Archivio Ottobre 2005

 

 

28 ottobre

«Cariche a freddo. E' stata una caccia all'uomo»
Gli studenti denunciano: «Hanno puntato persone note per le loro lotte». I parlamentari: «Fare chiarezza»
«Garantire i pestati» Gli studenti: «Tutelare chi è stato identificato e ha già a suo carico provvedimenti penali». Russo Spena (Prc): «Amnistia per i reati sociali»

CINZIA GUBBINI
ROMA
Studiare dei «punti di garanzia» per gli studenti manganellati e identificati durante lo «strepitoso corteo» autorganizzato di martedì. Denunciare il clima di intimidazione, «la carica a freddo, contro una manifestazione pacifica che fino ad allora si era svolta senza particolari incidenti». Ma anche condannare i «mass media, che si accorgono del movimento solo quando porta in strada 150 mila persone e però non rinunciano a strumentalizzare gli eventi, puntando tutto sulle violenze invece che sui contenuti». Facoltà di Scienze politiche della Sapienza di Roma, il giorno dopo. La conferenza stampa convocata dagli studenti per tirare le somme della manifestazione e per denunciare le violenze registrate in piazza è stracolma. Studenti, giornalisti, ma anche i parlamentari del centrosinistra che prendono la parola. Su un tavolo un pc portatile rimanda le fotografie della carica di via del Corso, quando un gruppo di studenti - prevalentemente delle altre città d'Italia - accompagnati da una delegazione della facoltà di Scienze politiche di Roma si era staccata dal presidio davanti Montecitorio per dirigersi verso la stazione dei treni ed è stata aggredita senza ragioni dal Reparto mobile di Roma: almeno 15 i feriti. Un attacco che secondo alcuni ha una precisa regia politica, «An ci riprova e si erge a paladino dell'ala più oltranzista dentro le forze dell'ordine», dice il verde Paolo Cento.

Di sicuro, secondo gli studenti:«E' stata una caccia all'uomo, la polizia si è accanita contro compagni che si sono battuti in questi anni per un'università libera, pubblica e critica - spiega Francesco Raparelli, Filosofia - Hanno già accumulato denunce penali, e ora l'identificazione potrebbe portare a un'ennesima denuncia. E' indispensabile tutelarli e invitare tutti a riscrivere elementi di verità: raccogliamo materiali video e fotografici per dimostrare cosa è accaduto». Una mail per raccogliere i documenti sulle cariche è già stata creata: lasporti@tiscali.it.

Uno dei ragazzi identificati è uno studente di Scienze politiche, che oltre alle denunce penali collezionate nel corso di manifestazioni di movimento, fa parte del gruppo di cinque persone per le quali il Senato accademico aveva chiesto l'espulsione dalla facoltà. Il deputato di Rifondazione Giovanni Russo Spena a margine della conferenza stampa lancia una proposta: «E' arrivato il momento che i parlamentari si impegnino per chiedere un'amnistia per i reati sociali, magari autodenunciandosi». Il consigliere comunale di Roma Nunzio D'Erme dice la sua dal microfono: «E' arrivato il momento di creare un osservatorio sulla legalità a Roma»

Graziella Mascia (Prc) annuncia che il ministro dell'interno Pisanu riferirà in aula venerdì sugli scontri avvenuti e chiede di ricevere tutte le informazioni possibili non solo sulle violenze di martedì ma anche sugli episodi dei giorni precedenti. Pochi attimi prima uno studente delle scuole superiori romane aveva ricordato lo sgombero violento del liceo Democrito, «ma queste intimidazioni non ci hanno fermato e proprio in queste ore gli studenti del liceo Righi, che aspettano un processo per le mobilitazioni degli anni passati, stanno votando per l'occupazione». Tutti i parlamentari - dal Cento a Pietro Folena di Rifondazione - assicurano di volersi impegnare perché i tavoli del programma dell'Unione accolgano le richieste del movimento. Ma gli studenti sono molto suscettibili nei riguardi di qualsiasi tipo di ingerenza partitica, perché - sottolineano - «il nostro è un movimento autonomo e creativo»: la riforma universitaria del centrosinistra non se la scorda nessuno, e nessuno è disposto a fare credito. Andrea Capocci del collettivo Laser ricorda che «40 mila degli attuali 60 mila precari sono stati creati dalla riforma Zecchino». Luca, ricercatore di Fisica avverte: «Vi aspettiamo al varco».

Ma intanto il ddl è stato approvato. Che fare? Qualcuno caldeggia l'ipotesi di lanciare un appello al presidente della Repubblica perché non firmi il provvedimento, proposta rilanciata nel pomeriggio da Marco Merafina, del coordinamento nazionale ricercatori universitari. Ma la ricetta è, innanzitutto, continuare la mobilitazione nelle scuole e nelle università. Chiedere ai rettori di non applicare il decreto: «dopo le parole i fatti». Stamattina alle 10,30 il rettore Guarini ha convocato - dopo l'occupazione del rettorato giovedì scorso - un'assemblea pubblica nel dipartimento di chimica.

 

Briciole di welfare
GALAPAGOS
Soldi ce ne sono pochi: è l'alibi di Berlusconi e Tremonti per giustificare la pochezza della finanziaria e i tagli alla spesa sociale necessari per centrare gli impegni con Bruxelles. Soldi, invece, ce ne sono tanti. D'altra parte lo stesso Berlusconi ci ha ossessionato negli ultimi tempi con lo slogan «gli italiani sono ricchi». E' vero: i ricchi da quando c'è lui al governo sono aumentati di molto, ma sono aumentati ancora di più i poveri. Certo, l'Istat parla di «povertà relativa», però quanto c'è di relativo per una famiglia a dover vivere, anzi sopravvivere, con poche centinaia di euro al mese in città come Roma o Milano? L'Italia è ricca, ma milioni di italiani sono poveri. Non è una contraddizione: è il risultato di una politica economica che tende a esasperare le differenze. E la povertà è il risultato di un sistema fiscale iniquo - nel quale il lavoro paga più tasse della rendita - e inefficiente, visto che sfuggono ogni anno al fisco redditi per un ammontare superiori ai 150 miliardi di euro (300 mila miliardi di lire per semplificare). Ieri un quasi ignoto deputato di An - Giampaolo Landi di Chiavenna, come specificava l'Agi - ha sostenuto che «tassare i patrimoni e le rendite è un errore che la Casa delle libertà non può permettersi». Perché non può permetterselo? Non certo in base alla teoria economica; sicuramente non in base all'evidenza empirica che ci dice che sono i paesi del Nord Europa a guidare la classifica dell'efficienza economica, del benessere, della solidarietà e quindi della civiltà. Il problema è che anche An è diventata schiava di Berlusconi e della ideologia di classe che il cavaliere rappresenta.

Eppure spazi per fare e fare bene ce ne sono. Invece si litiga sulle briciole, con l'Udc che minaccia la rottura per circa 200 milioni di euro tagli alle famiglie. Ma perché poi «famiglie»? Perché non chiamarli tagli ai «cittadini», ai diritti di ognuno di noi, a cominciare di chi è diverso, da chi non vuole farsi o non può farsi una famiglia?

L'Italia è un paese di contraddizioni: ricchezza e povertà; cittadini di serie A e di serie B. Ma anche proprietari di case e cittadini che la casa non ce l'hanno, ne hanno bisogno, ma non riescono a averla. Le statistiche dicono che ci sono 600 mila cittadini sotto sfratto. Molti di loro sono «morosi», ma nessuno lo è per hobby: il mercato li strangola con affitti mostruosi. Le case non mancano: sono circa 2 milioni quelle sfitte. Ma in questo caso la legge della domanda e dell'offerta non funziona. Il livello degli affitti è determinato dal prezzo delle abitazioni; i prezzi delle case sono imposti dagli immobiliaristi che fanno rimpiangere i vecchi palazzinari. Il mercato delle abitazioni è un mercato asimmetrico dove il potere ce l'ha solo il proprietario e dove l'inqulino deve prendere o lasciare. E lasciare significa spesso finire in mezzo a una strada o in precarie coabitazioni con umiliazioni pesanti per quanto riguarda i giovani .

Il tutto favorito da una offerta pubblica quasi inesistente; da cartolarizzaioni dismissioni fatte solo per fare cassa e non per dare nuovo impulso al'attività edilizia come suggeriscono giustamente anche quelli dell'Ance, i costruttori. Sandro Medici ha fatto un gesto coraggioso anche se qualcuno dice che non ha fatto che «copiare» quello che alcuni decenni fa aveva deciso di fare Giorgio la Pira indifesa dei senza casa fiorentini. Per i benpensanti non è questo il sistema per risolvere il problema della casa. Forse, anche se in situazioni di emergenza si ricorre a misure di emergenza. In ogni caso Medici ci ha insegnato una cosa: la soluzione per risolvere i problemi degli emarginati non può essere la legalità invocata da Cofferati.

 

26 ottobre

Ayo e Adam, espulsi a Ragusa
Esiliati politici a Siracusa

E' un po' come se un automobilista fermato dalla polizia a un posto di blocco, esibisse l'ordinanza di ritiro della patente. Ubriaco? Pazzo? Chissà come reagirebbero i poliziotti. E soprattutto chissà se crederebbero a una spiegazione di questo genere: "Vi posso assicurare che qualche tempo sono stato fermato da dei vostri colleghi che, proprio come voi, mi hanno chiesto la patente. Non ce l'avevo, non l'ho mai avuta, e gliel'ho detto. Loro mi hanno dato questo foglietto e mi hanno ordinato di ripartire immediatamente. Così ho pensato che il foglietto fosse una specie di patente sostitutiva. Altrimenti non mi avrebbero certo consentito di riaccendere il motore".

Qualcosa del genere è accaduta ad Ayo Afolabi, venticinquenne nigeriano, e anche a Adam Moussa, ventiseienne del Togo. Con una differenza non piccola: il loro "foglietto" non riguardava la possibilità di guidare un'automobile ma di vivere in Italia. Era, infatti, un decreto di espulsione. Ma Ayo e Adam - e con loro altri dieci giovani immigrati - credevano che fosse un permesso di soggiorno o qualcosa di simile. Infatti, subito dopo averlo ricevuto dai poliziotti, erano tornati liberi sul territorio italiano.

La cosa sarebbe finita così, con qualche centinaio di nomi nelle statistiche delle espulsioni e con quasi altrettanti nuovi clandestini, se la ricerca di un luogo dove poter mangiare e dormire non li avesse condotti alla parrocchia di Bosco Minniti a Siracusa, che da anni ospita una casa di prima accoglienza. Non tutti assieme, ma uno per volta, alla spicciolata. Adam è arrivato all'inizio dell'estate. Ha raccontato d'essere sbarcato a Scoglitti, provincia di Ragusa, il 23 giugno e di essere stato fermato dalla polizia assieme a centottanta compagni di viaggio. "Ci hanno portati dentro un grande tendone dove ci hanno preso le impronte digitali e fotografati. Alla fine ci hanno consegnato questi fogli e siamo tornati tutti liberi". Quindi, ha mostrato quello che credeva un 'permesso di soggiorno'. Gli operatori della parrocchia gli hanno spiegato, in un inglese semplice semplice, che si trattava in realtà di un ordine di espulsione. C'è rimasto male. Ma è apparso ancor più deluso quando ha saputo che uno nelle sue condizioni, costretto ad abbandonare il suo paese per motivi politici (il padre è stato ucciso nel 2003 durante una manifestazione di protesta contro il dittatore Eyadema) aveva il diritto di chiedere l'asilo politico. "Nessuno mi ha detto di questa possibilità", ha spiegato.

Tornando all'esempio iniziale è come se, dopo saputo di non essere in possesso della patente, l'automobilista avesse scoperto che aveva il diritto di prendere un taxi, ma nessuno l'aveva informato. Fosse stato uno solo, si sarebbe potuto pensare a pasticcio burocratico. Ma poi sono arrivati gli altri undici, tutti con l'ordine di espulsione della questura di Ragusa e tutti con le idee confuse. Ayo, sbarcato il 9 settembre, aveva capito che in quel foglio c'era scritto di lasciare l'Italia, ma considerava l'ordine alla stregua di una generica esortazione. Infatti, dopo averlo ricevuto, non solo era tornato in libertà, ma aveva potuto vagabondare indisturbato, per oltre un mese, tra Roma, Napoli e Foggia. Giunto a Bosco Minniti ha appreso, come Adam, della possibilità di chiedere asilo come perseguitato politico. Una condizione certificata sul suo corpo dai segni delle torture subite in Niger.

Dodici immigrati che, dopo essere passati per Ragusa, ricevono un ordine di espulsione-lampo e che, in coro, affermano di non aver avuto né il modo né il tempo di chiedere asilo, rivelano una prassi. E fanno capire come le norme della legge Bossi-Fini vengano adattate alle multiformi emergenze locali fino al punto d'essere trattate come 'suggerimentì dei quali si può anche non tenere conto. Nascono così, a pochi chilometri di distanza, diverse "legislazioni di fatto".

Gli espulsi dalla polizia di Ragusa, una volta giunti a Bosco Minniti e debitamente informati sui loro diritti, si sono presentati negli uffici della questura di Siracusa col foglio di espulsione tra le mani e si sono autodenunciati. Quindi hanno eletto domicilio nei locali della parrocchia e hanno presentato la richiesta d'asilo politico. Mentre attendono la risposta tentano di raccogliere le idee sul paese in cui sono finiti. Quando erano in Africa, infatti, avevano sentito parlare dell'Italia come di uno stato unitario. Adesso hanno qualche dubbio.
 

25 ottobre

COMMENTO
L'ultima trovata
tassare gli sms

di MICHELE SERRA

Uno dice "Finanziaria" e pensa al severo cipiglio dello Stato che, conti alla mano, mette sotto il naso degli italiani la dura evidenza delle cifre. Sbagliato. La Finanziaria, anno dopo anno, assomiglia sempre di più a un festoso happening nel quale una bozza di massima (una specie di canovaccio che serva a stimolare gli attori-improvvisatori) genera una serie infinita di proposte, emendamenti e trovate spiritose.

Si è appena diradata la scia di amenità sollevata dalla fantomatica "tassa sui tubi", ed ecco che almeno due nuove proposte (tra le tante) rianimano la stracca scena parlamentare. La prima è di un forzista, Marano, che chiede di estendere il condono edilizio anche alle nude strutture di cemento armato, vale a dire a quei sordidi scheletri di calcestruzzo, aborti di abuso, che umiliano il paesaggio meridionale. L'unico commento possibile è più tombale di un condono: ma che schifo, onorevole Marano.

La seconda proposta è di un deputato di An, Valditara, che propone una tassa di un centesimo su ogni sms. Cioè: mentre le cataste di miliardi trafugate dalla speculazione finanziaria sono messe al sicuro in quale opa, o in qualche doppiofondo estero, c'è chi si ingegna a raschiare il fondo del barile fino a far stillare un centesimo da ogni messaggino.

Non sappiamo se l'onorevole Valditara riuscirebbe a impilare tutti quei centesimi (senza farli cadere) fino a farne un gruzzolo considerevole. Sappiamo, però, che questo tipo di finanza raccogliticcia sembra fatta apposta per dare l'idea che lo Stato sia proprio quel tizio insieme improvvido ed esoso che la gente immagina, uno che si fa passare sotto il naso interi convogli di denaro rubato (tasse evase, falsi in bilancio, forzieri occulti) ma per darsi un tono taglieggia il ragazzino che scrive "tvtb" alla morosa, oppure propone (sempre l'onorevole Valditara) di tassare le bombolette spray per far pagare ai graffitari il buco della Parmalat.


Ignoriamo per quali ragioni un parlamentare adulto consideri i teenagers, graffitari o nel tunnel degli sms che siano, una fonte di reddito così decisiva. Ma abbiamo il fondato sospetto che, in uno scenario come quello odierno, con quantità siderali di denaro che arricchiscono pochi intraprendenti scrocconi, rosicchiare un centesimo dagli sms, o due euro (cavoli! un furto!) da ogni bomboletta spray, non sia neppure iniquo. Sia surreale, come di un paese ormai vocato al comico.

Tipico scenario da satira economica: appoggiato a un pilastro di calcestruzzo condonato, quotato in Borsa da un immobiliarista in vista di future compravendite, un ragazzino scrive un messaggino. Arriva la Finanza: in applicazione della nuova Finanziaria, constata che tutto è in regola, compreso l'eliporto abusivo che sovrasta la foresta di pilastri abusivi. Ma chiede al ragazzino se ha regolarmente versato all'erario il suo centesimo, oppure se ha taroccato il telefonino per evadere la nuova imposta.

Nella parte di uno Stato siffatto vediamo bene l'ispettore Clouseau, che mentre persegue, inflessibile, un divieto di sosta, non si accorge che nell'automobile sta avvenendo un omicidio.
 

 

Il pubblico è blindato

 Le intenzioni del governo in materia di privatizzazioni non solo risultano quanto mai confuse e contraddittorie, ma si collocano pure in un quadro economico e giuridico fra i più malcerti e controversi


 

 

Ma ci fa o ci sta? In parole più esplicite: cerca di prendere tutti per scemi ovvero non sa di che cosa sta parlando? Ormai capita sempre più sovente di doversi porre quest'interrogativo di fronte a certi annunci di Silvio Berlusconi. Come quello dei giorni scorsi con il quale è tornato a ribadire che "quello delle privatizzazioni è un discorso non interrotto e le più immediate riguardano Eni ed Enel perché sono già state quotate in Borsa e quindi andiamo sul sicuro".

Sul sicuro? In realtà le intenzioni del governo in materia non solo risultano quanto mai confuse e contraddittorie, ma si collocano pure in un quadro economico e giuridico fra i più malcerti e controversi. Che ci sia bisogno di fare cassa per frenare la duplice scalata in corso, tanto del deficit corrente quanto del debito, è un fatto. Ma, in rapporto alle partecipazioni pubbliche in Eni ed Enel, i due obiettivi non sono fra loro coerenti e compatibili. E il governo al riguardo si sta comportando come chi vorrebbe la botte piena e la moglie ubriaca.

Da un lato si dice, come l'appena citato Berlusconi, che si vuol cedere sul mercato un'altra quota azionaria delle due imprese. Dunque, che il governo con il relativo incasso vuole privilegiare la riduzione del debito. Da un altro lato, però, si guarda alla pressione del deficit e allora si escogitano singolari espedienti (come la tassa sul tubo poi trasformata in una stretta sugli ammortamenti) per ricavare un po' di gettito immediato a valere sui conti di Eni ed Enel. Con il non trascurabile effetto di condizionarne le quotazioni di Borsa e di inviare un messaggio pesantemente negativo a quei grandi investitori esteri che sono stati importanti sottoscrittori delle prime quote azionarie alienate dallo Stato. Insomma, si fa una mossa che rischia di rendere non solo meno lucroso ma pure più difficile il collocamento di ulteriori titoli sul mercato.

E non basta. Sia in Eni sia in Enel, la mano pubblica è ormai al limite di quella soglia del 30 per cento sotto la quale il controllo di entrambe le aziende diventerebbe contendibile sul mercato. Ebbene, per aggirare questo ostacolo, ecco che il governo Berlusconi se n'è inventata un'altra delle sue: introducendo nella Finanziaria 2006 un articolo che conferisce all'azionista-Stato poteri speciali per neutralizzare eventuali scalate non gradite. Una pensata davvero brillantissima. In primo luogo, perché così si scoraggiano i nuovi possibili sottoscrittori e quindi si deprime anche il prezzo della vendita e l'incasso per lo Stato. In secondo luogo, perché norme di tal fatta sono ormai da tempo al centro di un contenzioso con l'Unione europea che non intende più avallare né 'golden share' né altre pillole avvelenate a difesa di una proprietà pubblica minoritaria in aziende quotate sul mercato.

Di tutto questo, però, Berlusconi non parla. Né pronuncia verbo sulla vera questione cruciale di un mercato energetico tuttora dominato dai due ex monopoli pubblici: quella liberalizzazione che avrebbe dovuto almeno seguire, se non precedere, la privatizzazione di Eni ed Enel. Cosicché si ritorna alla domanda iniziale: ma il Cavaliere ci fa o ci sta?

 

21 ottobre

I fantasmi della burocrazia
e le vittime del naufragio



E' solo una combinazione di coincidenze sfortunate o c'è del metodo dietro tanta sciatteria? Davvero si fa fatica a crederci. L'Italia, un grande paese, che in modo sistematico offende i parenti delle vittime di un'enorme tragedia: la più grande sciagura navale avvenuta nel Mediterraneo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Nello scorso aprile era toccato al rappresentante delle famiglie pachistane. Adesso è stata la volta del suo omologo indiano, Balwant Singh Khera. Manca solo il rappresentante dei tamil dello Sri Lanka e la nostra burocrazia potrà dire di aver sistemato buona parte del subcontinente asiatico.

La tragedia è il cosiddetto "naufragio fantasma" avvenuto nel Canale di Sicilia la notte tra il 25 e il 26 dicembre del 1996. Le vittime furono 283 giovani uomini provenienti dall'India, dal Pakistan e dallo Sri Lanka. Da oltre un anno - pressoché ignorato da giornali e televisioni - è in corso a Siracusa un processo contro i responsabili. Si svolge davanti alla Corte d'assise perché l'accusa contestata è tra le più gravi: omicidio plurimo aggravato. Probabilmente è la prima volta in tutto il mondo che un paese tratta con tanta severità una tragedia dell'immigrazione: i mercanti di uomini accusati di essere dei killer, alla sbarra per un reato da ergastolo. A leggere il capo d'imputazione si resta ammirati per tanta fermezza.

Ma se, in un giorno di udienza, si entra nell'aula del palazzo di giustizia di Siracusa, l'impressione cambia. E' un deserto. Da una parte i due giudici togati e i sei popolari, dall'altra gli avvocati, in mezzo il pubblico ministero. Poi basta: di imputati neanche l'ombra. Per trovare la spiegazione è sufficiente dare un'occhiata agli atti processuali. Si scopre che l'imputato è uno solo, il trafficante pachistano residente a Malta Ahmed Turab Sheik (il quale è da tempo in libertà). Tutti gli altri membri dell'organizzazione - un'ottantina di persone - o non sono mai entrati nel processo o ne sono rapidamente usciti.

Il gigantesco divario tra gravità dell'accusa e sostanza del processo può agevolmente essere considerato una metafora delle condizioni attuali del nostro paese. Ma va detto che, almeno in questo, le responsabilità non sono solo italiane. Il fatto è che non esiste un giudice internazionale per i trafficanti di essere umani e così le prove raccolte tra L'India, il Pakistan e lo Sri Lanka (paesi di reclutamento dei migranti), Malta e la Grecia (sedi sociali dell'organizzazione), l'Egitto, la Siria e la Turchia (porti intermedi e basi logistiche) sono rimaste sparse nel globo senza che nessuno potesse metterle assieme. Il solo fatto che questo strano processo sia stato instaurato può essere considerato un piccolo miracolo giuridico. E' un processo che con tutta probabilità si concluderà nel nulla. Vale in quanto tale, come rituale laico di giustizia.

Così l'hanno inteso, quando si sono costituiti in giudizio, i familiari delle vittime. Così l'hanno vissuto i superstiti che, a prezzo di enormi sacrifici, hanno raggiunto Siracusa per testimoniare. Come il pachistano Shakoor Ahmad che quella notte del 1996 vide morire annegati i suoi migliori amici. Si è presentato davanti ai giudici, ha fatto violenza a se stesso per ricordare quei momenti, a un certo punto ha chiesto una pausa perché le parole si confondevano col pianto. E ha definito il suo stato attuale con la precisione d'un poeta: "Malattia della memoria".

O come il vecchio Zabihullah Bacha, padre di Syed Habib, un ragazzo che già viveva in Italia ed era in attesa di permesso di soggiorno, quando all'inizio del 1995, per far visita alla madre gravemente malata, tornò in Pakistan. Ad agosto, quando la madre stava meglio, decise di rientrare a Roma e dovette farlo da clandestino. Una vittima del Mediterraneo e della burocrazia. Come abbiamo raccontato qualche mese fa, Zabihullah Bacha, giunto in Italia nel dicembre del 2004, ottenne dalla corte d'assise l'autorizzazione a restare in Italia per seguire l'intero processo ma, per un pasticcio burocratico, si ritrovò senza permesso di soggiorno, fu condotto in questura come "clandestino" e per un soffio non finì in un Centro di permanenza temporanea. Rilasciato decise di tornare in Pakistan.

Anche Balwant Singh Khera è un uomo anziano ed è anche un capo spirituale nella sua regione. Nel 1998, quando l'Italia aveva ormai rimosso il "naufragio fantasma", venne a Roma e tentò invano di incontrare i responsabili del governo. Poi, assieme ai suoi accompagnatori, si sistemò con dei cartelli in via della Conciliazione. Qualcuno ricorda ancora quei cinque uomini col turbante che, immobili, tentavano di spiegare ai pellegrini diretti verso Piazza San Pietro la tragedia del "naufragio fantasma". Intervenne la polizia e Balwant finì in questura per qualche ora.

A luglio la corte d'assise ha deciso di convocarlo come testimone. Decisione obbligata: Balwant Singh Khera in questi anni ha raccolto un formidabile dossier sull'organizzazione dei trafficanti indiani, ha mantenuto i contatti con i superstiti che sono rientrati in India e molto difficilmente potranno venire in Italia per testimoniare. Il suo arrivo in aula era atteso per una settimana fa, mercoledì 12 ottobre. Non si è visto. Il legale di parte civile delle famiglie degli indiani, Ezechia Reale, ha spiegato perché: semplicemente Balwant Singh Khera non ha ottenuto il visto d'ingresso per l'Italia.

 

20 ottobre

Virus dei polli, Europa impreparata

«Una minaccia mondiale» L'Ue smorza gli allarmismi ma ammette le difficoltà: più della metà degli stati membri non sono pronti a far fronte all'influenza, c'è bisogno di un coordinamento con i paesi del sud-est asiatico e del Maghreb. Nuovi casi in Romania, allarme in Grecia
ALBERTO D'ARGENZIO
BRUXELLES
L'Unione europea non è proprio preparatissima a una pandemia, dice il Commissario alla sanità Markos Kyprianou, ma pure così le istituzioni comunitarie inviano messaggi di calma, dopo aver seminato il panico non più tardi di una settimana fa. «La scoperta di nuovi casi di influenza aviaria in Europa - dice Kyprianou - non ha effetto sulla possibilità di pandemia influenzale. Essa potrebbe venire da questo virus come anche dalla mutazione di altri». In sostanza prepariamoci a qualcosa che arriverà, anche se non si sa bene quando e con che faccia, anche se per ora va quella del pollo. Per contrastare questa eventuale emergenza, spiega il Commissario, esistono dei piani nazionali mentre si va ampliando il coordinamento tra i 25 come tra loro e gli altri paesi, quelli già colpiti, in particolar modo del sud-est Asia, o quelli che verranno colpiti, come gli stati dell'Africa orientale e del Maghreb. Intanto si scopre che «più della metà degli stati membri non hanno raggiunto il livello di preparazione necessaria», soprattutto per quel che riguarda le scorte di antivirali e di vaccini contro la normale influenza (secondo l'Oms da somministrare alle fasce più deboli, anziani, diabetici e malati di cuore: il 25% della popolazione). Frasi contrastanti che, tra allarmi e tranquillanti, lasciano in bocca un lieve sapore di schizofrenia comunitaria. Dietro al commissario campeggia il simbolo della Presidenza inglese, uno stormo di uccelli migratori, quasi un oscuro presagio dell'ultimo, recentissimo, incubo europeo.

E l'incubo è ormai dentro i confini dell'Unione, con il ritrovamento di un focolaio del virus nell'isola greca di Inousses, a due passi da Chios e dalle coste turche. In attesa che venga confermata, in Grecia come nel laboratorio comunitario di Waybridge, la quasi sicura presenza del temuto virus H5N1, le autorità di Atene hanno già deciso di bloccare il commercio di pennuti vivi, carni e piume della regione di Chios verso il resto del paese e del continente. Altri pennuti sono invece risultati positivi in Romania, nel delta del Danubio: un cigno nel villaggio di C.A. Rossetti, un altro a Maliuc e un'anatra a Camurlia de Jos. Il bollettino europeo indica anche morti sospette di volatili in Macedonia. Di fronte a questo panorama, i ministri degli esteri si ritrovano per una riunione lampo buona più che altro per «tranquillizzare i cittadini», parole del presidente di turno, il britannico Jack Straw (il cui nonno morì nel 1918 per la spagnola), e per fare il punto della situazione, tra misure prese e prossimi appuntamenti.

Tra questi ultimi spicca il vertice di inizio novembre a New York a cui parteciperanno Oms, la Fao e la Banca mondiale, una prima occasione per valutare la situazione e le necessità dei paesi del sud-est asiatico come dell'Africa. Quindi ad inizio 2006 dovrebbe essere organizzata una nuova conferenza buona per decidere le misure di assistenza tecnica ed economica da fornire ai paesi meno sviluppati.

Prima ancora, ossia domani e dopodomani, i ministri della sanità dei 25 si ritrovano a Londra per un consiglio incaricato di affrontare aspetti più tecnici, come le relazioni con l'industria del settore. L'Ue chiederà alle imprese di aumentare la capacità di produzione di antivirali e di tenersi al tempo stesso pronti in vista della scoperta e produzione di un vaccino, nel caso l'H5N1 dovesse mutare e divenire trasmissibile tra gli uomini.

E qui si apre il fronte farmaceutico. Ieri la svizzera Roche, produttrice del Tamiflu, il più efficace tra gli antivirali, ha parlato di una possibile concessione della licenza ad altra impresa in modo da aumentare la produzione del farmaco, come richiesto a gran voce dai governi del sud-est asiatico (e sottovoce da quelli europei). Forse la multinazionale è diventata più malleabile per via della notizia che vuole il Tamiflu inefficace contro una nuova mutazione del virus. Intanto sulla Roche piovono ordinativi da 40 paesi.

 

Se ti abbandonano in mezzo al deserto

La paura dei migranti che vivono in Marocco: nel deserto ci finiscono tutti
«Il Marocco ha espulso tra 1.500 e le 2.500 persone. Molte più di quelle accampate intorno alle enclaves spagnole». Lo dicono le associazioni marocchine e hanno ragione: nel Sahara è finito anche chi viveva in città, e persino i carcerati

CINZIA GUBBINI
DI RITORNO DA RABAT
«Sono venuti anche di notte, hanno preso la gente che stava dormendo. Nel mio quartiere, nessuno esce più di casa. La situazione è diventata molto dura, non era mai stato così». Siamo a Rabat, in un McDonald's, dopo le sei di sera, finito il digiuno del Ramadan. E' qui, tra i tavolini transnazionali del fast food vicino alla stazione ferroviaria della capitale del Marocco che Pedro, un nigeriano di 29 anni, ha voluto incontrarci. Da McDonald's, perché qui la polizia non entra e si può stare un po' tranquilli, anche se Pedro sotto il suo berretto bianco non la smette di guardarsi alle spalle. Si è vestito elegante, camicia bianca, golf, jeans ben stirati. «Bisogna vestirsi bene, magari ti scambiano per uno studente e non ti chiedono i documenti». La voce di Pedro è una delle tante che arrivano dalla periferia di Rabat come di Casablanca, o di tutte le altre città del Marocco. Voci azzittite dagli ultimi sconvolgimenti alle frontiere europee, gli assalti di Ceuta e Melilla, le pressioni spagnole, la decisione di Rabat di espellere in massa gli immigrati subsahariani - e non solo quelli nascosti vicino alle enclaves spagnole, sul monte Bel Younech davanti a Ceuta o sul Gurugu, di fronte a Melilla. No: nel deserto del sudest e in quello del Sahara occidentale sono state deportate anche persone che vivevano lontano dalle enclaves ma che chiaramente avrebbero potuto prima o poi tentar di arrivare in Europa. Persone che si accalcano nelle periferie - famosa quella di Takadoum a Rabat - dove per fare un giro «è meglio essere accompagnati», dicono.

Deportati dal carcere

La gendarmeria reale ha scelto la linea dura, durissima. «Calcoliamo che nel deserto siano state portate tra le 1.500 e le 2.000 persone: intorno alle enclaves non ce n'erano più di mille», spiega Mamadou Salian Bah, il rappresentante dell'Associazione nazionale degli studenti africani, guineano, che ha una verità ancor più scottante da raccontare: il governo marocchino ha espulso nel deserto persino alcuni carcerati neri. Lui lo sa: uno è suo cugino. «Si trovava in carcere da sei mesi, doveva scontare una condanna di un anno in base alla nuova legge sull'immigrazione. Si trovava in Marocco da clandestino, il suo permesso di soggiorno era scaduto e si è fatto beccare dalla polizia. Da qualche giorno non riuscivo a rintracciarlo - spiega Mamadou - finché mi ha chiamato lui. Mi ha spiegato che a fine settembre sono andati a prenderlo, lui pensava di essere libero, invece lo hanno caricato su un camion. In questo momento si trova in un campo militare di Guelmin». Guelmin è la località al confine con il Sahara occidentale, dove sono state portate almeno un migliaio di persone. Alcuni immigrati sono stati lasciati nel deserto, quelli provenienti dai paesi con cui il Marocco non è riuscito a stabilire un contatto per il rimpatrio. Tutti gli altri proprio in queste ore sono di fronte ai loro ambasciatori, compresi quelli di Congo e Costa D'Avorio, due paesi insanguinati dalla guerra civile

Gurugu e Bel Younech

Ma che cosa è accaduto in questi luoghi continuamente evocati - Bel Younech, Gurugu? Il primo è al confine con Ceuta, il secondo a quello di Melilla. In questi luoghi da anni esistono degli accampamenti: è qui, naturalmente, a un passo dalla Spagna «marocchina», che gli africani si fermano per provare a passare dall'altra parte. Nascosti dalla vegetazione ma conosciuti da tutti, a partire dai militari, i campi di Bel Younech e Gurugu venivano a volte smantellati, per ricrearsi puntualmente. Tuttavia, si racconta che fossero ben organizzati: «Le comunità eleggevano i propri capi, che si occupavano di controllare un po' la situazione. Sia per appianare eventuali litigi che per organizzare la vita in mezzo alla vegetazione» - racconta Hicham Rachidi dell'Afvic, gli Amici dei famigliari delle vittime dell'emigrazione clandestina. «I due accampamenti erano conosciuti anche da tutti gli africani in cammino verso il Marocco, e le comunità hanno sempre fatto in modo di non far accalcare troppa gente. Quando le persone cominciavano ad essere troppe si comunicava a chi era in arrivo di aspettare ancora un po'. La strategia che è sempre stata scelta dalle persone che si accampavano qui - continua Rachidi - era quella di passare dall'altra parte a piccoli gruppi. Una strategia che mirava a non creare troppa tensione». E così è andata avanti per anni. Ovviamente per gli immigrati non si trattava di una situazione agevole: lo può testimoniare Giorgio Colaprico di Medici Senza Frontiere, una delle associazioni che si è spinta fin nel deserto per cercare gli immigrati, e che presta servizio proprio al confine con Melilla: «Prestavamo spesso servizio a Gurugu» - racconta. «Le persone avevano diversi problemi sanitari, noi li accompagnavamo in ospedale quando c'era bisogno, e facevamo delle consultazioni. Ci fermavamo in una certa parte della radura, loro sapevano che eravamo lì e ci venivano a cercare se c'era qualche problema. Ma a un certo punto è cambiato il clima».

Un brusco giro di vite avvenuto intorno all'inizio del 2005, proprio mentre la Spagna avviava la sua sanatoria. Il messaggio arrivato al Marocco è stato quello di fermare gli arrivi, mentre in Spagna montavano le polemiche sull'«effetto chiamata» della sanatoria voluta dal premier. Il Marocco ha risposto: i rapporti tra i due paesi si sono fatti molto più distesi dopo l'elezione di Zapatero a primo ministro. Rabat ha collaborato con Madrid dopo gli attentati dell'11 marzo e la Spagna ha ringraziato lanciando una serie di segnali: un appoggio meno netto al Fronte Polisario nel Sahara occidentale, fino ad arrivare all'eloquente assenza di Zapatero nelle enclaves spagnole di Ceuta e Melilla, persino in un momento caldo come quello determinato dalle avalanchas.

«La presenza dei militari ha iniziato ad essere sempre più forte», continua Colaprico, che racconta di come i militari marocchini abbiano iniziato a eliminare le discariche intorno alla montagna in cui gli immigrati erano abituati a ricavare cibo e vestiario per il loro sostentamento, di come abbiano costruito un presidio militare nel punto esatto in cui Medici Senza Frontiere dava appuntamento agli immigrati. Cominciavano ad arrivare anche i giornalisti. Gli abitanti di Bel Younech, i più organizzati, non apprezzavano che si facesse troppa pubblicità attorno al loro caso. Per controllare chi entrava nel campo e per proteggersi dalla polizia avevano addirittura creato una sorta di «servizio d'ordine» chiamato «caschi blu», con un'ironia che la dice lunga sul grado di coscienza politica che si può trovare in posti come questi.

Ma la linea dura di Rabat andava avanti: le capanne di plastica degli immigrati venivano continuamente distrutte e un articolo dello scorso giugno su Le Journal Hebdo riportava le denunce degli immigrati sul comportamento degli poliziotti marocchini: «Ci tagliano le piante dei piedi e poi ci dicono 'provate a correre'».

La tensione saliva, passare dall'altra parte era diventato impossibile e il numero delle persone negli accampamenti cresceva: «Ci hanno raccontato di persone che hanno iniziato a spingere perché si prendesse una decisione una volta per tutte» - racconta ancora Rachidi dell'Afvic. «Ci sono state lunghe discussioni e persino delle votazioni. Alla fine ha prevalso la linea di chi pensava che fosse arrivato il momento di provare il tutto per tutto, altrimenti sarebbe stato troppo tardi». Così è iniziata l'organizzazione dell'assalto alle barriere di Ceuta e Mellila. E dall'altra parte, tanto sul fronte spagnolo che su quello marocchino, la sferzata finale.

Il tavolo algerino

Ma le conseguenze di questa vicenda non sono ancora finite; anzi, stanno incendiando gli animi in Marocco e in Algeria a proposito del Sahara occidentale, conteso dai due paesi e sfondo onnipresente di tutte le questioni interne marocchine. E' proprio a ridosso del muro costruito da re Hassan II per contenere le azioni del Fronte Polisario - lungo 2mila chilometri e difeso da mine antiuomo e anticarro - che i militari marocchini hanno abbandonato alcune persone, suddivise in piccoli gruppi.

Il Polisario ha annunciato di averne trovate 120 e di essere molto preoccupato per la completa assenza di donne. Il Marocco nega con decisione di aver abbandonato persone in quella zona, mentre non può farlo rispetto a coloro che sono stati scovati più a nord dalle associazioni umanitarie. D'altronde Rabat ha sempre usato questa tattica: se deve espellere qualcuno, lo porta alla frontiera con l'Algeria - anche se fino ad ora ha sempre optato per zone abitate e non completamente desertiche o, ancor peggio, minate. Il governo accusa da anni l'Algeria di aver «ridotto le frontiere a un colabrodo» e quindi ritiene che qualsiasi subsahariano penetrato in territorio marocchino sia passato dall'Algeria. Il 12 ottobre il ministro degli esteri marocchino Taieb Fassi-Fihri ha invitato un gruppo di giornalisti a casa sua per il pasto di fine digiuno del Ramadan lanciando un messaggio ben preciso alla stampa: «Noi abbiamo fatto ciò che potevamo per i nostri mezzi - ha spiegato - ma dal lato algerino della frontiera non si fa nulla per impedire l'accesso degli immigrati in territorio marocchino. Come giornalisti dovreste interessarvi un po' di più a quello che succede dall'altra parte».

Ieri, sulla stampa marocchina, il governo di Rabat ha preso di petto il Polisario, sostenendo che il Fronte ha inventato di sana pianta la storia degli immigrati trovati nel deserto con la precisa intenzione di danneggiare l'immagine del Marocco. Immediata la replica di Mohamed Abdelaziz, capo del Polisario e presidente della Repubblica araba saharaoui democratica (riconosciuta dall'Algeria ma non dal Marocco), che ha usato parole molto dure: «Si tratta di minacce, di una escalation nei confronti dell'Algeria e del Polisario», ha detto. La Spagna si guarda bene dal mettere bocca in queste schermaglie. Ma manda segnali. Solo l'altro ieri Zapatero ha incontrato De Villepin e parlato al lungo al telefono con Chirac, chiedendo alla Francia - vicina all'Algeria - di appoggiare la proposta di una Conferenza euro-africana sull'immigrazione, che avrà l'obiettivo di richiamare alle «proprie responsabilità» i governi africani circa l'eccessiva mobilità delle loro popolazioni. L'obiettivo prioritario di Parigi e Madrid, per ora, è chiudere bene le porte di casa.

 

Che cosa è rimasto della guerra del gas

 

Tra gli aymara boliviani che fecero cadere due presidenti. E sfidano gli Usa
Esattamente due anni fa, stretto tra piazze furenti e lucrosi contratti di fornitura da onorare, il presidente Gonzalo Sanchez de Lozada ordinava all'esercito di uscire dalle caserme e ripristinare l'ordine. Fece un massacro, ottanta morti almeno e centinaia di feriti, poi fuggì

ROBERTO ZANINI
INVIATO A LA PAZ
La targa dice «mausoleo» ma è la sola cosa un po' più alta di una tomba in tutto il cimitero di Tarapacà, il cielo basso delle Ande è un coperchio di blu, il diacono con la chitarra canta per un gruppo di cholas che piangono. «Justicia, carajo» - giustizia, cazzo - e la canzone è finita, il prete comincia a benedire bambini e donne con bombetta e pollera, il vestito delle donne andine. Sono le vedove e gli orfani della guerra del gas. Esattamente due anni fa, stretto tra piazze furenti e lucrosi contratti di fornitura da onorare, il presidente Gonzalo Sanchez de Lozada ordinava all'esercito di uscire dalle caserme e ripristinare l'ordine. Fece un massacro, ottanta morti almeno e centinaia di feriti, poi fuggì. In tutta la Bolivia, dove ci sia stato un nome da ricordare, in questi giorni accade la stessa cosa. Onore ai nostri morti, processo al «Gringo» De Lozada. ***

«Morirono, era sabato, un giorno come oggi»: a Nestor Salinas ammazzarono un fratello e le truppe ne sequestrarono per ore anche la salma finché la gente andò a riprendersela a forza, si chiamava David, era il minore e oggi Nestor è il presidente del comitato delle vittime. Carlos cammina sulle stampelle, gli manca una gamba: glie l'ha strappata una raffica, quel giorno sparavano anche le autoblindo. Anche la sua gamba è seppellita a Tarapacà. Alex Llusco Mollericona aveva cinque anni e adesso è una cassetta bianca e un foto su un poster, un proiettile gli è entrato in bocca e gli è uscito dalla nuca. Dorme sulla collina come tutti i morti della guerra del gas, una delle colline a quattromila metri sulle Ande, di cui la Bolivia ha scoperto da poco la furia, terra di indigeni aymara poverissimi e furibondi che hanno cacciato gli ultimi due presidenti da Palacio Quemado - palazzo bruciato, perché nella storia è già andato arrosto due volte. Ora vogliono mettere le mani sulla loro prima vittima, l'assassino, il «Goni» De Lozada. E se lo giurano l'un l'altro accendendo un'altra candela. Come un insulto urbanistico, il cimitero di Tarapacà confina con una grande caserma di cavalleria. Da lì uscirono i massacratori.

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Era un autunno caldissimo in Bolivia nel 2003; manifestazioni una via l'altra. In estate De Lozada aveva fatto sapere che il gas boliviano di Tarija sarebbe andato a finire in Cile, attraverso il consorzio Pacific Lng. E aveva fatto male: in poche settimane il paese si era incendiato in difesa del suo idrocarburo, manifestando con molto rumore, chiedendo apertamente le sue dimissioni, fermando le autocisterne cariche di benzina che il governo aveva mandato a rifornire gli impianti di La Paz prosciugati da settimane di blocchi stradali, impedendo il ritorno anche ai turisti sul lago Titicaca (in centinaia rimasero bloccati). Il giorno 11 ottobre 2003 il «Goni» - il nomignolo che si era dato in campagna elettorale, per riuscire più popolare nonostante l'accento americano - decise che ne aveva abbastanza e ordinò all'esercito di uscire dalle caserme. Le truppe d'élite del Quarto Cavalleria Ingavi, di stanza a El Alto, infilarono avenida Juan Pablo II (proprio: con un'atroce croce di cemento nel mezzo, l'unica cosa che il papa abbia portato in quel viaggio in cima alle Ande) e la trasformarono in un camposanto. Uscirono e uccisero il primo giorno, uscirono e uccisero il secondo. Al terzo i soldati fecero sapere che non si sarebbero più mossi, perché erano quasi tutti montanari e di sparare su amici e parenti ne avevano abbastanza. Colonnelli e generali capirono, per il presidente De Lozada cominciò la fine.

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Donna Juana Valencia piange appesa a un gonfalone comunale. «Mio marito sta qui, morto di pallottola, si chiamava Marcelo Carabezal Loren, io sono sola con sei figli». Il cimitero di Villa Ingenio sta sotto lo stesso cielo che sembra un soffitto, a qualche collina di distanza dal centro di El Alto, al largo della terra che chiamano Ande, proprio accanto a un'imponente e fetida discarica che il vento si incarica di pubblicizzare per bene. Patricia Amalia Luna piange il marito, «si chiamava Damian Palacios», un altro nome su un altro mausoleo che svetta di un metro sopra una confusione di tombe sparse a caso da un becchino isterico - la licenza funeraria dura qualche anno, o si rinnova o il morto cambia casa e i «collas», la gente povera delle montagne, di soldi ne ha pochi e in generale servono di più ai vivi che ai defunti. Olga Quelce piange il figlio Luis Fernando, e il marito «morto di crepacuore», dice, pochi giorni dopo. Don Modesto Chino officia una breve messa, l'avvocato Rogelio Mayta ammette: «Questi assassini, non riusciamo a processarli perché sono ricchi». Sulla targa c'è scritto «Eroi della guerra del gas», e ci sono 22 nomi. Luis aveva 16 anni, scapolo, morto di pallottola. Florentino, Benita e Dominga, morti di ustioni in giorni diversi. Roxana, 19 anni, pallottola...

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Il 13 ottobre, con La Paz pronta a unirsi alla protesta e 20mila manifestanti a scontrarsi con l'esercito nelle strade, il vicepresidente Carlos Mesa ritirò il proprio appoggio al governo, «per motivi di coscienza». Negli obitori e nelle chiese tenute aperte dai parroci indignati c'erano già 63 morti, la gente andava a prendersi i corpi a forza, sfidando le fucilate. I contadini aymara abbattevano con le corde i ponti pedonali di cemento armato da cui l'esercito sparava, ai medici che gridavano di aver troppi feriti da assistere rispondevano «curateli tutti o buttiamo giù anche l'ospedale», e spinsero in strada a forza di braccia anche qualche vagone della ferrovia (quando tutto finì, la gru mandata a liberare la strada si ruppe nel tentativo di spostare i vagoni). Gli Stati uniti, l'Organizzazione degli stati americani, la Confindustria boliviana e un altro pugno di sigle nazionali e internazionali appoggiarono Sanchez De Lozada, che il 15 ottobre provò a frenare la fuga di gas che gli stava bruciando il paese, accennando alla possibilità di un referendum ma senza mettere alcuna data, e accusando i capi della piazza di cercare «una dittatura narco-sindacalista». I moti di piazza raddoppiarono di furore, in pochi giorni il governo perse quasi tutti i pezzi. Il 17 ottobre De Lozada annunciò che si sarebbe dimesso con un discorso alla televisione. Invece fece i bagagli, imbarcò la moglie Ximena, la figlia Alexandra, il suo ministro della difesa (Carlos Sanchez Berzain detto el zorro, la volpe) e quello agli idrocarbri Jorge Berindoague, beffò il servizio d'ordine disposto dal leader indigeno Evo Morales intorno a Palacio Quemado e fuggì in elicottero dall'Accademia militare di La Paz verso l'aeroporto militare di El Alto e di lì nella fedele Santa Cruz, tra i «cambas», la gente ricca della pianura con pulsioni secessioniste; infine, negli Stati uniti. Al cadere della notte, l'intera banda era già a Miami.

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La musica sta a metà tra la banda della parrocchia e gli Inti illimani, volano petardi di proporzioni gigantesche, una coorte in poncho avanza sulla strada e supera i resti di una casermetta di polizia fatta saltare in aria. Achacachi è il municipio ribelle degli aymara boliviani, un posto senza la minima traccia di un'autorità pubblica che non sia comunitaria - cioè nominata in assemblea e revocabile all'istante. Niente questori, soldati, poliziotti, niente esattori. I primi morti del gas sono arrivati qui, in settembre, quando l'esercito boliviano cercò di scortare fuori dai blocchi stradali centinaia di turisti rimasti bloccati sul lago Titicaca. Quattro aymara e un soldato morirono in uno scontro a fuoco a Warisata, la sede della prima straordinaria università india del paese, fucina di proteste e di movimenti. Il leader indigeno Felipe Quispe, il Mallku (capo), accusò il governo e si disse pronto a sparare, De Lozada accusò gli universitari, altre regioni si sollevarono, la Central obrera dichiarò lo sciopero generale indefinito e come prima richiesta le dimissioni di Lozada. Era la miccia che avrebbe fatto esplodere il paese e Achacachi lo ricorda con un avvenimento a suo modo storico: ricevendo una carovana internazionale di solidarietà. Gente di pelle bianca, che da un po' non è praticamente più ammessa nella zona. La carovana Mayaki (in aymara «siamo uno solo») viene dall'Italia, è composta di militanti politici, simpatizzanti, esponenti di partito come Italo Di Sabato del Prc, da giornalisti e persino da un'istituzione: il comune di Roma, nelle persone della vicepresidente del consiglio comunale Monica Cirinnà e di un consigliere, Nunzio D'Erme. E' una lunga e elaborata cerimonia, metà su una collina arroventata dal sole, metà nella sede occupata del municipio. Il «sindaco» di Achacachi, Eugenio Rojas, consegna al rappresentante di Roma una formale richiesta di aiuto: aiutateci a estradare e processare Gonzalo Sanchez de Lozada, il Goni, l'assassino.

***

Da Miami, De Lozada si faceva intervistare accusando narcosindacalisti, terroristi e anche la slealtà del suo vice Mesa (che non durerà a lungo, e sarà costretto a dimettersi a sua volta). Capitali enormi, uffici a Washington, protezioni nella corte petrolifera dei Rockefeller, il «Gringo» De Lozada sembrava stare perfettamente a suo agio a nord del Rio Bravo. Ma con la piazze di Bolivia ancora in fiamme, il capo del Mas, il principale partito d'opposizione, l'aymara Evo Morales, chiese in parlamento l'incriminazione formale del presidente in fuga. Il 22 ottobre un giudice aprì la procedura di verifica dell'incriminabilità di Sanchez De Lozada ma solo un anno dopo, nel novembre 2004, una denuncia dell'associazione dei familiari delle vittime della guerra del gas è riuscita a far iniziare il processo. Il 22 giugno il dipartimento di stato americano ha ricevuto la formale richiesta di incriminazione per l'ex presidente e i suoi due ministri fuggiaschi, ultimi di una lunga serie di assassini che hanno trovato rifugio nel paese del dollaro e della «guerra al terrorismo». Particolare gustoso: De Lozada avrebbe un visto come accompagnatore della moglie, una matura signora della migliore aristocrazia boliviana, che a sua volta ha un visto come studentessa. Altro particolare gustoso: secondo alcune interpretazioni, la recente riforma del codice penale impedirebbe il processo in contumacia. Padre della riforma è stato proprio, mostrando grande lungimiranza, Sanchez De Lozada.

Alle richieste boliviane il ministero di Condoleezza Rice non ha nemmeno risposto, naturalmente, mentre l'ambasciatore in Bolivia David Greenlee continua a riunirsi con i principali rappresentanti del potere statale boliviano per gestire la complicata vicenda delle elezioni di dicembre (per i sondaggi è nettamente in testa Evo Morales, un cavillo costituzionale potrebbe addirittura bloccare il voto e sarebbero altre piazze incendiate, altri moti). E gli aymara boliviani, dal mezzo del niente in cima alle Ande, stanno lanciando quella che è una vera campagna internazionale per l'estradizione di Gonzalo Sanchez De Lozada e dei suoi complici. Justicia, carajo.

 

18 ottobre

IL COMMENTO
L'occasione dei riformisti
di EZIO MAURO

Due terremoti in una settimana. Prima la legge elettorale che chiude con il maggioritario e riapre la stagione proporzionale, cambiando da sola tutto il paesaggio politico, con i partiti nuovi protagonisti al posto dei Poli e delle coalizioni, mentre il centrodestra si consegna tutto intero nelle mani di Berlusconi. Poi le primarie convocate nello scetticismo generale per incoronare un leader senza terra e con un disegno contestato dal suo stesso partito: che diventano a furor di popolo uno spettacolo politico senza precedenti, capace non solo di trasformare la qualità della leadership ma di modificare, per forza di cose, la fisionomia dell'intero centrosinistra, cambiando i suoi rapporti di forza, il suo percorso e persino il suo destino.

I due passaggi sono naturalmente legati tra loro. Da un lato, i cittadini di centrosinistra hanno votato anche per reagire alla forzatura berlusconiana sulle regole elettorali, e al percorso di guerra annunciato dal Cavaliere mettendo in fila proporzionale, devolution, legge salva-Previti, par condicio. Dall'altro lato, la scelta di Prodi di rivolgersi agli elettori ha immediatamente sgonfiato la finta ripresa berlusconiana, costruita tutta dentro il recinto protetto del Palazzo, all'interno di una maggioranza parlamentare che non esiste più nel Paese, in un teatrino di ex leader trasformati in gregari portaborracce, con rifornimento fisso a Palazzo Grazioli.

Molto semplicemente, un nuovo soggetto politico è entrato in campo, ed è il cittadino elettore di centrosinistra. Quattro milioni e trecentomila persone che hanno testimoniato l'esistenza di un'altra Italia, inconciliabile con la stagione berlusconiana, decisa a chiuderla al più presto. Per ottenere questo scopo, i cittadini hanno scelto la strada della democrazia diretta. Certo, convogliati dai partiti (in primo luogo dai ds), ma in realtà portati al gazebo dalla possibilità inedita di dare un indirizzo alla politica di centrosinistra dopo anni consumati dai leader tra veti e ostilità interne, senza la capacità di pensare in grande, disegnando dall'opposizione il profilo di una sinistra di governo europea.

In più, questo nuovo soggetto politico voleva testimoniare con ogni evidenza la sua scelta per Romano Prodi. Perché non dire la verità? La società politica vedeva in Prodi una sorta di leadership obbligata e residuale, un trascinamento senza alternative, senza entusiasmo e senza più Ulivo della vittoria ulivista del 1996. I cittadini elettori - quattro milioni di italiani - vedono invece nell'ex presidente della Commissione Europea il vero antagonista storico di Silvio Berlusconi, l'uomo che lo ha già battuto e che può batterlo, e soprattutto il leader che ha un progetto politico unitario capace di superare divisioni e resistenze interne, quel progetto che si chiama Ulivo.
Tutto questo spiega il terremoto delle primarie. Un terremoto intelligente, perché ha dato senza equivoci a Prodi quel mandato, quella forza e quella rappresentanza che non trovava nei partiti. Ma in più, ha fissato i rapporti interni al di sopra di ogni ambiguità e di ogni strumentalizzazione, perché nessuno potrà più dire che il 15 per cento di Bertinotti condiziona il 75 per cento di Prodi. Infine, e soprattutto, con Prodi ha premiato e ha rilanciato una linea politica che molto semplicemente ha vinto le primarie, e dunque da oggi si imporrà al tavolo delle segreterie e - finalmente - del programma. È la linea che punta ad unire le due culture riformiste disponibili ad una responsabilità di governo europea, occidentale, moderna.

In questo senso (ed è uno dei risultati a mio parere più importanti) il voto delle primarie strozza in culla ogni ipotesi esplicita e ogni tentazione nascosta di incubare un'esperienza centrista da far nascere alle prime difficoltà del prossimo governo: magari a metà legislatura, e possibilmente con il concorso eterologo di quel pezzo di imprenditoria (con i suoi cantautori) che scommette sulla debolezza della politica nell'illusione terzista di far saltare il banco, trasformando d'incanto un network in establishment. No, sarà per un'altra volta. La politica, per fortuna, può ancora fare la sua parte anche in Italia, non siamo un Paese da commissariare. Semmai da cambiare, e in fretta, come testimoniano i quattro milioni delle primarie.

Ci sono dunque tutte le occasioni perché la sinistra riprenda la strada che porta al governo del Paese, compiendo intanto - e finalmente, visto il ritardo - il proprio destino. I due obiettivi sono intrecciati, e sono oggi possibili. Solo una prova straordinaria di incapacità, dunque di inadeguatezza e di insensibilità da parte dei gruppi dirigenti può disperdere questa doppia occasione. Lo strumento non deve essere inventato perché esiste, ed è l'Ulivo, inteso come lo ha sempre inteso Prodi, e cioè come il luogo politico dove (attraverso passaggi successivi come la lista unitaria, il gruppo parlamentare unico) può nascere il partito del riformismo italiano, o il partito democratico. Il luogo d'incontro della cultura politica socialista e di quella cattolico-democratica in una forza moderna e risolta, d'impianto europeo, che chiuda con le eredità del Novecento e con i contenitori provvisori, artificiali e vegetali in cui si trova oggi costretta una sinistra intraducibile in Europa, perché senza nome.

In fondo, le primarie oltre a Prodi hanno premiato proprio le due forze che stanno alla base dell'Ulivo, i ds e la Margherita. Tocca ai loro dirigenti raccogliere la spinta e la sfida dei quattro milioni, subito. Per i ds, c'è da un lato la tentazione di approfittare del maledetto proporzionale per regolare i conti con la Margherita e poi negoziare da primo partito, e dall'altro lato c'è la consapevolezza di dover trovare un approdo conclusivo ad un trapasso identitario decennale, che ha bisogno di una rottura definitiva con il peccato originale comunista. Per la Margherita c'è la resistenza di chi deve ammettere il fallimento del progetto di un partito-ovunque, con le mani libere ma protetto dal recinto del maggioritario, che consentiva persino di sfidare Prodi, come è avvenuto pochi mesi fa: oggi quel recinto è saltato e le primarie hanno riattivato la calamita prodiana, interna-esterna al partito, che richiama alla missione delle origini, quella di una forza nata per sciogliersi, perché voleva cambiare la sinistra.

Sono resistenze ed egoismi che gli elettori non capirebbero e che non sono nell'interesse del Paese. Alla sinistra serve unità, certezza nel comando, chiarezza di linea, identità risolta, per poter finalmente selezionare un programma che parli all'intero Paese. Bisogna che i leader siano all'altezza del risultato delle primarie, non resistano al terremoto che è invece un'occasione straordinaria. Bobbio l'aveva detto: discutono del loro destino, e non capiscono che dipende dalla loro natura. Cambino la loro natura, cambieranno il loro destino. Tutto ciò, per una volta e dopo le primarie, è a portata di mano.

16 ottobre

Schiavismo di Stato
ALESSANDRO ROBECCHI
Un presidente del consiglio che si rallegra dell'esistenza - e della consistenza! - di un'economia sommersa, cosa sarebbe? Un matto o un furbetto del quartierino? Ma no, è un irriducibile e coerente liberista, uno che considera la ricchezza del paese come una ricchezza privata (macchina, telefonini, casa in campagna), mentre la ricchezza pubblica (assistenza, ospedali, welfare) è una gran rottura di scatole e va tagliata. Il famoso motto «meno tasse per tutti» si è dunque applicato in questi anni con ferrea coerenza: le tasse non sono diminuite per niente e anzi sono aumentate, ma ne resta esentata totalmente proprio l'economia sommersa (Silvio se ne vanta e dice che è il 18 per cento, con punte del 40 in alcune regioni). Cioè in pratica si è garantita una totale immunità fiscale a tutte quelle imprese che applicano con tenacia la vecchia pratica dello schiavismo. Se la parola vi sembra grossa (uh, lo schiavismo!) basta una piccola calcolatrice e una gita nei cantieri della vostra città. Listino prezzi: il muratore clandestino - magari appena uscito con il foglio di via da uno di quei fantastici uffici di collocamento per schiavi che sono i cpt - costa circa tre euro all'ora. Un risparmio del 200 per cento rispetto all'impiego di un muratore normale, che però costa anche in contributi, oneri sociali, spese per la sicurezza.
Dunque il risparmio può arrivare ad essere anche maggiore, diciamo che un immigrato irregolare costa almeno un quarto di un lavoratore regolare, cioè che al costo di un lavoratore ne puoi avere quattro. Significativo taglio del costo del lavoro, sempre auspicato, e non solo a destra. «Più mercato e meno Stato», come si dice da anni e come regolarmente si mette in pratica, vuol dire proprio questo: che lo Stato si faccia un po' i cazzi suoi, mentre il mercato fa i suoi affari, due entità separate, insomma, che corrono su binari paralleli.

Nel caso dello schiavismo attualmente applicato in Italia, però, le cose non sono così semplici. Sul mercato nero del lavoro lo Stato interviene eccome, e lo fa con un suo preciso ruolo calmieratore. Ad essere calmierati, e parecchio, sono i diritti fondamentali. Cioè: non solo lavori per un terzo della paga, non solo non hai nessuna copertura assicurativa, sanitaria, eccetera eccetera, ma sei anche accuratamente tenuto in quella perenne condizione di ricattato che è funzionale al sistema. Basta un controllo, una richiesta di documenti, ed eccoti deportato: il padrone risparmia sul tuo ultimo stipendio - che non puoi ritirare essendo prigioniero - e dice avanti un altro: il ricambio indolore di mano d'opera è uno dei più lucrosi corollari dello schiavismo.

Il controllo, la cattura e l'espulsione del lavoratore-schiavo è oggettivamente una rotella del meccanismo della schiavitù. Altro che meno Stato e più mercato: qui è lo Stato che fa la security al mercato, e anzi alla sua parte più immorale e immonda, cioè garantisce un serbatoio di forza lavoro ricattabile, senza diritti, senza contratti, senza quelle fastidiose «pastoie burocratiche» che tanto indignano i liberisti.

Che di fronte a questo scenario - difficilmente contestabile - si indichi come «illegale» il lavavetri straniero di Bologna (mentre sarebbe legale la Bossi-Fini) è davvero strabiliante. E se davvero quella per la legalità è una «battaglia di sinistra», come sostiene il sindaco di Bologna Cofferati, da che parte si dovrebbe cominciare a combattere, dallo sfigato che lava i vetri al semaforo, oppure da un sistema economico misto (pubblico-privato) che si fa garante della sua schiavitù?

Dietro il vanto berlusconiano per la buona salute dell'economia sommersa c'è questo grosso intoppo: essendo un settore che tira (grazie soprattutto al basso costo del lavoro schiavistico), sarebbe imprudente fargli la guerra e anzi andrebbe sviluppato e sostenuto, compito che la Bossi-Fini assolve egregiamente, funzionando come vero e proprio incentivo statale alla schiavitù.

Gran parte della sinistra, quella che i cpt se li è inventati, non prende posizione: avvolta nella sua infiammabilissima coda di paglia non si metterà certo a giocare coi fiammiferi. Si accontenterebbe anzi, bontà sua, di un vitto migliore nei cpt, di un trattamento vagamente più umano, di coperte un po' più pulite. Insomma, non di un'abolizione dello schiavismo - ipotesi poco riformista e dunque peccaminosa - ma di una sua maggiore presentabilità sociale.

Uno schiavismo dal volto umano. Sai che pacchia, per gli schiavi!

 

14 ottobre

IL COMMENTO
Regressione istituzionale e civile
tra le macerie del berlusconismo

di CURZIO MALTESE

IL sistema maggioritario è arrivato in Italia perché il mondo era cambiato. Era caduto il muro di Berlino e con quello il "fattore K" che aveva bloccato per mezzo secolo la nostra democrazia. Poi perché gli scandali avevano spazzato una classe politica e antichi partiti, infine perché con un referendum il novanta per cento dei cittadini aveva voluto il maggioritario.

Ieri pomeriggio l'Italia è tornata al proporzionale, dopo dodici anni, perché a sei mesi dal voto i sondaggi dicono che senza il maggioritario il centrodestra guadagnerebbe una trentina di seggi, forse trentadue o magari ventotto. Nel passaggio fra la miseria del "trucchetto" di oggi (parola di Bossi) e la grandezza delle ragioni storiche di allora si è consumata per intero la furba miseria del berlusconismo.

Si potrebbero riempire libri con i giuramenti di fedeltà al maggioritario di Berlusconi, Fini, Bossi, relativi valvassori e valvassini, all'insegna del "non si tornerà mai indietro". Bene, si è tornati indietro e c'è voluto pochissimo. Non un dibattito interno, nessuna discussione.

Sono bastati due calcoli da pallottoliere per imporre in poche settimane il "contrordine". A maggioranza semplice, una destra priva di qualsiasi cultura istituzionale e politica, ha cambiato le regole del gioco democratico come si cambia marketing o si ritira un prodotto dal mercato.

Senza neppure avvisare il pubblico, soltanto i venditori.
Tanto sono dipendenti e devono adeguarsi al volo. Abbiamo ammirato nella diretta televisiva la faccia di bronzo con la quale l'onorevole Adornato, già cantore della magia del maggioritario, ha esaltato le virtù miracolose del proporzionale, scelto "per il bene del Paese", si capisce.

Oltre ad apprezzare la scelta di un ex comunista poi anti comunista, anti berlusconiano ora fedelissimo del Cavaliere, come paladino della maggioranza su questa legge. In Italia i trasformisti hanno più vite dei gatti.
E' stata in fondo coerente anche la scansione temporale.

L'altro giorno una trasversale e maschia maggioranza aveva bocciato l'unico tratto innovativo e civile della legge, l'istituzione delle cosiddette "quote rosa", in un Paese dove la rappresentanza parlamentare femminile viaggia intorno al dieci per cento, ultima in Europa e in leggero ritardo anche sulle nazioni islamiche. Ieri invece i franchi tiratori sono rientrati nei ranghi, per approvare la legge dell'"indietro tutta".

Parlare di spirito reazionario, rispetto al decennio che ci lasciamo alle spalle e ai cambiamenti del mondo, sarebbe regalare alla vicenda una dignità che non possiede. Più che la categoria politica della reazione, vale il concetto clinico di regressione. Regressione culturale, civile.

Mentale. La diagnosi spiegherebbe anche il tono fanciullesco dei festeggiamenti nella maggioranza a legge approvata. Dove al ragionamento politico si sostituisce, già nelle parole del premier, un "ben vi sta" da asilo nido vibrato all'opposizione.

E' la regressione tipica di chi ha paura. Piero Fassino ha colto nel suo discorso la "paura del Paese" che scandisce le ultime disperate mosse del berlusconismo. Non esiste spettacolo più patetico e puntuale del demagogo che finisce con l'aver paura del popolo. Ma anche questo fa paura.

Quale sarà il prossimo passo? Probabilmente l'abolizione della par condicio. La televisione già di proprietà di uno solo sarà in questo modo sommersa di spot e propaganda a senso unico. Con la benedizione dell'onorevole Casini, che al tavolo delle trattative con Berlusconi s'è già venduto la reputazione di "super partes", la richiesta di primarie e l'amico Follini, in cambio di un piatto di lenticchie proporzionali. A proposito, le primarie del centrodestra naturalmente non ci saranno: ordine di Berlusconi.

Il Cavaliere ha vinto la battaglia nel suo campo, com'era scontato. è il leader unico, circondato da una corte servile, pronta a cambiare livrea al minimo accenno padronale. Il berlusconismo è finito ma sbarazzarsi delle ingombranti macerie non sarà tanto facile. Nell'impresa forse aiuterebbe una maggiore vitalità dell'opposizione che ha trascorso gli ultimi sei mesi a covare i sondaggi favorevoli e a spartirsi poltrone future e da oggi ancor più ipotetiche.

Certo la voglia di andare a votare domenica alle primarie, che non era irresistibile, da oggi è destinata a crescere, dopo la riforma elettorale ad uso di Berlusconi. Soprattutto la voglia di chiudere questa stagione vergognosa e voltare pagina, in un modo o nell'altro, al più presto.

13 ottobre

La valanga azzurra
NORMA RANGERI
Eccezionale veramente. La camera dei deputati ha bocciato un emendamento (della maggioranza, firmato dalla ministra Prestigiacomo) che prevedeva le quote rosa nelle liste elettorali. Già frutto di un compromesso che raschiava il barile (quota minima, al 25 per cento e pene pecuniarie per chi non la rispettava), l'emendamento è stato travolto dalla valanga azzurra dei franchi tiratori che, finalmente, ha avuto una ghiotta occasione per battere un colpo. Destra e sinistra unite come un sol uomo hanno rispedito le donne in fondo alla lista (elettorale) con un vade retro di biblica memoria. No, le donne no. Stressato dal pressante controllo berlusconiano, il deputato si è sfogato mostrando gli attributi con l'anello più debole della catena. Poche donne in lista e oltretutto comprabili al prezzo di una multa? No, perché si tratta di un compromesso inaccettabile, hanno dichiarato quelli dell'opposizione mentre chiedevano, in 25 su 30, il voto segreto. Sapendo che, una volta approvata la riforma elettorale, anche quella miserrima presenza femminile sarebbe stata cancellata. Da parte sua il polo delle libertà (maschili) ha semplicemente manifestato l'anima del berlusconismo (il vallettismo) e del leghismo (machismo) fusi in un brodo primordiale di antifemminismo di ritorno.

L'emendamento bocciato era un utensile medioevale (senza offesa per la grande cultura di Abelardo e Eloisa), appena modernizzato dalla multa in denaro in luogo della frustata. Eppure troppo progressista per una classe dirigente che meriterebbe d'esser ripagata (dalle elettrici) con la stessa moneta.


11 ottobre

Finanziaria, sciopero generale
Quattro ore di stop il 25 novembre

ROMA - Cgil, Cisl e Uil hanno proclamato lo sciopero generale contro la Finanziaria per il 25 novembre. L'astensione del lavoro sarà di quattro ore, articolate a livello provinciale e di categoria. Cgil, Cisl e Uil, dopo una lunga riunione congiunta delle segreterie, hanno deciso di replicare così alla legge Finanziaria presentata in Parlamento.

La mobilitazione - secondo quanto si è appreso da alcuni partecipanti alla riunione - dovrebbe essere a sostegno di una serie di richieste sulle quali i sindacati chiederanno all'esecutivo un tavolo di confronto. Di tali controproposte stanno discutendo le segreterie. I temi sono quelli consueti: il Mezzogirono (per cui è prevista una specifica iniziativa ancora da definire, il recupero del potere d'acquisto dei salari e delle pensioni, la restituzione del fiscal drag, le politiche di sviluppo.

Tutte queste idee dovranno trovare una sistemazione nel documento finale, in modo che Cgil, Cisl e Uil, quando giovedì si presenteranno alla commissione Bilancio del senato, possano presentare precise richieste. Riferendosi allo sciopero, una fonte sindacale, ci tiene a precisare che si tratta "di un'iniziativa a sostegno delle proposte e non di protesta".

L'iniziativa sindacale viene valutata negativamente dal governo. "Il ricorso allo sciopero generale da parte dei sindacati contro la Finanziaria è un errore", ha detto Maurizio Sacconi, sottosegretario al Welfare.


 

«Per non finire all'inferno»
Trasformare le Nazioni unite
Samantha Power
Sessant'anni fa, gli ammaccati vincitori della seconda guerra mondiale si riunivano a San Francisco per decidere di creare una organizzazione mondiale destinata, come avrebbe detto più avanti Henry Cabot Lodge, ambasciatore americano presso le Nazioni unite, non «a condurci in paradiso», ma, caso mai, «a salvarci dall'inferno». (Segue...)

7 ottobre

Sarebbe bello
GABRIELE POLO
Sarebbe bello svegliarsi e trovare piazza del Popolo piena di gente venuta a Roma per dire che con Berlusconi se ne deve andare tutta la sua politica e che dal berlusconismo ci si può liberare solo tagliando i ponti con le prudenze che lo hanno aiutato a diventare l'autobiografia italiana degli anni `80 e `90. Perché quei ponti non ci ripropongano sotto altra forma ricette simili a quelle dei piatti che abbiamo appena mangiato. E poiché manifestare costa anche fatica, per ripagarla servono delle certezze. Sarebbe bello, allora, sentire che la legge elettorale proposta dal centrodestra non va bene perché sottomette il principio di rappresentanza a quello di governabilità, che il pericolo non viene dal proporzionale, ma dal maggioritario, dal trasformare i cittadini in sudditi la cui partecipazione alla vita pubblica viene ridotta a una scheda da riempire ogni cinque anni. Oppure bello sarebbe ascoltare che le leggi finanziarie dello stato devono servire a redistribuire reddito e risorse in un paese in cui aumenta la forbice tra chi è sempre più ricco e chi è sempre più povero. Che da domani non saranno più i trattati monetari a dettare legge su tutto; che un bilancio aziendale non può essere salvato con un lavoro precario. Sarebbe bello ascoltare parole chiare sulle guerre presenti e passate per assicurare che di guerre non ne faremo mai più, nemmeno per abbattere i tiranni, perché quando una liberazione è appaltata a un esercito straniero ai tiranni succedono i satrapi o gli oligarchi. E, poi, perché la guerra che porti altrove te la ritrovi in casa, nelle tante forme di cui si sa vestire. Oppure non sarebbe male affermare che i diritti universali che stanno nelle costituzioni dell'Occidente non servono a giustificare la supremazia su altri mondi, ma a garantire quei diritti sempre annunciati e resi sempre meno esigibili.

Il diritto di potersi muovere liberamente nel mondo senza dover schivare un Cpt, il diritto a leggi che non vengano varate per difendere i clientes di chi sta al governo, il diritto di non cancellare chi viola l'habeas corpus degli altri in una caserma di Genova solo perché indossa una divisa dello stato.

Sarebbe bello non sentirsi semplicemente dire di «avere fiducia nel governo degli onesti» e, contemporaneamente, di «non aspettarsi troppo da un futuro difficile». Chiedendo poi a chi in questi anni ha faticato nell'impegno dell'opposizione sociale di rientrare nei ranghi, di starsene zitto per «non fare il gioco dell'avversario».

Sarebbe bello tutto questo. Nulla di travolgente, solo bello, cioè il minimo che si dovrebbe dire - e poi fare - per ridare alla politica il senso di cui è stata privata in questi anni. Ma «sarebbe» è pur sempre un condizionale e non sarà la grammatica delle promesse a trasformarlo in un indicativo.
 


GERMANIA
Bolkestein, il dumping stop and go
Divisioni trasversali Martedì lo stop provvisorio in commissione alla direttiva. Ma la partita resta aperta e coinvolge tutti gli schieramenti e i governi dl'Europa
Ultimi colloqui per il nuovo esecutivo di coalizione. Schröder verso l'addio, il cancelliere sarà donna

ALBERTO D'ARGENZIO
BRUXELLES
Tra blocchi parlamentari e manifestazioni di piazza, la direttiva sulla liberalizzazione dei servizi, la famigerata Bolkestein, continua a catalizzare il panorama continentale. Martedì scorso la commissione «mercato interno» si è arenata di fronte ai 1.154 emendamenti presentati dai differenti gruppi politici al rapporto disegnato dalla socialista tedesca Evelyne Gebhardt, che raddrizza gli aspetti più pericolosi della direttiva. Per sabato prossimo è in programma la giornata di mobilitazione europea contro questa proposta lanciata dall'allora Commissione Prodi e da subito finita all'indice perché colpevole di istituzionalizzare il dumping sociale. Martedì c'era stato uno stop, molti avevano tirato un sospiro di sollievo, e invece la partita è di nuovo apertissima e assolutamente incerta, con l'europarlamento spaccato in due, così come i 25 governi Ue divisi tra un approccio più liberista che fa il gioco dei nuovi stati membri, della presidenza britannica (ma non solo), della Commissione e della Confindustria europea, e uno più attento alla salvaguardia del modello sociale difeso dalla Francia, dalla Svezia e dai sindacati. E proprio le organizzazioni sindacali ieri sono stati il bersaglio dall'Italia del ministro dell'economia Tremonti che ha suggerito che «anche i sindacati» con i servizi che forniscono «patronati e caf», siano inseriti «nella Bolkestein, nell'agenda delle liberalizzazioni». Insomma Bolkestein rimane al centro dell'agenda comunitaria con le sue bufere. Una ragione in più per non abbassare la guardia.

Per votare i 1.154 emendamenti ci vogliono più o meno 12 ore, e la Commissione «mercato interno» non si è fermata di fronte alla prospettiva di una seduta-maratona. Ma a bloccare la direttiva ci hanno pensato, poco prima del voto, liberali, popolari ed eurodestra presentando una serie di emendamenti «di compromesso» che miravano a ridurre il numero delle votazioni, ma con uno scopo preciso: far cambiare pelle al rapporto dell'europarlamento riportandolo nel terreno del dumping sociale. Ne segue una scaramuccia verbale e di fronte allo stallo il presidente della Commissione mercato interno, il laburista Whitehead, decide di rinviare la discussione al 21-22 novembre.

Così popolari, liberali ed eurodestra avranno tutto il tempo per ripresentare le loro «proposte di compromesso», contando oltretutto, almeno sulla carta, sui numeri per spuntarla. Chi ha parlato di vittoria contro la Bolkestein, perché viene bloccata adesso, ha omesso di specificare che si tratta di una vittoria di Pirro.

I punti del contendere sono sempre gli stessi due: il principio del «paese di origine», per cui il fornitore di servizi è soggetto alla legislazione del paese in cui ha la sede legale e non di quello in cui presta l'opera; e la lista dei servizi «di interesse generale» da escludere dalla direttiva. Ghebardt, e con lei socialisti e verdi, propongono di sostituire il principio del paese di origine con quello del «mutuo riconoscimento» - una soluzione che dà ampli poteri di supervisione e di regolamentazione al paese in cui viene prestato il servizio. Non sarà una soluzione perfetta, ma è comunque un miglior punto di partenza, da riempire poi con le dovute garanzie sul primato dell'esercizio della legislazione sociale del luogo.

Il centro destra propone invece di mantenere il principio del paese d'origine agghindandolo con alcune limitazioni. Il prestatore di servizi dovrebbe essere obbligato a rispettare la legislazione locale per quel che riguarda la salute, l'ambiente e la sicurezza. In pratica un «paese d'origine truccato» che certo non risolve il problema del dumping sociale.

Gebhardt propone poi di cancellare dal campo di applicazione della direttiva i servizi pubblici quali audiovideo, poste, acqua, gas ed elettricità. Pure su questo popolari, liberali e destra la pensano diversamente: li vogliono «aperti».

Con questo panorama si andrà al voto a novembre nella Commissione mercato interno e poi a gennaio in plenaria. Il risultato è incerto anche perché più dei colori di partito potrà influire il passaporto degli eurodeputati. A sinistra, tra i socialisti, potrebbero essere gli onorevoli dei paesi dell'est a preferire l'approccio liberalizzante, mentre a destra i francesi potrebbero scegliere la difesa del modello sociale, o di quel che ne resta. Voto appeso al filo di interessi contrastanti, uno di quei voti che disegnano la prossima faccia dell'Europa.