica.
28
novembre
Correa verso il
trionfo
L'Ecuador dice no all'uomo più
ricco del paese e impone al timone l'economista di sinistra Correa
“Ho vinto, ho vinto, ho vinto e
continuerò a lottare per i poveri”. Con queste parole, Rafael
Correa, candidato di Alianza Pais, colaizione di sinistra, al
ballottaggio per le presidenziali in Ecuador, svoltosi ieri, ha
posto un sigillo alla sua vittoria, sempre meno virtuale. Le urne
ecuadoriane contengono ancora molte schede da vagliare, ma i giochi
sembrano ormai fatti: il Tribunale supremo elettorale, dopo averne
scrutinate il 46.82 percento, ha annunciato che in favore di Correa
si è espresso il 68.49 percento dei cittadini. Un vantaggio di oltre
33 punti, dunque, sul multimilionario Alvaro Noboa, il re delle
banane, il quale, Bibbia alla mano, ha precisato che al minimo segno
di broglio imporrà di ricontare i voti scheda per scheda.
Il male minore. E così, da ieri
sera, quando le prime proiezioni hanno evidenziato la tendenza mai
mutata di un Correa in netto vantaggio, molti simpatizzanti in festa
hanno sfidato il freddo e invaso le strade della capitale fino alle
prime luci dell’alba, anche se con compostezza. Secondo quanto
riferisce al quotidiano argentino Pagina 12 Diego Araujo Sanchez,
editorialista del giornale ecuadoriano Hoy, il paese è rimasto
avvolto da un clima di relativa passività. “Il 35 percento
guadagnato da Correa in questo ballottaggio non è formato da voti di
persone totalmente convinte del suo progetto. Sono perlopiù voti
contro Noboa”.
Ed è la sensazione anche durante il
voto: “Ho scelto il male minore”, si sono sentiti ripetere i
giornalisti inviati nei più disparati seggi.
Un voto “anti”. Secondo le
prime analisi, Correa si è imposto nella regione della sierra,
bastione dei settori moderati e professionali, a Quito e nelle aree
dei piccoli produttori di banane, come la provincia dell’Oro, dove è
stato forte il disagio dimostrato contro i grandi e spietati
impresari alla Noboa. Anti-Noboa anche il voto della classe media e
dei professionisti, schierati contro l’uomo più ricco del paese.
Contropiede. “Dopo tutti questi
anni di politiche sociali ed economiche conservatrici, colpevoli di
questa tragedia chiamata emigrazione, non ci hanno potuto rubare la
speranza. Abbiamo vinto”. Questo il discorso del 43enne economista
che sarà il nuovo presidente dell’Ecuador. Mostrando una compostezza
consapevole del difficile compito che è stato chiamato a svolgere,
Correa ha deciso di lasciare sin da subito in disparte i toni di una
campagna elettorale che non poteva che essere aggressiva e, con
pacatezza, ha voluto nuovamente allontanare i fantasmi che lo hanno
perseguitato in questi mesi, precisando che manterrà il dollaro come
moneta ufficiale e ribadendo la necessità di chiamare al governo
gente dalle mani e dalla coscienza pulite. Quindi, contro ogni
aspettativa, ha annunciato parte della squadra di governo.
I nomi del potere. Agli Interni
andrà Gustavo Larrea, responsabile della sua campagna elettorale,
esperto in diritti umani e da sempre uomo di sinistra; al ministero
per l’Energia, Alberto Acosta, duro critico della dollarizzazione e
all’Economia, invece, Ricardo Patiño, ex sottosegretario del
dicastero economico, nonché forte oppositore al pagamento del debito
estero. L’uomo chiave ai vertici dell’impresa statale Petroecuador,
infine, sarà Carlos Pareva Yannuzzelli, l’ideatore della strategia
che è culminata con la rottura del contratto con l’impresa Usa
Occidental e ha portato all’espropriazione di tutti i suoi beni,
costando al paese le ire della Casa Bianca, la quale è arrivata a
sospendere le trattative per il trattato di libero commercio (Tlc).
“Il nostro sogno – ha precisato
l’economista a nome di tutti – è costruire una patria nella quale
nessuno debba più uscire dal paese per necessità, dove possano
tornare coloro che già sono partiti e trovare salute, educazione,
cibo, lavoro e dignità”.
Stella Spinelli
Ionio inquinato,
21 denunce
Cinque insediamenti industriali
sotto sequestro a Catanzaro per 100 milioni di euro. Secondo i
Carabinieri smaltivano illegalmente rifiuti speciali deturpando il
tratto di mare antistante il Lido. Reflui fognari non depurati nei
fiumi Corace e Amato
Cinque insediamenti industriali,
terreni per 120 mila metri quadrati e otto camion, per un valore
complessivo di circa 100 milioni di euro, sono stati sequestrati dai
carabinieri di Catanzaro nell'ambito di una serie di servizi
finalizzati alla tutela ambientale.
Ventuno persone sono state denunciate.
In particolare i Carabinieri, coordinati dalla Procura della
Repubblica di Catanzaro, hanno individuato le probabili cause
dell'inquinamento del tratto di mare Ionio antistante il quartiere
Lido del capoluogo della regione. Nel corso dei servizi sono stati
sequestrati, oltre agli insediamenti industriali, anche discariche
abusive ed impianti di lavorazione di inerti.
Durante i controlli sono emerse gravi
violazioni della normativa ambientale, che vanno dalla raccolta,
trasporto e smaltimento di rifiuti speciali al deturpamento
ambientale in luoghi con vincoli paesaggistico-ambientali. Gli
impianti industriali non autorizzati all'emissione di fumi in
atmosfera, gli scarichi di reflui fognari non depurati e
l'immissione di fanghi industriali nella rete fognaria, sono, per i
carabinieri, tra le cause accertate che potrebbero avere provocato
l'inquinamento dei fiumi Corace e Amato.
Libertà di
repressione
Un reportage dall'Egitto, dove
esprimere liberamente un'opinione è sempre più dura
scritto per noi da Federica Zoja
La libertà d’espressione è sempre più
nel mirino del regime egiziano. A denunciarlo è Amnesty
International, che in un rapporto sulla Repubblica araba d’Egitto
segnala due casi recenti, quello del blogger Abdel Karim Sulaiman
Amer e quello di Tal’at Sadat, nipote del presidente assassinato il
6 ottobre 1981.
Diritti calpestati. Amer, già
studente della moschea universitaria di Al Azhar, è stato arrestato
ed è tuttora imprigionato per le sue critiche all’ateneo cairota e
alle autorità religiose egiziane.Tal’at Sadat, membro del Parlamento
egiziano, è stato processato per direttissima da un tribunale
militare per “aver diffuso voci false e insultato le forze armate”.
In occasione dell’anniversario della morte dello zio, Tal’at ha
sostenuto il coinvolgimento di alcuni ufficiali delle forze armate e
dello stesso presidente Hosni Mubarak nell’assassinio, materialmente
eseguito da sei integralisti islamici. Al momento, il blogger Amer,
dopo una prima detenzione di quattro giorni per aver “incitato
l’odio nei confronti dei musulmani” e “diffamato il presidente della
Repubblica”, è ancora in prigione: in virtù della legge d’emergenza,
in vigore in Egitto proprio dall’uccisione di Anwar Sadat, la
detenzione può essere rinnovata senza limite e i cittadini
processati da tribunali militari.
Tal’at Sadat, privato della propria
immunità parlamentare, è stato condannato a un anno di lavori
forzati.
Sulla stessa linea della denuncia di
Amnesty International anche il rapporto di Reporter senza frontiere
(Rsf) sui cosiddetti ‘paesi nemici del web’. Rispetto all’elenco del
2005 vi è qualche cambiamento, con l’uscita di scena di Nepal,
Maldive e Libia, e l’ingresso dell’Egitto fra i super-censori.
Liberi di tacere. L’evoluzione
negativa della libertà d’espressione in Egitto desta particolare
preoccupazione, se si pensa che proprio nell’ultimo anno il paese
nordafricano è stato sotto i riflettori della comunità
internazionale in occasione delle elezioni presidenziali del 7
settembre 2005 e di quelle legislative del novembre dello stesso
anno. Durante la campagna elettorale, su pressione di Stati uniti e
Unione europea, l’Egitto ha concesso maggiore libertà agli organi di
stampa, con una relativa apertura del dibattito politico anche
all’opposizione. Se il rapporto diffuso dall’organizzazione è
fondato, viene da pensare che, appena terminato il processo
elettorale, le autorità egiziane non solo siano tornate sui propri
passi, ma abbiano scatenato una dura repressione nei confronti del
mezzo per sua natura più libero, internet.
Che internet sia comunque fra le priorità del grande fratello
egiziano lo dimostra una recente decisione di una corte
amministrativa del Consiglio di Stato: le autorità possono disporre
l’oscuramento di qualsiasi sito considerato pericoloso per la
‘sicurezza nazionale’.
L'afroamericano Sean Bell
festeggiava l'addio al celibato
La sparatoria davanti a un locale. Esplode la protesta
Cinquanta colpi per uccidere un
innocente
Sotto accusa la polizia di New York
Gli agenti sembrano aver agito senza
alcuna giustificazione
Candele
sul luogo della sparatoria
NEW YORK
- La polizia l'ha ucciso sparandogli 50 colpi di pistola.
Lui, Sean Bell, 23 anni, afroamericano, padre di due bimbe,
stava festeggiando il suo addio al celibato. Il giorno dopo
avrebbe sposato la fidanzata Nicole, conosciuta ai tempi del
liceo. Era disarmato. Ancora non è chiara la dinamica dei fatti,
le voci sono contrastanti. Ma l'altissimo numero di proiettili
esplosi contro Bell e due suoi amici - Joseph Guzman e Trent
Benefield rimasti gravemente feriti - ha fatto scrivere al
New York Times che la polizia della Grande Mela sarebbe
affetta da "grilletto facile". Polemiche e durissime critiche
sono già sui gornali di oggi e sui siti internet. Ma in città
c'è anche rabbia e non si possono escludere reazioni pesanti.
La ricostruzione dei fatti, seppure con molte approssimazioni,
inizia alla centrale di polizia del Queens che indaga su un caso
di presunto sfruttamento della prostituzione. In atto, questa
l'ipotesi, in un locale di spogliarelliste. Dalla centrale
inviano cinque agenti, in borghese. Quando alle quattro del
mattino il futuro sposo e i suoi amici escono dal night,
probabilmente un po' alticci, pare che uno di loro abbia chiesto
ad un altro di tornare nel locale a prendere un arma. Questo
secondo uno dei detective appostati. Gli agenti, sempre secondo
la stessa fonte, avrebbero intimato poco dopo ai tre di alzare
le mani. L'ordine sarebbe stato ignorato e il trio di amici
avrebbe anzi tentato la fuga scontrandosi con il minivan della
polizia, privo di segni di riconoscimento poiché gli agenti
erano in borghese. Da qui la sparatoria.
\n");}
if(plug)
{
document.write("");
function loadFlashMiddle1(){
if(navigator.userAgent.indexOf("MSIE") != -1 && navigator.userAgent.indexOf("Opera") == -1){
if (extFlashMiddle1.readyState == "complete")
{
FlashObject(oas_swfMiddle, "OAS_AD_Middle", coordinateMiddle, "", "clsid:D27CDB6E-AE6D-11cf-96B8-444553540000" ,"6", "FinContentMiddle1");
extFlashMiddle1.onreadystatechange = "";
}
extFlashMiddle1.onreadystatechange = loadFlashMiddle1;
}
else
{
FlashObject(oas_swfMiddle, "OAS_AD_Middle", coordinateMiddle, "", "clsid:D27CDB6E-AE6D-11cf-96B8-444553540000" ,"6", "FinContentMiddle1");
}
}
if(document.getElementById("FinContentMiddle1"))
loadFlashMiddle1();
}
else
{
OASd.write(' ');
}
if(!document.body)
document.write(" |