Archivio Ottobre 2005
28 ottobre
«Cariche a freddo. E' stata una caccia all'uomo»
Gli studenti denunciano:
«Hanno puntato persone note per le loro lotte». I parlamentari: «Fare chiarezza»
«Garantire i pestati» Gli studenti: «Tutelare chi è
stato identificato e ha già a suo carico provvedimenti penali». Russo Spena (Prc):
«Amnistia per i reati sociali»
CINZIA GUBBINI
ROMA
Studiare dei «punti di
garanzia» per gli studenti manganellati e identificati durante lo «strepitoso
corteo» autorganizzato di martedì. Denunciare il clima di intimidazione, «la
carica a freddo, contro una manifestazione pacifica che fino ad allora si era
svolta senza particolari incidenti». Ma anche condannare i «mass media, che si
accorgono del movimento solo quando porta in strada 150 mila persone e però non
rinunciano a strumentalizzare gli eventi, puntando tutto sulle violenze invece
che sui contenuti». Facoltà di Scienze politiche della Sapienza di Roma, il
giorno dopo. La conferenza stampa convocata dagli studenti per tirare le somme
della manifestazione e per denunciare le violenze registrate in piazza è
stracolma. Studenti, giornalisti, ma anche i parlamentari del centrosinistra che
prendono la parola. Su un tavolo un pc portatile rimanda le fotografie della
carica di via del Corso, quando un gruppo di studenti - prevalentemente delle
altre città d'Italia - accompagnati da una delegazione della facoltà di Scienze
politiche di Roma si era staccata dal presidio davanti Montecitorio per
dirigersi verso la stazione dei treni ed è stata aggredita senza ragioni dal
Reparto mobile di Roma: almeno 15 i feriti. Un attacco che secondo alcuni ha una
precisa regia politica, «An ci riprova e si erge a paladino dell'ala più
oltranzista dentro le forze dell'ordine», dice il verde Paolo Cento.
Di sicuro, secondo gli studenti:«E' stata una caccia
all'uomo, la polizia si è accanita contro compagni che si sono battuti in questi
anni per un'università libera, pubblica e critica - spiega Francesco Raparelli,
Filosofia - Hanno già accumulato denunce penali, e ora l'identificazione
potrebbe portare a un'ennesima denuncia. E' indispensabile tutelarli e invitare
tutti a riscrivere elementi di verità: raccogliamo materiali video e fotografici
per dimostrare cosa è accaduto». Una mail per raccogliere i documenti sulle
cariche è già stata creata: lasporti@tiscali.it.
Uno dei ragazzi identificati è uno studente di Scienze
politiche, che oltre alle denunce penali collezionate nel corso di
manifestazioni di movimento, fa parte del gruppo di cinque persone per le quali
il Senato accademico aveva chiesto l'espulsione dalla facoltà. Il deputato di
Rifondazione Giovanni Russo Spena a margine della conferenza stampa lancia una
proposta: «E' arrivato il momento che i parlamentari si impegnino per chiedere
un'amnistia per i reati sociali, magari autodenunciandosi». Il consigliere
comunale di Roma Nunzio D'Erme dice la sua dal microfono: «E' arrivato il
momento di creare un osservatorio sulla legalità a Roma»
Graziella Mascia (Prc) annuncia che il ministro
dell'interno Pisanu riferirà in aula venerdì sugli scontri avvenuti e chiede di
ricevere tutte le informazioni possibili non solo sulle violenze di martedì ma
anche sugli episodi dei giorni precedenti. Pochi attimi prima uno studente delle
scuole superiori romane aveva ricordato lo sgombero violento del liceo Democrito,
«ma queste intimidazioni non ci hanno fermato e proprio in queste ore gli
studenti del liceo Righi, che aspettano un processo per le mobilitazioni degli
anni passati, stanno votando per l'occupazione». Tutti i parlamentari - dal
Cento a Pietro Folena di Rifondazione - assicurano di volersi impegnare perché i
tavoli del programma dell'Unione accolgano le richieste del movimento. Ma gli
studenti sono molto suscettibili nei riguardi di qualsiasi tipo di ingerenza
partitica, perché - sottolineano - «il nostro è un movimento autonomo e
creativo»: la riforma universitaria del centrosinistra non se la scorda nessuno,
e nessuno è disposto a fare credito. Andrea Capocci del collettivo Laser ricorda
che «40 mila degli attuali 60 mila precari sono stati creati dalla riforma
Zecchino». Luca, ricercatore di Fisica avverte: «Vi aspettiamo al varco».
Ma intanto il ddl è stato approvato. Che fare? Qualcuno
caldeggia l'ipotesi di lanciare un appello al presidente della Repubblica perché
non firmi il provvedimento, proposta rilanciata nel pomeriggio da Marco Merafina,
del coordinamento nazionale ricercatori universitari. Ma la ricetta è,
innanzitutto, continuare la mobilitazione nelle scuole e nelle università.
Chiedere ai rettori di non applicare il decreto: «dopo le parole i fatti».
Stamattina alle 10,30 il rettore Guarini ha convocato - dopo l'occupazione del
rettorato giovedì scorso - un'assemblea pubblica nel dipartimento di chimica.
Briciole di welfare
GALAPAGOS
Soldi ce ne sono pochi: è
l'alibi di Berlusconi e Tremonti per giustificare la pochezza della finanziaria
e i tagli alla spesa sociale necessari per centrare gli impegni con Bruxelles.
Soldi, invece, ce ne sono tanti. D'altra parte lo stesso Berlusconi ci ha
ossessionato negli ultimi tempi con lo slogan «gli italiani sono ricchi». E'
vero: i ricchi da quando c'è lui al governo sono aumentati di molto, ma sono
aumentati ancora di più i poveri. Certo, l'Istat parla di «povertà relativa»,
però quanto c'è di relativo per una famiglia a dover vivere, anzi sopravvivere,
con poche centinaia di euro al mese in città come Roma o Milano? L'Italia è
ricca, ma milioni di italiani sono poveri. Non è una contraddizione: è il
risultato di una politica economica che tende a esasperare le differenze. E la
povertà è il risultato di un sistema fiscale iniquo - nel quale il lavoro paga
più tasse della rendita - e inefficiente, visto che sfuggono ogni anno al fisco
redditi per un ammontare superiori ai 150 miliardi di euro (300 mila miliardi di
lire per semplificare). Ieri un quasi ignoto deputato di An - Giampaolo Landi di
Chiavenna, come specificava l'Agi - ha sostenuto che «tassare i patrimoni e le
rendite è un errore che la Casa delle libertà non può permettersi». Perché non
può permetterselo? Non certo in base alla teoria economica; sicuramente non in
base all'evidenza empirica che ci dice che sono i paesi del Nord Europa a
guidare la classifica dell'efficienza economica, del benessere, della
solidarietà e quindi della civiltà. Il problema è che anche An è diventata
schiava di Berlusconi e della ideologia di classe che il cavaliere rappresenta.
Eppure spazi per fare e fare bene ce ne sono. Invece si
litiga sulle briciole, con l'Udc che minaccia la rottura per circa 200 milioni
di euro tagli alle famiglie. Ma perché poi «famiglie»? Perché non chiamarli
tagli ai «cittadini», ai diritti di ognuno di noi, a cominciare di chi è
diverso, da chi non vuole farsi o non può farsi una famiglia?
L'Italia è un paese di contraddizioni: ricchezza e povertà;
cittadini di serie A e di serie B. Ma anche proprietari di case e cittadini che
la casa non ce l'hanno, ne hanno bisogno, ma non riescono a averla. Le
statistiche dicono che ci sono 600 mila cittadini sotto sfratto. Molti di loro
sono «morosi», ma nessuno lo è per hobby: il mercato li strangola con affitti
mostruosi. Le case non mancano: sono circa 2 milioni quelle sfitte. Ma in questo
caso la legge della domanda e dell'offerta non funziona. Il livello degli
affitti è determinato dal prezzo delle abitazioni; i prezzi delle case sono
imposti dagli immobiliaristi che fanno rimpiangere i vecchi palazzinari. Il
mercato delle abitazioni è un mercato asimmetrico dove il potere ce l'ha solo il
proprietario e dove l'inqulino deve prendere o lasciare. E lasciare significa
spesso finire in mezzo a una strada o in precarie coabitazioni con umiliazioni
pesanti per quanto riguarda i giovani .
Il tutto favorito da una offerta pubblica quasi
inesistente; da cartolarizzaioni dismissioni fatte solo per fare cassa e non per
dare nuovo impulso al'attività edilizia come suggeriscono giustamente anche
quelli dell'Ance, i costruttori. Sandro Medici ha fatto un gesto coraggioso
anche se qualcuno dice che non ha fatto che «copiare» quello che alcuni decenni
fa aveva deciso di fare Giorgio la Pira indifesa dei senza casa fiorentini. Per
i benpensanti non è questo il sistema per risolvere il problema della casa.
Forse, anche se in situazioni di emergenza si ricorre a misure di emergenza. In
ogni caso Medici ci ha insegnato una cosa: la soluzione per risolvere i problemi
degli emarginati non può essere la legalità invocata da Cofferati.
26 ottobre
Ayo e Adam, espulsi a Ragusa
Esiliati politici a Siracusa
E' un po' come se un automobilista fermato dalla
polizia a un posto di blocco, esibisse l'ordinanza di ritiro della patente.
Ubriaco? Pazzo? Chissà come reagirebbero i poliziotti. E soprattutto chissà
se crederebbero a una spiegazione di questo genere: "Vi posso assicurare che
qualche tempo sono stato fermato da dei vostri colleghi che, proprio come
voi, mi hanno chiesto la patente. Non ce l'avevo, non l'ho mai avuta, e
gliel'ho detto. Loro mi hanno dato questo foglietto e mi hanno ordinato di
ripartire immediatamente. Così ho pensato che il foglietto fosse una specie
di patente sostitutiva. Altrimenti non mi avrebbero certo consentito di
riaccendere il motore".
Qualcosa del genere è accaduta ad Ayo Afolabi, venticinquenne nigeriano, e
anche a Adam Moussa, ventiseienne del Togo. Con una differenza non piccola:
il loro "foglietto" non riguardava la possibilità di guidare un'automobile
ma di vivere in Italia. Era, infatti, un decreto di espulsione. Ma Ayo e
Adam - e con loro altri dieci giovani immigrati - credevano che fosse un
permesso di soggiorno o qualcosa di simile. Infatti, subito dopo averlo
ricevuto dai poliziotti, erano tornati liberi sul territorio italiano.
La cosa sarebbe finita così, con qualche centinaio di nomi nelle statistiche
delle espulsioni e con quasi altrettanti nuovi clandestini, se la ricerca di
un luogo dove poter mangiare e dormire non li avesse condotti alla
parrocchia di Bosco Minniti a Siracusa, che da anni ospita una casa di prima
accoglienza. Non tutti assieme, ma uno per volta, alla spicciolata. Adam è
arrivato all'inizio dell'estate. Ha raccontato d'essere sbarcato a Scoglitti,
provincia di Ragusa, il 23 giugno e di essere stato fermato dalla polizia
assieme a centottanta compagni di viaggio. "Ci hanno portati dentro un
grande tendone dove ci hanno preso le impronte digitali e fotografati. Alla
fine ci hanno consegnato questi fogli e siamo tornati tutti liberi". Quindi,
ha mostrato quello che credeva un 'permesso di soggiorno'. Gli operatori
della parrocchia gli hanno spiegato, in un inglese semplice semplice, che si
trattava in realtà di un ordine di espulsione. C'è rimasto male. Ma è
apparso ancor più deluso quando ha saputo che uno nelle sue condizioni,
costretto ad abbandonare il suo paese per motivi politici (il padre è stato
ucciso nel 2003 durante una manifestazione di protesta contro il dittatore
Eyadema) aveva il diritto di chiedere l'asilo politico. "Nessuno mi ha detto
di questa possibilità", ha spiegato.
Tornando all'esempio iniziale è come se, dopo saputo di non essere in
possesso della patente, l'automobilista avesse scoperto che aveva il diritto
di prendere un taxi, ma nessuno l'aveva informato. Fosse stato uno solo, si
sarebbe potuto pensare a pasticcio burocratico. Ma poi sono arrivati gli
altri undici, tutti con l'ordine di espulsione della questura di Ragusa e
tutti con le idee confuse. Ayo, sbarcato il 9 settembre, aveva capito che in
quel foglio c'era scritto di lasciare l'Italia, ma considerava l'ordine alla
stregua di una generica esortazione. Infatti, dopo averlo ricevuto, non solo
era tornato in libertà, ma aveva potuto vagabondare indisturbato, per oltre
un mese, tra Roma, Napoli e Foggia. Giunto a Bosco Minniti ha appreso, come
Adam, della possibilità di chiedere asilo come perseguitato politico. Una
condizione certificata sul suo corpo dai segni delle torture subite in
Niger.
Dodici immigrati che, dopo essere passati per Ragusa, ricevono un ordine di
espulsione-lampo e che, in coro, affermano di non aver avuto né il modo né
il tempo di chiedere asilo, rivelano una prassi. E fanno capire come le
norme della legge Bossi-Fini vengano adattate alle multiformi emergenze
locali fino al punto d'essere trattate come 'suggerimentì dei quali si può
anche non tenere conto. Nascono così, a pochi chilometri di distanza,
diverse "legislazioni di fatto".
Gli espulsi dalla polizia di Ragusa, una volta giunti a Bosco Minniti e
debitamente informati sui loro diritti, si sono presentati negli uffici
della questura di Siracusa col foglio di espulsione tra le mani e si sono
autodenunciati. Quindi hanno eletto domicilio nei locali della parrocchia e
hanno presentato la richiesta d'asilo politico. Mentre attendono la risposta
tentano di raccogliere le idee sul paese in cui sono finiti. Quando erano in
Africa, infatti, avevano sentito parlare dell'Italia come di uno stato
unitario. Adesso hanno qualche dubbio.
25
ottobre
COMMENTO
L'ultima trovata
tassare gli sms
di MICHELE SERRA
Uno dice "Finanziaria" e pensa al
severo cipiglio dello Stato che, conti alla mano, mette sotto il naso
degli italiani la dura evidenza delle cifre. Sbagliato. La Finanziaria,
anno dopo anno, assomiglia sempre di più a un festoso happening nel
quale una bozza di massima (una specie di canovaccio che serva a
stimolare gli attori-improvvisatori) genera una serie infinita di
proposte, emendamenti e trovate spiritose.
Si è appena diradata la scia di amenità sollevata
dalla fantomatica "tassa sui tubi", ed ecco che almeno due nuove
proposte (tra le tante) rianimano la stracca scena parlamentare. La
prima è di un forzista, Marano, che chiede di estendere il condono
edilizio anche alle nude strutture di cemento armato, vale a dire a quei
sordidi scheletri di calcestruzzo, aborti di abuso, che umiliano il
paesaggio meridionale. L'unico commento possibile è più tombale di un
condono: ma che schifo, onorevole Marano.
La seconda proposta è di un deputato di An, Valditara,
che propone una tassa di un centesimo su ogni sms. Cioè: mentre le
cataste di miliardi trafugate dalla speculazione finanziaria sono messe
al sicuro in quale opa, o in qualche doppiofondo estero, c'è chi si
ingegna a raschiare il fondo del barile fino a far stillare un centesimo
da ogni messaggino.
Non sappiamo se l'onorevole Valditara riuscirebbe a
impilare tutti quei centesimi (senza farli cadere) fino a farne un
gruzzolo considerevole. Sappiamo, però, che questo tipo di finanza
raccogliticcia sembra fatta apposta per dare l'idea che lo Stato sia
proprio quel tizio insieme improvvido ed esoso che la gente immagina,
uno che si fa passare sotto il naso interi convogli di denaro rubato
(tasse evase, falsi in bilancio, forzieri occulti) ma per darsi un tono
taglieggia il ragazzino che scrive "tvtb" alla morosa, oppure propone
(sempre l'onorevole Valditara) di tassare le bombolette spray per far
pagare ai graffitari il buco della Parmalat.
Ignoriamo per quali ragioni un parlamentare adulto
consideri i teenagers, graffitari o nel tunnel degli sms che siano, una
fonte di reddito così decisiva. Ma abbiamo il fondato sospetto che, in
uno scenario come quello odierno, con quantità siderali di denaro che
arricchiscono pochi intraprendenti scrocconi, rosicchiare un centesimo
dagli sms, o due euro (cavoli! un furto!) da ogni bomboletta spray, non
sia neppure iniquo. Sia surreale, come di un paese ormai vocato al
comico.
Tipico scenario da satira economica: appoggiato a un
pilastro di calcestruzzo condonato, quotato in Borsa da un
immobiliarista in vista di future compravendite, un ragazzino scrive un
messaggino. Arriva la Finanza: in applicazione della nuova Finanziaria,
constata che tutto è in regola, compreso l'eliporto abusivo che sovrasta
la foresta di pilastri abusivi. Ma chiede al ragazzino se ha
regolarmente versato all'erario il suo centesimo, oppure se ha taroccato
il telefonino per evadere la nuova imposta.
Nella parte di uno Stato siffatto vediamo bene
l'ispettore Clouseau, che mentre persegue, inflessibile, un divieto di
sosta, non si accorge che nell'automobile sta avvenendo un omicidio.
|
Il pubblico è
blindato
Le
intenzioni del governo in materia di privatizzazioni non solo risultano quanto
mai confuse e contraddittorie, ma si collocano pure in un quadro economico e
giuridico fra i più malcerti e controversi

Ma ci
fa o ci sta? In parole più esplicite: cerca di prendere tutti per scemi ovvero
non sa di che cosa sta parlando? Ormai capita sempre più sovente di doversi
porre quest'interrogativo di fronte a certi annunci di Silvio Berlusconi. Come
quello dei giorni scorsi con il quale è tornato a ribadire che "quello delle
privatizzazioni è un discorso non interrotto e le più immediate riguardano Eni
ed Enel perché sono già state quotate in Borsa e quindi andiamo sul sicuro".
Sul sicuro? In realtà le intenzioni del governo in materia non solo risultano
quanto mai confuse e contraddittorie, ma si collocano pure in un quadro
economico e giuridico fra i più malcerti e controversi. Che ci sia bisogno di
fare cassa per frenare la duplice scalata in corso, tanto del deficit corrente
quanto del debito, è un fatto. Ma, in rapporto alle partecipazioni pubbliche in
Eni ed Enel, i due obiettivi non sono fra loro coerenti e compatibili. E il
governo al riguardo si sta comportando come chi vorrebbe la botte piena e la
moglie ubriaca.
Da un lato si dice, come l'appena citato Berlusconi, che si vuol cedere sul
mercato un'altra quota azionaria delle due imprese. Dunque, che il governo con
il relativo incasso vuole privilegiare la riduzione del debito. Da un altro
lato, però, si guarda alla pressione del deficit e allora si escogitano
singolari espedienti (come la tassa sul tubo poi trasformata in una stretta
sugli ammortamenti) per ricavare un po' di gettito immediato a valere sui conti
di Eni ed Enel. Con il non trascurabile effetto di condizionarne le quotazioni
di Borsa e di inviare un messaggio pesantemente negativo a quei grandi
investitori esteri che sono stati importanti sottoscrittori delle prime quote
azionarie alienate dallo Stato. Insomma, si fa una mossa che rischia di rendere
non solo meno lucroso ma pure più difficile il collocamento di ulteriori titoli
sul mercato.
E non basta. Sia in Eni sia in Enel, la mano pubblica è ormai al limite di
quella soglia del 30 per cento sotto la quale il controllo di entrambe le
aziende diventerebbe contendibile sul mercato. Ebbene, per aggirare questo
ostacolo, ecco che il governo Berlusconi se n'è inventata un'altra delle sue:
introducendo nella Finanziaria 2006 un articolo che conferisce
all'azionista-Stato poteri speciali per neutralizzare eventuali scalate non
gradite. Una pensata davvero brillantissima. In primo luogo, perché così si
scoraggiano i nuovi possibili sottoscrittori e quindi si deprime anche il prezzo
della vendita e l'incasso per lo Stato. In secondo luogo, perché norme di tal
fatta sono ormai da tempo al centro di un contenzioso con l'Unione europea che
non intende più avallare né 'golden share' né altre pillole avvelenate a difesa
di una proprietà pubblica minoritaria in aziende quotate sul mercato.
Di tutto questo, però, Berlusconi non parla. Né pronuncia verbo sulla vera
questione cruciale di un mercato energetico tuttora dominato dai due ex monopoli
pubblici: quella liberalizzazione che avrebbe dovuto almeno seguire, se non
precedere, la privatizzazione di Eni ed Enel. Cosicché si ritorna alla domanda
iniziale: ma il Cavaliere ci fa o ci sta?
21 ottobre
I
fantasmi della burocrazia
e le vittime del naufragio
E' solo una combinazione di coincidenze sfortunate o c'è
del metodo dietro tanta sciatteria? Davvero si fa fatica a crederci. L'Italia,
un grande paese, che in modo sistematico offende i parenti delle vittime di
un'enorme tragedia: la più grande sciagura navale avvenuta nel Mediterraneo
dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Nello scorso aprile era toccato al
rappresentante delle famiglie pachistane. Adesso è stata la volta del suo
omologo indiano, Balwant Singh Khera. Manca solo il rappresentante dei tamil
dello Sri Lanka e la nostra burocrazia potrà dire di aver sistemato buona parte
del subcontinente asiatico.
La tragedia è il cosiddetto "naufragio fantasma" avvenuto nel Canale di Sicilia
la notte tra il 25 e il 26 dicembre del 1996. Le vittime furono 283 giovani
uomini provenienti dall'India, dal Pakistan e dallo Sri Lanka. Da oltre un anno
- pressoché ignorato da giornali e televisioni - è in corso a Siracusa un
processo contro i responsabili. Si svolge davanti alla Corte d'assise perché
l'accusa contestata è tra le più gravi: omicidio plurimo aggravato.
Probabilmente è la prima volta in tutto il mondo che un paese tratta con tanta
severità una tragedia dell'immigrazione: i mercanti di uomini accusati di essere
dei killer, alla sbarra per un reato da ergastolo. A leggere il capo
d'imputazione si resta ammirati per tanta fermezza.
Ma se, in un giorno di udienza, si entra nell'aula del palazzo di giustizia di
Siracusa, l'impressione cambia. E' un deserto. Da una parte i due giudici togati
e i sei popolari, dall'altra gli avvocati, in mezzo il pubblico ministero. Poi
basta: di imputati neanche l'ombra. Per trovare la spiegazione è sufficiente
dare un'occhiata agli atti processuali. Si scopre che l'imputato è uno solo, il
trafficante pachistano residente a Malta Ahmed Turab Sheik (il quale è da tempo
in libertà). Tutti gli altri membri dell'organizzazione - un'ottantina di
persone - o non sono mai entrati nel processo o ne sono rapidamente usciti.
Il gigantesco divario tra gravità dell'accusa e sostanza del processo può
agevolmente essere considerato una metafora delle condizioni attuali del nostro
paese. Ma va detto che, almeno in questo, le responsabilità non sono solo
italiane. Il fatto è che non esiste un giudice internazionale per i trafficanti
di essere umani e così le prove raccolte tra L'India, il Pakistan e lo Sri Lanka
(paesi di reclutamento dei migranti), Malta e la Grecia (sedi sociali
dell'organizzazione), l'Egitto, la Siria e la Turchia (porti intermedi e basi
logistiche) sono rimaste sparse nel globo senza che nessuno potesse metterle
assieme. Il solo fatto che questo strano processo sia stato instaurato può
essere considerato un piccolo miracolo giuridico. E' un processo che con tutta
probabilità si concluderà nel nulla. Vale in quanto tale, come rituale laico di
giustizia.
Così l'hanno inteso, quando si sono costituiti in giudizio, i familiari delle
vittime. Così l'hanno vissuto i superstiti che, a prezzo di enormi sacrifici,
hanno raggiunto Siracusa per testimoniare. Come il pachistano Shakoor Ahmad che
quella notte del 1996 vide morire annegati i suoi migliori amici. Si è
presentato davanti ai giudici, ha fatto violenza a se stesso per ricordare quei
momenti, a un certo punto ha chiesto una pausa perché le parole si confondevano
col pianto. E ha definito il suo stato attuale con la precisione d'un poeta:
"Malattia della memoria".
O come il vecchio Zabihullah Bacha, padre di Syed Habib, un ragazzo che già
viveva in Italia ed era in attesa di permesso di soggiorno, quando all'inizio
del 1995, per far visita alla madre gravemente malata, tornò in Pakistan. Ad
agosto, quando la madre stava meglio, decise di rientrare a Roma e dovette farlo
da clandestino. Una vittima del Mediterraneo e della burocrazia.
Come abbiamo raccontato qualche mese fa, Zabihullah Bacha, giunto in
Italia nel dicembre del 2004, ottenne dalla corte d'assise l'autorizzazione a
restare in Italia per seguire l'intero processo ma, per un pasticcio
burocratico, si ritrovò senza permesso di soggiorno, fu condotto in questura
come "clandestino" e per un soffio non finì in un Centro di permanenza
temporanea. Rilasciato decise di tornare in Pakistan.
Anche Balwant Singh Khera è un uomo anziano ed è anche un capo spirituale nella
sua regione. Nel 1998, quando l'Italia aveva ormai rimosso il "naufragio
fantasma", venne a Roma e tentò invano di incontrare i responsabili del governo.
Poi, assieme ai suoi accompagnatori, si sistemò con dei cartelli in via della
Conciliazione. Qualcuno ricorda ancora quei cinque uomini col turbante che,
immobili, tentavano di spiegare ai pellegrini diretti verso Piazza San Pietro la
tragedia del "naufragio fantasma". Intervenne la polizia e Balwant finì in
questura per qualche ora.
A luglio la corte d'assise ha deciso di convocarlo come testimone. Decisione
obbligata: Balwant Singh Khera in questi anni ha raccolto un formidabile dossier
sull'organizzazione dei trafficanti indiani, ha mantenuto i contatti con i
superstiti che sono rientrati in India e molto difficilmente potranno venire in
Italia per testimoniare. Il suo arrivo in aula era atteso per una settimana fa,
mercoledì 12 ottobre. Non si è visto. Il legale di parte civile delle famiglie
degli indiani, Ezechia Reale, ha spiegato perché: semplicemente Balwant Singh
Khera non ha ottenuto il visto d'ingresso per l'Italia.
20 ottobre
Virus dei
polli, Europa impreparata
«Una
minaccia mondiale» L'Ue smorza gli allarmismi ma ammette le difficoltà: più
della metà degli stati membri non sono pronti a far fronte all'influenza, c'è
bisogno di un coordinamento con i paesi del sud-est asiatico e del Maghreb.
Nuovi casi in Romania, allarme in Grecia
ALBERTO D'ARGENZIO
BRUXELLES
L'Unione europea non
è proprio preparatissima a una pandemia, dice il Commissario alla sanità Markos
Kyprianou, ma pure così le istituzioni comunitarie inviano messaggi di calma,
dopo aver seminato il panico non più tardi di una settimana fa. «La scoperta di
nuovi casi di influenza aviaria in Europa - dice Kyprianou - non ha effetto
sulla possibilità di pandemia influenzale. Essa potrebbe venire da questo virus
come anche dalla mutazione di altri». In sostanza prepariamoci a qualcosa che
arriverà, anche se non si sa bene quando e con che faccia, anche se per ora va
quella del pollo. Per contrastare questa eventuale emergenza, spiega il
Commissario, esistono dei piani nazionali mentre si va ampliando il
coordinamento tra i 25 come tra loro e gli altri paesi, quelli già colpiti, in
particolar modo del sud-est Asia, o quelli che verranno colpiti, come gli stati
dell'Africa orientale e del Maghreb. Intanto si scopre che «più della metà degli
stati membri non hanno raggiunto il livello di preparazione necessaria»,
soprattutto per quel che riguarda le scorte di antivirali e di vaccini contro la
normale influenza (secondo l'Oms da somministrare alle fasce più deboli,
anziani, diabetici e malati di cuore: il 25% della popolazione). Frasi
contrastanti che, tra allarmi e tranquillanti, lasciano in bocca un lieve sapore
di schizofrenia comunitaria. Dietro al commissario campeggia il simbolo della
Presidenza inglese, uno stormo di uccelli migratori, quasi un oscuro presagio
dell'ultimo, recentissimo, incubo europeo.
E l'incubo è ormai dentro i confini dell'Unione, con il
ritrovamento di un focolaio del virus nell'isola greca di Inousses, a due passi
da Chios e dalle coste turche. In attesa che venga confermata, in Grecia come
nel laboratorio comunitario di Waybridge, la quasi sicura presenza del temuto
virus H5N1, le autorità di Atene hanno già deciso di bloccare il commercio di
pennuti vivi, carni e piume della regione di Chios verso il resto del paese e
del continente. Altri pennuti sono invece risultati positivi in Romania, nel
delta del Danubio: un cigno nel villaggio di C.A. Rossetti, un altro a Maliuc e
un'anatra a Camurlia de Jos. Il bollettino europeo indica anche morti sospette
di volatili in Macedonia. Di fronte a questo panorama, i ministri degli esteri
si ritrovano per una riunione lampo buona più che altro per «tranquillizzare i
cittadini», parole del presidente di turno, il britannico Jack Straw (il cui
nonno morì nel 1918 per la spagnola), e per fare il punto della situazione, tra
misure prese e prossimi appuntamenti.
Tra questi ultimi spicca il vertice di inizio novembre a
New York a cui parteciperanno Oms, la Fao e la Banca mondiale, una prima
occasione per valutare la situazione e le necessità dei paesi del sud-est
asiatico come dell'Africa. Quindi ad inizio 2006 dovrebbe essere organizzata una
nuova conferenza buona per decidere le misure di assistenza tecnica ed economica
da fornire ai paesi meno sviluppati.
Prima ancora, ossia domani e dopodomani, i ministri della
sanità dei 25 si ritrovano a Londra per un consiglio incaricato di affrontare
aspetti più tecnici, come le relazioni con l'industria del settore. L'Ue
chiederà alle imprese di aumentare la capacità di produzione di antivirali e di
tenersi al tempo stesso pronti in vista della scoperta e produzione di un
vaccino, nel caso l'H5N1 dovesse mutare e divenire trasmissibile tra gli uomini.
E qui si apre il fronte farmaceutico. Ieri la svizzera
Roche, produttrice del Tamiflu, il più efficace tra gli antivirali, ha parlato
di una possibile concessione della licenza ad altra impresa in modo da aumentare
la produzione del farmaco, come richiesto a gran voce dai governi del sud-est
asiatico (e sottovoce da quelli europei). Forse la multinazionale è diventata
più malleabile per via della notizia che vuole il Tamiflu inefficace contro una
nuova mutazione del virus. Intanto sulla Roche piovono ordinativi da 40 paesi.
Se ti
abbandonano in mezzo al deserto
La paura
dei migranti che vivono in Marocco: nel deserto ci finiscono tutti
«Il Marocco ha espulso tra 1.500 e le 2.500 persone.
Molte più di quelle accampate intorno alle enclaves spagnole». Lo dicono le
associazioni marocchine e hanno ragione: nel Sahara è finito anche chi viveva in
città, e persino i carcerati
CINZIA GUBBINI
DI RITORNO DA RABAT
«Sono venuti anche
di notte, hanno preso la gente che stava dormendo. Nel mio quartiere, nessuno
esce più di casa. La situazione è diventata molto dura, non era mai stato così».
Siamo a Rabat, in un McDonald's, dopo le sei di sera, finito il digiuno del
Ramadan. E' qui, tra i tavolini transnazionali del fast food vicino alla
stazione ferroviaria della capitale del Marocco che Pedro, un nigeriano di 29
anni, ha voluto incontrarci. Da McDonald's, perché qui la polizia non entra e si
può stare un po' tranquilli, anche se Pedro sotto il suo berretto bianco non la
smette di guardarsi alle spalle. Si è vestito elegante, camicia bianca, golf,
jeans ben stirati. «Bisogna vestirsi bene, magari ti scambiano per uno studente
e non ti chiedono i documenti». La voce di Pedro è una delle tante che arrivano
dalla periferia di Rabat come di Casablanca, o di tutte le altre città del
Marocco. Voci azzittite dagli ultimi sconvolgimenti alle frontiere europee, gli
assalti di Ceuta e Melilla, le pressioni spagnole, la decisione di Rabat di
espellere in massa gli immigrati subsahariani - e non solo quelli nascosti
vicino alle enclaves spagnole, sul monte Bel Younech davanti a Ceuta o sul
Gurugu, di fronte a Melilla. No: nel deserto del sudest e in quello del Sahara
occidentale sono state deportate anche persone che vivevano lontano dalle
enclaves ma che chiaramente avrebbero potuto prima o poi tentar di arrivare in
Europa. Persone che si accalcano nelle periferie - famosa quella di Takadoum a
Rabat - dove per fare un giro «è meglio essere accompagnati», dicono.
Deportati dal carcere
La gendarmeria reale ha scelto la linea dura, durissima.
«Calcoliamo che nel deserto siano state portate tra le 1.500 e le 2.000 persone:
intorno alle enclaves non ce n'erano più di mille», spiega Mamadou Salian Bah,
il rappresentante dell'Associazione nazionale degli studenti africani, guineano,
che ha una verità ancor più scottante da raccontare: il governo marocchino ha
espulso nel deserto persino alcuni carcerati neri. Lui lo sa: uno è suo cugino.
«Si trovava in carcere da sei mesi, doveva scontare una condanna di un anno in
base alla nuova legge sull'immigrazione. Si trovava in Marocco da clandestino,
il suo permesso di soggiorno era scaduto e si è fatto beccare dalla polizia. Da
qualche giorno non riuscivo a rintracciarlo - spiega Mamadou - finché mi ha
chiamato lui. Mi ha spiegato che a fine settembre sono andati a prenderlo, lui
pensava di essere libero, invece lo hanno caricato su un camion. In questo
momento si trova in un campo militare di Guelmin». Guelmin è la località al
confine con il Sahara occidentale, dove sono state portate almeno un migliaio di
persone. Alcuni immigrati sono stati lasciati nel deserto, quelli provenienti
dai paesi con cui il Marocco non è riuscito a stabilire un contatto per il
rimpatrio. Tutti gli altri proprio in queste ore sono di fronte ai loro
ambasciatori, compresi quelli di Congo e Costa D'Avorio, due paesi insanguinati
dalla guerra civile
Gurugu e Bel Younech
Ma che cosa è accaduto in questi luoghi continuamente
evocati - Bel Younech, Gurugu? Il primo è al confine con Ceuta, il secondo a
quello di Melilla. In questi luoghi da anni esistono degli accampamenti: è qui,
naturalmente, a un passo dalla Spagna «marocchina», che gli africani si fermano
per provare a passare dall'altra parte. Nascosti dalla vegetazione ma conosciuti
da tutti, a partire dai militari, i campi di Bel Younech e Gurugu venivano a
volte smantellati, per ricrearsi puntualmente. Tuttavia, si racconta che fossero
ben organizzati: «Le comunità eleggevano i propri capi, che si occupavano di
controllare un po' la situazione. Sia per appianare eventuali litigi che per
organizzare la vita in mezzo alla vegetazione» - racconta Hicham Rachidi dell'Afvic,
gli Amici dei famigliari delle vittime dell'emigrazione clandestina. «I due
accampamenti erano conosciuti anche da tutti gli africani in cammino verso il
Marocco, e le comunità hanno sempre fatto in modo di non far accalcare troppa
gente. Quando le persone cominciavano ad essere troppe si comunicava a chi era
in arrivo di aspettare ancora un po'. La strategia che è sempre stata scelta
dalle persone che si accampavano qui - continua Rachidi - era quella di passare
dall'altra parte a piccoli gruppi. Una strategia che mirava a non creare troppa
tensione». E così è andata avanti per anni. Ovviamente per gli immigrati non si
trattava di una situazione agevole: lo può testimoniare Giorgio Colaprico di
Medici Senza Frontiere, una delle associazioni che si è spinta fin nel deserto
per cercare gli immigrati, e che presta servizio proprio al confine con Melilla:
«Prestavamo spesso servizio a Gurugu» - racconta. «Le persone avevano diversi
problemi sanitari, noi li accompagnavamo in ospedale quando c'era bisogno, e
facevamo delle consultazioni. Ci fermavamo in una certa parte della radura, loro
sapevano che eravamo lì e ci venivano a cercare se c'era qualche problema. Ma a
un certo punto è cambiato il clima».
Un brusco giro di vite avvenuto intorno all'inizio del
2005, proprio mentre la Spagna avviava la sua sanatoria. Il messaggio arrivato
al Marocco è stato quello di fermare gli arrivi, mentre in Spagna montavano le
polemiche sull'«effetto chiamata» della sanatoria voluta dal premier. Il Marocco
ha risposto: i rapporti tra i due paesi si sono fatti molto più distesi dopo
l'elezione di Zapatero a primo ministro. Rabat ha collaborato con Madrid dopo
gli attentati dell'11 marzo e la Spagna ha ringraziato lanciando una serie di
segnali: un appoggio meno netto al Fronte Polisario nel Sahara occidentale, fino
ad arrivare all'eloquente assenza di Zapatero nelle enclaves spagnole di Ceuta e
Melilla, persino in un momento caldo come quello determinato dalle avalanchas.
«La presenza dei militari ha iniziato ad essere sempre più
forte», continua Colaprico, che racconta di come i militari marocchini abbiano
iniziato a eliminare le discariche intorno alla montagna in cui gli immigrati
erano abituati a ricavare cibo e vestiario per il loro sostentamento, di come
abbiano costruito un presidio militare nel punto esatto in cui Medici Senza
Frontiere dava appuntamento agli immigrati. Cominciavano ad arrivare anche i
giornalisti. Gli abitanti di Bel Younech, i più organizzati, non apprezzavano
che si facesse troppa pubblicità attorno al loro caso. Per controllare chi
entrava nel campo e per proteggersi dalla polizia avevano addirittura creato una
sorta di «servizio d'ordine» chiamato «caschi blu», con un'ironia che la dice
lunga sul grado di coscienza politica che si può trovare in posti come questi.
Ma la linea dura di Rabat andava avanti: le capanne di
plastica degli immigrati venivano continuamente distrutte e un articolo dello
scorso giugno su Le Journal Hebdo riportava le denunce degli immigrati
sul comportamento degli poliziotti marocchini: «Ci tagliano le piante dei piedi
e poi ci dicono 'provate a correre'».
La tensione saliva, passare dall'altra parte era diventato
impossibile e il numero delle persone negli accampamenti cresceva: «Ci hanno
raccontato di persone che hanno iniziato a spingere perché si prendesse una
decisione una volta per tutte» - racconta ancora Rachidi dell'Afvic. «Ci sono
state lunghe discussioni e persino delle votazioni. Alla fine ha prevalso la
linea di chi pensava che fosse arrivato il momento di provare il tutto per
tutto, altrimenti sarebbe stato troppo tardi». Così è iniziata l'organizzazione
dell'assalto alle barriere di Ceuta e Mellila. E dall'altra parte, tanto sul
fronte spagnolo che su quello marocchino, la sferzata finale.
Il tavolo algerino
Ma le conseguenze di questa vicenda non sono ancora finite;
anzi, stanno incendiando gli animi in Marocco e in Algeria a proposito del
Sahara occidentale, conteso dai due paesi e sfondo onnipresente di tutte le
questioni interne marocchine. E' proprio a ridosso del muro costruito da re
Hassan II per contenere le azioni del Fronte Polisario - lungo 2mila chilometri
e difeso da mine antiuomo e anticarro - che i militari marocchini hanno
abbandonato alcune persone, suddivise in piccoli gruppi.
Il Polisario ha annunciato di averne trovate 120 e di
essere molto preoccupato per la completa assenza di donne. Il Marocco nega con
decisione di aver abbandonato persone in quella zona, mentre non può farlo
rispetto a coloro che sono stati scovati più a nord dalle associazioni
umanitarie. D'altronde Rabat ha sempre usato questa tattica: se deve espellere
qualcuno, lo porta alla frontiera con l'Algeria - anche se fino ad ora ha sempre
optato per zone abitate e non completamente desertiche o, ancor peggio, minate.
Il governo accusa da anni l'Algeria di aver «ridotto le frontiere a un
colabrodo» e quindi ritiene che qualsiasi subsahariano penetrato in territorio
marocchino sia passato dall'Algeria. Il 12 ottobre il ministro degli esteri
marocchino Taieb Fassi-Fihri ha invitato un gruppo di giornalisti a casa sua per
il pasto di fine digiuno del Ramadan lanciando un messaggio ben preciso alla
stampa: «Noi abbiamo fatto ciò che potevamo per i nostri mezzi - ha spiegato -
ma dal lato algerino della frontiera non si fa nulla per impedire l'accesso
degli immigrati in territorio marocchino. Come giornalisti dovreste interessarvi
un po' di più a quello che succede dall'altra parte».
Ieri, sulla stampa marocchina, il governo di Rabat ha preso
di petto il Polisario, sostenendo che il Fronte ha inventato di sana pianta la
storia degli immigrati trovati nel deserto con la precisa intenzione di
danneggiare l'immagine del Marocco. Immediata la replica di Mohamed Abdelaziz,
capo del Polisario e presidente della Repubblica araba saharaoui democratica
(riconosciuta dall'Algeria ma non dal Marocco), che ha usato parole molto dure:
«Si tratta di minacce, di una escalation nei confronti dell'Algeria e del
Polisario», ha detto. La Spagna si guarda bene dal mettere bocca in queste
schermaglie. Ma manda segnali. Solo l'altro ieri Zapatero ha incontrato De
Villepin e parlato al lungo al telefono con Chirac, chiedendo alla Francia -
vicina all'Algeria - di appoggiare la proposta di una Conferenza euro-africana
sull'immigrazione, che avrà l'obiettivo di richiamare alle «proprie
responsabilità» i governi africani circa l'eccessiva mobilità delle loro
popolazioni. L'obiettivo prioritario di Parigi e Madrid, per ora, è chiudere
bene le porte di casa.
Che cosa è
rimasto della guerra del gas
Tra gli
aymara boliviani che fecero cadere due presidenti. E sfidano gli Usa
Esattamente due anni fa, stretto tra piazze furenti e
lucrosi contratti di fornitura da onorare, il presidente Gonzalo Sanchez de
Lozada ordinava all'esercito di uscire dalle caserme e ripristinare l'ordine.
Fece un massacro, ottanta morti almeno e centinaia di feriti, poi fuggì
ROBERTO ZANINI
INVIATO A LA PAZ
La targa dice
«mausoleo» ma è la sola cosa un po' più alta di una tomba in tutto il cimitero
di Tarapacà, il cielo basso delle Ande è un coperchio di blu, il diacono con la
chitarra canta per un gruppo di cholas
che piangono. «Justicia, carajo»
- giustizia, cazzo - e la canzone è finita, il prete comincia a benedire bambini
e donne con bombetta e pollera,
il vestito delle donne andine. Sono le vedove e gli orfani della guerra del gas.
Esattamente due anni fa, stretto tra piazze furenti e lucrosi contratti di
fornitura da onorare, il presidente Gonzalo Sanchez de Lozada ordinava
all'esercito di uscire dalle caserme e ripristinare l'ordine. Fece un massacro,
ottanta morti almeno e centinaia di feriti, poi fuggì. In tutta la Bolivia, dove
ci sia stato un nome da ricordare, in questi giorni accade la stessa cosa. Onore
ai nostri morti, processo al «Gringo» De Lozada. ***
«Morirono, era sabato, un giorno come oggi»: a Nestor
Salinas ammazzarono un fratello e le truppe ne sequestrarono per ore anche la
salma finché la gente andò a riprendersela a forza, si chiamava David, era il
minore e oggi Nestor è il presidente del comitato delle vittime. Carlos cammina
sulle stampelle, gli manca una gamba: glie l'ha strappata una raffica, quel
giorno sparavano anche le autoblindo. Anche la sua gamba è seppellita a Tarapacà.
Alex Llusco Mollericona aveva cinque anni e adesso è una cassetta bianca e un
foto su un poster, un proiettile gli è entrato in bocca e gli è uscito dalla
nuca. Dorme sulla collina come tutti i morti della guerra del gas, una delle
colline a quattromila metri sulle Ande, di cui la Bolivia ha scoperto da poco la
furia, terra di indigeni aymara poverissimi e furibondi che hanno cacciato gli
ultimi due presidenti da Palacio Quemado - palazzo bruciato, perché nella storia
è già andato arrosto due volte. Ora vogliono mettere le mani sulla loro prima
vittima, l'assassino, il «Goni» De Lozada. E se lo giurano l'un l'altro
accendendo un'altra candela. Come un insulto urbanistico, il cimitero di
Tarapacà confina con una grande caserma di cavalleria. Da lì uscirono i
massacratori.
***
Era un autunno caldissimo in Bolivia nel 2003;
manifestazioni una via l'altra. In estate De Lozada aveva fatto sapere che il
gas boliviano di Tarija sarebbe andato a finire in Cile, attraverso il consorzio
Pacific Lng. E aveva fatto male: in poche settimane il paese si era incendiato
in difesa del suo idrocarburo, manifestando con molto rumore, chiedendo
apertamente le sue dimissioni, fermando le autocisterne cariche di benzina che
il governo aveva mandato a rifornire gli impianti di La Paz prosciugati da
settimane di blocchi stradali, impedendo il ritorno anche ai turisti sul lago
Titicaca (in centinaia rimasero bloccati). Il giorno 11 ottobre 2003 il «Goni» -
il nomignolo che si era dato in campagna elettorale, per riuscire più popolare
nonostante l'accento americano - decise che ne aveva abbastanza e ordinò
all'esercito di uscire dalle caserme. Le truppe d'élite del Quarto Cavalleria
Ingavi, di stanza a El Alto, infilarono avenida Juan Pablo II (proprio: con
un'atroce croce di cemento nel mezzo, l'unica cosa che il papa abbia portato in
quel viaggio in cima alle Ande) e la trasformarono in un camposanto. Uscirono e
uccisero il primo giorno, uscirono e uccisero il secondo. Al terzo i soldati
fecero sapere che non si sarebbero più mossi, perché erano quasi tutti montanari
e di sparare su amici e parenti ne avevano abbastanza. Colonnelli e generali
capirono, per il presidente De Lozada cominciò la fine.
***
Donna Juana Valencia piange appesa a un gonfalone comunale.
«Mio marito sta qui, morto di pallottola, si chiamava Marcelo Carabezal Loren,
io sono sola con sei figli». Il cimitero di Villa Ingenio sta sotto lo stesso
cielo che sembra un soffitto, a qualche collina di distanza dal centro di El
Alto, al largo della terra che chiamano Ande, proprio accanto a un'imponente e
fetida discarica che il vento si incarica di pubblicizzare per bene. Patricia
Amalia Luna piange il marito, «si chiamava Damian Palacios», un altro nome su un
altro mausoleo che svetta di un metro sopra una confusione di tombe sparse a
caso da un becchino isterico - la licenza funeraria dura qualche anno, o si
rinnova o il morto cambia casa e i «collas», la gente povera delle
montagne, di soldi ne ha pochi e in generale servono di più ai vivi che ai
defunti. Olga Quelce piange il figlio Luis Fernando, e il marito «morto di
crepacuore», dice, pochi giorni dopo. Don Modesto Chino officia una breve messa,
l'avvocato Rogelio Mayta ammette: «Questi assassini, non riusciamo a processarli
perché sono ricchi». Sulla targa c'è scritto «Eroi della guerra del gas», e ci
sono 22 nomi. Luis aveva 16 anni, scapolo, morto di pallottola. Florentino,
Benita e Dominga, morti di ustioni in giorni diversi. Roxana, 19 anni,
pallottola...
****
Il 13 ottobre, con La Paz pronta a unirsi alla protesta e
20mila manifestanti a scontrarsi con l'esercito nelle strade, il vicepresidente
Carlos Mesa ritirò il proprio appoggio al governo, «per motivi di coscienza».
Negli obitori e nelle chiese tenute aperte dai parroci indignati c'erano già 63
morti, la gente andava a prendersi i corpi a forza, sfidando le fucilate. I
contadini aymara abbattevano con le corde i ponti pedonali di cemento armato da
cui l'esercito sparava, ai medici che gridavano di aver troppi feriti da
assistere rispondevano «curateli tutti o buttiamo giù anche l'ospedale», e
spinsero in strada a forza di braccia anche qualche vagone della ferrovia
(quando tutto finì, la gru mandata a liberare la strada si ruppe nel tentativo
di spostare i vagoni). Gli Stati uniti, l'Organizzazione degli stati americani,
la Confindustria boliviana e un altro pugno di sigle nazionali e internazionali
appoggiarono Sanchez De Lozada, che il 15 ottobre provò a frenare la fuga di gas
che gli stava bruciando il paese, accennando alla possibilità di un referendum
ma senza mettere alcuna data, e accusando i capi della piazza di cercare «una
dittatura narco-sindacalista». I moti di piazza raddoppiarono di furore, in
pochi giorni il governo perse quasi tutti i pezzi. Il 17 ottobre De Lozada
annunciò che si sarebbe dimesso con un discorso alla televisione. Invece fece i
bagagli, imbarcò la moglie Ximena, la figlia Alexandra, il suo ministro della
difesa (Carlos Sanchez Berzain detto el zorro, la volpe) e quello agli
idrocarbri Jorge Berindoague, beffò il servizio d'ordine disposto dal leader
indigeno Evo Morales intorno a Palacio Quemado e fuggì in elicottero
dall'Accademia militare di La Paz verso l'aeroporto militare di El Alto e di lì
nella fedele Santa Cruz, tra i «cambas», la gente ricca della pianura con
pulsioni secessioniste; infine, negli Stati uniti. Al cadere della notte,
l'intera banda era già a Miami.
***
La musica sta a metà tra la banda della parrocchia e gli
Inti illimani, volano petardi di proporzioni gigantesche, una coorte in poncho
avanza sulla strada e supera i resti di una casermetta di polizia fatta saltare
in aria. Achacachi è il municipio ribelle degli aymara boliviani, un posto senza
la minima traccia di un'autorità pubblica che non sia comunitaria - cioè
nominata in assemblea e revocabile all'istante. Niente questori, soldati,
poliziotti, niente esattori. I primi morti del gas sono arrivati qui, in
settembre, quando l'esercito boliviano cercò di scortare fuori dai blocchi
stradali centinaia di turisti rimasti bloccati sul lago Titicaca. Quattro aymara
e un soldato morirono in uno scontro a fuoco a Warisata, la sede della prima
straordinaria università india del paese, fucina di proteste e di movimenti. Il
leader indigeno Felipe Quispe, il Mallku (capo), accusò il governo e si
disse pronto a sparare, De Lozada accusò gli universitari, altre regioni si
sollevarono, la Central obrera dichiarò lo sciopero generale indefinito e come
prima richiesta le dimissioni di Lozada. Era la miccia che avrebbe fatto
esplodere il paese e Achacachi lo ricorda con un avvenimento a suo modo storico:
ricevendo una carovana internazionale di solidarietà. Gente di pelle bianca, che
da un po' non è praticamente più ammessa nella zona. La carovana Mayaki (in
aymara «siamo uno solo») viene dall'Italia, è composta di militanti politici,
simpatizzanti, esponenti di partito come Italo Di Sabato del Prc, da giornalisti
e persino da un'istituzione: il comune di Roma, nelle persone della
vicepresidente del consiglio comunale Monica Cirinnà e di un consigliere, Nunzio
D'Erme. E' una lunga e elaborata cerimonia, metà su una collina arroventata dal
sole, metà nella sede occupata del municipio. Il «sindaco» di Achacachi, Eugenio
Rojas, consegna al rappresentante di Roma una formale richiesta di aiuto:
aiutateci a estradare e processare Gonzalo Sanchez de Lozada, il Goni,
l'assassino.
***
Da Miami, De Lozada si faceva intervistare accusando
narcosindacalisti, terroristi e anche la slealtà del suo vice Mesa (che non
durerà a lungo, e sarà costretto a dimettersi a sua volta). Capitali enormi,
uffici a Washington, protezioni nella corte petrolifera dei Rockefeller, il
«Gringo» De Lozada sembrava stare perfettamente a suo agio a nord del Rio Bravo.
Ma con la piazze di Bolivia ancora in fiamme, il capo del Mas, il principale
partito d'opposizione, l'aymara Evo Morales, chiese in parlamento
l'incriminazione formale del presidente in fuga. Il 22 ottobre un giudice aprì
la procedura di verifica dell'incriminabilità di Sanchez De Lozada ma solo un
anno dopo, nel novembre 2004, una denuncia dell'associazione dei familiari delle
vittime della guerra del gas è riuscita a far iniziare il processo. Il 22 giugno
il dipartimento di stato americano ha ricevuto la formale richiesta di
incriminazione per l'ex presidente e i suoi due ministri fuggiaschi, ultimi di
una lunga serie di assassini che hanno trovato rifugio nel paese del dollaro e
della «guerra al terrorismo». Particolare gustoso: De Lozada avrebbe un visto
come accompagnatore della moglie, una matura signora della migliore aristocrazia
boliviana, che a sua volta ha un visto come studentessa. Altro particolare
gustoso: secondo alcune interpretazioni, la recente riforma del codice penale
impedirebbe il processo in contumacia. Padre della riforma è stato proprio,
mostrando grande lungimiranza, Sanchez De Lozada.
Alle richieste boliviane il ministero di Condoleezza Rice
non ha nemmeno risposto, naturalmente, mentre l'ambasciatore in Bolivia David
Greenlee continua a riunirsi con i principali rappresentanti del potere statale
boliviano per gestire la complicata vicenda delle elezioni di dicembre (per i
sondaggi è nettamente in testa Evo Morales, un cavillo costituzionale potrebbe
addirittura bloccare il voto e sarebbero altre piazze incendiate, altri moti). E
gli aymara boliviani, dal mezzo del niente in cima alle Ande, stanno lanciando
quella che è una vera campagna internazionale per l'estradizione di Gonzalo
Sanchez De Lozada e dei suoi complici. Justicia, carajo.
18 ottobre
IL COMMENTO
L'occasione dei riformisti
di EZIO MAURO
Due terremoti in una settimana. Prima la
legge elettorale che chiude con il maggioritario e riapre la
stagione proporzionale, cambiando da sola tutto il paesaggio
politico, con i partiti nuovi protagonisti al posto dei Poli e delle
coalizioni, mentre il centrodestra si consegna tutto intero nelle
mani di Berlusconi. Poi le primarie convocate nello scetticismo
generale per incoronare un leader senza terra e con un disegno
contestato dal suo stesso partito: che diventano a furor di popolo
uno spettacolo politico senza precedenti, capace non solo di
trasformare la qualità della leadership ma di modificare, per forza
di cose, la fisionomia dell'intero centrosinistra, cambiando i suoi
rapporti di forza, il suo percorso e persino il suo destino.
I due passaggi sono naturalmente legati tra loro. Da un lato, i
cittadini di centrosinistra hanno votato anche per reagire alla
forzatura berlusconiana sulle regole elettorali, e al percorso di
guerra annunciato dal Cavaliere mettendo in fila proporzionale,
devolution, legge salva-Previti, par condicio. Dall'altro lato, la
scelta di Prodi di rivolgersi agli elettori ha immediatamente
sgonfiato la finta ripresa berlusconiana, costruita tutta dentro il
recinto protetto del Palazzo, all'interno di una maggioranza
parlamentare che non esiste più nel Paese, in un teatrino di ex
leader trasformati in gregari portaborracce, con rifornimento fisso
a Palazzo Grazioli.
Molto semplicemente, un nuovo soggetto politico è entrato in campo,
ed è il cittadino elettore di centrosinistra. Quattro milioni e
trecentomila persone che hanno testimoniato l'esistenza di un'altra
Italia, inconciliabile con la stagione berlusconiana, decisa a
chiuderla al più presto. Per ottenere questo scopo, i cittadini
hanno scelto la strada della democrazia diretta. Certo, convogliati
dai partiti (in primo luogo dai ds), ma in realtà portati al gazebo
dalla possibilità inedita di dare un indirizzo alla politica di
centrosinistra dopo anni consumati dai leader tra veti e ostilità
interne, senza la capacità di pensare in grande, disegnando
dall'opposizione il profilo di una sinistra di governo europea.
In più, questo nuovo soggetto politico voleva testimoniare con ogni
evidenza la sua scelta per Romano Prodi. Perché non dire la verità?
La società politica vedeva in Prodi una sorta di leadership
obbligata e residuale, un trascinamento senza alternative, senza
entusiasmo e senza più Ulivo della vittoria ulivista del 1996. I
cittadini elettori - quattro milioni di italiani - vedono invece
nell'ex presidente della Commissione Europea il vero antagonista
storico di Silvio Berlusconi, l'uomo che lo ha già battuto e che può
batterlo, e soprattutto il leader che ha un progetto politico
unitario capace di superare divisioni e resistenze interne, quel
progetto che si chiama Ulivo.
Tutto questo spiega il terremoto delle primarie. Un terremoto
intelligente, perché ha dato senza equivoci a Prodi quel mandato,
quella forza e quella rappresentanza che non trovava nei partiti. Ma
in più, ha fissato i rapporti interni al di sopra di ogni ambiguità
e di ogni strumentalizzazione, perché nessuno potrà più dire che il
15 per cento di Bertinotti condiziona il 75 per cento di Prodi.
Infine, e soprattutto, con Prodi ha premiato e ha rilanciato una
linea politica che molto semplicemente ha vinto le primarie, e
dunque da oggi si imporrà al tavolo delle segreterie e - finalmente
- del programma. È la linea che punta ad unire le due culture
riformiste disponibili ad una responsabilità di governo europea,
occidentale, moderna.
In questo senso (ed è uno dei risultati a mio parere più importanti)
il voto delle primarie strozza in culla ogni ipotesi esplicita e
ogni tentazione nascosta di incubare un'esperienza centrista da far
nascere alle prime difficoltà del prossimo governo: magari a metà
legislatura, e possibilmente con il concorso eterologo di quel pezzo
di imprenditoria (con i suoi cantautori) che scommette sulla
debolezza della politica nell'illusione terzista di far saltare il
banco, trasformando d'incanto un network in establishment. No, sarà
per un'altra volta. La politica, per fortuna, può ancora fare la sua
parte anche in Italia, non siamo un Paese da commissariare. Semmai
da cambiare, e in fretta, come testimoniano i quattro milioni delle
primarie.
Ci sono dunque tutte le occasioni perché la sinistra riprenda la
strada che porta al governo del Paese, compiendo intanto - e
finalmente, visto il ritardo - il proprio destino. I due obiettivi
sono intrecciati, e sono oggi possibili. Solo una prova
straordinaria di incapacità, dunque di inadeguatezza e di
insensibilità da parte dei gruppi dirigenti può disperdere questa
doppia occasione. Lo strumento non deve essere inventato perché
esiste, ed è l'Ulivo, inteso come lo ha sempre inteso Prodi, e cioè
come il luogo politico dove (attraverso passaggi successivi come la
lista unitaria, il gruppo parlamentare unico) può nascere il partito
del riformismo italiano, o il partito democratico. Il luogo
d'incontro della cultura politica socialista e di quella
cattolico-democratica in una forza moderna e risolta, d'impianto
europeo, che chiuda con le eredità del Novecento e con i contenitori
provvisori, artificiali e vegetali in cui si trova oggi costretta
una sinistra intraducibile in Europa, perché senza nome.
In fondo, le primarie oltre a Prodi hanno premiato proprio le due
forze che stanno alla base dell'Ulivo, i ds e la Margherita. Tocca
ai loro dirigenti raccogliere la spinta e la sfida dei quattro
milioni, subito. Per i ds, c'è da un lato la tentazione di
approfittare del maledetto proporzionale per regolare i conti con la
Margherita e poi negoziare da primo partito, e dall'altro lato c'è
la consapevolezza di dover trovare un approdo conclusivo ad un
trapasso identitario decennale, che ha bisogno di una rottura
definitiva con il peccato originale comunista. Per la Margherita c'è
la resistenza di chi deve ammettere il fallimento del progetto di un
partito-ovunque, con le mani libere ma protetto dal recinto del
maggioritario, che consentiva persino di sfidare Prodi, come è
avvenuto pochi mesi fa: oggi quel recinto è saltato e le primarie
hanno riattivato la calamita prodiana, interna-esterna al partito,
che richiama alla missione delle origini, quella di una forza nata
per sciogliersi, perché voleva cambiare la sinistra.
Sono resistenze ed egoismi che gli elettori non
capirebbero e che non sono nell'interesse del Paese. Alla sinistra
serve unità, certezza nel comando, chiarezza di linea, identità
risolta, per poter finalmente selezionare un programma che parli
all'intero Paese. Bisogna che i leader siano all'altezza del
risultato delle primarie, non resistano al terremoto che è invece
un'occasione straordinaria. Bobbio l'aveva detto: discutono del loro
destino, e non capiscono che dipende dalla loro natura. Cambino la
loro natura, cambieranno il loro destino. Tutto ciò, per una volta e
dopo le primarie, è a portata di mano.
16 ottobre
Schiavismo di Stato
ALESSANDRO ROBECCHI
Un presidente del consiglio che si rallegra
dell'esistenza - e della consistenza! - di un'economia sommersa,
cosa sarebbe? Un matto o un furbetto del quartierino? Ma no, è un
irriducibile e coerente liberista, uno che considera la ricchezza
del paese come una ricchezza privata (macchina, telefonini, casa in
campagna), mentre la ricchezza pubblica (assistenza, ospedali,
welfare) è una gran rottura di scatole e va tagliata. Il famoso
motto «meno tasse per tutti» si è dunque applicato in questi anni
con ferrea coerenza: le tasse non sono diminuite per niente e anzi
sono aumentate, ma ne resta esentata totalmente proprio l'economia
sommersa (Silvio se ne vanta e dice che è il 18 per cento, con punte
del 40 in alcune regioni). Cioè in pratica si è garantita una totale
immunità fiscale a tutte quelle imprese che applicano con tenacia la
vecchia pratica dello schiavismo. Se la parola vi sembra grossa (uh,
lo schiavismo!) basta una piccola calcolatrice e una gita nei
cantieri della vostra città. Listino prezzi: il muratore clandestino
- magari appena uscito con il foglio di via da uno di quei
fantastici uffici di collocamento per schiavi che sono i cpt - costa
circa tre euro all'ora. Un risparmio del 200 per cento rispetto
all'impiego di un muratore normale, che però costa anche in
contributi, oneri sociali, spese per la sicurezza.
Dunque il risparmio può arrivare ad essere anche maggiore, diciamo
che un immigrato irregolare costa almeno un quarto di un lavoratore
regolare, cioè che al costo di un lavoratore ne puoi avere quattro.
Significativo taglio del costo del lavoro, sempre auspicato, e non
solo a destra. «Più mercato e meno Stato», come si dice da anni e
come regolarmente si mette in pratica, vuol dire proprio questo: che
lo Stato si faccia un po' i cazzi suoi, mentre il mercato fa i suoi
affari, due entità separate, insomma, che corrono su binari
paralleli.
Nel caso dello schiavismo attualmente applicato in Italia, però, le
cose non sono così semplici. Sul mercato nero del lavoro lo Stato
interviene eccome, e lo fa con un suo preciso ruolo calmieratore. Ad
essere calmierati, e parecchio, sono i diritti fondamentali. Cioè:
non solo lavori per un terzo della paga, non solo non hai nessuna
copertura assicurativa, sanitaria, eccetera eccetera, ma sei anche
accuratamente tenuto in quella perenne condizione di ricattato che è
funzionale al sistema. Basta un controllo, una richiesta di
documenti, ed eccoti deportato: il padrone risparmia sul tuo ultimo
stipendio - che non puoi ritirare essendo prigioniero - e dice
avanti un altro: il ricambio indolore di mano d'opera è uno dei più
lucrosi corollari dello schiavismo.
Il controllo, la cattura e l'espulsione del lavoratore-schiavo è
oggettivamente una rotella del meccanismo della schiavitù. Altro che
meno Stato e più mercato: qui è lo Stato che fa la security al
mercato, e anzi alla sua parte più immorale e immonda, cioè
garantisce un serbatoio di forza lavoro ricattabile, senza diritti,
senza contratti, senza quelle fastidiose «pastoie burocratiche» che
tanto indignano i liberisti.
Che di fronte a questo scenario - difficilmente contestabile - si
indichi come «illegale» il lavavetri straniero di Bologna (mentre
sarebbe legale la Bossi-Fini) è davvero strabiliante. E se davvero
quella per la legalità è una «battaglia di sinistra», come sostiene
il sindaco di Bologna Cofferati, da che parte si dovrebbe cominciare
a combattere, dallo sfigato che lava i vetri al semaforo, oppure da
un sistema economico misto (pubblico-privato) che si fa garante
della sua schiavitù?
Dietro il vanto berlusconiano per la buona salute dell'economia
sommersa c'è questo grosso intoppo: essendo un settore che tira
(grazie soprattutto al basso costo del lavoro schiavistico), sarebbe
imprudente fargli la guerra e anzi andrebbe sviluppato e sostenuto,
compito che la Bossi-Fini assolve egregiamente, funzionando come
vero e proprio incentivo statale alla schiavitù.
Gran parte della sinistra, quella che i cpt se li è inventati, non
prende posizione: avvolta nella sua infiammabilissima coda di paglia
non si metterà certo a giocare coi fiammiferi. Si accontenterebbe
anzi, bontà sua, di un vitto migliore nei cpt, di un trattamento
vagamente più umano, di coperte un po' più pulite. Insomma, non di
un'abolizione dello schiavismo - ipotesi poco riformista e dunque
peccaminosa - ma di una sua maggiore presentabilità sociale.
Uno schiavismo dal volto umano. Sai che pacchia, per gli schiavi!
14
ottobre
IL COMMENTO
Regressione istituzionale e civile
tra le macerie del berlusconismo
di CURZIO MALTESE
IL sistema maggioritario è arrivato in Italia perché il mondo era
cambiato. Era caduto il muro di Berlino e con quello il "fattore K"
che aveva bloccato per mezzo secolo la nostra democrazia. Poi perché
gli scandali avevano spazzato una classe politica e antichi partiti,
infine perché con un referendum il novanta per cento dei cittadini
aveva voluto il maggioritario.
Ieri pomeriggio l'Italia è tornata al proporzionale, dopo dodici
anni, perché a sei mesi dal voto i sondaggi dicono che senza il
maggioritario il centrodestra guadagnerebbe una trentina di seggi,
forse trentadue o magari ventotto. Nel passaggio fra la miseria del
"trucchetto" di oggi (parola di Bossi) e la grandezza delle ragioni
storiche di allora si è consumata per intero la furba miseria del
berlusconismo.
Si potrebbero riempire libri con i giuramenti di fedeltà al
maggioritario di Berlusconi, Fini, Bossi, relativi valvassori e
valvassini, all'insegna del "non si tornerà mai indietro". Bene, si
è tornati indietro e c'è voluto pochissimo. Non un dibattito
interno, nessuna discussione.
Sono bastati due calcoli da pallottoliere per imporre in poche
settimane il "contrordine". A maggioranza semplice, una destra priva
di qualsiasi cultura istituzionale e politica, ha cambiato le regole
del gioco democratico come si cambia marketing o si ritira un
prodotto dal mercato.
Senza neppure avvisare il pubblico, soltanto i venditori.
Tanto sono dipendenti e devono adeguarsi al volo. Abbiamo ammirato
nella diretta televisiva la faccia di bronzo con la quale
l'onorevole Adornato, già cantore della magia del maggioritario, ha
esaltato le virtù miracolose del proporzionale, scelto "per il bene
del Paese", si capisce.
Oltre ad apprezzare la scelta di un ex comunista poi anti comunista,
anti berlusconiano ora fedelissimo del Cavaliere, come paladino
della maggioranza su questa legge. In Italia i trasformisti hanno
più vite dei gatti.
E' stata in fondo coerente anche la scansione temporale.
L'altro giorno una trasversale e maschia maggioranza aveva bocciato
l'unico tratto innovativo e civile della legge, l'istituzione delle
cosiddette "quote rosa", in un Paese dove la rappresentanza
parlamentare femminile viaggia intorno al dieci per cento, ultima in
Europa e in leggero ritardo anche sulle nazioni islamiche. Ieri
invece i franchi tiratori sono rientrati nei ranghi, per approvare
la legge dell'"indietro tutta".
Parlare di spirito reazionario, rispetto al decennio che ci lasciamo
alle spalle e ai cambiamenti del mondo, sarebbe regalare alla
vicenda una dignità che non possiede. Più che la categoria politica
della reazione, vale il concetto clinico di regressione. Regressione
culturale, civile.
Mentale. La diagnosi spiegherebbe anche il tono fanciullesco dei
festeggiamenti nella maggioranza a legge approvata. Dove al
ragionamento politico si sostituisce, già nelle parole del premier,
un "ben vi sta" da asilo nido vibrato all'opposizione.
E' la regressione tipica di chi ha paura. Piero Fassino ha colto nel
suo discorso la "paura del Paese" che scandisce le ultime disperate
mosse del berlusconismo. Non esiste spettacolo più patetico e
puntuale del demagogo che finisce con l'aver paura del popolo. Ma
anche questo fa paura.
Quale sarà il prossimo passo? Probabilmente l'abolizione della par
condicio. La televisione già di proprietà di uno solo sarà in questo
modo sommersa di spot e propaganda a senso unico. Con la benedizione
dell'onorevole Casini, che al tavolo delle trattative con Berlusconi
s'è già venduto la reputazione di "super partes", la richiesta di
primarie e l'amico Follini, in cambio di un piatto di lenticchie
proporzionali. A proposito, le primarie del centrodestra
naturalmente non ci saranno: ordine di Berlusconi.
Il Cavaliere ha vinto la battaglia nel suo campo, com'era scontato.
è il leader unico, circondato da una corte servile, pronta a
cambiare livrea al minimo accenno padronale. Il berlusconismo è
finito ma sbarazzarsi delle ingombranti macerie non sarà tanto
facile. Nell'impresa forse aiuterebbe una maggiore vitalità
dell'opposizione che ha trascorso gli ultimi sei mesi a covare i
sondaggi favorevoli e a spartirsi poltrone future e da oggi ancor
più ipotetiche.
Certo la voglia di andare a votare domenica alle
primarie, che non era irresistibile, da oggi è destinata a crescere,
dopo la riforma elettorale ad uso di Berlusconi. Soprattutto la
voglia di chiudere questa stagione vergognosa e voltare pagina, in
un modo o nell'altro, al più presto.
13 ottobre
La valanga azzurra
NORMA RANGERI
Eccezionale veramente. La camera dei deputati ha bocciato un
emendamento (della maggioranza, firmato dalla ministra Prestigiacomo) che
prevedeva le quote rosa nelle liste elettorali. Già frutto di un compromesso che
raschiava il barile (quota minima, al 25 per cento e pene pecuniarie per chi non
la rispettava), l'emendamento è stato travolto dalla valanga azzurra dei franchi
tiratori che, finalmente, ha avuto una ghiotta occasione per battere un colpo.
Destra e sinistra unite come un sol uomo hanno rispedito le donne in fondo alla
lista (elettorale) con un vade retro di biblica memoria. No, le donne no.
Stressato dal pressante controllo berlusconiano, il deputato si è sfogato
mostrando gli attributi con l'anello più debole della catena. Poche donne in
lista e oltretutto comprabili al prezzo di una multa? No, perché si tratta di un
compromesso inaccettabile, hanno dichiarato quelli dell'opposizione mentre
chiedevano, in 25 su 30, il voto segreto. Sapendo che, una volta approvata la
riforma elettorale, anche quella miserrima presenza femminile sarebbe stata
cancellata. Da parte sua il polo delle libertà (maschili) ha semplicemente
manifestato l'anima del berlusconismo (il vallettismo) e del leghismo (machismo)
fusi in un brodo primordiale di antifemminismo di ritorno.
L'emendamento bocciato era un utensile medioevale (senza offesa per la grande
cultura di Abelardo e Eloisa), appena modernizzato dalla multa in denaro in
luogo della frustata. Eppure troppo progressista per una classe dirigente che
meriterebbe d'esser ripagata (dalle elettrici) con la stessa moneta.
11
ottobre
Finanziaria, sciopero generale
Quattro ore di stop il 25 novembre
ROMA - Cgil, Cisl e Uil
hanno proclamato lo sciopero generale contro la
Finanziaria per il 25 novembre. L'astensione del lavoro
sarà di quattro ore, articolate a livello provinciale e
di categoria. Cgil, Cisl e Uil, dopo una lunga riunione
congiunta delle segreterie, hanno deciso di replicare
così alla legge Finanziaria presentata in Parlamento.
La mobilitazione - secondo quanto si è appreso da alcuni
partecipanti alla riunione - dovrebbe essere a sostegno
di una serie di richieste sulle quali i sindacati
chiederanno all'esecutivo un tavolo di confronto. Di
tali controproposte stanno discutendo le segreterie. I
temi sono quelli consueti: il Mezzogirono (per cui è
prevista una specifica iniziativa ancora da definire, il
recupero del potere d'acquisto dei salari e delle
pensioni, la restituzione del fiscal drag, le politiche
di sviluppo.
Tutte queste idee dovranno trovare una sistemazione nel
documento finale, in modo che Cgil, Cisl e Uil, quando
giovedì si presenteranno alla commissione Bilancio del
senato, possano presentare precise richieste.
Riferendosi allo sciopero, una fonte sindacale, ci tiene
a precisare che si tratta "di un'iniziativa a sostegno
delle proposte e non di protesta".
L'iniziativa sindacale viene valutata negativamente dal
governo. "Il ricorso allo sciopero generale da parte dei
sindacati contro la Finanziaria è un errore", ha detto
Maurizio Sacconi, sottosegretario al Welfare.
|
«Per non finire
all'inferno»
Trasformare le Nazioni unite
Samantha Power
Sessant'anni fa, gli ammaccati vincitori
della seconda guerra mondiale si riunivano a San Francisco per decidere di
creare una organizzazione mondiale destinata, come avrebbe detto più avanti
Henry Cabot Lodge, ambasciatore americano presso le Nazioni unite, non «a
condurci in paradiso», ma, caso mai, «a salvarci dall'inferno». (Segue...)
7 ottobre
Sarebbe bello
GABRIELE POLO
Sarebbe bello svegliarsi e trovare piazza del Popolo piena
di gente venuta a Roma per dire che con Berlusconi se ne deve andare tutta la
sua politica e che dal berlusconismo ci si può liberare solo tagliando i ponti
con le prudenze che lo hanno aiutato a diventare l'autobiografia italiana degli
anni `80 e `90. Perché quei ponti non ci ripropongano sotto altra forma ricette
simili a quelle dei piatti che abbiamo appena mangiato. E poiché manifestare
costa anche fatica, per ripagarla servono delle certezze. Sarebbe bello, allora,
sentire che la legge elettorale proposta dal centrodestra non va bene perché
sottomette il principio di rappresentanza a quello di governabilità, che il
pericolo non viene dal proporzionale, ma dal maggioritario, dal trasformare i
cittadini in sudditi la cui partecipazione alla vita pubblica viene ridotta a
una scheda da riempire ogni cinque anni. Oppure bello sarebbe ascoltare che le
leggi finanziarie dello stato devono servire a redistribuire reddito e risorse
in un paese in cui aumenta la forbice tra chi è sempre più ricco e chi è sempre
più povero. Che da domani non saranno più i trattati monetari a dettare legge su
tutto; che un bilancio aziendale non può essere salvato con un lavoro precario.
Sarebbe bello ascoltare parole chiare sulle guerre presenti e passate per
assicurare che di guerre non ne faremo mai più, nemmeno per abbattere i tiranni,
perché quando una liberazione è appaltata a un esercito straniero ai tiranni
succedono i satrapi o gli oligarchi. E, poi, perché la guerra che porti altrove
te la ritrovi in casa, nelle tante forme di cui si sa vestire. Oppure non
sarebbe male affermare che i diritti universali che stanno nelle costituzioni
dell'Occidente non servono a giustificare la supremazia su altri mondi, ma a
garantire quei diritti sempre annunciati e resi sempre meno esigibili.
Il diritto di potersi muovere liberamente nel mondo senza dover schivare un Cpt,
il diritto a leggi che non vengano varate per difendere i clientes di chi
sta al governo, il diritto di non cancellare chi viola l'habeas corpus
degli altri in una caserma di Genova solo perché indossa una divisa dello stato.
Sarebbe bello non sentirsi semplicemente dire di «avere fiducia nel governo
degli onesti» e, contemporaneamente, di «non aspettarsi troppo da un futuro
difficile». Chiedendo poi a chi in questi anni ha faticato nell'impegno
dell'opposizione sociale di rientrare nei ranghi, di starsene zitto per «non
fare il gioco dell'avversario».
Sarebbe bello tutto questo. Nulla di travolgente, solo bello, cioè il minimo che
si dovrebbe dire - e poi fare - per ridare alla politica il senso di cui è stata
privata in questi anni. Ma «sarebbe» è pur sempre un condizionale e non sarà la
grammatica delle promesse a trasformarlo in un indicativo.
GERMANIA
Bolkestein, il dumping stop and go
Divisioni trasversali Martedì lo stop provvisorio in
commissione alla direttiva. Ma la partita resta aperta e coinvolge tutti gli
schieramenti e i governi dl'Europa
Ultimi colloqui per il nuovo esecutivo di coalizione. Schröder verso l'addio, il
cancelliere sarà donna
ALBERTO D'ARGENZIO
BRUXELLES
Tra blocchi parlamentari e manifestazioni di piazza, la
direttiva sulla liberalizzazione dei servizi, la famigerata Bolkestein, continua
a catalizzare il panorama continentale. Martedì scorso la commissione «mercato
interno» si è arenata di fronte ai 1.154 emendamenti presentati dai differenti
gruppi politici al rapporto disegnato dalla socialista tedesca Evelyne Gebhardt,
che raddrizza gli aspetti più pericolosi della direttiva. Per sabato prossimo è
in programma la giornata di mobilitazione europea contro questa proposta
lanciata dall'allora Commissione Prodi e da subito finita all'indice perché
colpevole di istituzionalizzare il dumping sociale. Martedì c'era stato
uno stop, molti avevano tirato un sospiro di sollievo, e invece la partita è di
nuovo apertissima e assolutamente incerta, con l'europarlamento spaccato in due,
così come i 25 governi Ue divisi tra un approccio più liberista che fa il gioco
dei nuovi stati membri, della presidenza britannica (ma non solo), della
Commissione e della Confindustria europea, e uno più attento alla salvaguardia
del modello sociale difeso dalla Francia, dalla Svezia e dai sindacati. E
proprio le organizzazioni sindacali ieri sono stati il bersaglio dall'Italia del
ministro dell'economia Tremonti che ha suggerito che «anche i sindacati» con i
servizi che forniscono «patronati e caf», siano inseriti «nella Bolkestein,
nell'agenda delle liberalizzazioni». Insomma Bolkestein rimane al centro
dell'agenda comunitaria con le sue bufere. Una ragione in più per non abbassare
la guardia.
Per votare i 1.154 emendamenti ci vogliono più o meno 12 ore, e la Commissione
«mercato interno» non si è fermata di fronte alla prospettiva di una
seduta-maratona. Ma a bloccare la direttiva ci hanno pensato, poco prima del
voto, liberali, popolari ed eurodestra presentando una serie di emendamenti «di
compromesso» che miravano a ridurre il numero delle votazioni, ma con uno scopo
preciso: far cambiare pelle al rapporto dell'europarlamento riportandolo nel
terreno del dumping sociale. Ne segue una scaramuccia verbale e di fronte allo
stallo il presidente della Commissione mercato interno, il laburista Whitehead,
decide di rinviare la discussione al 21-22 novembre.
Così popolari, liberali ed eurodestra avranno tutto il tempo per ripresentare le
loro «proposte di compromesso», contando oltretutto, almeno sulla carta, sui
numeri per spuntarla. Chi ha parlato di vittoria contro la Bolkestein, perché
viene bloccata adesso, ha omesso di specificare che si tratta di una vittoria di
Pirro.
I punti del contendere sono sempre gli stessi due: il principio del «paese di
origine», per cui il fornitore di servizi è soggetto alla legislazione del paese
in cui ha la sede legale e non di quello in cui presta l'opera; e la lista dei
servizi «di interesse generale» da escludere dalla direttiva. Ghebardt, e con
lei socialisti e verdi, propongono di sostituire il principio del paese di
origine con quello del «mutuo riconoscimento» - una soluzione che dà ampli
poteri di supervisione e di regolamentazione al paese in cui viene prestato il
servizio. Non sarà una soluzione perfetta, ma è comunque un miglior punto di
partenza, da riempire poi con le dovute garanzie sul primato dell'esercizio
della legislazione sociale del luogo.
Il centro destra propone invece di mantenere il principio del paese
d'origine agghindandolo con alcune limitazioni. Il prestatore di servizi
dovrebbe essere obbligato a rispettare la legislazione locale per quel che
riguarda la salute, l'ambiente e la sicurezza. In pratica un «paese d'origine
truccato» che certo non risolve il problema del dumping sociale.
Gebhardt propone poi di cancellare dal campo di applicazione della direttiva i
servizi pubblici quali audiovideo, poste, acqua, gas ed elettricità. Pure su
questo popolari, liberali e destra la pensano diversamente: li vogliono
«aperti».
Con questo panorama si andrà al voto a novembre nella Commissione mercato
interno e poi a gennaio in plenaria. Il risultato è incerto anche perché più dei
colori di partito potrà influire il passaporto degli eurodeputati. A sinistra,
tra i socialisti, potrebbero essere gli onorevoli dei paesi dell'est a preferire
l'approccio liberalizzante, mentre a destra i francesi potrebbero scegliere la
difesa del modello sociale, o di quel che ne resta. Voto appeso al filo di
interessi contrastanti, uno di quei voti che disegnano la prossima faccia
dell'Europa.