Archivio Settembre 2005

 

29 settembre

La scure sui sindaci
di MASSIMO RIVA

La vendetta è un piatto che va servito freddo. Memori di questa cinica massima, Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti la stanno ora mettendo in pratica con accorta determinazione. Gli italiani non hanno votato per il Cavaliere e soci in tutte le ultime tornate amministrative, consegnando al centrosinistra la guida di importanti città e regioni? Ebbene, ecco arrivato il momento per fargli pagare il conto della loro impertinente ribellione al mago di Arcore.

Solo questa considerazione di basso interesse politico-elettorale, infatti, può spiegare la scelta di imporre il taglio più drastico e pesante ai bilanci degli enti locali. Che l'intera struttura amministrativa dello Stato, dal Brennero a Pantelleria passando per Roma, sia oggi in dovere di dare un sostanzioso contributo alla chiusura della falla aperta nei conti pubblici è un obiettivo fuori discussione.

Ma l'idea che dal centro dello Stato si decida di caricare il maggiore sforzo di aggiustamento sulle amministrazioni periferiche è un'iniquità economica e sociale, che può comprendersi soltanto in forza di motivazioni di convenienza politica.

Certo, l'emergenza è tale che ormai non serve neppure attardarsi troppo a sottolineare quanto - ahinoi - quel buco sia effetto di una strategia finanziaria sbagliata e ingannevole concepita dagli stessi che ora sono chiamati a porvi rimedio. Per non perdere il controllo della finanza pubblica (e la faccia in Europa), l'Italia deve tagliare quest'anno il suo deficit di quasi un punto percentuale sul Pil, vale a dire di una somma fra gli 11 e i 12 miliardi di euro. E' logico che tutti debbano fare la propria parte. Dunque, era immaginabile ed è francamente scontato che la cinghia debba essere stretta anche sui bilanci degli enti locali.

Solo che un taglio in una misura che in pratica potrà sfiorare il 10 per cento non è una stretta: in molti casi, perfino nelle più grandi e ricche città o regioni, rischia di far saltare servizi pubblici essenziali e migliaia di posti di lavoro. Fra l'altro, con conseguenze pesanti, ma evidentemente sottovalutate, di depressione di una domanda interna già da tempo languente.

Si sovrappongono poi in questa ipotesi dell'accoppiata Berlusconi - Tremonti elementi di ritorsione politica e di incapacità gestionale. Va notato, infatti, che l'ingiunzione di questo sacrificio ai bilanci degli enti locali viene dallo stesso governo che, per quanto riguarda le spese di sua stretta pertinenza, aveva varato il famoso decreto di taglio del due per cento alle uscite di tutti i ministeri. Una misura - si badi bene: pari ad appena un quinto di ciò che oggi si vorrebbe togliere a comuni, provincie e regioni - che si è rivelata un buco nell'acqua perché nessuno di coloro che siedono attorno al tavolo del Consiglio dei ministri l'ha rispettata o neppure tentato di farlo.

Precedente che illumina di incredula comicità il reiterato impegno alla potatura delle spese ministeriali. In realtà, nell'impotenza a fare ordine nei propri conti ora il governo fa calare la ghigliottina su quelli altrui.

Naturalmente, nessuno pensa che sia impresa facile - per giunta, in un paese ridotto alla crescita zero - reperire i soldi necessari per colmare i buchi che si sono lasciati aprire nel bilancio. Ma dove sta l'equilibrio di una manovra che propone la tosatura più forte mai immaginata per le casse degli enti periferici: sui quali - sia ricordato per inciso - gravano i maggiori costi per i servizi resi quotidianamente alla collettività? Dove sono tutti coloro che da anni ci stanno assordando con la retorica del federalismo? Dov'è la voce di Umberto Bossi e soci? Ovvero stavolta la famigerata "Roma ladrona" può fare quel che vuole nel silenzio assoluto dei sedicenti federalisti padani?

E, per favore, non si venga a sbandierare come equo contrappasso il proposito di tagliare di un analogo dieci per cento anche le indennità dei parlamentari. Siamo seri: i costi della politica c'entrano assai poco con le indennità dei parlamentari, ma molto, molto di più con il numero dei medesimi, nonché dei consiglieri e assessori regionali, provinciali, comunali. Si vuole che anche gli enti locali facciano risparmi permanenti e strutturali? La via maestra è quella di ridurre la quantità di "professionisti" della politica, che in Italia raggiunge vette sconosciute in altre anche più solide e mature democrazie rappresentative. Ma chi ci pensa?

Certo non coloro che oggi stanno impasticciando di gran fretta una riforma elettorale mirata solo a conservare più poltrone e più prebende per se e per i propri fedelissimi.

Dulcis in fundo, va segnalato che sembrano aver fatto breccia nel governo i forti dubbi sulla possibilità di ricavare da tre a quattro miliardi di maggior gettito con la lotta all'evasione fiscale. Nel testo della Finanziaria non se ne farà cenno ma, come già accaduto, durante l'esame parlamentare spunterà a copertura l'ennesimo condono, che il governo farà finta di subire. Cosicché la pistola puntata alle tempie degli evasori sarà niente meno che la terrificante arma dell'amnistia tributaria. Un espediente in grado di squalificare da solo tanto la manovra quanto il governo che la sta allestendo. Purtroppo, anche l'Italia intera agli occhi dell'Europa.

 

Il capogruppo repubblicano Tom DeLay si dimette
dopo l'incriminazione per finanziamenti illegali
Usa, uno scandalo di fondi neri
per l'uomo di Bush alla Camera

dal nostro corrispondente ALBERTO FLORES D'ARCAIS
 

Tom DeLay

NEW YORK - Tom DeLay, il potente capogruppo repubblicano alla Camera, si è dimesso ieri dopo essere stato incriminato da un Gran giurì del Texas per violazione della legge sui finanziamenti elettorali.
DeLay era finito nell'inchiesta del procuratore della Contea di Travis Ronnie Earle (un democratico) per il "possibile uso illegale di fondi elettorali" e per aver accettato - nelle elezioni di medio termine del 2002 - finanziamenti politici da alcune corporation, violando la legge elettorale del Texas (lo Stato che lo elegge da 21 anni in un distretto della periferia di Houston) secondo cui le donazioni delle aziende non possono essere usati per "promuovere la vittoria o la sconfitta di candidati", ma solo essere usati per fini amministrativi.

Per la Casa Bianca si tratta di un'altra brutta gatta da pelare. DeLay - soprannominato "the hammer", il martello, per il suo temperamento combattivo e l'aria da duro con cui affronta avversari (e compagni di partito) al Congresso - è uno degli uomini a cui Bush deve molto. È grazie a lui se i fondi raccolti in campagna elettorale sono quasi raddoppiati, è grazie a lui se diverse leggi volute dalla Casa Bianca sono passate, tra qualche mugugno repubblicano, alla Camera; ed è grazie a lui e alla sua battaglia per ridisegnare i distretti elettorali che nelle ultime elezioni i repubblicani del Texas hanno conquistato il totale controllo dello Stato per la prima volta dai tempi della Reconstruction Era seguita alla guerra civile.
Il "martello" ha reagito subito. Dapprima dimettendosi (il regolamento per la Camera del Partito repubblicano prevede che un deputato incriminato per un reato penale rassegni le dimissioni provvisoriamente; il capogruppo dimissionario mantiene però il suo seggio): "Ho notificato al presidente della Camera (Dennis Hastert) che mi dimetterò temporaneamente dal mio ruolo di capogruppo della maggioranza in ossequio al regolamento e in conseguenza della decisione assunta oggi dal procuratore distrettuale della contea di Travis".

Poi DeLay ha accusato il procuratore Erle di averlo incriminato per motivi politici - "la vendetta di un democratico partigiano, queste accuse non hanno alcuna base nei fatti o nella legge" - e infine ha affidato un durissimo comunicato ai suoi avvocati: "Questa vicenda puzza come una puzzola, è fetida come una puzzola morta in mezzo alla strada".
DeLay è stato anche incriminato per associazione a delinquere insieme a due suoi collaboratori: John Colyandro, ex direttore di un comitato per la raccolta di fondi elettorali, e Jim Ellis, il responsabile del comitato nazionale dello stesso DeLay.
A poco più di un anno dalle elezioni di medio termine (novembre 2006) che tradizionalmente sono favorevoli, durante il secondo mandato di un presidente, al partito d'opposizione, l'incriminazione di DeLay è un brutto colpo per il Grand Old Party. E visto che anche il leader del partito al Senato, nonché possibile candidato alla Casa Bianca, Bill Frist ha i suoi guai - è stato messo sotto inchiesta dalla Sec per una caso di insider trading di milioni di dollari (ha venduto, al massimo delle quotazioni, tutte le azioni di una società di famiglia due settimane prima del crollo del titolo a Wall Street) - è ovvio che l'amministrazione sia preoccupata.

"In Iraq siamo all'offensiva e abbiamo un piano per vincere". Dopo essere stato impegnato quasi a tempo pieno dagli uragani (e dai successivi problemi) George W. Bush è tornato ieri - prima che scoppiasse il caso DeLay - a parlare dell'Iraq e della guerra al terrorismo. Le elezioni a Bagdad si avvicinano, le notizie che arrivano dal terreno di battaglia non sono molto positive, i morti americani si avvicinano alla soglia dei duemila, e la popolarità del presidente non è mai stata così bassa dopo l'11 settembre 2001.

Alla Casa Bianca hanno deciso che era il momento di reagire: riprendendo il discorso sulla guerra al terrorismo (tornato in prima pagina per via dei terroristi di Hamas) e rilanciando l'immagine del Bush franco nel dire le cose come stanno ma ottimista sui risultati, immagine che in passato ha sempre funzionato.

Il presidente si è rivolto agli americani dal Giardino delle rose della Casa Bianca (con accanto il vice Cheney, reduce dall'intervento chirurgico, che si appoggiava a un bastone) dopo aver ricevuto un lungo rapporto da parte del generale John Abizaid, comandante supremo delle operazioni in Iraq e Afghanistan, e del generale George Casey, comandante del contingente americano in Iraq. Bush ha ripetuto che gli Stati Uniti sono determinati "a sconfiggere il nemico", che hanno "una strategia di vittoria chiara e tattiche che si adattano ai cambiamenti di tattica dell'avversario", e che l'Iraq è il fronte centrale della guerra al terrorismo".
Bush ha però avvertito che la violenza aumenterà, all'approssimarsi del referendum di metà ottobre e delle elezioni di metà dicembre: "Dobbiamo aspettarci una nuova ondata, ma le nostre truppe sono pronte".

28 settembre

TERRA TERRA
La cattiva energia della terra
KARIMA ISD
La barriera dell'indecenza nelle spese militari mondiali è stata superata un'altra volta nel 2004, quando, secondo il rapporto annuale dell'Istituto internazionale ricerche sulla pace (Sipri) di Stoccolma, il mondo ha speso in armamenti 1.000 miliardi di dollari. E' come se a ogni abitante del pianeta fossero stati sottratti 162 dollari in un anno: per sostenere l'industria della morte anziché il raggiungimento degli obiettivi più volte proclamati in materia di salute e istruzione per tutti. Uno storno di fondi verso investimenti di civiltà otterrebbe il risultato di porre fine ai conflitti armati. Ma un recente documento dell'organizzazione ambientalista internazionale Friends of the Earth, ripreso e diffuso dal movimento italiano delle Donne in nero, concretizza nel caso Iraq la siderale distanza della realtà da qualunque obiettivo di sostenibilità sociale e ambientale. L'organizzazione ambientalista parte da un'incertezza: sul disastro umanitario iracheno si possono avanzare solo stime. Ma per avere un'idea di ciò che avviene e dell'impatto sul popolo iracheno e sul resto del mondo, è utile guardare alle informazioni sul lato ecologico.

Del disastro ambientale - e dunque umano - in Iraq, Terra terra si è occupata più volte. Del resto per lo stesso Programma ambientale delle Nazioni unite (Unep), la situazione irachena è fra le peggiori al mondo, difficile perfino da monitorare. Grande allarme anche da parte di gruppi di scienziati iracheni. E pare che i casi di cancro e gli aborti siano saliti di molto rispetto agli anni dell'embargo successivi alla prima guerra del Golfo e all'uso dell'uranio impoverito da parte statunitense; uso reiterato nel 2003.

Sul lato dell'impatto globale, il documento di Friends of the Earth offre invece calcoli precisi. L'intervento militare, ricorda l'associazione, è visto come un modo efficace per controllare le risorse energetiche e non solo. Ma il mantenimento in loco di eserciti con decine di migliaia di soldati produce inquinamento chimico e consuma moltissimo carburante. Le forze armate nel mondo consumano un quarto del combustibile «bevuto» dagli aerei: un dato significativo, vista con l'enorme e crescente circolazione di aerei non militari; ormai il settore dell'aviazione è responsabile di circa il 10% dell'effetto serra. Sempre a livello mondiale, il combustibile fossile totale necessario a fare la guerra, di terra, di cielo e di mare, e a mantenere gli apparati bellici, provoca l'emissione di circa 2 miliardi di tonnellate di anidride carbonica all'anno: sui 22 miliardi totali. Impossibile rispettare il pur modesto Protocollo di Kyoto se non si smette di iniettare petrolio nelle macchine da guerra.

Negli ultimi due anni, la guerra per il petrolio è costata 200 miliardi di dollari. Friends of the Earth stima che cosa sarebbe successo se quel denaro fosse stato destinato allo sviluppo delle fonti energetiche alternative, quelle che possono sostituire il petrolio. Ad esempio, si sarebbero potuti produrre 40 gigawatt di energia solare, capaci di fornire 1.000 terawatt-ora di elettricità. Un dato stratosferico, e per meglio visualizzarlo si dirà che esso è pari a 2,5 volte il totale di energia resa disponibile dal petrolio prodotto in Iraq in questi due anni di morte e crimini. Oltretutto, questo aumento enorme nel numero di pannelli fotovoltaici ne avrebbe abbattuto il prezzo da 20 a 8 centesimi di dollari e avrebbe potuto rendere l'energia solare competitiva e più accessibile anche nei paesi poveri. Oppure si sarebbero potuto installare dei generatori eolici in mare, producendo circa 5.000 terawatt-ora di elettricità.

Sul lato dell'effetto serra, le emissioni di CO2 si sarebbero ridotte di circa 3.700 milioni di tonnellate (per il doppio risparmio: niente operazioni belliche, e molta più energia alternativa a emissioni zero). La cifra è pari a quella che occorrerebbe all'intera Ue per mantenere le proprie emissioni all'interno dei limiti di Kyoto nei prossimi dieci anni.

 

22 settembre

Lo sfogo del ministro per l'inerzia sul caso Fazio e l'assalto elettorale
alla Finanziaria. Gelido incontro con Berlusconi a palazzo Grazioli
Siniscalco: "Basta immobilismo
Tornerò a fare il professore"

L'ex titolare dell'Economia si dichiara "scandalizzato"
di ROBERTO MANIA
 

L'ex ministro dell'Economia, Domenico Siniscalco

ROMA - "Mi dimetto per l'assoluto immobilismo del governo. Il problema non è Fazio, ma chi è incapace di risolvere il problema. Per questo non sono amareggiato: sono scandalizzato". È sera quando Domenico Siniscalco non è più il ministro dell'Economia. Anche lui come il suo predecessore Giulio Tremonti, ha gettato la spugna dopo uno scontro istituzionale clamoroso con il governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio. Ha consegnato la lettera di dimissioni a Silvio Berlusconi a Palazzo Grazioli, poi, a Palazzo Chigi, ha spiegato le sue ragioni a Fini e a Letta.

Hanno provato a convincerlo a ripensarci. "No, torno a Torino a fare il professore", ha replicato in un'atmosfera gelida.

Il ministro ritorna solo "tecnico", diverso dai politici con cui ha convissuto poco più di un anno. Fino a Fazio. Può finalmente sfogarsi, salutando i suoi più stretti collaboratori. "Fazio - attacca - è quel mostro istituzionale, extra-repubblicano, perché qualcuno gli permette di esserlo". È per questo che le dimissioni non sono contro Berlusconi. Ma contro l'anomalia di un sistema nel quale "nessun è in condizione di dire che il governatore non ha più la fiducia del governo".

Era quello che Siniscalco aveva chiesto al Consiglio dei ministri del 3 agosto, in piena bagarre per le intercettazioni della magistratura. Ma lì Berlusconi non c'era. Colpito da una improvvisa tonsillite... Il governo rimase zitto. E allora Siniscalco, qualche giorno dopo, scrisse la sua prima lettera (ufficiale e protocollata) al premier. Ma ancora nulla. "La verità è che sono due visioni del mondo. E questo Paese, in questo momento, ha bisogno del massimo di credibilità. Questa vicenda - davvero - ha colpito direttamente al cuore la credibilità del nostro sistema finanziario".

Lo vedremo da oggi a Washington: Raghuram Rajan, capo economista dell'Fmi, davanti a 160 Paesi, parlerà solo della perdita di reputazione dell'Italia. Non di altro, purtroppo. E a Washington, invece, ci sarà - diceva uno stretto collaboratore del ministro - "l'uomo più screditato della comunità finanziaria internazionale".

La Finanziaria c'entra poco, nella scelta di Siniscalco. Anche se c'entra. Perché l'attacco di ieri dei fazisti (dal collaudato Ivo Tarolli al new comer Roberto Calderoli) non a caso è partito proprio dalla Finanziaria, con quella strana distribuzione di Tarolli delle ipotesi tecniche della Ragioneria ai giornalisti in Parlamento.

Tutte soluzioni tecniche, tutte senza alcun vaglio politico del ministro del Tesoro. Tutte usate per attaccare il ministro. Tanto che solo poco arriverà il fuoco leghista: "La Finanziaria non va riscritta, va scritta", gridava Roberto Calderoli, ministro del Carroccio, mentre il collega Roberto Maroni andava a fare visita a Via Nazionale, uscendone soddisfatto. "Abbiamo parlato delle cose nostre, istituzionali".
"E io - ragionava Siniscalco - me ne vado per Fazio ma anche per una Finanziaria elettorale". Che lui, l'ex ministro tecnico, non avrebbe mai sottoscritto. "E poi, la Finanziaria è pronta, è scritta. Ce l'hanno tutti e chi afferma il contrario sa di dire il falso".

Ce l'ha con i fedelissimi del governatore, Siniscalco. E i silenzi dei Palazzi. "Ma come - insiste - Fazio (dice proprio così l'ex ministro pensando a Tarolli, ndr) Fazio attacca la Finanziaria e nessuno dice niente. In giro vedo solo pigmei da gran premio. E tanta ambiguità".

Siniscalco ha capito che doveva accelerare al sua scelta (aveva già detto "o io o lui") quando si stava stringendo la morsa sul suo dicastero. A Letta e Fini ha spiegato che "ogni materiale ha una prova di torsione". "Può reggere - ha insistito - ma fino ad un certo punto. E quando si rompe, si rompe. Io ho superato il punto di rottura".

Gli ha ridetto che già nella prima lettera era chiaro ciò che bisognava fare. Da una parte le pressioni dei mercati internazionali, dall'altra i silenzi dei Palazzi romani. "La seconda lettera (quella di ieri, ndr) non è negoziabile". Non c'è alternativa alle dimissioni se non farsi stritolare da qui alle elezioni. "E poi: cosa potevo negoziare? Un posto da deputato nel collegio del Piemonte Sud? No, non mi interessa. Questa è stata la mia forza da ministro del Tesoro. No - ripete anche con i suoi - torno a fare il professore a Torino. Davvero non ne potevo più: un giorno mi dicevano che erano d'accordo con me, il successivo che però non si poteva fare nulla, poi nulla, infine mi chiedevano scusa".

Siniscalco ha provato a salvare la credibilità dell'Italia, ci ha messo la sua faccia all'ultima riunione dell'Ecofin di Manchester. "Perché - dice - nei Paesi normali i governatori della banche centrali hanno 45 anni e quando arriva la telefonata del governo, scattano". Questo Paese non piace al tecnico Siniscalco. "Ho chiesto in tutti i modi di impedire i danni. Ma l'ambiguità continua. Vedo incontri, messaggi. Cose che non capisco, ma che ci sono. E allora meglio tagliare corto. No, non mi piace un Paese nel quale una grande banca straniera per venire ad investire i suoi soldi deve chiedere il permesso di Luigi Grillo. No, non ci voglio stare".

21 settembre

Storie d'Italia
GUGLIELMO RAGOZZINO
Ciampi è un tipo un po' fumino, come si dice in Toscana. Non a caso ieri ha ricevuto la maglia della sua squadra, il Livorno: tutta gente fumina. Era già un po' di giorni che la sfuriata stava montando, contro i cardinali che mettono bocca. Ora è arrivata. Ieri erano 135 anni che Roma - Roma ladrona, Roma capoccia, Roma-città-aperta, forzaroma: come vi piace - è libera. Liberata dal potere temporale dei papi. L'unico a ricordarsene è stato il vecchio azionista, Carlo Azeglio Ciampi, il presidente della repubblica. Tutti gli altri politici avevano altre gatte da pelare, gatte importanti, evidentemente. E poi cerimonie, incontri, discussioni. Non un attimo di tempo, tranne i radicali, per andare a Porta Pia. E soprattutto è rischioso scontentare il temuto cardinale che ormai imperversa costantemente sulle nostre scelte, commenta quel che facciamo e non rinuncia a dire la sua. La libertà di Roma era il punto di arrivo di una lunga storia, una storia comune di noi italiani. Ciampi, per ricordarla e per ricordare le insidie alla libertà di oggi, ha fatto deporre una corona davanti al monumento che ricorda la breccia di Porta Pia e poi ha parlato ai ragazzi delle scuole e ha cantato con loro l'inno di Mameli. Di colpo si sono trasformati i versi bruttini di un ragazzo di vent'anni, venuto da Genova e ferito a morte per difendere la repubblica romana, attaccata per conto di Pio IX, il papa di allora, dall'esercito francese, commemorato da Fazio. Ma Ciampi nella sua giornata felice, non si è limitato ai fiori e a cantare l'inno di Mameli. Ha anche fatto ai ragazzi delle scuole un discorso eversivo, un discorso di verità: «mentre cantavamo insieme, il mio pensiero è corso alla data di oggi: 20 settembre 1870, Roma capitale dell'Italia unita, il compimento del sogno risorgimentale». E il segretario Ruini, cardinale di Santa romana Chiesa, è servito. Dovrà tener conto che in Italia c'è chi è contro le sue interferenze e non ha paura di dirlo in pubblico. A sera, la radio vaticana parla della giornata di Ciampi, ma censura Mameli e Porta Pia e parla soltanto degli scolari (presumendo che siano tutti nati e cresciuti in famiglie regolari).

Il raduno, un po' nazional-popolare, di bambine e bambini con le bandierine, di colpo diventa, per via di Ciampi, un fatto politico, l'unico di oggi che valga la pena di essere ricordato. Certo non è Berlusconi che dice villanie agli alleati la novità sensazionale.

Ancora Ciampi parla ai bambini: «tendiamo la mano ai giovani stranieri che vivono in mezzo a noi. La scuola contribuirà a renderli cittadini responsabili della repubblica...ognuno di noi ha l'occasione di dare il proprio contributo alla comprensione e al rispetto reciproci...». Questo è l'insegnamento della repubblica, la forma della democrazia, la scelta della difficile pace. E deve valere per tutti: i cardinali, le maestre, i bambini, i politici distratti.


 

20 settembre

Colti, pagati poco e senza garanzie
Ecco i 300.000 della partita Iva

 ROMA - Sono quasi 300.000, in aumento dopo l'introduzione della legge Biagi, per oltre due terzi hanno tra i 30 e i 40 anni e un livello alto di istruzione e di professionalità, sono spesso insoddisfatti (si dichiara tale il 48,2% degli uomini e il 53,2% delle donne). Sono i collaboratori professionisti con partita Iva. Una ricerca del Nidil-Cgil in collaborazione con l'Ires, il centro di ricerca del sindacato guidato da Guglielmo Epifani, ne traccia un ritratto, attraverso un campione degli iscritti al Fondo Inps per i parasubordinati.

Nell'ultimo anno gli iscritti al Fondo sono cresciuti del 10%, soprattutto perché, dopo l'entrata in vigore della legge Biagi, è stato il datore di lavoro a chiedere l'apertura della partita Iva.

Il 60,7% delle persone considerate hanno almeno la laurea o la specializzazione mentre il 10,4% può contare su un diploma universitario. Le donne in media sono più istruite degli uomini con il 71,3% del totale che ha almeno la laurea. Il 57% fa un lavoro completamente coerente con il proprio titolo di studio ma spesso la condizione del collaboratore non consente di costituirsi una famiglia. Il 76,1% del totale, infatti, non ha figli (il 91,5% fino ai 35 anni) mentre oltre il 29% vive con i genitori o con amici e parenti.

E' infatti difficile costituire una famiglia dati i bassi livelli di reddito che queste attività comportano: quasi il 40% del campione guadagna meno di 1.000 euro al mese, indipendentemente dall'impegno orario. Solo il 7% del campione guadagna oltre i 2.000 euro al mese mentre il 42,7% può contare su un'entrata tra i 1.000 e i 1.300 euro al mese.


Guadagnare poco non significa lavorare altrettanto. L'orario medio per le classi di reddito tra gli 800 e i 1.300 euro è molto vicino a quello dei lavoratori dipendenti con 39,6 ore a settimana mentre nel caso di entrate superiori a 1.500 euro al mese gli orari medi superano le 43 ore.

Non solo: la maggior parte dei collaboratori con partita Iva ha una posizione abbastanza simile a quella del lavoratore dipendente: infatti il 39,4% ha un unico committente mentre il 43,4% ha un committente principale anche se poi conta su altre consulenze.

La monocommittenza è frequente soprattutto nel gruppo degli under 30 (il 60,9% anche se è presente anche nel gruppo dei meno giovani. La stragrande maggioranza dei professionisti monocommittenti lavora presso la sede dell'azienda (75%) e deve garantire una presenza oraria (70%) per lo più quotidiana (55%).

Alta la percentuale degli intervistati che si percepisce lavoratore dipendente non regolarizzato (il 43,5%) piuttosto che libero professionista vero e proprio mentre la maggior parte delle persone considerate ha aperto la partita Iva non per scelta, ma come condizione legata al tipo di professione (37%) o imposta dal datore di lavoro (38%).

Gli intervistati lamentano la mancanza di tutele sociali a partire da quelle previdenziali (la copertura è considerata inadeguata), e da quelle sulla malattia e la maternità. Il 40% del campione comunque preferirebbe un lavoro dipendente, percentuale che sale al 52,2% tra chi ha meno di 29 anni.

 

14 settembre

IL COMMENTO
L'ultima legge ad personam
di EZIO MAURO

QUANDO dicevamo che l'agonia politica di Berlusconi sarà una stagione terribile, in cui maturerà il peggio, non immaginavamo questo: un cambio in corsa delle regole del gioco a pochi mesi dal voto, con un ribaltone improvviso dal maggioritario al proporzionale e una nuova legge elettorale tagliata a colpi di maggioranza sulle esigenze del centrodestra, come un doppiopetto del Cavaliere.

Dieci anni di maggioritario, un sistema che ha saputo garantire per due volte l'alternanza al potere della destra e della sinistra, vengono dunque bruciati in un falò privato ad Arcore, sacrificati all'incapacità delle forze del Polo di trovare una ragione politica per stare insieme.

Il risultato è paradossale. Divisi su tutto e separati in casa, Udc e Forza Italia ricorrono alla superstizione estrema del proporzionale, ma lo fanno con due progetti politici opposti e inconciliabili. Casini e Follini vogliono cambiare la legge elettorale per riprendere piena libertà di movimento e liberarsi per sempre di Berlusconi. Il Cavaliere concede il cambiamento per la ragione opposta: imprigionare ancora i centristi in questa campagna elettorale, fingendo che l'intesa possa continuare, e la sua leadership anche.

In realtà è l'istinto della fine che guida l'azzardo di Berlusconi. Poiché in questo paesaggio politico, istituzionale, normativo, ha già perso, il Cavaliere prova a cambiare quadro e paesaggio. Annunciando di essere pronto a ogni forzatura, anche nelle regole. La prima è una legge disegnata sulle esigenze attuali del Polo, che trasforma in handicap elettorale la morfologia del centrosinistra.

Con lo sbarramento al quattro per cento, com'è noto, i piccoli partiti (come i Verdi, i Comunisti Italiani, lo Sdi, il movimento di Di Pietro) portano voti alla coalizione cui appartengono, ma non prendono seggi. Ed ecco che nella nuova legge elettorale il premio di maggioranza non va alla coalizione che prende più voti, ma più seggi, in modo che se anche l'Unione confermerà i sondaggi vincendo con una larga maggioranza di voti, potrebbe trovarsi con questo artificio minoranza in Parlamento.

Prodi e i suoi hanno già parlato di "legge truffa". In realtà è un'altra legge ad hoc, ad personam, nel solco del quinquennio berlusconiano. L'Udc deve aver avuto un soprassalto di vergogna, perché ha annunciato che in Parlamento correggerà la norma, in quanto vuole "vincere senza barare".

Dunque è una legge da bari, quella che arriva alle Camere. Non occorre dire altro. Salvo chiedere a Follini e Casini se è questa la cultura centrista, istituzionale e moderata, che hanno decantato per tutta l'estate. Ricordare a Fini che solo pochi anni fa si batteva per il maggioritario. E consigliare a Berlusconi di non travolgere regole e istituzioni nel vortice della sua disfatta, perché la repubblica gli sopravviverà, anche se per lui è inconcepibile.

 

13 settembre

L'agonia dell'Onu
TARIQ ALI
La conferenza dell'Onu per discutere la riforma dell'organizzazione vedrà la più grande assemblea di leader mondiali che si sia mai tenuta. Ciò avverrà mentre il segretario generale è coinvolto in uno scandalo familiare per corruzione. Kofi Annan, insomma, è in una situazione molto difficile. Proprio come l'organizzazione che guida. Tutti concordano sul fatto che riformare le Nazioni unite è essenziale. Pochi concordano su quali debbano essere queste riforme. L'élite ereditaria che governa il Consiglio di sicurezza versa chiaramente in gravi condizioni e necessita di una cura. Il Consiglio di sicurezza dovrebbe essere abolito o allargato? La promessa di allargamento ha portato a una competizione indecorosa. La Germania vuole fare parte del Consiglio di sicurezza, ma l'Italia (incoraggiata dagli Usa) si oppone. Gli italiani sono venuti allo scoperto e hanno denunciato la subornazione di fondi di alcuni stati africani per sostenere la loro richiesta di un seggio al tavolo più ambito. Altri suggeriscono che al Consiglio di sicurezza l'Ue dovrebbe avere un singolo rappresentante a rotazione. La Francia e la Gran Bretagna si oppongono.

Gli Usa vogliono che il Giappone diventi un membro permanente del Consiglio di sicurezza. La Cina si oppone: sarebbe soltanto un altro voto per gli Usa, dato che dal 1945 al Giappone non è consentita una politica estera autonoma. L'India vuole un seggio permanente, ma il Pakistan dice: siamo anche noi una potenza nucleare. Il Brasile e il Sudafrica vogliono entrare. Si sono comportati bene per quanto concerne Washington, ma... Ciò che rende tutto questo più patetico che mai è il servilismo dei tedeschi, dei brasiliani, dei giapponesi e degli indiani. Desiderano talmente entrare, che sono felici di accettare uno status subordinato, senza diritto di veto. E così le dure lotte di potere procedono dietro le quinte oscurando alcune delle vere questioni in gioco. Quali?

È impossibile capire il processo di riforma odierno senza guardare al momento fondativo dell'organizzazione. La Carta e la struttura delle Nazioni unite furono concordate dopo la seconda guerra mondiale. Furono dettate dagli Stati uniti e accettate dalla coalizione delle grandi potenze che aveva vinto la guerra. Un'eccellente ricostruzione di come è stata fondata l'Onu la si può trovare in Act of Creation: The Founding of the United Nations, il brillante saggio storico di Stephen C. Schlesinger, caldamente raccomandato come antidoto per coloro che ancora credono che l'Onu sia figlia dell'idealismo.

Schlesinger, professore presso la New School di New York, fa piazza pulita dei sentimentalismi e chiarisce che l'Onu fu una creatura americana, e che Roosvelt e Truman imposero il loro punto di vista praticamente su tutte le questioni. Churchill brontolò, Stalin contrattò, ma Truman vinse.

Il tentativo successivo alla prima guerra mondiale si era tradotto nella Lega delle Nazioni. Anch'essa era stata il risultato dell'iniziativa Usa, e Woodrow Wilson aveva persino sperato di usarla come strumento contro gli isolazionisti più irriducibili in patria, ma furono questi ultimi ad averla vinta. Gli Usa non ne fecero parte. La Lega delle Nazioni si sarebbe dovuta chiamare, più appropriatamente, la Lega delle Nazioni Imperiali, perché quasi tutto il mondo, all'epoca, era occupato o controllato dalle potenze imperiali: la Gran Bretagna, gli Usa, la Francia, la Russia, il Giappone. In quella guerra i giapponesi avevano combattuto sul lato vincente. Scopo dei fondatori della Lega era impedire che le dispute inter-imperiali sulle colonie si trasformassero in guerre, che avrebbero avuto un effetto devastante sul commercio imperiale. Fu un fallimento. Il suo scopo era fermare una nuova guerra ma, con l'ascesa di Mussolini e Hitler, la Lega non riuscì a impedire gli attacchi preventivi degli italiani contro l'Albania e l'Abissinia. Mussolini sostenne, usando una retorica non dissimile da quella utilizzata dagli interventisti di oggi, che l'Italia aveva bisogno di un impero e che la civiltà occidentale era necessaria per modernizzare i dispotismi feudali. Hitler occupò la Renania, minacciando direttamente la Polonia e la Cecoslovacchia. È per questa ragione che la Carta delle Nazioni unite conteneva una forte presa di posizione contro gli attacchi preventivi e, in un mondo sempre più post-imperiale, sottolineava l'inviolabilità della sovranità nazionale.

Le eccezioni erano previste, e furono espresse chiaramente nell'Articolo 51: «Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni unite, fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da membri nell'esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell'azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale».

Durante la guerra fredda, l'Onu fu usata dagli Usa per intervenire nella guerra civile coreana, ma fu ridotta a puro osservatore quando gli Usa invasero il Vietnam, e quando l'Unione sovietica inviò le sue truppe per sedare le rivolte in Ungheria (1956) e in Cecoslovacchia (1968). Né ha potuto difendere i diritti umani dei cittadini in Cile, Brasile, Argentina, Indonesia, Pakistan o Turchia. Quando dei membri del Consiglio di sicurezza hanno scatenato guerre e occupazioni, l'Onu è stata impotente.

Nel muovere guerra all'Iraq, gli Usa e la Gran Bretagna non hanno invocato il diritto all'«autotutela» ma i falsi dossier, le bugie ripetute, le vendette contro i giornalisti che hanno rivelato o messo in discussione le falsità nella fase di preparazione alla guerra miravano a spaventare un'opinione pubblica scettica facendole credere che un regime militare indebolito rappresentasse una minaccia.

Ricordate l'«allarme dei 45 minuti», il contributo speciale di John Scarlett e Tony Blair allo sforzo bellico? Mentre la guerra iniziava, l'Onu non ha fatto niente. Una volta che Baghdad è stata occupata, una risoluzione del Consiglio di sicurezza ha accettato la nuova situazione e ha riconosciuto il governo fantoccio. Quando Pol Pot fu rovesciato da un vicino clemente, l'Onu impiegò 12 anni a rimuovere l'uomo di Pol Pot. Lo stato dominante, allora come oggi, sono gli Usa. Di solito succede quello che vogliono loro. È sciocco fingere che non sia così.

Nella guerra del «bene contro il male», come l'ha caratterizzata George Bush, che ruolo può avere l'Onu, ammesso che possa averne uno? Questa questione è il vero cuore del dibattito. Come può la potenza americana (o, secondo la formulazione dello speechwriter di Blair, «la dottrina della comunità internazionale») essere legittimata attraverso una serie di nuove norme internazionali? L'Articolo 51 e la Carta dovrebbero essere emendati in modo da prevalere sulla sovranità nazionale e salvare vite umane in caso di «disastri umanitari» (naturalmente, senza essere applicabili a New Orleans, dove i difensori dei diritti umani in uniforme hanno già imposto una politica di «spara per uccidere» proprio come i «peace-keeper» dell'Onu ad Haiti)? Chi deciderà dove la «democrazia» colpirà la prossima volta per portare stati recalcitranti nella sfera di coprosperità? Certamente non l'attuale Commissione Onu per i diritti umani piena di dissidenti, alcuni dei quali pensano in realtà che le nuove misure di emergenza in Gran Bretagna violino il codice dell'Onu contro la tortura.

Questa Commissione dovrà essere eliminata e sostituita da un Consiglio dei Diritti Umani, la cui composizione sarà determinata da... sì, dal Consiglio di sicurezza, sostenuto dai team legali degli Usa e della Gran Bretagna. Oh, che meravigliosa miniera d'oro per la professione legale potrebbe essere questa! E, osiamo pensare, potrebbe garantire al nostro primo ministro un lavoro ben remunerato dopo che si sarà ritirato.

Le uniche riforme significative sarebbero abolire la camera ereditaria dando tutto il potere (specialmente se si tratta di decidere quando andare in guerra) all'Assemblea generale, e spostare la sede da New York a Caracas, Kuala Lampur, Shanghai o Città del Capo, in riconoscimento del fatto che il grosso del mondo teoricamente rappresentato dall'Onu vive nel Sud. Questo non succederà. Si potrebbe dunque tornare a una versione emendata del suggerimento di Winston Churchill del 1945: una struttura regionalizzata con un Consiglio delle Americhe, un Consiglio d'Europa e un Consiglio dell'Asia orientale, ma ora si potrebbe aggiungere a questi un Consiglio dell'Asia meridionale, un Consiglio dell'Africa e un Consiglio del Medio Oriente. Ciò non ridurrebbe il potere degli Usa immediatamente ma, almeno, fornirebbe una forte struttura di voto regionale, proporzionata alla popolazione.

Qualsiasi riforma reale richiederebbe il ritiro dall'Onu di molti stati importanti del Sud per imporre un cambiamento dello status e della composizione del Consiglio di sicurezza, e un trasferimento non ambiguo di potere all'Assemblea generale; e, in caso di fallimento, un passaggio ai consigli regionali. La maggior parte dei leader non verranno alla Conferenza come «pari», ma come postulanti. 190 stati membri. Una presenza militare statunitense in 121 stati. Le Nazioni Unite d'America?


 

8 settembre

MONDO GUERRA E INFORMAZIONE / IL FENOMENO DEI 'MILBOG'

 
Ultima trincea Internet
 

I militari Usa al fronte iracheno scrivono diari in Rete sulla loro vita quotidiana. Pagine amare e molto diverse dalle verità ufficiali. Il Pentagono si infuria. E impone la censura

 

di Alessandro Gilioli

 

Dal 2 agosto scorso sul blog del soldato Leonard Clark è rimasta solo una finestra bianca con la scritta 'sito chiuso'. Inaccessibile l'archivio, azzerati i commenti. Il soldato Leonard, impegnato sul fronte iracheno, è stato censurato, degradato e multato "per aver rivelato notizie riservate". E' l'ultimo atto di una guerra nella guerra: quella tra i militari americani in Iraq che raccontano nei blog la loro vita quotidiana e i vertici dell'esercito Usa, inquietati da un fenomeno in rapida crescita. Solo dall'Iraq i 'milblog' (abbreviazione di blog militari) sono almeno un centinaio. Poi ci sono i soldati in licenza, quelli congedati, fino a quelli che si trovano nelle seconde o terze linee o in altre basi Usa in giro per il pianeta. E così via.

Fino a pochi mesi fa il Pentagono si mostrava abbastanza tollerante o forse solo disinteressato. Ma ultimamente ha cambiato politica. E ha imposto a tutti i blogger militari in Iraq di registrarsi alla loro unità: i comandanti sono incaricati di fare controlli ogni tre mesi per assicurarsi che i milblogger non stiano "violando le norme operative della sicurezza o la privacy", come recita l'ordine ufficiale. A Washington è stata anche creata una 'cellula di valutazione' per far applicare le nuove regole. Sono seguiti i primi oscuramenti di siti, come quello del soldato Clark, che descrivevano troppo nei dettagli la vita al fronte.

Del resto a scorrere il panorama dei milblog ci si rende subito conto che il cyberspazio in trincea crea non solo un'informazione alternativa ai comunicati ufficiali, ma anche dibattiti, confronti d'opinioni, a volte perfino domande sul senso della missione. Certo, non mancano pagine su come abbattere un M16 o forum sul modo migliore per corazzare gli Humvee, ma si trova anche molto altro. C'è ad esempio chi, come il soldato Michael, si trova a Ramadi e racconta nei dettagli "la puzza, le pozzanghere, il fango" in cui vive: "Tra i cumuli di spazzatura marcia e di acqua merdosa si vedono cani, gatti, perfino bovini che mangiano ogni schifezza. Un altro giorno ordinario nella culla dell'inciviltà", scrive Michael. Dal cui diario emergono mille frustrazioni, una certa sensibilità e, soprattutto, una gran paura dei cosiddetti Ied (acronimo di Improvised Explosive Devices), le bombe piazzate ai lati delle strade che ogni giorno fanno stragi di militari Usa. Lo stesso terrore che traspare dai post del fante di 22 anni autore di Boots in Baghdad, che scrive: "Nessuna parola al mondo può descrivere la sensazione che provi quando un colpo di mortaio finisce a pochi metri da te... Ci sono esperienze che, per quanto uno si sforzi di spiegarle, non possono essere capite se non le hai provate".

Un altro blogger soldato, Colby Buzzel, 28 anni, primo battaglione, ventitreesimo reggimento, ha provato a raccontare una battaglia vissuta in prima linea: quella di Mosul, nell'agosto dell'anno scorso. Molti dettagli cruenti, l'ammissione di civili uccisi, perfino una contestazione dei numeri forniti dalla Cnn (che aveva parlato di soli 12 morti): alla fine a Colby è arrivato un richiamo del Pentagono che lo ha costretto a sospendere il blog fino al congedo. Ora lo ha ripreso (http://cbftw.blogspot.com) e chi lo clicca trova subito un'immagine che fa capire l'opinione dell'ex soldato Colby: è Guernica, il quadro di Picasso sui massacri nella guerra civile spagnola. Dal suo lavoro in Rete ora Buzzel ha tratto un libro ('My war: killing time in Iraq') che uscirà in America il prossimo ottobre.

Per molti militari blogger, tuttavia, il problema principale non è tanto ammazzare il nemico, quanto ammazzare il tempo. Se ad esempio si è bloccati nella zona meridionale di Baghdad, nella polvere di Camp Falcon, e ci si occupa soltanto di rifornimenti di cioccolato o di carta igienica, è chiaro che dal sito emergeranno soprattutto nostalgia e stanchezza: è il caso di Danjel Bout, un capitano di 32 anni, di Los Angeles, ufficiale addetto alla logistica, terza divisione di fanteria. Danjel, che spiega di essere entrato nell'esercito per pagarsi il college, tiene un blog con il nome di Thunder 6 e al pc si lascia andare a descrizioni vagamente letterarie: "Sonno: benedetto, beato, meraviglioso sonno. Latte materno. Un intero raccolto in tempo di carestia. Il sonno: questa è la droga preferita da queste parti, sempre agognato. Se la rarità è l'unità di misura per dare valore a qualcosa, allora qui in Iraq il sonno ha un prezzo incommensurabile. Quando la mia mente scivola via tra lo stato di veglia e il mondo dei sogni, la giornata sembra sciogliersi come in un dipinto di Dalí, lasciandomi soltanto dolci sogni di miele della mia altra vita, quella lontana dai paesi arabi".

Tutt'altro spirito anima un blog tenuto da tale Neil Prakash, tenente di primo grado con limpide simpatie di destra e un'anima gonfia di orgoglio militare. Figlio di due dentisti indiani, naturalizzato americano, cresciuto nello Stato di New York e laureato in Scienze neurologiche, nel suo blog palesa entusiasmo per essere entrato nelle forze armate: "Nella mia vita dovevo scegliere tra essere al comando del miglior gruppo di uomini al mondo o ritrovarmi in un cubicolo della Dell Computer di Bangalore a spiegare al telefono ai clienti americani come si fa a formattare un disco fisso", scrive sarcastico. E si prodiga in descrizioni un po' spaccone delle battaglie combattute e vinte, come quella di Falluja dell'aprile 2004.

Simile a Prakash è Matt 'Blackfive', ex agente dell'intelligence ed ex paracadutista, da poco tornato a Chicago dopo aver servito un anno in Iraq. Il suo sito è uno dei più conservatori e guerrafondai, e forse proprio per questo è stato eletto dai commilitoni come il migliore milblog del 2004. Il forum è pieno di commenti polemici sulla partigianeria dei media, soprattutto quelli più pacifisti. Visto il successo, Matt ha deciso di tenere in piedi il sito anche dopo essere tornato in America e ha aggiunto una sezione di annunci economici sul quale impazzano le vendite di gadget e articoli di propaganda anti-liberal. Ci sono foto di ragazzone sexy che imbracciano armi potenti e link a libri e film ultraconservatori. Blackfive vende anche una t-shirt (per cinque dollari) il cui ricavato è devoluto all'associazione Soldier's Angels che aiuta i soldati Usa reduci o feriti nel conflitto iracheno. Matt però non vuole far sapere il suo cognome: ora lavora come informatico in un'azienda privata e non pensa che i suoi capi approverebbero il suo blog un po' estremista. Che però resta un punto di ritrovo frequentato, con una media di 5 mila visite individuali al giorno. Secondo il settimanale conservatore 'National Review', il suo sito viene letto regolarmente nei think tank più importanti degli Usa.

Un altro blog assai popolare tra i graduati è la 'Mudville Gazette, redatta negli Usa da un veterano, ma aperta ai contributi dei militari al fronte, così come il sito Doc in The Box curato dagli Usa dall'appassionato milblogger Sean Dustman.

Molto seguito a Washington, ma per tutt'altri motivi, è anche il blog di Zachary Scott, sergente e traduttore dall'arabo di stanza a Tikrit: i vertici del Pentagono lo tengono nel mirino perché si fa un po' troppe domande, ad esempio sui livelli di uranio impoverito presenti nell'Iraq meridionale o sul modo in cui molti civili iracheni vedono gli americani "non liberatori, ma invasori". A volte i suoi racconti sono quasi minimalisti: "La notte era silenziosa. Poi il silenzio è rotto da un'esplosione. Un altro uomo-bomba suicida". Pochi giorni fa Zachary ha rivelato: "Ho appena finito di parlare con due soldati delle Special Forces. Dicono che secondo loro qui in Iraq stiamo perdendo. E che ci rimmarremo dai 10 ai 30 anni. Se anche le nostre truppe scelte vedono questa cupa realtà, perché non riuscite a vederla anche voi in America?". Di evidenti simpatie pacifiste, il traduttore Scott si cautela con una scritta in cima al suo sito: "Tutte le opinioni espresse in questo blog sono pareri personali di un soldato e non coinvolgono in alcun modo l'esercito americano".

Per ora, comunque, Zachary è ancora on line. Non altrettanto bene è andata a Michael Cohen, maggiore e medico nell'ospedale militare americano di Mosul, che invece è stato costretto a chiudere. Quella di Cohen è la storia di un soldato appassionato di tecnologie, che a Mosul era riuscito addirittura a trasfomarsi in una specie di provider, impiantando un collegamento a banda larga con un'antenna satellitare fatta venire apposta dalla Germania. In poco tempo aveva creato un piccolo network grazie al quale i commilitoni, feriti e non, potevano fare un po' di tutto: parlare via webcam con le famiglie a casa, chiacchierare con gli amici in instant messaging, scaricarsi filmini porno. Poi Cohen ha iniziato a scrivere un blog sul network da lui stesso creato. All'inizio lo usava soltanto per tenersi in contatto con la famiglia e gli amici, ma quando nel dicembre scorso dalle sue parti un attentatore si è fatto saltare in aria uccidendo 22 persone, Cohen ha iniziato a descrivere in dettaglio durante l'emergenza creata dalla carneficina: "Il laboratorio ha organizzato una raccolta di sangue perché le scorte sono al limite. La farmacia prepara freneticamente le soluzioni da iniettare in vena. La radiologia scatta lastre una dietro l'altra e la Tac è in funzione ininterrottamente. Noi laviamo e ingessiamo le fratture. Abbiamo inserito non so quanti cateteri toracici. Il numero dei pazienti attaccati ai respiratori e ai ventilatori meccanici è molto alto, così il rumore nell'unità di terapia intensiva è diventato fortissimo e per parlarci dobbiamo gridare. In tutto sono arrivati 91 pazienti. Diciotto erano già cadaveri. Altri quattro sono morti appena arrivati, avevano ferite troppo gravi per sopravvivere. Dei 69 rimasti, 20 sono stati trasferiti ad altri ospedali militari e qui ne sono rimasti 49". Pochi giorni dopo questo post, Cohen è stato chiamato da un superiore: "Qualcuno nella catena di comando pensa che quello che scrivi nel tuo blog violi le leggi dell'esercito", gli ha detto. Il soldato medico e blogger ha obbedito e ha chiuso il suo sito. Dopo un po' è stato trasferito in Germania. Oggi chi clicca il suo indirizzo Web trova un messaggio di saluti e di scuse. Daniel ribadisce comunque di essere "orgoglioso di aver fatto il medico militare in Iraq, prendendosi cura di donne e uomini coraggiosi che combattono per la libertà dell'America". Il Pentagono, interrogato sulla censura imposta a Cohen, ha risposto che "i blog dei soldati non devono rivelare alcuna informazione sui feriti che possa angosciare le loro famiglie, né dettagli che possano compromettere la sicurezza".

Anche il sito del riservista Jason Hartley, ha provocato un intervento abbastanza duro da parte dei vertici. Hartley, di stanza nella città di Ad Dujayl, si esprimeva con un linguaggio un po' crudo che probabilmente non corrispondeva all'immagine del militare americano felice di esportare la libertà e la democrazia: "Essere un soldato significa vivere in un mondo di merda. Dai frocetti che preparano il mio pasto o lavano la mia biancheria ai piloti degli Apache fino ai Berretti verdi che si occupano di tutta la parte hollywoodiana, le nostre vite sono costantemente in uno stato di rottura di palle", scriveva. L'estate scorsa il Pentagono ha imposto a Hartley di chiudere bottega. Lui per un po' ha obbedito, ma pochi mesi dopo, senza chiedere permesso, ha ripreso a scrivere on line. A quel punto il blog è stato chiuso di forza e Jason è stato arrestato e degradato per aver disobbedito a un ordine specifico. Hartley ha deciso di non fare appello, si è congedato ed è ritornato alla vita civile. Anche lui ha tratto dal suo blog un libro, in uscita il mese prossimo da HarperCollins con il titolo 'Just An Other Soldier: A Year in the Ground of Iraq'.

Chi invece non potrà mai più raccontare storie di alcun tipo è il soldato blogger Francisco Martinez, 21 anni, di Fort Worth, Texas. Un cecchino gli ha sparato il 20 marzo scorso, a Tamin, in Iraq. Il suo sito (www.freekdesigns.com) è stato tolto dal cyberspazio. Ma se cliccate a un altro indirizzo (http://fm5ive4ever.memory-of.com/about.aspx) troverete tutto su di lui. è stata la sua fidanzata, Mirela, che gli ha creato un memoriale on line.


 

 

Lettera aperta di Michael Moore al presidente George W. Bush

 Caro signor Bush,

 hai idea di dove sono tutti i nostri elicotteri? Siamo al quinto giorno dal ciclone Katrina e migliaia di persone sono bloccate a New Orleans e
 hanno bisogno di essere portate via. Dove diavolo hai messo tutti i  nostri elicotteri militari? Hai bisogno di aiuto per trovarli? Io una
 volta ho perso la macchina in un parcheggio di Sears. Wow, è stato davvero un casino.

E poi, hai idea di dove sono tutti i nostri uomini della  Guardia Nazionale? Ci farebbero veramente comodo adesso per quel genere
 di cose per le quali si sono arruolati, tipo dare una mano in caso di  catastrofe nazionale. Com'è che non erano lì?
 Giovedì scorso ero nel sud della Florida, seduto all'aperto, e l'occhio del ciclone Katrina mi è passato sopra la testa. In quel momento era
 solo di categoria 1, ma è stato comunque parecchio tosto. Sono morte undici persone e, ad oggi, ci sono ancora case senza elettricità. Quella
 notte le previsioni del tempo hanno detto che la tempesta si stava dirigendo verso New Orleans. Ed era giovedì! Non te l'ha detto nessuno?
 So che non volevi interrompere le vacanze e so quanto ti dispiaccia ricevere brutte notizie. E poi avevi degli amici che raccolgono fondi
 per te da andare a trovare e delle madri di soldati uccisi da ignorare e  denigrare. Certo che gliel'hai fatta vedere!
 In particolare mi è piaciuto come, il giorno dopo il ciclone, invece di prendere un aereo e precipitarti in Louisiana, sei andato a San Diego a
 far festa con i tuoi colleghi amichetti. Ma non lasciare che la gente ti critichi per questo - dopo tutto, il ciclone era finito, e tu che
 diavolo potevi fare, tamponare la falla con un dito? E non ascoltare quelli che, nei prossimi giorni, riveleranno come quest'estate hai
 puntualmente ridotto il budget del genio militare destinato a New Orleans per il terzo anno di fila. Tu digli solo che anche se non avessi
 tagliato i fondi per sistemare quegli argini, non ci sarebbero comunque stati ingegneri dell'esercito per aggiustarli perché c'era un lavoro di
 costruzione molto più importante di cui si dovevano occupare - COSTRUIRE LA DEMOCRAZIA IN IRAQ!

 Il terzo giorno, quando finalmente sei partito dalla casa  delle vacanze, devo ammettere che mi ha commosso il modo in cui hai
 fatto scendere dalle nuvole il tuo Air Force One volando sopra New Orleans per dare un'occhiata al disastro. Hey, lo so bene che non potevi
 mica fermarti, prendere in mano un megafono in piedi tra le macerie e comportarti come un comandante in carica. Quello l'hai già fatto. Ci
 saranno quelli che cercheranno di politicizzare questa tragedia e di usarla contro di te. Tu fa' in modo che la tua gente sottolinei questa
 cosa. Non rispondere a niente. Anche quei fastidiosi scienziati che avevano previsto che tutto questo sarebbe successo perché l'acqua nel
 Golfo del Messico sta diventando sempre più calda, rendendo inevitabile una tempesta come questa. Ignorali, loro e tutti i loro chiacchiericci
 sul riscaldamento della terra. Non c'è niente di insolito in un ciclone tanto grande quanto un tornado della massima forza distruttiva che si
 estende da New York a Cleveland.
 No, signor Bush, tira dritto per la tua strada. Non è colpa tua se il 30% degli abitanti di New Orleans vive in miseria, o se decine di
 migliaia di loro non avevano mezzi di trasporto per lasciare la città Andiamo, sono neri! Cioè, non è mica come se una cosa del genere fosse
 successa a Kennebunkport. Ti immagini, lasciare dei bianchi sui tetti per cinque giorni? Ma non farmi ridere! La razza non ha niente - NIENTE
 - a che vedere con tutto questo!
 Tieni duro, signor Bush. Cerca solo di trovare qualcuno dei nostri elicotteri e mandali là. Fa' finta che la gente di New Orleans e la
 costa del Golfo del Messico siano vicini a Tikrit.

 Tuo
 Michael Moore


 

2 settembre

Speculazioni miliardarie sugli infortuni sul lavoro
Andrea Pasquini ha 57 anni, è un capo reparto alle acciaierie di Piombino, prima della famiglia Lucchini adesso in mano ai russi della Severstal. Ieri pomeriggio stava lavorando al treno della laminazione quando la lastra d'acciaio che stava varando si è improvvisamente staccata dal supporto e ha terminato la sua corsa sulla gamba di Andrea, staccandola di netto dal resto del corpo. E' il terzo infortunio grave sul lavoro dall'inizio dell'anno alla ex Lucchini. E in Italia si viaggia alla media di 4 incidenti mortali sul lavoro al giorno.

Sempre ieri il cda dell'Inail (l'istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro) ha approvato all'unanimità l'utilizzo di 1,6 miliardi di euro "avanzati" dalle gestioni degli ultimi anni e depositati in un fondo infruttifero presso la tesoreria dello Stato: 300 milioni alla cittadella della polizia di Napoli, 500 milioni alla cittadella della scienza di Milano e altri 1. 000 all'istituzione di 3 campus universitari da inaugurare il 6 settembre alle spalle dei 3 atenei di Roma. La prima infrastruttura, ideata a metà novembre 2004 dal ministero dell'Interno in accordo con il Presidente della Regione Campania Antonio Bassolino, il sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino, Fintecna, Agenzia del demanio, Azienda Monopoli di Stato e la stessa Inail è, citando pari pari dal sito del Viminale «un'area di oltre 180mila metri quadrati ubicata nell'ex manifattura dei tabacchi di Napoli, che ospiterà spazi addestrativi, poligono di tiro, palestra, eliporto, mensa (con 1.500 posti), auditorium (per 700 persone) e uffici per raccogliere un totale di 4mila addetti. Un parco auto per 2mila automezzi, un centro per la raccolta di materiale di ricambio, un'area per i mezzi di servizio e parcheggi interrati. Alloggi, foresteria e camerate per mille persone». Il secondo è un centro di ricerca scientifica che raggrupperà, e questa volta la fonte è il sito della Regione Lombardia, «i tre principali istituti milanesi operanti nell'oncologia (IEO - il polo oncologico dell'ex ministro Umberto Veronesi, Ndr), cardiologia (Monzino) e neuroscienze (Besta II) per la ricerca biomedica avanzata». Fra gli altri progetti approvati dai consiglieri dell'istituto per il triennio 2006-2008 ci sono, per esempio, gli acquisti della Dia di Roma e degli uffici della polizia di Stato per 247 milioni di euro.

Niente che eluda il regolamento, perché l'Inail può spendere in investimenti immobiliari fino al 55% del disavanzo di gestione. Ma è una questione di priorità, perché questi sono i soldi pagati da lavoratori ed imprese per avere sicurezza e assicurazioni nei luoghi di lavoro: «Niente in contrario al fatto che l'Inail possa essere un investitore istituzionale, ma prima andrebbero verificate altre questioni, cioè il rapporto con i lavoratori e le imprese e la sicurezza - attacca Morena Piccinini, segretaria confederale della Cgil - Se poi questi investimenti non producono utili per coloro che i soldi ce li hanno messi, allora siamo di fronte ad un doppio scippo».

C'è poi da considerare la partita politica che si sta giocando su questo mucchio di soldi (in totale sono 3 miliardi e mezzo i risparmi accumulati dall'Inail), con il ministro dell'economia Siniscalco che vorrebbe utilizzarli in gran parte nella prossima Finanziaria per risollevare le casse statali ed il ministro del wellfare Maroni che invece spinge perché siano spesi per le opere sopra citate, con particolare riferimento all'area milanese. Ieri i due ministri si sono incontrati ma nessuno ha rilasciato dichiarazioni alla stampa. Ogni decisione finale è probabilmente rimandata ai ministeri vigilanti che dovrebbero dare il via libera al piano e poi allo sblocco dei fondi.

Ma comunque si risolva la diatriba governativa, niente di nuovo sembra prospettarsi per i lavoratori italiani, già alle prese con la legge 38/2000 che ha modificato il regolamento delle rendite infortunistiche abbassando del 5%, secondo i calcoli dei sindacati, gli importi assicurativi in caso di infortunio: «E' giusto investire proficuamente - commenta Pietro Mercadelli, presidente dell'Anmil (associazione dei mutilati ed invalidi sul lavoro) - ma si deve anche tenere conto della necessità di migliorare i servizi agli infortunati sul lavoro, nonché ai superstiti delle vittime e, soprattutto, finanziare il reinserimento al lavoro e i piani e i progetti di sicurezza». «Perché con quei soldi non hanno pensato di aumentare le rendite infortunistiche che sono ben più basse rispetto ai danni subiti? - chiede polemicamente Sante Moretti, Prc - Perché non sono stati destinati alla prevenzione, o ai familiari delle vittime sul lavoro o agli infortunati?». Gli spazi di manovra non mancherebbero: «Per esempio potevano aumentare le ispezioni nei cantieri, mica è scritto che debbano farle solo gli ispettori del lavoro. In passato l'Inail faceva anche studi di approfondimento sulle malattie professionali, potevano riprenderli» continua Moretti. Contro la 38/2000 si batte da tempo anche la Cgil: «Ha introdotto dei criteri molto restrittivi, era un sistema sperimentale che però in 5 anni non è mai stato verificato. E adesso le imprese chiedono la riduzione dei premi se hanno precedentemente investito in sicurezza... è tutto il sistema che va rivisto» conclude Piccinini.

Intanto alla Lucchini i colleghi di Andrea Pasquini sono subito scesi in sciopero per 2 ore e le Rsu tornano a gridare la parola d'ordine: «Basta pensare solo alla produzione» e a chiedere ai nuovi proprietari di «uscire allo scoperto con fatti concreti a garanzia che la sicurezza non vada a scapito della produttività. Perché è impensabile andare in fabbrica a morire». Frasi, purtroppo, già dette e sentite troppe volte. Ma evidentemente ancora non basta.

 

1 settembre

COMMENTO
Precipitati nel terzo mondo
di VITTORIO ZUCCONI

La città annegata che vediamo affiorare come un clandestino caduto in mare è il film della nostra modernità umiliata. Se lo tsunami del 2004 nell'Oceano Indiano fu la parabola orribile della fragilità del mondo povero, la tragedia del Golfo è la rappresentazione del contrario.

È l'umiliazione della potenza industriale e tecnologica di fronte a un disastro cosiddetto naturale, che diventa disastro tale solamente perché si è abbatte su un mondo innaturale e quindi incapace di assorbirlo.
Il tremendo paradosso di quello che stiamo vedendo e vivendo negli Stati Uniti, dove il contraccolpo si avvertirà su tutta l'economia, sulla politica, persino sulla guerra in Iraq dimenticata anche nel giorno della strage di Bagdad, è che la complessità e la sofisticazione del tessuto urbano di una metropoli come New Orleans rende più difficile, e non più facile, sopravvivere.

La superiorità materiale del "Primo Mondo" si rivolta oggi contro abitanti sparati e in 24 ore in un "Terzo Mondo" che non sanno come affrontare. È più semplice per un villaggio di pescatori in Indonesia ricostruire la propria povera normalità di quanto lo sia per una città regione di 4 milioni di abitanti completamente dipendenti dalle proprie infrastrutture tecnologiche per vivere, mangiare, lavorare. Rimettere in funzione una centrale nucleare o centro direzionale devastato che, senza aria condizionata e senza collegamenti telefonici, è un inutile monumento di cemento armato è spaventosamente più complesso che riorganizzare la microsocietà di una piccola comunità elementare. A New Orleans non riapriranno le scuole per almeno due mesi, ci informano i governatori dei due stati più devastati, la Louisiana e il Mississippi che hanno parlato, con scarsa sensibilità storica, di una "Hiroshima". Non sanno che nella Hiroshima assai più primitiva di una New Orleans, le prime scuole riaprirono tre settimane dopo la Bomba, spesso all'aperto, con gruppetti di scolari seduti tra le macerie attorno al maestro. Cosa impossibile nella città americana o europea del 2005, dove il sistema scolastico è completamente schiavo del sistema dei trasporti e delle comunicazioni pubbliche o private, per funzionare.

Nutrirsi, mangiare, soddisfare le esigenze più elementari, il pannolino, la formula, i medicinali, un cambio di biancheria, un sapone, divengono imprese inarrivabili, nella chiusura dei supermercati e dei negozi, un fatto che spiega la furia dei saccheggi alla quale anche molti poliziotti si sono uniti. Una comunità condizionata e dunque prigioniera del proprio sviluppo si trova costretta a vivere improvvisamente come profughi del Darfur, ma senza avere il lungo, tragico addestramento quotidiano alla sopravvivenza e all'arrangiarsi. Creature addomesticate dallo sviluppo ora sono costrette a un passaggio nello stato di natura. Le vediamo vagare confuse, processioni di profughi che ciondolano sui mozziconi di ponti o si incamminano con fagotti sulle spalle, senza sapere dove vanno, pur di andare. Mentre incombono le notti affidate alla luna e alle stelle, tornato improvvisamente luminosissime nella mancanza di luci.

Nessuno osa fare previsioni sui tempi necessari per ricostruire la rete di trasmissione elettrica, perché i trasformatori e le sottostazioni sono tutte sott'acqua e le dighe hanno tutte ceduto. Le linee telefoniche terrestri sono fuori combattimento e soltanto i generatori tengono in funzione alcune "celle" per i telefonini e permettono ai camion satellitari delle televisioni di trasmettere i loro segnali.

La centrale nucleare che alimentava New Orleans è stata saggiamente bloccata prima che Katrina arrivasse. La distribuzione alimentare, costruita su frigoriferi di grossisti, dipende ora dalle colonne di autocarri militari che stanno avanzando con le razioni da campo. Parlare di lavoro, dunque di salari, non ha alcun senso, nella devastazione di magazzini, uffici, alberghi, casinò, persino di stazioni tv e giornali, tutti chiusi o evacuati. L'acqua deve essere bollita, ma con che fuochi, domanda la gente, se gas ed elettricità non ci sono?

La lezione di Katrina è banale eppure inascoltata. La modernità di una struttura urbana la rende non più resistente, ma più vulnerabile all'evento catastrofico, anche nel tempo della cosiddetta "guerra al terrorismo", quando le metropoli americane dovrebbero, ormai da almeno quattro anni, essere preparate a reagire in caso di attacchi devastati. Non esisteva invece un piano d'emergenza che fosse pronto a misurarsi con l'assalto di un terrorista naturale che aveva almeno, a differenza dei terroristi uomini, pubblicizzato da una settimana il suo arrivo. Se questo è il risultato della "sicurezza", che cosa accadrebbe a New York, a Boston, a San Francisco, a Washington, se il "doomsday scenario", la sempre annunciata aggressione terroristica con materiali radiottivi o con armi biologiche dovesse avvenire? Con i miliardi di dollari che il governo riverserà sulle zone colpite, ora che finalmente Bush si è deciso ad abbandonare le sue ormai insolenti ferie, a svolazzare a bassa quota sulla regione, dopo due giorni di inutili comizi su una guerra in Iraq che interessa soltanto chi la sta combattendo, New Orleans, Gulfport, Biloxi torneranno a vivere, tra mesi o anni.

Ma la mazzata di Katrina non ha scoperchiato uno stadio di football, ha scoperchiato la supponenza della nostra modernità, le illusioni del mondo wired, collegato, elettrificato, a banda larga, come ha scoperto imbarazzato un senatore del Mississippi quando ha invitato i cittadini a "collegarsi a internet per avere informazioni". Quale internet, senatore, gli ha chiesto un cronista? Non è più l'America, quella che vediamo a pezzi sullo sfondo delle processioni umane dei profughi vaganti, quasi tutti neri di pelle, perché sono loro, quelli che non avevano i mezzi e i soldi per fuggire (E per andare dove? Come? Con quali soldi?) quelli che sono andati a fondo. Non ci sono differenze visibili tra il pescatore cingalese e la vecchia nera rimasta con la sola borsetta, sfollata e in attesa di un autobus militare che la porti chissà dove. Entrambi vivono in un "Terzo Mondo", dipendenti dagli altri ma, per gli alieni in casa propria di New Orleans, reso più crudele dalle rovine di quel "Primo Mondo" che li ha traditi. E che ora li circonda come un set cinematografico reale e senza lieto fine.