Archivio Settembre 2005
29
settembre
La scure sui
sindaci
di MASSIMO RIVA
La vendetta è un piatto che va
servito freddo. Memori di questa cinica massima, Silvio Berlusconi e Giulio
Tremonti la stanno ora mettendo in pratica con accorta determinazione. Gli
italiani non hanno votato per il Cavaliere e soci in tutte le ultime tornate
amministrative, consegnando al centrosinistra la guida di importanti città e
regioni? Ebbene, ecco arrivato il momento per fargli pagare il conto della loro
impertinente ribellione al mago di Arcore.
Solo questa considerazione di basso interesse
politico-elettorale, infatti, può spiegare la scelta di imporre il taglio più
drastico e pesante ai bilanci degli enti locali. Che l'intera struttura
amministrativa dello Stato, dal Brennero a Pantelleria passando per Roma, sia
oggi in dovere di dare un sostanzioso contributo alla chiusura della falla
aperta nei conti pubblici è un obiettivo fuori discussione.
Ma l'idea che dal centro dello Stato si decida di caricare il
maggiore sforzo di aggiustamento sulle amministrazioni periferiche è un'iniquità
economica e sociale, che può comprendersi soltanto in forza di motivazioni di
convenienza politica.
Certo, l'emergenza è tale che ormai non serve neppure
attardarsi troppo a sottolineare quanto - ahinoi - quel buco sia effetto di una
strategia finanziaria sbagliata e ingannevole concepita dagli stessi che ora
sono chiamati a porvi rimedio. Per non perdere il controllo della finanza
pubblica (e la faccia in Europa), l'Italia deve tagliare quest'anno il suo
deficit di quasi un punto percentuale sul Pil, vale a dire di una somma fra gli
11 e i 12 miliardi di euro. E' logico che tutti debbano fare la propria parte.
Dunque, era immaginabile ed è francamente scontato che la cinghia debba essere
stretta anche sui bilanci degli enti locali.
Solo che un taglio in una misura che in pratica potrà
sfiorare il 10 per cento non è una stretta: in molti casi, perfino nelle più
grandi e ricche città o regioni, rischia di far saltare servizi pubblici
essenziali e migliaia di posti di lavoro. Fra l'altro, con conseguenze pesanti,
ma evidentemente sottovalutate, di depressione di una domanda interna già da
tempo languente.
Si sovrappongono poi in questa ipotesi dell'accoppiata
Berlusconi - Tremonti elementi di ritorsione politica e di incapacità
gestionale. Va notato, infatti, che l'ingiunzione di questo sacrificio ai
bilanci degli enti locali viene dallo stesso governo che, per quanto riguarda le
spese di sua stretta pertinenza, aveva varato il famoso decreto di taglio del
due per cento alle uscite di tutti i ministeri. Una misura - si badi bene: pari
ad appena un quinto di ciò che oggi si vorrebbe togliere a comuni, provincie e
regioni - che si è rivelata un buco nell'acqua perché nessuno di coloro che
siedono attorno al tavolo del Consiglio dei ministri l'ha rispettata o neppure
tentato di farlo.
Precedente che illumina di incredula comicità il reiterato
impegno alla potatura delle spese ministeriali. In realtà, nell'impotenza a fare
ordine nei propri conti ora il governo fa calare la ghigliottina su quelli
altrui.
Naturalmente, nessuno pensa che sia impresa facile - per
giunta, in un paese ridotto alla crescita zero - reperire i soldi necessari per
colmare i buchi che si sono lasciati aprire nel bilancio. Ma dove sta
l'equilibrio di una manovra che propone la tosatura più forte mai immaginata per
le casse degli enti periferici: sui quali - sia ricordato per inciso - gravano i
maggiori costi per i servizi resi quotidianamente alla collettività? Dove sono
tutti coloro che da anni ci stanno assordando con la retorica del federalismo?
Dov'è la voce di Umberto Bossi e soci? Ovvero stavolta la famigerata "Roma
ladrona" può fare quel che vuole nel silenzio assoluto dei sedicenti federalisti
padani?
E, per favore, non si venga a sbandierare come equo
contrappasso il proposito di tagliare di un analogo dieci per cento anche le
indennità dei parlamentari. Siamo seri: i costi della politica c'entrano assai
poco con le indennità dei parlamentari, ma molto, molto di più con il numero dei
medesimi, nonché dei consiglieri e assessori regionali, provinciali, comunali.
Si vuole che anche gli enti locali facciano risparmi permanenti e strutturali?
La via maestra è quella di ridurre la quantità di "professionisti" della
politica, che in Italia raggiunge vette sconosciute in altre anche più solide e
mature democrazie rappresentative. Ma chi ci pensa?
Certo non coloro che oggi stanno impasticciando di gran
fretta una riforma elettorale mirata solo a conservare più poltrone e più
prebende per se e per i propri fedelissimi.
Dulcis in fundo, va segnalato che sembrano aver fatto breccia
nel governo i forti dubbi sulla possibilità di ricavare da tre a quattro
miliardi di maggior gettito con la lotta all'evasione fiscale. Nel testo della
Finanziaria non se ne farà cenno ma, come già accaduto, durante l'esame
parlamentare spunterà a copertura l'ennesimo condono, che il governo farà finta
di subire. Cosicché la pistola puntata alle tempie degli evasori sarà niente
meno che la terrificante arma dell'amnistia tributaria. Un espediente in grado
di squalificare da solo tanto la manovra quanto il governo che la sta
allestendo. Purtroppo, anche l'Italia intera agli occhi dell'Europa.
Il capogruppo
repubblicano Tom DeLay si dimette
dopo l'incriminazione per finanziamenti illegali
Usa, uno scandalo di fondi neri
per l'uomo di Bush alla Camera
dal nostro corrispondente ALBERTO FLORES
D'ARCAIS
Tom DeLay
NEW YORK - Tom DeLay, il potente capogruppo repubblicano alla
Camera, si è dimesso ieri dopo essere stato incriminato da un Gran
giurì del Texas per violazione della legge sui finanziamenti
elettorali.
DeLay era finito nell'inchiesta del procuratore della Contea di
Travis Ronnie Earle (un democratico) per il "possibile uso illegale
di fondi elettorali" e per aver accettato - nelle elezioni di medio
termine del 2002 - finanziamenti politici da alcune corporation,
violando la legge elettorale del Texas (lo Stato che lo elegge da 21
anni in un distretto della periferia di Houston) secondo cui le
donazioni delle aziende non possono essere usati per "promuovere la
vittoria o la sconfitta di candidati", ma solo essere usati per fini
amministrativi.
Per la Casa Bianca si tratta di un'altra brutta gatta da pelare.
DeLay - soprannominato "the hammer", il martello, per il suo
temperamento combattivo e l'aria da duro con cui affronta avversari
(e compagni di partito) al Congresso - è uno degli uomini a cui Bush
deve molto. È grazie a lui se i fondi raccolti in campagna
elettorale sono quasi raddoppiati, è grazie a lui se diverse leggi
volute dalla Casa Bianca sono passate, tra qualche mugugno
repubblicano, alla Camera; ed è grazie a lui e alla sua battaglia
per ridisegnare i distretti elettorali che nelle ultime elezioni i
repubblicani del Texas hanno conquistato il totale controllo dello
Stato per la prima volta dai tempi della Reconstruction Era seguita
alla guerra civile.
Il "martello" ha reagito subito. Dapprima dimettendosi (il
regolamento per la Camera del Partito repubblicano prevede che un
deputato incriminato per un reato penale rassegni le dimissioni
provvisoriamente; il capogruppo dimissionario mantiene però il suo
seggio): "Ho notificato al presidente della Camera (Dennis Hastert)
che mi dimetterò temporaneamente dal mio ruolo di capogruppo della
maggioranza in ossequio al regolamento e in conseguenza della
decisione assunta oggi dal procuratore distrettuale della contea di
Travis".
Poi DeLay ha accusato
il procuratore Erle di averlo incriminato per motivi politici - "la
vendetta di un democratico partigiano, queste accuse non hanno
alcuna base nei fatti o nella legge" - e infine ha affidato un
durissimo comunicato ai suoi avvocati: "Questa vicenda puzza come
una puzzola, è fetida come una puzzola morta in mezzo alla strada".
DeLay è stato anche incriminato per associazione a delinquere
insieme a due suoi collaboratori: John Colyandro, ex direttore di un
comitato per la raccolta di fondi elettorali, e Jim Ellis, il
responsabile del comitato nazionale dello stesso DeLay.
A poco più di un anno dalle elezioni di medio termine (novembre
2006) che tradizionalmente sono favorevoli, durante il secondo
mandato di un presidente, al partito d'opposizione, l'incriminazione
di DeLay è un brutto colpo per il Grand Old Party. E visto che anche
il leader del partito al Senato, nonché possibile candidato alla
Casa Bianca, Bill Frist ha i suoi guai - è stato messo sotto
inchiesta dalla Sec per una caso di insider trading di milioni di
dollari (ha venduto, al massimo delle quotazioni, tutte le azioni di
una società di famiglia due settimane prima del crollo del titolo a
Wall Street) - è ovvio che l'amministrazione sia preoccupata.
"In Iraq siamo all'offensiva e abbiamo un piano per vincere". Dopo
essere stato impegnato quasi a tempo pieno dagli uragani (e dai
successivi problemi) George W. Bush è tornato ieri - prima che
scoppiasse il caso DeLay - a parlare dell'Iraq e della guerra al
terrorismo. Le elezioni a Bagdad si avvicinano, le notizie che
arrivano dal terreno di battaglia non sono molto positive, i morti
americani si avvicinano alla soglia dei duemila, e la popolarità del
presidente non è mai stata così bassa dopo l'11 settembre 2001.
Alla Casa Bianca hanno deciso che era il momento di reagire:
riprendendo il discorso sulla guerra al terrorismo (tornato in prima
pagina per via dei terroristi di Hamas) e rilanciando l'immagine del
Bush franco nel dire le cose come stanno ma ottimista sui risultati,
immagine che in passato ha sempre funzionato.
Il presidente si è rivolto agli americani dal Giardino delle rose
della Casa Bianca (con accanto il vice Cheney, reduce
dall'intervento chirurgico, che si appoggiava a un bastone) dopo
aver ricevuto un lungo rapporto da parte del generale John Abizaid,
comandante supremo delle operazioni in Iraq e Afghanistan, e del
generale George Casey, comandante del contingente americano in Iraq.
Bush ha ripetuto che gli Stati Uniti sono determinati "a sconfiggere
il nemico", che hanno "una strategia di vittoria chiara e tattiche
che si adattano ai cambiamenti di tattica dell'avversario", e che
l'Iraq è il fronte centrale della guerra al terrorismo".
Bush ha però avvertito che la violenza aumenterà, all'approssimarsi
del referendum di metà ottobre e delle elezioni di metà dicembre:
"Dobbiamo aspettarci una nuova ondata, ma le nostre truppe sono
pronte".
28 settembre
TERRA TERRA
La
cattiva energia della terra
KARIMA ISD
La barriera dell'indecenza
nelle spese militari mondiali è stata superata un'altra volta nel 2004, quando,
secondo il rapporto annuale dell'Istituto internazionale ricerche sulla pace (Sipri)
di Stoccolma, il mondo ha speso in armamenti 1.000 miliardi di dollari. E' come
se a ogni abitante del pianeta fossero stati sottratti 162 dollari in un anno:
per sostenere l'industria della morte anziché il raggiungimento degli obiettivi
più volte proclamati in materia di salute e istruzione per tutti. Uno storno di
fondi verso investimenti di civiltà otterrebbe il risultato di porre fine ai
conflitti armati. Ma un recente documento dell'organizzazione ambientalista
internazionale Friends of the Earth,
ripreso e diffuso dal movimento italiano delle
Donne in nero,
concretizza nel caso Iraq la siderale distanza della realtà da qualunque
obiettivo di sostenibilità sociale e ambientale. L'organizzazione ambientalista
parte da un'incertezza: sul disastro umanitario iracheno si possono avanzare
solo stime. Ma per avere un'idea di ciò che avviene e dell'impatto sul popolo
iracheno e sul resto del mondo, è utile guardare alle informazioni sul lato
ecologico.
Del disastro ambientale - e dunque umano - in Iraq,
Terra terra si è occupata più volte. Del resto per lo stesso Programma
ambientale delle Nazioni unite (Unep), la situazione irachena è fra le peggiori
al mondo, difficile perfino da monitorare. Grande allarme anche da parte di
gruppi di scienziati iracheni. E pare che i casi di cancro e gli aborti siano
saliti di molto rispetto agli anni dell'embargo successivi alla prima guerra del
Golfo e all'uso dell'uranio impoverito da parte statunitense; uso reiterato nel
2003.
Sul lato dell'impatto globale, il documento di Friends
of the Earth offre invece calcoli precisi. L'intervento militare, ricorda
l'associazione, è visto come un modo efficace per controllare le risorse
energetiche e non solo. Ma il mantenimento in loco di eserciti con decine di
migliaia di soldati produce inquinamento chimico e consuma moltissimo
carburante. Le forze armate nel mondo consumano un quarto del combustibile
«bevuto» dagli aerei: un dato significativo, vista con l'enorme e crescente
circolazione di aerei non militari; ormai il settore dell'aviazione è
responsabile di circa il 10% dell'effetto serra. Sempre a livello mondiale, il
combustibile fossile totale necessario a fare la guerra, di terra, di cielo e di
mare, e a mantenere gli apparati bellici, provoca l'emissione di circa 2
miliardi di tonnellate di anidride carbonica all'anno: sui 22 miliardi totali.
Impossibile rispettare il pur modesto Protocollo di Kyoto se non si smette di
iniettare petrolio nelle macchine da guerra.
Negli ultimi due anni, la guerra per il petrolio è costata
200 miliardi di dollari. Friends of the Earth stima che cosa sarebbe
successo se quel denaro fosse stato destinato allo sviluppo delle fonti
energetiche alternative, quelle che possono sostituire il petrolio. Ad esempio,
si sarebbero potuti produrre 40 gigawatt di energia solare, capaci di fornire
1.000 terawatt-ora di elettricità. Un dato stratosferico, e per meglio
visualizzarlo si dirà che esso è pari a 2,5 volte il totale di energia resa
disponibile dal petrolio prodotto in Iraq in questi due anni di morte e crimini.
Oltretutto, questo aumento enorme nel numero di pannelli fotovoltaici ne avrebbe
abbattuto il prezzo da 20 a 8 centesimi di dollari e avrebbe potuto rendere
l'energia solare competitiva e più accessibile anche nei paesi poveri. Oppure si
sarebbero potuto installare dei generatori eolici in mare, producendo circa
5.000 terawatt-ora di elettricità.
Sul lato dell'effetto serra, le emissioni di CO2 si
sarebbero ridotte di circa 3.700 milioni di tonnellate (per il doppio risparmio:
niente operazioni belliche, e molta più energia alternativa a emissioni zero).
La cifra è pari a quella che occorrerebbe all'intera Ue per mantenere le proprie
emissioni all'interno dei limiti di Kyoto nei prossimi dieci anni.
22 settembre
Lo sfogo del ministro per l'inerzia
sul caso Fazio e l'assalto elettorale
alla Finanziaria. Gelido incontro con Berlusconi a palazzo
Grazioli
Siniscalco:
"Basta immobilismo
Tornerò a fare il professore"
L'ex titolare dell'Economia si dichiara "scandalizzato"
di ROBERTO MANIA
L'ex ministro
dell'Economia, Domenico Siniscalco
ROMA - "Mi dimetto per l'assoluto immobilismo del
governo. Il problema non è Fazio, ma chi è incapace di
risolvere il problema. Per questo non sono amareggiato: sono
scandalizzato". È sera quando Domenico Siniscalco non è più
il ministro dell'Economia. Anche lui come il suo
predecessore Giulio Tremonti, ha gettato la spugna dopo uno
scontro istituzionale clamoroso con il governatore della
Banca d'Italia, Antonio Fazio. Ha consegnato la lettera di
dimissioni a Silvio Berlusconi a Palazzo Grazioli, poi, a
Palazzo Chigi, ha spiegato le sue ragioni a Fini e a Letta.
Hanno provato a convincerlo a ripensarci. "No, torno a
Torino a fare il professore", ha replicato in un'atmosfera
gelida.
Il ministro ritorna solo "tecnico", diverso dai politici con
cui ha convissuto poco più di un anno. Fino a Fazio. Può
finalmente sfogarsi, salutando i suoi più stretti
collaboratori. "Fazio - attacca - è quel mostro
istituzionale, extra-repubblicano, perché qualcuno gli
permette di esserlo". È per questo che le dimissioni non
sono contro Berlusconi. Ma contro l'anomalia di un sistema
nel quale "nessun è in condizione di dire che il governatore
non ha più la fiducia del governo".
Era quello che Siniscalco aveva chiesto al Consiglio dei
ministri del 3 agosto, in piena bagarre per le
intercettazioni della magistratura. Ma lì Berlusconi non
c'era. Colpito da una improvvisa tonsillite... Il governo
rimase zitto. E allora Siniscalco, qualche giorno dopo,
scrisse la sua prima lettera (ufficiale e protocollata) al
premier. Ma ancora nulla. "La verità è che sono due visioni
del mondo. E questo Paese, in questo momento, ha bisogno del
massimo di credibilità. Questa vicenda - davvero - ha
colpito direttamente al cuore la credibilità del nostro
sistema finanziario".
Lo vedremo da oggi a Washington: Raghuram Rajan, capo
economista dell'Fmi, davanti a 160 Paesi, parlerà solo della
perdita di reputazione dell'Italia. Non di altro, purtroppo.
E a Washington, invece, ci sarà - diceva uno stretto
collaboratore del ministro - "l'uomo più screditato della
comunità finanziaria internazionale".
La Finanziaria c'entra poco, nella scelta di Siniscalco.
Anche se c'entra. Perché l'attacco di ieri dei fazisti (dal
collaudato Ivo Tarolli al new comer Roberto Calderoli) non a
caso è partito proprio dalla Finanziaria, con quella strana
distribuzione di Tarolli delle ipotesi tecniche della
Ragioneria ai giornalisti in Parlamento.
Tutte soluzioni tecniche, tutte senza alcun vaglio politico
del ministro del Tesoro. Tutte usate per attaccare il
ministro. Tanto che solo poco arriverà il fuoco leghista:
"La Finanziaria non va riscritta, va scritta", gridava
Roberto Calderoli, ministro del Carroccio, mentre il collega
Roberto Maroni andava a fare visita a Via Nazionale,
uscendone soddisfatto. "Abbiamo parlato delle cose nostre,
istituzionali".
"E io - ragionava Siniscalco - me ne vado per Fazio ma anche
per una Finanziaria elettorale". Che lui, l'ex ministro
tecnico, non avrebbe mai sottoscritto. "E poi, la
Finanziaria è pronta, è scritta. Ce l'hanno tutti e chi
afferma il contrario sa di dire il falso".
Ce l'ha con i fedelissimi del governatore, Siniscalco. E i
silenzi dei Palazzi. "Ma come - insiste - Fazio (dice
proprio così l'ex ministro pensando a Tarolli, ndr) Fazio
attacca la Finanziaria e nessuno dice niente. In giro vedo
solo pigmei da gran premio. E tanta ambiguità".
Siniscalco ha capito che doveva accelerare al sua scelta
(aveva già detto "o io o lui") quando si stava stringendo la
morsa sul suo dicastero. A Letta e Fini ha spiegato che
"ogni materiale ha una prova di torsione". "Può reggere - ha
insistito - ma fino ad un certo punto. E quando si rompe, si
rompe. Io ho superato il punto di rottura".
Gli ha ridetto che già nella prima lettera era chiaro ciò
che bisognava fare. Da una parte le pressioni dei mercati
internazionali, dall'altra i silenzi dei Palazzi romani. "La
seconda lettera (quella di ieri, ndr) non è negoziabile".
Non c'è alternativa alle dimissioni se non farsi stritolare
da qui alle elezioni. "E poi: cosa potevo negoziare? Un
posto da deputato nel collegio del Piemonte Sud? No, non mi
interessa. Questa è stata la mia forza da ministro del
Tesoro. No - ripete anche con i suoi - torno a fare il
professore a Torino. Davvero non ne potevo più: un giorno mi
dicevano che erano d'accordo con me, il successivo che però
non si poteva fare nulla, poi nulla, infine mi chiedevano
scusa".
Siniscalco ha provato a salvare la
credibilità dell'Italia, ci ha messo la sua faccia
all'ultima riunione dell'Ecofin di Manchester. "Perché -
dice - nei Paesi normali i governatori della banche centrali
hanno 45 anni e quando arriva la telefonata del governo,
scattano". Questo Paese non piace al tecnico Siniscalco. "Ho
chiesto in tutti i modi di impedire i danni. Ma l'ambiguità
continua. Vedo incontri, messaggi. Cose che non capisco, ma
che ci sono. E allora meglio tagliare corto. No, non mi
piace un Paese nel quale una grande banca straniera per
venire ad investire i suoi soldi deve chiedere il permesso
di Luigi Grillo. No, non ci voglio stare".
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21 settembre
Storie d'Italia
GUGLIELMO RAGOZZINO
Ciampi è un tipo un po' fumino, come si dice in Toscana. Non
a caso ieri ha ricevuto la maglia della sua squadra, il Livorno: tutta gente
fumina. Era già un po' di giorni che la sfuriata stava montando, contro i
cardinali che mettono bocca. Ora è arrivata. Ieri erano 135 anni che Roma - Roma
ladrona, Roma capoccia, Roma-città-aperta, forzaroma: come vi piace - è libera.
Liberata dal potere temporale dei papi. L'unico a ricordarsene è stato il
vecchio azionista, Carlo Azeglio Ciampi, il presidente della repubblica. Tutti
gli altri politici avevano altre gatte da pelare, gatte importanti,
evidentemente. E poi cerimonie, incontri, discussioni. Non un attimo di tempo,
tranne i radicali, per andare a Porta Pia. E soprattutto è rischioso scontentare
il temuto cardinale che ormai imperversa costantemente sulle nostre scelte,
commenta quel che facciamo e non rinuncia a dire la sua. La libertà di Roma era
il punto di arrivo di una lunga storia, una storia comune di noi italiani.
Ciampi, per ricordarla e per ricordare le insidie alla libertà di oggi, ha fatto
deporre una corona davanti al monumento che ricorda la breccia di Porta Pia e
poi ha parlato ai ragazzi delle scuole e ha cantato con loro l'inno di Mameli.
Di colpo si sono trasformati i versi bruttini di un ragazzo di vent'anni, venuto
da Genova e ferito a morte per difendere la repubblica romana, attaccata per
conto di Pio IX, il papa di allora, dall'esercito francese, commemorato da
Fazio. Ma Ciampi nella sua giornata felice, non si è limitato ai fiori e a
cantare l'inno di Mameli. Ha anche fatto ai ragazzi delle scuole un discorso
eversivo, un discorso di verità: «mentre cantavamo insieme, il mio pensiero è
corso alla data di oggi: 20 settembre 1870, Roma capitale dell'Italia unita, il
compimento del sogno risorgimentale». E il segretario Ruini, cardinale di Santa
romana Chiesa, è servito. Dovrà tener conto che in Italia c'è chi è contro le
sue interferenze e non ha paura di dirlo in pubblico. A sera, la radio vaticana
parla della giornata di Ciampi, ma censura Mameli e Porta Pia e parla soltanto
degli scolari (presumendo che siano tutti nati e cresciuti in famiglie
regolari).
Il raduno, un po' nazional-popolare, di bambine e bambini con le bandierine, di
colpo diventa, per via di Ciampi, un fatto politico, l'unico di oggi che valga
la pena di essere ricordato. Certo non è Berlusconi che dice villanie agli
alleati la novità sensazionale.
Ancora Ciampi parla ai bambini: «tendiamo la mano ai giovani stranieri che
vivono in mezzo a noi. La scuola contribuirà a renderli cittadini responsabili
della repubblica...ognuno di noi ha l'occasione di dare il proprio contributo
alla comprensione e al rispetto reciproci...». Questo è l'insegnamento della
repubblica, la forma della democrazia, la scelta della difficile pace. E deve
valere per tutti: i cardinali, le maestre, i bambini, i politici distratti.
20 settembre
Colti, pagati poco e senza garanzie
Ecco i 300.000 della partita Iva
ROMA - Sono
quasi 300.000, in aumento dopo l'introduzione della legge Biagi, per oltre due
terzi hanno tra i 30 e i 40 anni e un livello alto di istruzione e di
professionalità, sono spesso insoddisfatti (si dichiara tale il 48,2% degli
uomini e il 53,2% delle donne). Sono i collaboratori professionisti con partita
Iva. Una ricerca del Nidil-Cgil in collaborazione con l'Ires, il centro di
ricerca del sindacato guidato da Guglielmo Epifani, ne traccia un ritratto,
attraverso un campione degli iscritti al Fondo Inps per i parasubordinati.
Nell'ultimo anno gli iscritti al Fondo sono cresciuti del 10%, soprattutto
perché, dopo l'entrata in vigore della legge Biagi, è stato il datore di lavoro
a chiedere l'apertura della partita Iva.
Il 60,7% delle persone considerate hanno almeno la laurea o la specializzazione
mentre il 10,4% può contare su un diploma universitario. Le donne in media sono
più istruite degli uomini con il 71,3% del totale che ha almeno la laurea. Il
57% fa un lavoro completamente coerente con il proprio titolo di studio ma
spesso la condizione del collaboratore non consente di costituirsi una famiglia.
Il 76,1% del totale, infatti, non ha figli (il 91,5% fino ai 35 anni) mentre
oltre il 29% vive con i genitori o con amici e parenti.
E' infatti difficile costituire una famiglia dati i bassi livelli di reddito che
queste attività comportano: quasi il 40% del campione guadagna meno di 1.000
euro al mese, indipendentemente dall'impegno orario. Solo il 7% del campione
guadagna oltre i 2.000 euro al mese mentre il 42,7% può contare su un'entrata
tra i 1.000 e i 1.300 euro al mese.
Guadagnare poco non significa lavorare altrettanto. L'orario medio per le classi
di reddito tra gli 800 e i 1.300 euro è molto vicino a quello dei lavoratori
dipendenti con 39,6 ore a settimana mentre nel caso di entrate superiori a 1.500
euro al mese gli orari medi superano le 43 ore.
Non solo: la maggior parte dei collaboratori con partita Iva ha una posizione
abbastanza simile a quella del lavoratore dipendente: infatti il 39,4% ha un
unico committente mentre il 43,4% ha un committente principale anche se poi
conta su altre consulenze.
La monocommittenza è frequente soprattutto nel gruppo degli under 30 (il 60,9%
anche se è presente anche nel gruppo dei meno giovani. La stragrande maggioranza
dei professionisti monocommittenti lavora presso la sede dell'azienda (75%) e
deve garantire una presenza oraria (70%) per lo più quotidiana (55%).
Alta la percentuale degli intervistati che si percepisce lavoratore dipendente
non regolarizzato (il 43,5%) piuttosto che libero professionista vero e proprio
mentre la maggior parte delle persone considerate ha aperto la partita Iva non
per scelta, ma come condizione legata al tipo di professione (37%) o imposta dal
datore di lavoro (38%).
Gli intervistati lamentano la mancanza di tutele sociali a partire da quelle
previdenziali (la copertura è considerata inadeguata), e da quelle sulla
malattia e la maternità. Il 40% del campione comunque preferirebbe un lavoro
dipendente, percentuale che sale al 52,2% tra chi ha meno di 29 anni.
14
settembre
IL COMMENTO
L'ultima legge ad personam
di EZIO MAURO
QUANDO dicevamo che l'agonia politica
di Berlusconi sarà una stagione terribile, in cui maturerà il
peggio, non immaginavamo questo: un cambio in corsa delle regole del
gioco a pochi mesi dal voto, con un ribaltone improvviso dal
maggioritario al proporzionale e una nuova legge elettorale tagliata
a colpi di maggioranza sulle esigenze del centrodestra, come un
doppiopetto del Cavaliere.
Dieci anni di maggioritario, un sistema che ha saputo garantire per
due volte l'alternanza al potere della destra e della sinistra,
vengono dunque bruciati in un falò privato ad Arcore, sacrificati
all'incapacità delle forze del Polo di trovare una ragione politica
per stare insieme.
Il risultato è paradossale. Divisi su tutto e separati in casa, Udc
e Forza Italia ricorrono alla superstizione estrema del
proporzionale, ma lo fanno con due progetti politici opposti e
inconciliabili. Casini e Follini vogliono cambiare la legge
elettorale per riprendere piena libertà di movimento e liberarsi per
sempre di Berlusconi. Il Cavaliere concede il cambiamento per la
ragione opposta: imprigionare ancora i centristi in questa campagna
elettorale, fingendo che l'intesa possa continuare, e la sua
leadership anche.
In realtà è l'istinto della fine che guida l'azzardo di Berlusconi.
Poiché in questo paesaggio politico, istituzionale, normativo, ha
già perso, il Cavaliere prova a cambiare quadro e paesaggio.
Annunciando di essere pronto a ogni forzatura, anche nelle regole.
La prima è una legge disegnata sulle esigenze attuali del Polo, che
trasforma in handicap elettorale la morfologia del centrosinistra.
Con lo sbarramento al quattro per cento, com'è noto, i piccoli
partiti (come i Verdi, i Comunisti Italiani, lo Sdi, il movimento di
Di Pietro) portano voti alla coalizione cui appartengono, ma non
prendono seggi. Ed ecco che nella nuova legge elettorale il premio
di maggioranza non va alla coalizione che prende più voti, ma più
seggi, in modo che se anche l'Unione confermerà i sondaggi vincendo
con una larga maggioranza di voti, potrebbe trovarsi con questo
artificio minoranza in Parlamento.
Prodi e i suoi hanno già parlato di "legge truffa". In realtà è
un'altra legge ad hoc, ad personam, nel solco del quinquennio
berlusconiano. L'Udc deve aver avuto un soprassalto di vergogna,
perché ha annunciato che in Parlamento correggerà la norma, in
quanto vuole "vincere senza barare".
Dunque è una legge da bari, quella che arriva alle Camere. Non
occorre dire altro. Salvo chiedere a Follini e Casini se è questa la
cultura centrista, istituzionale e moderata, che hanno decantato per
tutta l'estate. Ricordare a Fini che solo pochi anni fa si batteva
per il maggioritario. E consigliare a Berlusconi di non travolgere
regole e istituzioni nel vortice della sua disfatta, perché la
repubblica gli sopravviverà, anche se per lui è inconcepibile.
13
settembre
L'agonia dell'Onu
TARIQ ALI
La conferenza dell'Onu per discutere la riforma
dell'organizzazione vedrà la più grande assemblea di leader mondiali che si sia
mai tenuta. Ciò avverrà mentre il segretario generale è coinvolto in uno
scandalo familiare per corruzione. Kofi Annan, insomma, è in una situazione
molto difficile. Proprio come l'organizzazione che guida. Tutti concordano sul
fatto che riformare le Nazioni unite è essenziale. Pochi concordano su quali
debbano essere queste riforme. L'élite ereditaria che governa il Consiglio di
sicurezza versa chiaramente in gravi condizioni e necessita di una cura. Il
Consiglio di sicurezza dovrebbe essere abolito o allargato? La promessa di
allargamento ha portato a una competizione indecorosa. La Germania vuole fare
parte del Consiglio di sicurezza, ma l'Italia (incoraggiata dagli Usa) si
oppone. Gli italiani sono venuti allo scoperto e hanno denunciato la
subornazione di fondi di alcuni stati africani per sostenere la loro richiesta
di un seggio al tavolo più ambito. Altri suggeriscono che al Consiglio di
sicurezza l'Ue dovrebbe avere un singolo rappresentante a rotazione. La Francia
e la Gran Bretagna si oppongono.
Gli Usa vogliono che il Giappone diventi un membro permanente del Consiglio di
sicurezza. La Cina si oppone: sarebbe soltanto un altro voto per gli Usa, dato
che dal 1945 al Giappone non è consentita una politica estera autonoma. L'India
vuole un seggio permanente, ma il Pakistan dice: siamo anche noi una potenza
nucleare. Il Brasile e il Sudafrica vogliono entrare. Si sono comportati bene
per quanto concerne Washington, ma... Ciò che rende tutto questo più patetico
che mai è il servilismo dei tedeschi, dei brasiliani, dei giapponesi e degli
indiani. Desiderano talmente entrare, che sono felici di accettare uno status
subordinato, senza diritto di veto. E così le dure lotte di potere procedono
dietro le quinte oscurando alcune delle vere questioni in gioco. Quali?
È impossibile capire il processo di riforma odierno senza guardare al momento
fondativo dell'organizzazione. La Carta e la struttura delle Nazioni unite
furono concordate dopo la seconda guerra mondiale. Furono dettate dagli Stati
uniti e accettate dalla coalizione delle grandi potenze che aveva vinto la
guerra. Un'eccellente ricostruzione di come è stata fondata l'Onu la si può
trovare in Act of Creation: The Founding of the United Nations, il
brillante saggio storico di Stephen C. Schlesinger, caldamente raccomandato come
antidoto per coloro che ancora credono che l'Onu sia figlia dell'idealismo.
Schlesinger, professore presso la New School di New York, fa piazza pulita dei
sentimentalismi e chiarisce che l'Onu fu una creatura americana, e che Roosvelt
e Truman imposero il loro punto di vista praticamente su tutte le questioni.
Churchill brontolò, Stalin contrattò, ma Truman vinse.
Il tentativo successivo alla prima guerra
mondiale si era tradotto nella Lega delle Nazioni. Anch'essa era stata il
risultato dell'iniziativa Usa, e Woodrow Wilson aveva persino sperato di usarla
come strumento contro gli isolazionisti più irriducibili in patria, ma furono
questi ultimi ad averla vinta. Gli Usa non ne fecero parte. La Lega delle
Nazioni si sarebbe dovuta chiamare, più appropriatamente, la Lega delle Nazioni
Imperiali, perché quasi tutto il mondo, all'epoca, era occupato o controllato
dalle potenze imperiali: la Gran Bretagna, gli Usa, la Francia, la Russia, il
Giappone. In quella guerra i giapponesi avevano combattuto sul lato vincente.
Scopo dei fondatori della Lega era impedire che le dispute inter-imperiali sulle
colonie si trasformassero in guerre, che avrebbero avuto un effetto devastante
sul commercio imperiale. Fu un fallimento. Il suo scopo era fermare una nuova
guerra ma, con l'ascesa di Mussolini e Hitler, la Lega non riuscì a impedire gli
attacchi preventivi degli italiani contro l'Albania e l'Abissinia. Mussolini
sostenne, usando una retorica non dissimile da quella utilizzata dagli
interventisti di oggi, che l'Italia aveva bisogno di un impero e che la civiltà
occidentale era necessaria per modernizzare i dispotismi feudali. Hitler occupò
la Renania, minacciando direttamente la Polonia e la Cecoslovacchia. È per
questa ragione che la Carta delle Nazioni unite conteneva una forte presa di
posizione contro gli attacchi preventivi e, in un mondo sempre più
post-imperiale, sottolineava l'inviolabilità della sovranità nazionale.
Le eccezioni erano previste, e furono espresse chiaramente nell'Articolo 51:
«Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di
autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato
contro un membro delle Nazioni unite, fintantoché il Consiglio di sicurezza non
abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza
internazionale. Le misure prese da membri nell'esercizio di questo diritto di
autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di sicurezza e
non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il
presente Statuto, al Consiglio di sicurezza, di intraprendere in qualsiasi
momento quell'azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la
pace e la sicurezza internazionale».
Durante la guerra fredda, l'Onu fu usata dagli Usa per intervenire nella guerra
civile coreana, ma fu ridotta a puro osservatore quando gli Usa invasero il
Vietnam, e quando l'Unione sovietica inviò le sue truppe per sedare le rivolte
in Ungheria (1956) e in Cecoslovacchia (1968). Né ha potuto difendere i diritti
umani dei cittadini in Cile, Brasile, Argentina, Indonesia, Pakistan o Turchia.
Quando dei membri del Consiglio di sicurezza hanno scatenato guerre e
occupazioni, l'Onu è stata impotente.
Nel muovere guerra all'Iraq, gli Usa e la Gran Bretagna non hanno invocato il
diritto all'«autotutela» ma i falsi dossier, le bugie ripetute, le vendette
contro i giornalisti che hanno rivelato o messo in discussione le falsità nella
fase di preparazione alla guerra miravano a spaventare un'opinione pubblica
scettica facendole credere che un regime militare indebolito rappresentasse una
minaccia.
Ricordate l'«allarme dei 45 minuti», il contributo speciale di John Scarlett e
Tony Blair allo sforzo bellico? Mentre la guerra iniziava, l'Onu non ha fatto
niente. Una volta che Baghdad è stata occupata, una risoluzione del Consiglio di
sicurezza ha accettato la nuova situazione e ha riconosciuto il governo
fantoccio. Quando Pol Pot fu rovesciato da un vicino clemente, l'Onu impiegò 12
anni a rimuovere l'uomo di Pol Pot. Lo stato dominante, allora come oggi, sono
gli Usa. Di solito succede quello che vogliono loro. È sciocco fingere che non
sia così.
Nella guerra del «bene contro il male», come l'ha caratterizzata George Bush,
che ruolo può avere l'Onu, ammesso che possa averne uno? Questa questione è il
vero cuore del dibattito. Come può la potenza americana (o, secondo la
formulazione dello speechwriter di Blair, «la dottrina della comunità
internazionale») essere legittimata attraverso una serie di nuove norme
internazionali? L'Articolo 51 e la Carta dovrebbero essere emendati in modo da
prevalere sulla sovranità nazionale e salvare vite umane in caso di «disastri
umanitari» (naturalmente, senza essere applicabili a New Orleans, dove i
difensori dei diritti umani in uniforme hanno già imposto una politica di «spara
per uccidere» proprio come i «peace-keeper» dell'Onu ad Haiti)? Chi deciderà
dove la «democrazia» colpirà la prossima volta per portare stati recalcitranti
nella sfera di coprosperità? Certamente non l'attuale Commissione Onu per i
diritti umani piena di dissidenti, alcuni dei quali pensano in realtà che le
nuove misure di emergenza in Gran Bretagna violino il codice dell'Onu contro la
tortura.
Questa Commissione dovrà essere eliminata e sostituita da un Consiglio dei
Diritti Umani, la cui composizione sarà determinata da... sì, dal Consiglio di
sicurezza, sostenuto dai team legali degli Usa e della Gran Bretagna. Oh, che
meravigliosa miniera d'oro per la professione legale potrebbe essere questa! E,
osiamo pensare, potrebbe garantire al nostro primo ministro un lavoro ben
remunerato dopo che si sarà ritirato.
Le uniche riforme significative sarebbero abolire la camera ereditaria dando
tutto il potere (specialmente se si tratta di decidere quando andare in guerra)
all'Assemblea generale, e spostare la sede da New York a Caracas, Kuala Lampur,
Shanghai o Città del Capo, in riconoscimento del fatto che il grosso del mondo
teoricamente rappresentato dall'Onu vive nel Sud. Questo non succederà. Si
potrebbe dunque tornare a una versione emendata del suggerimento di Winston
Churchill del 1945: una struttura regionalizzata con un Consiglio delle
Americhe, un Consiglio d'Europa e un Consiglio dell'Asia orientale, ma ora si
potrebbe aggiungere a questi un Consiglio dell'Asia meridionale, un Consiglio
dell'Africa e un Consiglio del Medio Oriente. Ciò non ridurrebbe il potere degli
Usa immediatamente ma, almeno, fornirebbe una forte struttura di voto regionale,
proporzionata alla popolazione.
Qualsiasi riforma reale richiederebbe il ritiro dall'Onu di molti stati
importanti del Sud per imporre un cambiamento dello status e della composizione
del Consiglio di sicurezza, e un trasferimento non ambiguo di potere
all'Assemblea generale; e, in caso di fallimento, un passaggio ai consigli
regionali. La maggior parte dei leader non verranno alla Conferenza come «pari»,
ma come postulanti. 190 stati membri. Una presenza militare statunitense in 121
stati. Le Nazioni Unite d'America?
8 settembre
MONDO
GUERRA E INFORMAZIONE / IL FENOMENO DEI 'MILBOG'
Ultima trincea Internet
I
militari Usa al fronte iracheno scrivono diari in Rete sulla loro vita
quotidiana. Pagine amare e molto diverse dalle verità ufficiali. Il
Pentagono si infuria. E impone la censura
di
Alessandro Gilioli
Dal 2
agosto scorso sul blog del soldato Leonard Clark è rimasta solo una
finestra bianca con la scritta 'sito chiuso'. Inaccessibile l'archivio,
azzerati i commenti. Il soldato Leonard, impegnato sul fronte iracheno,
è stato censurato, degradato e multato "per aver rivelato notizie
riservate". E' l'ultimo atto di una guerra nella guerra: quella tra i
militari americani in Iraq che raccontano nei blog la loro vita
quotidiana e i vertici dell'esercito Usa, inquietati da un fenomeno in
rapida crescita. Solo dall'Iraq i 'milblog' (abbreviazione di
blog militari) sono almeno un centinaio. Poi ci sono i soldati in
licenza, quelli congedati, fino a quelli che si trovano nelle seconde o
terze linee o in altre basi Usa in giro per il pianeta. E così via.
Fino a pochi mesi fa il Pentagono si mostrava abbastanza tollerante o
forse solo disinteressato. Ma ultimamente ha cambiato politica. E ha
imposto a tutti i blogger militari in Iraq di registrarsi alla loro
unità: i comandanti sono incaricati di fare controlli ogni tre mesi per
assicurarsi che i milblogger non stiano "violando le norme operative
della sicurezza o la privacy", come recita l'ordine ufficiale. A
Washington è stata anche creata una 'cellula di valutazione' per far
applicare le nuove regole. Sono seguiti i primi oscuramenti di siti,
come quello del soldato Clark, che descrivevano troppo nei dettagli la
vita al fronte.
Del resto a scorrere il panorama dei milblog ci si rende subito conto
che il cyberspazio in trincea crea non solo un'informazione alternativa
ai comunicati ufficiali, ma anche dibattiti, confronti d'opinioni, a
volte perfino domande sul senso della missione. Certo, non mancano
pagine su come abbattere un M16 o forum sul modo migliore per corazzare
gli Humvee, ma si trova anche molto altro. C'è ad esempio chi, come il
soldato Michael, si trova
a Ramadi e racconta nei dettagli "la puzza, le pozzanghere, il fango" in
cui vive: "Tra i cumuli di spazzatura marcia e di acqua merdosa si
vedono cani, gatti, perfino bovini che mangiano ogni schifezza. Un altro
giorno ordinario nella culla dell'inciviltà", scrive Michael. Dal cui
diario emergono mille frustrazioni, una certa sensibilità e,
soprattutto, una gran paura dei cosiddetti Ied (acronimo di Improvised
Explosive Devices), le bombe piazzate ai lati delle strade che ogni
giorno fanno stragi di militari Usa. Lo stesso terrore che traspare dai
post del fante di 22 anni autore di
Boots in Baghdad,
che scrive: "Nessuna parola al mondo può descrivere la sensazione che
provi quando un colpo di mortaio finisce a pochi metri da te... Ci sono
esperienze che, per quanto uno si sforzi di spiegarle, non possono
essere capite se non le hai provate".
Un altro blogger soldato, Colby Buzzel, 28 anni, primo battaglione,
ventitreesimo reggimento, ha provato a raccontare una battaglia vissuta
in prima linea: quella di Mosul, nell'agosto dell'anno scorso. Molti
dettagli cruenti, l'ammissione di civili uccisi, perfino una
contestazione dei numeri forniti dalla Cnn (che aveva parlato di soli 12
morti): alla fine a Colby è arrivato un richiamo del Pentagono che lo ha
costretto a sospendere il blog fino al congedo. Ora lo ha ripreso
(http://cbftw.blogspot.com) e chi lo clicca trova subito un'immagine che
fa capire l'opinione dell'ex soldato Colby: è Guernica, il quadro di
Picasso sui massacri nella guerra civile spagnola. Dal suo lavoro in
Rete ora Buzzel ha tratto un libro ('My war: killing time in Iraq') che
uscirà in America il prossimo ottobre.
Per molti militari blogger, tuttavia, il problema principale non è tanto
ammazzare il nemico, quanto ammazzare il tempo. Se ad esempio si è
bloccati nella zona meridionale di Baghdad, nella polvere di Camp Falcon,
e ci si occupa soltanto di rifornimenti di cioccolato o di carta
igienica, è chiaro che dal sito emergeranno soprattutto nostalgia e
stanchezza: è il caso di Danjel Bout, un capitano di 32 anni, di Los
Angeles, ufficiale addetto alla logistica, terza divisione di fanteria.
Danjel, che spiega di essere entrato nell'esercito per pagarsi il
college, tiene un blog con il nome di
Thunder 6
e al pc si lascia andare a descrizioni vagamente letterarie: "Sonno:
benedetto, beato, meraviglioso sonno. Latte materno. Un intero raccolto
in tempo di carestia. Il sonno: questa è la droga preferita da queste
parti, sempre agognato. Se la rarità è l'unità di misura per dare valore
a qualcosa, allora qui in Iraq il sonno ha un prezzo incommensurabile.
Quando la mia mente scivola via tra lo stato di veglia e il mondo dei
sogni, la giornata sembra sciogliersi come in un dipinto di Dalí,
lasciandomi soltanto dolci sogni di miele della mia altra vita, quella
lontana dai paesi arabi".
Tutt'altro spirito anima un blog tenuto da tale
Neil Prakash,
tenente di primo grado con limpide simpatie di destra e un'anima gonfia
di orgoglio militare. Figlio di due dentisti indiani, naturalizzato
americano, cresciuto nello Stato di New York e laureato in Scienze
neurologiche, nel suo blog palesa entusiasmo per essere entrato nelle
forze armate: "Nella mia vita dovevo scegliere tra essere al comando del
miglior gruppo di uomini al mondo o ritrovarmi in un cubicolo della Dell
Computer di Bangalore a spiegare al telefono ai clienti americani come
si fa a formattare un disco fisso", scrive sarcastico. E si prodiga in
descrizioni un po' spaccone delle battaglie combattute e vinte, come
quella di Falluja dell'aprile 2004.
Simile a Prakash è Matt 'Blackfive',
ex agente dell'intelligence ed ex paracadutista, da poco tornato a
Chicago dopo aver servito un anno in Iraq. Il suo sito è uno dei più
conservatori e guerrafondai, e forse proprio per questo è stato eletto
dai commilitoni come il migliore milblog del 2004. Il forum è pieno di
commenti polemici sulla partigianeria dei media, soprattutto quelli più
pacifisti. Visto il successo, Matt ha deciso di tenere in piedi il sito
anche dopo essere tornato in America e ha aggiunto una sezione di
annunci economici sul quale impazzano le vendite di gadget e articoli di
propaganda anti-liberal. Ci sono foto di ragazzone sexy che imbracciano
armi potenti e link a libri e film ultraconservatori. Blackfive vende
anche una t-shirt (per cinque dollari) il cui ricavato è devoluto
all'associazione Soldier's
Angels che aiuta i soldati Usa reduci o feriti nel conflitto
iracheno. Matt però non vuole far sapere il suo cognome: ora lavora come
informatico in un'azienda privata e non pensa che i suoi capi
approverebbero il suo blog un po' estremista. Che però resta un punto di
ritrovo frequentato, con una media di 5 mila visite individuali al
giorno. Secondo il settimanale conservatore 'National Review', il suo
sito viene letto regolarmente nei think tank più importanti degli Usa.
Un altro blog assai popolare tra i graduati è la 'Mudville
Gazette, redatta negli Usa da un veterano, ma aperta ai
contributi dei militari al fronte, così come il sito
Doc in The Box
curato dagli Usa dall'appassionato milblogger Sean Dustman.
Molto seguito a Washington, ma per tutt'altri motivi, è anche il blog di
Zachary Scott,
sergente e traduttore dall'arabo di stanza a Tikrit: i vertici del
Pentagono lo tengono nel mirino perché si fa un po' troppe domande, ad
esempio sui livelli di uranio impoverito presenti nell'Iraq meridionale
o sul modo in cui molti civili iracheni vedono gli americani "non
liberatori, ma invasori". A volte i suoi racconti sono quasi
minimalisti: "La notte era silenziosa. Poi il silenzio è rotto da
un'esplosione. Un altro uomo-bomba suicida". Pochi giorni fa Zachary ha
rivelato: "Ho appena finito di parlare con due soldati delle Special
Forces. Dicono che secondo loro qui in Iraq stiamo perdendo. E che ci
rimmarremo dai 10 ai 30 anni. Se anche le nostre truppe scelte vedono
questa cupa realtà, perché non riuscite a vederla anche voi in
America?". Di evidenti simpatie pacifiste, il traduttore Scott si
cautela con una scritta in cima al suo sito: "Tutte le opinioni espresse
in questo blog sono pareri personali di un soldato e non coinvolgono in
alcun modo l'esercito americano".
Per ora, comunque, Zachary è ancora on line. Non altrettanto bene è
andata a Michael Cohen,
maggiore e medico nell'ospedale militare americano di Mosul, che invece
è stato costretto a chiudere. Quella di Cohen è la storia di un soldato
appassionato di tecnologie, che a Mosul era riuscito addirittura a
trasfomarsi in una specie di provider, impiantando un collegamento a
banda larga con un'antenna satellitare fatta venire apposta dalla
Germania. In poco tempo aveva creato un piccolo network grazie al quale
i commilitoni, feriti e non, potevano fare un po' di tutto: parlare via
webcam con le famiglie a casa, chiacchierare con gli amici in instant
messaging, scaricarsi filmini porno. Poi Cohen ha iniziato a scrivere un
blog sul network da lui stesso creato. All'inizio lo usava soltanto per
tenersi in contatto con la famiglia e gli amici, ma quando nel dicembre
scorso dalle sue parti un attentatore si è fatto saltare in aria
uccidendo 22 persone, Cohen ha iniziato a descrivere in dettaglio
durante l'emergenza creata dalla carneficina: "Il laboratorio ha
organizzato una raccolta di sangue perché le scorte sono al limite. La
farmacia prepara freneticamente le soluzioni da iniettare in vena. La
radiologia scatta lastre una dietro l'altra e la Tac è in funzione
ininterrottamente. Noi laviamo e ingessiamo le fratture. Abbiamo
inserito non so quanti cateteri toracici. Il numero dei pazienti
attaccati ai respiratori e ai ventilatori meccanici è molto alto, così
il rumore nell'unità di terapia intensiva è diventato fortissimo e per
parlarci dobbiamo gridare. In tutto sono arrivati 91 pazienti. Diciotto
erano già cadaveri. Altri quattro sono morti appena arrivati, avevano
ferite troppo gravi per sopravvivere. Dei 69 rimasti, 20 sono stati
trasferiti ad altri ospedali militari e qui ne sono rimasti 49". Pochi
giorni dopo questo post, Cohen è stato chiamato da un superiore:
"Qualcuno nella catena di comando pensa che quello che scrivi nel tuo
blog violi le leggi dell'esercito", gli ha detto. Il soldato medico e
blogger ha obbedito e ha chiuso il suo sito. Dopo un po' è stato
trasferito in Germania. Oggi chi clicca il suo indirizzo Web trova un
messaggio di saluti e di scuse. Daniel ribadisce comunque di essere
"orgoglioso di aver fatto il medico militare in Iraq, prendendosi cura
di donne e uomini coraggiosi che combattono per la libertà
dell'America". Il Pentagono, interrogato sulla censura imposta a Cohen,
ha risposto che "i blog dei soldati non devono rivelare alcuna
informazione sui feriti che possa angosciare le loro famiglie, né
dettagli che possano compromettere la sicurezza".
Anche il sito del riservista
Jason Hartley, ha provocato un intervento abbastanza duro da
parte dei vertici. Hartley, di stanza nella città di Ad Dujayl, si
esprimeva con un linguaggio un po' crudo che probabilmente non
corrispondeva all'immagine del militare americano felice di esportare la
libertà e la democrazia: "Essere un soldato significa vivere in un mondo
di merda. Dai frocetti che preparano il mio pasto o lavano la mia
biancheria ai piloti degli Apache fino ai Berretti verdi che si occupano
di tutta la parte hollywoodiana, le nostre vite sono costantemente in
uno stato di rottura di palle", scriveva. L'estate scorsa il Pentagono
ha imposto a Hartley di chiudere bottega. Lui per un po' ha obbedito, ma
pochi mesi dopo, senza chiedere permesso, ha ripreso a scrivere on line.
A quel punto il blog è stato chiuso di forza e Jason è stato arrestato e
degradato per aver disobbedito a un ordine specifico. Hartley ha deciso
di non fare appello, si è congedato ed è ritornato alla vita civile.
Anche lui ha tratto dal suo blog un libro, in uscita il mese prossimo da
HarperCollins con il titolo 'Just An Other Soldier: A Year in the Ground
of Iraq'.
Chi invece non potrà mai più raccontare storie di alcun tipo è il
soldato blogger
Francisco Martinez, 21 anni, di Fort Worth, Texas. Un
cecchino gli ha sparato il 20 marzo scorso, a Tamin, in Iraq. Il suo
sito (www.freekdesigns.com) è stato tolto dal cyberspazio. Ma se
cliccate a un altro indirizzo (http://fm5ive4ever.memory-of.com/about.aspx)
troverete tutto su di lui. è stata la sua fidanzata, Mirela, che gli ha
creato un memoriale on line.
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Lettera aperta di
Michael Moore al presidente George W. Bush
Caro signor Bush,
hai idea di dove sono tutti i
nostri elicotteri? Siamo al quinto giorno dal ciclone Katrina e migliaia di
persone sono bloccate a New Orleans e
hanno bisogno di essere portate via. Dove diavolo hai messo tutti i nostri
elicotteri militari? Hai bisogno di aiuto per trovarli? Io una
volta ho perso la macchina in un parcheggio di Sears. Wow, è stato davvero un
casino.
E poi, hai idea di dove sono tutti i nostri uomini della Guardia Nazionale? Ci
farebbero veramente comodo adesso per quel genere
di cose per le quali si sono arruolati, tipo dare una mano in caso di
catastrofe nazionale. Com'è che non erano lì?
Giovedì scorso ero nel sud della Florida, seduto all'aperto, e l'occhio del
ciclone Katrina mi è passato sopra la testa. In quel momento era
solo di categoria 1, ma è stato comunque parecchio tosto. Sono morte undici
persone e, ad oggi, ci sono ancora case senza elettricità. Quella
notte le previsioni del tempo hanno detto che la tempesta si stava dirigendo
verso New Orleans. Ed era giovedì! Non te l'ha detto nessuno?
So che non volevi interrompere le vacanze e so quanto ti dispiaccia ricevere
brutte notizie. E poi avevi degli amici che raccolgono fondi
per te da andare a trovare e delle madri di soldati uccisi da ignorare e
denigrare. Certo che gliel'hai fatta vedere!
In particolare mi è piaciuto come, il giorno dopo il ciclone, invece di
prendere un aereo e precipitarti in Louisiana, sei andato a San Diego a
far festa con i tuoi colleghi amichetti. Ma non lasciare che la gente ti
critichi per questo - dopo tutto, il ciclone era finito, e tu che
diavolo potevi fare, tamponare la falla con un dito? E non ascoltare quelli
che, nei prossimi giorni, riveleranno come quest'estate hai
puntualmente ridotto il budget del genio militare destinato a New Orleans per
il terzo anno di fila. Tu digli solo che anche se non avessi
tagliato i fondi per sistemare quegli argini, non ci sarebbero comunque stati
ingegneri dell'esercito per aggiustarli perché c'era un lavoro di
costruzione molto più importante di cui si dovevano occupare - COSTRUIRE LA
DEMOCRAZIA IN IRAQ!
Il terzo giorno, quando finalmente sei partito dalla casa delle vacanze, devo
ammettere che mi ha commosso il modo in cui hai
fatto scendere dalle nuvole il tuo Air Force One volando sopra New Orleans per
dare un'occhiata al disastro. Hey, lo so bene che non potevi
mica fermarti, prendere in mano un megafono in piedi tra le macerie e
comportarti come un comandante in carica. Quello l'hai già fatto. Ci
saranno quelli che cercheranno di politicizzare questa tragedia e di usarla
contro di te. Tu fa' in modo che la tua gente sottolinei questa
cosa. Non rispondere a niente. Anche quei fastidiosi scienziati che avevano
previsto che tutto questo sarebbe successo perché l'acqua nel
Golfo del Messico sta diventando sempre più calda, rendendo inevitabile una
tempesta come questa. Ignorali, loro e tutti i loro chiacchiericci
sul riscaldamento della terra. Non c'è niente di insolito in un ciclone tanto
grande quanto un tornado della massima forza distruttiva che si
estende da New York a Cleveland.
No, signor Bush, tira dritto per la tua strada. Non è colpa tua se il 30% degli
abitanti di New Orleans vive in miseria, o se decine di
migliaia di loro non avevano mezzi di trasporto per lasciare la città Andiamo,
sono neri! Cioè, non è mica come se una cosa del genere fosse
successa a Kennebunkport. Ti immagini, lasciare dei bianchi sui tetti per
cinque giorni? Ma non farmi ridere! La razza non ha niente - NIENTE
- a che vedere con tutto questo!
Tieni duro, signor Bush. Cerca solo di trovare qualcuno dei nostri elicotteri e
mandali là. Fa' finta che la gente di New Orleans e la
costa del Golfo del Messico siano vicini a Tikrit.
Tuo
Michael Moore
2
settembre
Speculazioni
miliardarie sugli infortuni sul lavoro |
Andrea Pasquini ha 57 anni, è un
capo reparto alle acciaierie di Piombino, prima della famiglia
Lucchini adesso in mano ai russi della Severstal. Ieri pomeriggio
stava lavorando al treno della laminazione quando la lastra
d'acciaio che stava varando si è improvvisamente staccata dal
supporto e ha terminato la sua corsa sulla gamba di Andrea,
staccandola di netto dal resto del corpo. E' il terzo infortunio
grave sul lavoro dall'inizio dell'anno alla ex Lucchini. E in Italia
si viaggia alla media di 4 incidenti mortali sul lavoro al giorno.
Sempre ieri il cda dell'Inail (l'istituto nazionale per
l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro) ha approvato
all'unanimità l'utilizzo di 1,6 miliardi di euro "avanzati" dalle
gestioni degli ultimi anni e depositati in un fondo infruttifero
presso la tesoreria dello Stato: 300 milioni alla cittadella della
polizia di Napoli, 500 milioni alla cittadella della scienza di
Milano e altri 1. 000 all'istituzione di 3 campus universitari da
inaugurare il 6 settembre alle spalle dei 3 atenei di Roma. La prima
infrastruttura, ideata a metà novembre 2004 dal ministero
dell'Interno in accordo con il Presidente della Regione Campania
Antonio Bassolino, il sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino,
Fintecna, Agenzia del demanio, Azienda Monopoli di Stato e la stessa
Inail è, citando pari pari dal sito del Viminale «un'area di oltre
180mila metri quadrati ubicata nell'ex manifattura dei tabacchi di
Napoli, che ospiterà spazi addestrativi, poligono di tiro, palestra,
eliporto, mensa (con 1.500 posti), auditorium (per 700 persone) e
uffici per raccogliere un totale di 4mila addetti. Un parco auto per
2mila automezzi, un centro per la raccolta di materiale di ricambio,
un'area per i mezzi di servizio e parcheggi interrati. Alloggi,
foresteria e camerate per mille persone». Il secondo è un centro di
ricerca scientifica che raggrupperà, e questa volta la fonte è il
sito della Regione Lombardia, «i tre principali istituti milanesi
operanti nell'oncologia (IEO - il polo oncologico dell'ex ministro
Umberto Veronesi, Ndr), cardiologia (Monzino) e neuroscienze (Besta
II) per la ricerca biomedica avanzata». Fra gli altri progetti
approvati dai consiglieri dell'istituto per il triennio 2006-2008 ci
sono, per esempio, gli acquisti della Dia di Roma e degli uffici
della polizia di Stato per 247 milioni di euro.
Niente che eluda il regolamento, perché l'Inail può spendere in
investimenti immobiliari fino al 55% del disavanzo di gestione. Ma è
una questione di priorità, perché questi sono i soldi pagati da
lavoratori ed imprese per avere sicurezza e assicurazioni nei luoghi
di lavoro: «Niente in contrario al fatto che l'Inail possa essere un
investitore istituzionale, ma prima andrebbero verificate altre
questioni, cioè il rapporto con i lavoratori e le imprese e la
sicurezza - attacca Morena Piccinini, segretaria confederale della
Cgil - Se poi questi investimenti non producono utili per coloro che
i soldi ce li hanno messi, allora siamo di fronte ad un doppio
scippo».
C'è poi da considerare la partita politica che si sta giocando su
questo mucchio di soldi (in totale sono 3 miliardi e mezzo i
risparmi accumulati dall'Inail), con il ministro dell'economia
Siniscalco che vorrebbe utilizzarli in gran parte nella prossima
Finanziaria per risollevare le casse statali ed il ministro del
wellfare Maroni che invece spinge perché siano spesi per le opere
sopra citate, con particolare riferimento all'area milanese. Ieri i
due ministri si sono incontrati ma nessuno ha rilasciato
dichiarazioni alla stampa. Ogni decisione finale è probabilmente
rimandata ai ministeri vigilanti che dovrebbero dare il via libera
al piano e poi allo sblocco dei fondi.
Ma comunque si risolva la diatriba governativa, niente di nuovo
sembra prospettarsi per i lavoratori italiani, già alle prese con la
legge 38/2000 che ha modificato il regolamento delle rendite
infortunistiche abbassando del 5%, secondo i calcoli dei sindacati,
gli importi assicurativi in caso di infortunio: «E' giusto investire
proficuamente - commenta Pietro Mercadelli, presidente dell'Anmil
(associazione dei mutilati ed invalidi sul lavoro) - ma si deve
anche tenere conto della necessità di migliorare i servizi agli
infortunati sul lavoro, nonché ai superstiti delle vittime e,
soprattutto, finanziare il reinserimento al lavoro e i piani e i
progetti di sicurezza». «Perché con quei soldi non hanno pensato di
aumentare le rendite infortunistiche che sono ben più basse rispetto
ai danni subiti? - chiede polemicamente Sante Moretti, Prc - Perché
non sono stati destinati alla prevenzione, o ai familiari delle
vittime sul lavoro o agli infortunati?». Gli spazi di manovra non
mancherebbero: «Per esempio potevano aumentare le ispezioni nei
cantieri, mica è scritto che debbano farle solo gli ispettori del
lavoro. In passato l'Inail faceva anche studi di approfondimento
sulle malattie professionali, potevano riprenderli» continua
Moretti. Contro la 38/2000 si batte da tempo anche la Cgil: «Ha
introdotto dei criteri molto restrittivi, era un sistema
sperimentale che però in 5 anni non è mai stato verificato. E adesso
le imprese chiedono la riduzione dei premi se hanno precedentemente
investito in sicurezza... è tutto il sistema che va rivisto»
conclude Piccinini.
Intanto alla Lucchini i colleghi di Andrea Pasquini sono subito
scesi in sciopero per 2 ore e le Rsu tornano a gridare la parola
d'ordine: «Basta pensare solo alla produzione» e a chiedere ai nuovi
proprietari di «uscire allo scoperto con fatti concreti a garanzia
che la sicurezza non vada a scapito della produttività. Perché è
impensabile andare in fabbrica a morire». Frasi, purtroppo, già
dette e sentite troppe volte. Ma evidentemente ancora non basta.
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1
settembre
COMMENTO
Precipitati nel terzo mondo
di VITTORIO ZUCCONI
La città annegata che vediamo affiorare come un
clandestino caduto in mare è il film della nostra modernità
umiliata. Se lo tsunami del 2004 nell'Oceano Indiano fu la parabola
orribile della fragilità del mondo povero, la tragedia del Golfo è
la rappresentazione del contrario.
È l'umiliazione della potenza industriale e tecnologica di fronte a
un disastro cosiddetto naturale, che diventa disastro tale solamente
perché si è abbatte su un mondo innaturale e quindi incapace di
assorbirlo.
Il tremendo paradosso di quello che stiamo vedendo e vivendo negli
Stati Uniti, dove il contraccolpo si avvertirà su tutta l'economia,
sulla politica, persino sulla guerra in Iraq dimenticata anche nel
giorno della strage di Bagdad, è che la complessità e la
sofisticazione del tessuto urbano di una metropoli come New Orleans
rende più difficile, e non più facile, sopravvivere.
La superiorità materiale del "Primo Mondo" si rivolta oggi contro
abitanti sparati e in 24 ore in un "Terzo Mondo" che non sanno come
affrontare. È più semplice per un villaggio di pescatori in
Indonesia ricostruire la propria povera normalità di quanto lo sia
per una città regione di 4 milioni di abitanti completamente
dipendenti dalle proprie infrastrutture tecnologiche per vivere,
mangiare, lavorare. Rimettere in funzione una centrale nucleare o
centro direzionale devastato che, senza aria condizionata e senza
collegamenti telefonici, è un inutile monumento di cemento armato è
spaventosamente più complesso che riorganizzare la microsocietà di
una piccola comunità elementare. A New Orleans non riapriranno le
scuole per almeno due mesi, ci informano i governatori dei due stati
più devastati, la Louisiana e il Mississippi che hanno parlato, con
scarsa sensibilità storica, di una "Hiroshima". Non sanno che nella
Hiroshima assai più primitiva di una New Orleans, le prime scuole
riaprirono tre settimane dopo la Bomba, spesso all'aperto, con
gruppetti di scolari seduti tra le macerie attorno al maestro. Cosa
impossibile nella città americana o europea del 2005, dove il
sistema scolastico è completamente schiavo del sistema dei trasporti
e delle comunicazioni pubbliche o private, per funzionare.
Nutrirsi, mangiare, soddisfare le esigenze più elementari, il
pannolino, la formula, i medicinali, un cambio di biancheria, un
sapone, divengono imprese inarrivabili, nella chiusura dei
supermercati e dei negozi, un fatto che spiega la furia dei
saccheggi alla quale anche molti poliziotti si sono uniti. Una
comunità condizionata e dunque prigioniera del proprio sviluppo si
trova costretta a vivere improvvisamente come profughi del Darfur,
ma senza avere il lungo, tragico addestramento quotidiano alla
sopravvivenza e all'arrangiarsi. Creature addomesticate dallo
sviluppo ora sono costrette a un passaggio nello stato di natura. Le
vediamo vagare confuse, processioni di profughi che ciondolano sui
mozziconi di ponti o si incamminano con fagotti sulle spalle, senza
sapere dove vanno, pur di andare. Mentre incombono le notti affidate
alla luna e alle stelle, tornato improvvisamente luminosissime nella
mancanza di luci.
Nessuno osa fare previsioni sui tempi necessari per ricostruire la
rete di trasmissione elettrica, perché i trasformatori e le
sottostazioni sono tutte sott'acqua e le dighe hanno tutte ceduto.
Le linee telefoniche terrestri sono fuori combattimento e soltanto i
generatori tengono in funzione alcune "celle" per i telefonini e
permettono ai camion satellitari delle televisioni di trasmettere i
loro segnali.
La centrale nucleare che alimentava New Orleans è stata saggiamente
bloccata prima che Katrina arrivasse. La distribuzione alimentare,
costruita su frigoriferi di grossisti, dipende ora dalle colonne di
autocarri militari che stanno avanzando con le razioni da campo.
Parlare di lavoro, dunque di salari, non ha alcun senso, nella
devastazione di magazzini, uffici, alberghi, casinò, persino di
stazioni tv e giornali, tutti chiusi o evacuati. L'acqua deve essere
bollita, ma con che fuochi, domanda la gente, se gas ed elettricità
non ci sono?
La lezione di Katrina è banale eppure inascoltata. La modernità di
una struttura urbana la rende non più resistente, ma più vulnerabile
all'evento catastrofico, anche nel tempo della cosiddetta "guerra al
terrorismo", quando le metropoli americane dovrebbero, ormai da
almeno quattro anni, essere preparate a reagire in caso di attacchi
devastati. Non esisteva invece un piano d'emergenza che fosse pronto
a misurarsi con l'assalto di un terrorista naturale che aveva
almeno, a differenza dei terroristi uomini, pubblicizzato da una
settimana il suo arrivo. Se questo è il risultato della "sicurezza",
che cosa accadrebbe a New York, a Boston, a San Francisco, a
Washington, se il "doomsday scenario", la sempre annunciata
aggressione terroristica con materiali radiottivi o con armi
biologiche dovesse avvenire? Con i miliardi di dollari che il
governo riverserà sulle zone colpite, ora che finalmente Bush si è
deciso ad abbandonare le sue ormai insolenti ferie, a svolazzare a
bassa quota sulla regione, dopo due giorni di inutili comizi su una
guerra in Iraq che interessa soltanto chi la sta combattendo, New
Orleans, Gulfport, Biloxi torneranno a vivere, tra mesi o anni.
Ma la mazzata di Katrina non ha scoperchiato uno
stadio di football, ha scoperchiato la supponenza della nostra
modernità, le illusioni del mondo wired, collegato, elettrificato, a
banda larga, come ha scoperto imbarazzato un senatore del
Mississippi quando ha invitato i cittadini a "collegarsi a internet
per avere informazioni". Quale internet, senatore, gli ha chiesto un
cronista? Non è più l'America, quella che vediamo a pezzi sullo
sfondo delle processioni umane dei profughi vaganti, quasi tutti
neri di pelle, perché sono loro, quelli che non avevano i mezzi e i
soldi per fuggire (E per andare dove? Come? Con quali soldi?) quelli
che sono andati a fondo. Non ci sono differenze visibili tra il
pescatore cingalese e la vecchia nera rimasta con la sola borsetta,
sfollata e in attesa di un autobus militare che la porti chissà
dove. Entrambi vivono in un "Terzo Mondo", dipendenti dagli altri
ma, per gli alieni in casa propria di New Orleans, reso più crudele
dalle rovine di quel "Primo Mondo" che li ha traditi. E che ora li
circonda come un set cinematografico reale e senza lieto fine.