Archivio febbraio 2005
28
febbraio
IL COMMENTO
Ciampi e Berlusconi
Una crisi istituzionale
di EZIO MAURO
Siamo dunque al punto in cui il Capo dello Stato, che rappresenta
tutte le istituzioni della Repubblica, deve intervenire
pubblicamente per difendere il suo ruolo, i suoi poteri di garanzia,
la sua indipendenza e la correttezza del suo operato da uno
sfondamento del Capo del governo. Carlo Azeglio Ciampi ha dovuto
reagire - con "sorpresa", dice la nota del Quirinale - per tutelare
non tanto se stesso quanto l'istituto della Presidenza della
Repubblica, attaccato nella sua simbologia repubblicana di
indipendenza e nella sua funzione suprema di garanzia da Silvio
Berlusconi: convinto che sul giudizio del Capo dello Stato prima
della promulgazione delle leggi pesino "le sirene della sinistra".
Com'è evidente si tratta di una accusa gravissima, lanciata in forma
plateale e gratuita, senza giustificazioni o prove, e non da un
esponente politico di secondo piano ma direttamente dal Presidente
del Consiglio, che ha la responsabilità di reggere l'esecutivo,
indirizzare la politica nazionale e guidare la maggioranza
parlamentare, rispondendo così al consenso ottenuto dai cittadini
nelle elezioni.
Ora, dopo tre anni di legislatura, Silvio Berlusconi indirizza
questo consenso e quel potere politico contro il Presidente della
Repubblica, sollevando il sospetto che possa essere soggettivamente
un arbitro di parte, dunque scorretto e ingiusto, e
istituzionalmente ancor peggio: un Capo dello Stato senza autonomia,
soggetto a pressioni, incapace di difendere e garantire
l'indipendenza propria della sua funzione.
Siamo ad una vera e propria crisi istituzionale che contrappone i
due vertici della nostra vita pubblica, e poco conta la correzione
tardiva di Palazzo Chigi. Dalla collaborazione repubblicana eravamo
passati da tempo ad una inedita coabitazione fredda, con il Capo
dello Stato che aveva di fatto rinunciato alla cooperazione attiva
della sua moral suasion per l'impermeabilità di una cultura politica
- esecutivo e maggioranza - chiusa in sé, convinta di essere
autosufficiente, insofferente perciò ad ogni regola, ogni concerto,
ogni controllo.
Oggi si va oltre,
nel territorio delicatissimo e inesplorato di un Quirinale attaccato
nei comizi di propaganda di un Premier in difficoltà. Ogni spirito
istituzionale è bruciato dalla mossa di Berlusconi, ogni senso dello
Stato, qualsiasi spazio civico o almeno di responsabilità civile. O
meglio, tutto questo è travolto e trasformato in qualcosa che non è
un'incultura, ma la forza primitiva e durevole di un sentimento,
com'è nei fondamenti di ogni populismo.
È quel sentimento berlusconiano di estraneità alle istituzioni e
allo Stato, quel senso di "alienità" che lo fa abitare il vertice
della Repubblica come un altrove, sentendosene insieme dominatore ed
estraneo, occupante più che rappresentante, possessore esclusivo ma
straniero, con tutti i diritti della leadership ma mai nessun
dovere. È una concezione che già altre volte ho definito
tecnicamente rivoluzionaria, perché vive le elezioni come
un'ordalia, il consenso dei cittadini come un'unzione perenne, la
conquista del governo come una presa del potere.
Non solo dunque ogni ipotesi di sconfitta elettorale alla fine del
mandato e ogni prospettiva di cambio di maggioranza vengono vissute
come un'usurpazione a un diritto esclusivo ed eterno, dunque una
sorta di atto sacrilego contro un concetto metapolitico ed
extraistituzionale, perché sacro: il destino unito di Berlusconi e
dell'Italia. Ma anche nel corso di una normale, fisiologica
legislatura repubblicana, ogni controllo e ogni vincolo
costituzionale di garanzia, di equilibrio, di salvaguardia e di
contrappeso - gli istituti su cui si reggono gli Stati democratici
in tutto il mondo civile - viene visto come un limite ingiusto e
improprio al libero dispiegarsi del carisma berlusconiano, capace di
resuscitare ed esaltare l'Italia se solo le istituzioni si
lasciassero ardere dal sacro fuoco del Cavaliere e dal suo spirito
politico trasformato in opera sapiente e provvidenziale.
Di fronte a tutto ciò, come può un istituto "tecnico" come la
promulgazione che di per sé non ha alcun valore politico, non
apparire come un impaccio? È evidente a tutti che dopo la "sanzione
regia" dello Statuto Albertino, la promulgazione è una dichiarazione
formale della massima carica istituzionale che la legge è
regolarmente approvata e dunque vale l'ordine "a chiunque spetti di
osservarla e farla osservare". Ma è anche chiaro che la Costituzione
prevede per il Capo dello Stato il potere di rinvio della legge alle
Camere, con rilievi motivati. Dunque quel passaggio delle leggi al
Quirinale è anche un passaggio di garanzia: e Ciampi ha dovuto
ricordare che ogni rinvio al Parlamento di una legge è sempre stato
motivato "dettagliatamente, convintamente e debitamente", senza dare
ascolto a suggerimenti d'ogni tipo. "Convintamente", cioè nella
personale, autonoma responsabilità del Capo dello Stato.
"Debitamente", e cioè come espressione di un dovere del dubbio, ben
più che di un diritto.
Ma è persino umiliante dover difendere istituti fondamentali e
neutri dello Stato di diritto dall'antistatualità aliena di un
Premier che guida le istituzioni sentendosene nemico, con
l'impaziente spirito guerriero di chi vorrebbe cortocircuitare i
meccanismi di controllo e di garanzia perché tutto - Costituzione,
istituzioni, politica e Paese -potessero aderire alla sua biografia
trasfigurando insieme nella mitologia berlusconiana, infine salvati
e redenti.
Come in ogni populismo, c'è molto di primitivo ma molto anche di
moderno in questa trasfigurazione eroica della politica. E faccio
notare che questa retorica vera e non falsa, perché l'ego di
Berlusconi non la recita, ma la vive e la indossa come la sua vera
natura, è a modo suo capace di parlare al Paese, perché lo sollecita
perennemente, lo nutre di promesse mentre giustifica il loro
tradimento con colpe altrui, spettacolarizza la politica
semplificandola, mentre la deforma in conflitto, si regge su
concetti primordiali ma emotivi ed evocativi, indica ogni volta un
sogno prigioniero ad un Paese sfibrato, ma anche destrutturato in
alcuni fondamentali principi civici. È insomma quella "televisione a
colori" che l'improvvido vero alfiere degli interessi berlusconiani
al governo, il ministro Gasparri, ha evocato contro il "bianco e
nero" dello spirito repubblicano di Ciampi.
Soprattutto, è una sostanza retorica che affiora nei momenti della
crisi, prima della probabile sconfitta elettorale del Cavaliere. Che
reagisce ancora una volta con il più classico paradigma populista,
costruendo nel Capo dello Stato un vero e proprio capro espiatorio
della propria incapacità di governare, sperando - come dicono gli
studiosi del "sacrificio" - di deviare così i suoi drammi intestini
sulla vittima designata, bruciando in quel rogo le sue colpe e le
colpe del sistema tutto, condannato perché si oppone ad un destino.
Se è così, siamo agli inizi di una fase delicata
e pericolosa. Cosa accadrebbe se dopo una sconfitta alle regionali
il Cavaliere si accorgesse di precipitare verso la sconfitta alle
politiche? Nella concezione tecnicamente rivoluzionaria che
Berlusconi ha della politica, questo non è contemplato, non è
permesso, semplicemente non è possibile. Avverto: l'agonia politica
del berlusconismo sarà terribile.
25
febbraio
Il programma di
Masotti manda in onda i video e le telefonate
di Caruso e Casarini agli atti del
processo di Cosenza
G8, le intercettazioni su Rai2
"Punto e a capo" nella bufera
di CLAUDIA FUSANI

Francesco Caruso con il
prete no global don Vitaliano
ROMA - I filmati dei Black bloc in azione al G8 di
Genova spuntano fuori dagli atti del processo di Cosenza e finiscono, con le
intercettazioni originali di Francesco Caruso e Luca Casarini, direttamente su
Rai 2, prima serata, "Punto e a capo" di Giovanni Masotti e Daniela Vergara. Non
basta. Sempre dagli atti del processo di Cosenza che vede imputate dodici
persone, tra cui Caruso e Casarini, per cospirazione politica e propaganda
sovversiva, spuntano anche le intercettazioni delle telefonate di tre
parlamentari: Paolo Cento e Mauro Bulgarelli (Verdi) e Graziella Mascia
(Rifondazione). Queste ultime non finiscono in tivù, ma sarebbero "un abuso"
(l'articolo 68 della Costituzione vieta la trascrizione e il deposito di
colloqui telefonici di parlamentari se non sono utili alle indagini) di cui i
tre parlamentari stanno per chiedere conto.
I filmati trasmessi a "Punto e a capo" creano un caso
politico-mediatico e uno giudiziario. L'europarlamentare di Rifondazione
comunista Vittorio Agnoletto rifiuta di andare in trasmissione. "Non condivido
che i processi, prima ancora che in tribunale, si svolgano negli studi
televisivi senza dare agli imputati la possibilità di difendersi" dice Agnoletto,
che al G8 di Genova era uno dei leader del Movimento.
Nello studio di "Punto e a capo" si sente Caruso nello stadio
Carlini di Genova, quartier generale dei Disobbedienti, che dice al telefono:
"Ci stanno i black bloc svedesi e inglesi che vogliono fare come a Goteborg (nel
giugno 2001, ci furono incidenti-ndr)". Casarini aggiunge: "E' na bomba sto
posto". E ancora, i due, parlando insieme: "Stavolta non possiamo fare una cosa
simbolica, stavolta bisogna sfondarla la zona rossa...". Tanto basta perché i
sindacati di destra della polizia come Sap e Consap, prima ancora della messa in
onda della trasmissione, dicano: "Abbiamo ragione noi, era tutto preordinato".
Le intercettazioni, poi, sono inserite in un dvd che non è
stato ancora acquisito dal tribunale di Cosenza. Illegittima, dunque, anche la
loro pubblicazione. "La legge vieta la diffusione di materiale depositato prima
dell'appello" denuncia Agnoletto. Caruso ha annunciato la querela perché quelle
intercettazioni "sono già state archiviate dalle procure di Napoli e Genova che
le hanno valutate nel loro complesso e non a spizzichi e bocconi e le hanno
considerate non utili alle indagini".
Pensano a una denuncia anche i parlamentari Cento, Mascia e
Bulgarelli che si sono procurati gli atti depositati a Cosenza. In una
telefonata tra il deputato verde e Luca Casarini del 9 settembre 2001, i due
"commentano le notizie per cui Casarini sarebbe iscritto nel registro degli
indagati e poi le pesanti dichiarazioni del ministro Castelli".
Cento aggiunge: "E chi sta registrando, questi che continuano
ad intercettare, sappiano che non possono farlo". Graziella Mascia e Casarini
prendono accordi per l'audizione che l'allora capo dei Disobbedienti fece alla
Camera nell'agosto 2001, dopo gli incidenti del G8. Poi appuntamenti e
suggerimenti su come comportarsi. Si parla anche di Fausto Bertinotti.
In una telefonata del 5 agosto 2001 Mascia dice a Casarini
"di essere solidale con lui e di portargli l'abbraccio anche da parte di
Fausto". I parlamentari, il gruppo storico di "contatto" con antagonisti e
pacifisti, sono stati "ascoltati" in quanto hanno chiamato il cellulare di
Casarini. Per legge però quelle telefonate non dovevano essere trascritte né
depositate perché non hanno utilità per le indagini. E se l'avessero avuto,
doveva essere interpellata la Giunta per le autorizzazioni a procedere.
Niente di tutto ciò è stato fatto.
23
febbraio
"Con la ex Cirielli un cataclisma e migliaia
di prescrizioni"
La replica di Castelli: "Ormai sono un organismo politico"
Il Csm boccia la salva-Previti
"Effetti devastanti sulla giustizia"
Una riunione del Csm
ROMA - Il plenum del Consiglio superiore della magistratura
ha bocciato a larghissima maggioranza la cosiddetta legge ex
Cirielli, quella che vuole riformare i tempi di prescrizione per
alcuni reati e più nota come legge salva-Previti. Il Csm definisce
"devastanti" gli effetti che il provvedimento avrà sulla giustizia e
spiega nel dettaglio tutte le conseguenze che si avranno sui
processi. Immediata la replica del ministro della Giustizia, Roberto
Castelli, che definisce l'organo di autogoverno della magistratura
"un organismo politico che ragiona come il Parlamento".
Con 16 voti a favore, tre contrari e un astenuto (ma al voto erano
assenti i consiglieri Giuseppe Di Federico di Forza Italia e
Mariella Ventura Sarno della Lega, che contestavano la legittimità
dell'intervento del Csm) è passata la risoluzione di maggioranza
proposta dalla sesta commissione. A contribuire alla bocciatura di
questa legge anche il primo presidente della cassazione Nicola
Marvulli e il Pg Francesco Favara che hanno votato a favore della
risoluzione.
Secondo l'organo di autogoverno dei giudici la ex Cirielli avrà
"effetti devastanti" sull'amministrazione della giustizia; farà
quadruplicare i reati prescritti e "rischia di determinare un
ulteriore effetto di ritardo nella definizione dei processi, con
grave violazione del principio della ragionevole durata".
Cataclisma organizzativo. La relazione di maggioranza
prefigura scenari catastrofici. "L'applicazione del nuovo regime ai
processi in corso - si legge nel documento - comporterà un vero e
proprio cataclisma organizzativo all'interno di un sistema di
giustizia penale che già oggi riesce con assoluta difficoltà a
fronteggiare il numero elevatissimo di procedimenti". E provocherà
"la vanificazione di gran parte del lavoro svolto dall'intero
sistema giudiziario nel corso di alcuni anni".
Prescrizione sicura. I consiglieri di Palazzo
dei Marescialli indicano con precisione i processi destinati ad
essere spazzati via: "Quasi tutti i processi per reati puniti con la
pena della reclusione compresa nel massimo tra i cinque e i sei anni
e la grande maggioranza di quelli per reati puniti con la pena della
reclusione massima di otto anni sono destinati a sicura
prescrizione". Si tratta di un'ampia gamma di reati che va dalla
corruzione alla violenza o minaccia al pubblico ufficiale, dalla
truffa e dall'usura alla rivelazione di segreto di Stato.
La previsione è fondata su un'analisi compiuta dalla corte di
appello di Bologna che "ha stimato che per tale fascia di delitti
sul totale dei processi iniziati davanti al giudice la quota
destinata a prescriversi dall'attuale livello del 9,6 per cento
passerebbe a circa il 47%, il che, in termini assoluti, equivarrebbe
ad una grandezza dell'ordine di 4.500 processi".
Spreco di energie. Ma non solo: i consiglieri fanno
riferimento anche a una ricognizione compiuta dalla Corte di
Cassazione che ha individuato in nove anni il tempo medio di durata
dei processi per reati puniti con una pena compresa tra cinque e
otto anni che giungono al vaglio della stessa Corte. Ne consegue che
"per la massima parte dei processi il termine prescrizionali
maturerebbe prima della sentenza definitiva, ma dopo la decisione di
appello, e cioè in un contesto che comporta per il sistema giustizia
il massimo spreco di energie".
Processi ingovernabili. E non è ancora tutto: i processi
diventeranno ingovernabili, avverte Palazzo dei Marescialli. Il
nuovo regime "impedirà al giudice di controllare lo sviluppo
dell'istruttoria dibattimentale e di gestire i tempi di lavoro",
visto che la nuova disciplina renderà "del tutto naturale per i
difensori fare ricorso agli istituti che comportano la sospensione
del processo, non tanto per ottenere una pronuncia del giudice, ma
anche solo al fine di far maturare il limite di prescrizione".
La Cdl: "Valutazioni paradossali". Argomentazioni respinte
dai laici della Cdl. In particolare, il consigliere Nicola Buccico (An),
prendendo la parola durante il dibattito, ha definito "paradossale
ed estremistica" la tesi secondo cui la riforma "determinerebbe un
effetto criminogeno". Non a caso la relazione votata dai laici della
Cdl sottolinea la "legittimità " dell'intervento legislativo.
L'affondo di Castelli. Il ministro della
Giustizia, dopo aver bollato il Csm come "organismo politico",
sottolinea che "prima di tutto hanno fornito dei numeri che non si
capisce proprio da dove vengano. Neanche i nostri uffici, infatti,
sono riusciti ad averli". "Ma poi c'è anche una cosa curiosa -
aggiunge - e cioè che è stata fatta una relazione di maggioranza e
una relazione di minoranza. Ma su dei numeri, su dei dati
incontrovertibili non si possono avere cose diverse".
21
FEBBRAIO
Segreti di Stato e residenze protette
STRETTAMENTE PERSONALE
Biagi Enzo
Povero Berlusconi, ha tanti pensieri, ma adesso uno almeno se l' è tolto: su
tutte le ville, case, appartamenti bi e monolocali che possiede c' è il segreto
di Stato. Si ignorano le procedure di riservatezza per bandane, lifting e
trapianti. Il nostro Presidente del Consiglio è portato alla riservatezza,
dunque su tutte le sue abitazioni, quelle di familiari e collaboratori è stato
posto il segreto di Stato, che le salva da ogni rischio, tranne che dal
ridicolo. Nessuno può sapere neppure gli indirizzi del Presidente e dei
congiunti, né i lavori che sono stati compiuti, certamente con le debite
autorizzazioni, nelle sue proprietà. Del resto è logico: Silvio Berlusconi è
tutto casa e famiglia. Le case, chiamiamole così, sono poi circondate da decine
di ettari di ulivi, ginestre, mirto, aranci e limoni ed è stato costruito
perfino un lago artificiale con una cascata finta e un piccolo anfiteatro: la
recita continua. Il primo acquisto lo fece dal noto Flavio Carboni, e ci entrò
anche Villa Certosa, nome un po' tetro, e come tutte le residenze di Berlusconi
diventò «zona protetta» suppongo con qualche esborso dello Stato che la deve
gestire. Naturalmente sono seguiti i commenti per questa «sede alternativa» in
località salubre e amena, e di massima sicurezza, della Presidenza del
Consiglio. E Alfonso Pecoraro Scanio, leader dei verdi, dice che «si va oltre
ogni limite di decenza», mentre Ermete Realacci della Margherita trova «la
vicenda surreale, che ci copre di ridicolo agli occhi dell' Europa». Niente
paura: abbiamo il sottosegretario Gianni Letta che sistema tutto.
E' la prima volta dalla Rivoluzione dei garofani del 1974
Secondo gli exit poll al Ps va una percentuale fra il 47 e il 51%
Portogallo, vincono i socialisti
sono maggioranza assoluta
LISBONA - L'opposizione socialista ha vinto le elezioni
parlamentari portoghesi. Secondo gli exit poll, il candidato del partito
socialista Josè Socrates - 47 anni, da soli quattro mesi alla guida del partito
- avrebbe ottenuto una schiacciante vittoria, con una percentuale che oscilla
tra il 47 e il 51 per cento. Il suo partito conquista la maggioranza assoluta a
Palazzo S. Bento, il Parlamento monocamerale portoghese nel quale vengono eletti
230 deputati nazionali. A sua volta, l'Assemblea della Republica, dovrà poi
eleggere il nuovo governo, il quarto negli ultimi tre anni nel paese, annoverato
come il più povero della UE. Se i dati dell'exit poll saranno confermati dai
risultati definitivi e se il partito socialista riuscirà - al di là dei consensi
ottenuti da Socrates - a guadagnare 116 seggi, sarà questa la prima volta che il
Ps ottiene la maggioranza assoluta dalla cosiddetta "rivoluzione dei garofani"
del 1974, che portò al governo i socialisti, dopo gli anni bui della dittatura
salazarista.
Le elezioni di oggi - che hanno avuto un tasso di astensione intorno al 30 per
cento - sono state indette dopo le dimissioni di Pedro Santana Lopes, attuale
capo del governo e leader del Psd, il partito socialdemocratico che, a dispetto
del nome, in realtà è una formazione incline a scelte conservatrici. Santana
Lopez era subentrato alla carica di primo ministro, dopo la nomina a presidente
della Commissione europea di Jasè Manuel Durao Barroso. Dunque, quello che i
primi dati della consultazione tenderebbero a considerarlo già un "ex", ha
ottenuto percentuali oscillanti tra il 23 e il 27 per cento.
Josè Socrates, 47 anni, è divorziato e padre di due figli, di 9 e 11 anni. Nato
in un paese di 50 mila abitanti, Castelo Branco, nel nord del paese, nella zona
di Oporto, arrivò a Lisbona nel 1980, dove si laureò in ingegneria civile,
mantenendo orgogliosamente l'accento della sua zona. Eletto deputato nell'87, ha
da sempre assunto nel Ps posizioni moderate, mutuate sia da un altro dirigente
del suo partito che ha avuto molta influenza nel suo percorso politico, Antonio
Guterres, sia da suo padre, ex dirigente del Pds, il partito del suo attuale
rivale, Santana Lopes.
Da sua madre, separata dal padre quando Socrates era ancora piccolo, ha preso il
rigore e il rispetto dei principi. Ma ha dichiarato di non aver votato per lui,
ma soltanto per ragioni religiose: la donna, infatti, è testimone di Geova.
Socrates, nel corso delle numerose interviste rilasciate in quest'ultimo
periodo, ha spiegato che i suoi punti di riferimento sono le esperienze del
socialismo nei paesi del nord Europa, Svezia, Danimarca e Norvegia.
Arabia saudita, un paese d'immigrati. Appesi a un
filo
Almeno sei milioni di stranieri su dodici milioni di sudditi. Non hanno diritti
né certezze
MICHELE GIORGIO
INVIATO A RIYADH
Non si lamenta Pervez Hanashi. Partito da Madras 16 anni fa, ha trovato a Riyadh
prima un lavoro in una società di pulizie e poi, nel 2001, grazie ai risparmi
messi da parte, assieme a un gruppo di amici, ha aperto il ristorante Maharaja.
«Gli affari vanno bene e a fine mese riesco a mettere da parte quanto basta per
garantire la mia sopravvivenza e quella dei miei familiari in India», ci spiega
con tono soddisfatto all'ingresso del suo locale frequentato soprattutto da
occidentali. Pervez si considera fortunato rispetto a tanti altri immigrati in
Arabia saudita ma continua a vivere nell'ansia. «Il nostro ristorante è aperto
grazie a un permesso ottenuto da un saudita - aggiunge preoccupato - gli
immigrati non hanno questa facolta. Inoltre, dopo tanti anni trascorsi in
questo paese, le autorità possono ritirarmi il permesso di soggiorno in
qualsiasi momento e rispedirmi in India». Non dorme tranquillo anche il
palestinese Salahedin Guwary, originario di Gaza come molti dei suoi compatrioti
che vivono a Riyadh e Gedda. «Risiedo in Arabia saudita dal 1967 - racconta
fissando per qualche secondo lo sguardo sulla foto dei due figli, entrambi
sposati, ben in vista sulla scrivania -, gli israeliani avevano occupato ciò che
rimaneva della nostra terra e decisi di tentare la fortuna in un paese con
ingenti risorse finanziarie». Da allora Salahedin di strada ne ha fatta: in
società con un cittadino tedesco ha messo in piedi una agenzia di import-export
con un fatturato di tutto rispetto. Condivide però gli stessi timori di Pervez.
«Devo essere sempre molto cauto, 38 anni trascorsi in questo che ormai è
diventato il mio paese, non sono bastati a darmi la garanzia che non verrò
buttato fuori all'improvviso come è accaduto a tanti palestinesi durante la
prima guerra del Golfo» del 1991.
Pervez e Salahedin sono due casi tra i milioni di stranieri che vivono e
lavorano in Arabia saudita: asiatici in prevalenza, ma anche arabi, nonché
alcune decine di migliaia di statunitensi, britannici e di vari Stati europei
impiegati in prevalenza nell'industria petrolifera. La manodopera straniera,
nonostante la «saudizzazione» promossa dalla monarchia in alcuni settori, rimane
essenziale soprattutto nei servizi di base, nei trasporti pubblici, nelle
fabbriche.
L'Arabia saudita non è più il paese ricco degli anni `60 e `70 che faceva
sognare una vita di benessere ai tanti immigrati che accoglieva. Continua
tuttavia ad attirare un gran numero di lavoratori, specie dal Pakistan e dal
Bangladesh. Secondo le statistiche ufficiali (poco aggiornate) ci sono oltre sei
milioni di immigrati contro 12 milioni di sauditi. In realtà i primi sono molto
di più ma le autorità non lo ammettono per motivi politici. Gedda, la seconda
città del paese e principale porto del Mar Rosso, ad esempio è popolata in
maggioranza da stranieri.
Il numero degli immigrati nel paese ha continuato a salire così come la loro
presenza nel mondo del lavoro. Attualmente la loro percentuale tra la
popolazione attiva supera l'80% e il movimento migratorio si mantiene costante
anche se non tocca i livelli di altri paesi del Golfo come Kuwait, Qatar e gli
Emirati arabi uniti, dove la popolazione originaria ormai è solo un quinto di
quella complessiva. In Arabia saudita la presenza di milioni di stranieri va a
colmare non solo il numero insufficiente di sauditi impiegati in attività
manuali ma anche la presenza esigua delle donne nei settori economici più
produttivi - a cominciare dall'estrazione e produzione di petrolio - dovuta in
buona parte alla tradizione locale che esclude dal mondo del lavoro la
popolazione femminile che pure oggi raggiunge elevati livelli di istruzione e
preparazione.
Non è irrilevante peraltro che meno di un terzo dei sauditi in età da lavoro ha
un'occupazione, il resto vive di sussidi dello Stato. Gli stranieri
rappresentano un quarto del corpo insegnante e sono i più numerosi nella sanità
pubblica. Secondo dati non ufficiali almeno il 70% dei medici, l'80% degli
infermieri e il 55% dei farmacisti non sono sauditi.
La maggioranza dei sauditi fa finta di non vedere gli immigrati, si comporta
come se non esistessero. Il razzismo domina ma si esprime a mezza bocca per non
turbare gli equilibri interni. Il professore Ali Salah insegnando all'università
Re Saud di Riyadh e grazie al patrimonio di famiglia, vive nel benessere. Una
serie di comodità a basso prezzo gli sono garantite da due domestici e un
autista pakistani ma ciò non gli impedisce di sparare a zero sulla «ingombrante
presenza degli immigrati». «Il governo non dovrebbe consentire l'ingresso a
tutti questi stranieri, ci deve essere un limite altrimenti perderemo le nostre
tradizioni, la nostra cultura», si lamenta. I timori dei «benpensanti» sono
legati anche al ricordo delle ribellioni contro lo sfruttamento degli immigrati
avvenute negli anni 70: turchi e pachistani prima, i coreani subito dopo. In
quello stesso periodo scesero in strada anche gli operai asiatici in Barhein, a
Dubai e nell'Oman. «Quelle proteste non sono servite a migliorare la condizione
degli immigrati in Arabia saudita - spiega Abdel Aziz Dary, sociologo - gli
stranieri non hanno accesso a molti servizi pubblici e i loro figli appena
raggiunta la maggiore età devono o lasciare il paese o trovare subito un lavoro.
Tra i problemi più gravi c'è il mancato riconoscimento del diritto al
ricongiungimento familiare». Ancora oggi, aggiunge Al-Dary, un immigrato in
cerca di lavoro deve trovarsi un garante saudita (kafil) che gli permetta di
ottenere il permesso di soggiorno. Una prassi che genera sfruttamento: il
malcapitato deve versare, senza fiatare, una generosa commissione al suo
garante. Segregazione e disagi riguardano tuttavia solo gli immigrati asiatici.
La nuova legge che dovrebbe consentire a un milione di stranieri, residenti da
anni nel paese di ottenere la cittadinanza, di fatto è rivolta agli arabi -
palestinesi, siriani, egiziani -, tutti gli altri invece continueranno a vivere
nell'ansia di poter perdere tutto in un solo colpo e di ritrovarsi su un aereo
con in mano soltanto un ordine di espulsione.
KENYA
Corruzione, Usa e Germania aiuti stop
Dopo gli Stati uniti anche la Germania ha deciso di bloccare i fondi per
finanziare il programma anti corruzione in Kenya. L'ambasciatore tedesco Bernd
Braun ha precisato che i circa 6.5 milioni di dollari previsti non saranno
sbloccati finchè il presidente Mwai Kibaki non estrometterà dal suo governo i
ministri coinvolti in reati di corruzione. Fonti della presidenza kenyota hanno
però fatto sapere che la lotta alla corruzione «procederà senza esitazioni». A
inizio mese gli Usa avevano bloccato 200 milioni di dollari.
ARGENTINA
Coca, Kirchner fa un repulisti
Il presidente argentino Nestor Kirchner è intervenuto nello scandalo delle
valigie di droga (60 chili di coca) trovate in un volo diretto da Buenos Aires a
Madrid e destinate all'ambasciata argentina della capitale spagnola. Kirchner ha
già proceduto alla rimozione dei vertici della Polizia aerea (Pan) e
dell'Aeronautica militare (Fuerza Aerea). «Andremo fino in fondo a questa
vicenda - ha assicurato ieri il presidente argentino - e la mia mano non
tremerà».
18
FEBBRAIO
PERSONALE
Tutta la meglio gioventù
PIER SCOLARI
«Ma come faccio con questo casino a scrivere un pezzo, è
impossibile...», dico a Tommaso che me lo chiede. «Ma ti pare che tutti hanno le
tue dichiarazioni e noi no», mi risponde.
E allora scrivo di Giuliana. «Solo tu mi puoi salvare», implora. Per fortuna non
solo io ma tutti noi possiamo salvarla. Le cose che mi chiede sono le cose che
stiamo facendo, e questo è un buon segno, vuol dire che ha capito e che ci
chiede cose che sa essere assolutamente logiche e possibili, significa che è
lucida, in grado di valutare quello che dice.
Sicuramente chi la tiene prigioniera le avrà chiesto di fare un appello al
marito e alla famiglia e lei lo ha fatto, anche se non lo avrebbe mai fatto
così. Il video dimostra che Giuliana è viva e questo è tanto per me e dimostra
che si apre lo spazio di una trattativa concreta. E poi chiede un'altra cosa e
se badate bene chiede prima la libertà del popolo iracheno e poi la sua. Mi
sembra, insomma, che anche in questo caso dimostri piena lucidità.
L'appello al ritiro delle truppe è chiaro e circostanziato: si chiede di mettere
fine alle sofferenze di un popolo, non ci sono appelli astratti, ma piena
coscienza, come d'altra parte Giuliana ha sempre avuto, di quale sia la posta in
gioco.
L'Iraq è un paese devastato e Giuliana soffriva profondamente nel vederlo così.
Il suo amore per le disgrazie di un popolo non è mai stato retorico o
compassionevole, ma sempre lucido, pronto a cogliere le possibilità politiche di
cambiare le cose.
In questi giorni la mia vita è scandita dalle interviste, dai commenti e dai
ricordi. Un film che avevo già immaginato, ho detto. Ed è vero. Tante volte con
Giuliana ci eravamo domandati cosa fare in caso di un suo rapimento. E io
scherzando - ma mica tanto - le dicevo : «Cazzi loro». Poi però immaginavo
questi sforzi e questa passione per liberarla. Certo non così, non così
universale e travolgente. Lei mi diceva anche cosa avrebbe fatto e detto e credo
lo abbia fatto anche se dopo tanti giorni è veramente impossibile immaginare
come ci si senta.
In questi giorni ho rivisto una generazione, quasi quarant'anni di vita che si
sono materializzati in pochi giorni: tante compagne e compagni, vecchi amici
ormai dimenticati si sono fatti vivi. E' stata l'occasione per ripercorrere
anche i venticinque anni di vita con Giuliana, sono tanti, non sono certo
troppi.
Quando Giuliana tornerà avremo tutta la vita davanti a noi per ricordare questi
anni e questi momenti, credo farò fatica a raccontarle tutto, sicuramente mi
rimprovererà di non aver tenuto un diario come lei spesso faceva. E sono i diari
i suoi pezzi più belli, quelli in cui racconta davvero le piccole cose: ricordo
le notti di Kabul e certe avventure a Port Sudan che non credo abbia mai scritto
sul giornale. E poi ripensando alla straordinaria mobilitazione di questi giorni
mi viene in mente una cosa: la meglio gioventù esiste davvero.
17
febbraio
Sabato a Roma manifestazione fino al Circo
Massimo
Domenica appello negli stadi: "Liberatela, è una donna di pace"
L'Italia si mobilita per Giuliana
Migliaia di adesioni al corteo
Il
sindaco di Roma, Veltroni: "Il Colosseo sarà illuminato"
ROMA - Si moltiplicano le iniziative di solidarietà con la
giornalista del Manifesto rapita in Iraq. Dalla
manifestazione in programma per sabato a Roma con il Colosseo cha
sarà illuminato, che raccoglie continuamente nuove adesioni,
all'appello che nel fine settimana sarà letto negli stadi di A e B.
In piazza a Roma
Sono ormai migliaia le adesioni alla manifestazione "Liberiamo la
pace" proposta dal Manifesto per sabato 19 febbraio.
L'appuntamento è a Roma, per un corteo che partirà alle 14 da piazza
della Repubblica e si concluderà al Circo Massimo. La redazione del
quotidiano è tempestata di telefonate da ogni parte d'Italia. Circa
600 organizzazioni politiche, sindacali, di volontariato, di
movimento hanno già aderito. Ci sarà anche l'ex capo dello Stato
Oscar Luigi Scalfaro, mentre non ci saranno i partiti della Casa
delle Libertà. Al Circo Massimo parleranno il direttore del
Manifesto Gabriele Polo, Giovanni Di Lorenzo, direttore del
tedesco Die Zeit, e Serge July di Liberation. Poi un
concerto che vedrà sul palco Caparezza, gli Assalti Frontali, Tetes
de Bois, Enzo Avitabile, Jamal Ouassini, Noureddine, Rashmi Bhat. Il
Colosseo sarà illuminato: "Abbiamo quindi deciso di farlo - spiega
il sindaco di Roma, Walter Veltroni - per corrispondere a questo
grande desiderio di tutta la città di ottenere la liberazione di
quella donna, di cui abbiamo visto ieri quelle immagini così
terribili".
L'appello negli stadi
"Liberate Giuliana, donna di pace": è l' appello che sarà ripetuto
nel fine settimana dagli speaker su tutti i campi di calcio di serie
A e serie B. La stessa frase apparirà anche sui tabelloni luminosi
degli stadi.
La solidarietà della Toscana
Il Consiglio regionale della Toscana ha approvato all'unanimità un
appello per la liberazione di Giuliana Sgrena. Primo firmatario del
documento è Erasmo D'Angelis, della Margherita, giornalista, per
anni collega della Sgrena al Manifesto.
Un filmato autoprodotto della Svt mostra immagini del
premier
e di programmi "trash", con un sottofondo di mandolini
Svezia, la tv di Stato si fa lo spot
"Non siamo come Berlusconi"
ROMA - Per farsi pubblicità, e sottolineare la sua indipendenza e
obiettività, la televisione di stato svedese Svt usa l'immagine di Silvio
Berlusconi. In un filmato breve, che va in onda in questi giorni e si può vedere
anche sul sito dell'emittente, sfilano alcune riprese di Berlusconi che saluta
la folla o che appare su decine di video contemporaneamente. Il sottofondo
musicale è il mandolino tipico della peggiore iconografia dell'italietta, con le
note ovvie di "O sole mio".
Ad accompagnare le immagini una serie di scritte: "In Italia, il 90 per cento
dei mass media è in mano a Silvio Berlusconi", "Dopo intensiva campagna
elettorale (grazie ai propri mezzi di comunicazione) vince le elezioni" ", "Ora
è anche presidente del consiglio" e per finire: "Svt: noi siamo una televisione
libera".
La televisione svedese non sottolinea solo la concentrazione dei mezzi di
comunicazione in mano al presidente del consiglio, ma anche la qualità dei
programmi. Le riprese di Berlusconi, che saluta sorridente, sono alternate a
quelle di ballerine poco vestite nei varietà italiani.
15 febbraio
Se
di colpo va in pezzi
la fragile pace libanese
di PAOLO GARIMBERTI
Ci eravamo quasi dimenticati del Libano, il paese che una volta
veniva chiamato la Svizzera del Medio Oriente, crocevia di affari e
di malaffare, di intrighi e di spie internazionali, di cortigiane
bellissime e di uomini ferocissimi, tanto da far dire a Thomas
Friedman, nel premiatissimo reportage "Da Beirut a Gerusalemme", che
la sua capitale era un gioco di specchi incrociati, dove mai ci si
doveva fidare delle apparenze.
Ci eravamo quasi dimenticati perché, dopo sedici anni di guerra
civile, durante la quale erano stati inventati tutti gli strumenti
di morte che fanno oggi la cronaca quotidiana dall'Iraq, dalle
autobombe agli individui-bomba, che avevano provocato 145mila morti,
quasi il doppio di feriti e invalidi, 17.400 "spariti", nel senso di
desaparecidos, il record assoluto di 3.614 autobombe che avevano
ridotto a macerie intere città e villaggi, Beirut era tornata ad
assomigliare a una combinazione di Svizzera, Montecarlo e Las Vegas.
Città miliardaria e peccaminosa, dove un appartamento può costare
anche 5 milioni di dollari e lo sport preferito dei rampolli-bene
sono le gare in autostrada tra "Lamborghini, Maserati e Ferrari,
così folli e omicide da far pensare che i loro proprietari abbiano
trovato nuovi strumenti per continuare la guerra civile" (David
Gardner sul Financial Times).
Come si dice "buone notizie, nessuna notizia".
E il Libano è rimasto per molto tempo fuori dalle prime pagine dei
giornali, tranne, almeno per quelli italiani, in occasione
dell'attentato alla nostra ambasciata, sventato il 17 settembre
dello scorso, con lo strascico della misteriosa morte in carcere,
"per infarto", del capo locale di Al Qaeda Ismail Al Khatib. Perfino
le dimissioni da primo ministro di Rafiq Hariri, bersaglio e
principale vittima dell'attentato di ieri, che pure preludevano a
una grave crisi politica e istituzionale, avevano avuto scarso
rilievo nei notiziari se un giornale molto attento a ciò che accade
in Medio Oriente, il madrileno El Paìs, le aveva collocate a pagina
8 giovedì 21 ottobre 2004.
Mai fidarsi delle apparenze, appunto. Perché la strage di ieri a
mezzogiorno ha scoperchiato il vaso di Pandora, mettendo in evidenza
tutti i mali politici ed economici che covano dietro le luci
scintillanti degli hotel di superlusso e quelle soffuse dei night di
nuovi pieni di affaristi e intriganti: un paese ricostruito fuori e
non dentro, con istituzioni instabili e un debito spaventoso, al
centro di uno scontro sordo tra alcune potenze occidentali e la
Siria, che lo ha non soltanto dominato, ma gestito in tutti questi
anni, facendone uno dei luoghi più corrotti del globo, al 97mo posto
nell'indice internazionale che misura la trasparenza negli affari e
nella gestione amministrativa.
E le reazioni internazionali all'assassinio di Hariri, con le accuse
incrociate tra Israele, Siria e Iran, ripongono almeno per un giorno
il Libano al centro di quel gioco di potere mediorientale, dal quale
sembrava parzialmente emarginato, mentre la rivendicazione fatta ad
Al Jazeera di un gruppo islamico finora sconosciuto, se avvalorata
da qualche verifica, riaprirebbe un laboratorio terroristico proprio
là dove erano stati fatti, come ricordato, tutti gli esperimenti
possibili dell'arsenale dello stragismo islamico.
Hariri, un supermiliardario che aveva fatto la sua fortuna
soprattutto in Arabia Saudita, è stato primo ministro per 12 degli
ultimi 14 anni ed è stato l'artefice della grande ricostruzione e
del rinascimento ornamentale, che ha avuto però un prezzo altissimo,
un debito vicino ai 35 miliardi di dollari, circa due volte il
prodotto nazionale lordo.
E il "sistema paese", che una volta aveva fatto del Libano
l'avanguardia nella regione non solo in termini economici ma anche
educativo-culturali, non riesce ormai più a reggere la concorrenza
di altri centri rivali, come Dubai e Bahrain. Queste debolezze
strutturali hanno reso la ricostruzione di Hariri fragilissima anche
sul piano politico, in un paese dove comunque la conclusione della
guerra civile non ha significato anche la fine delle rivalità
tribali a sfondo etnico-religioso.
Sicché, quando Hariri ha voluto opporsi al disegno dei siriani di
cambiare la costituzione per prolungare il mandato del presidente
Lahoud, non gli è rimasta altra scelta che dimettersi per diventare
uno dei leader dell'opposizione. La Siria non sembra avere alcuna
intenzione di mollare la sua presa sul Libano (anche se qualcuno,
con machiavellica finezza mediorientale attribuisce a Damasco il
disegno di ritirare i suoi 14mila uomini per poi fomentare disordini
interni e dimostrare così la sua indispensabilità).
Continua a ignorare la risoluzione 1559 delle
Nazioni Unite, approvata nel settembre del 2004 su iniziativa degli
Stati Uniti e della Francia. I rapporti tra Assad e Chirac, che
erano stati tessuti proprio da Hariri, amico personale del
presidente francese, e che erano l'unica apertura di credito che
Damasco poteva esibire verso l'Occidente, sono congelati. Hariri era
certamente diventato un personaggio scomodo per la Siria. Ma in
Libano non bisogna mai fidarsi delle apparenze, anche le più facili.
E la rivendicazione di uno sconosciuto gruppo islamico ad Al Jazeera
sembra fatta apposta per rendere ancora più complicato quel gioco di
specchi di cui parlava Thomas Friedman.
9
febbraio
Guardiani della barbarie
PACO IGNACIO TAIBO II
I guardiani della barbarie
sono persone che portano sopra le loro spalle delicate l'enorme peso di
raccontare storie che quasi nessuno vuole ascoltare, che molti preferiscono
ignorare e che alcuni cercano gelosamente di occultare. Non è un lavoro
divertente. La barbarie in prima linea, vista da vicino, non è bella come la
violenza di un western di Peckinpah e se è commovente non è come il buon Cyrano
che regala a un altro le parole d'amore per la donna di cui è innamorato. La
barbarie non è carica di amore come gli sguardi umidi di Sofia Loren trent'anni
fa e, se si avvicina al sesso, lo fa in quel modo terribile che lo trasforma in
potere, abuso e violenza.
La barbarie è confusa, caotica, bugiarda, escludente,
tirannica. Veste in doppiopetto e cravatta bianca, o adotta l'uniforme del
fondamentalismo islamico. Si maschera in discorsi che generalmente fanno appello
a qualche dio, uno qualsiasi, tanto il tal dio non è qui per smentire i suoi
presunti portavoce.
Portavoce che fanno venire voglia di ignorare la verità. Se
non fosse che la verità si presenta sopra la tua casa come un elicottero
blindato che sfonda le finestre, distrugge i giocattoli dei tuoi figli e anche i
tuoi figli, e se ne torna indietro volando allegramente.
Se non fosse che in nome di dio si presenta alla porta del
tuo ufficio e ti spruzza acido in faccia perché portavi una minigonna.
Se non fosse che elegge presidenti che mentono a
ripetizione da 25 stazioni televisive.
Se non fosse che vuole diventare padrona del mondo e dalla
Casa bianca, dalla moschea, dal palazzo del governo di una splendida città
latino-americana pervertita dal potere e dall'abuso, ti chiama, ci chiama, a noi
che guardiamo dall'altra parte. A noi che siamo cittadini collaterali.
Per questo i guardiani della barbarie vanno in giro,
raccontandola, documentandola, narrando l'orrore.
Il mio amico Justo Vasco mi ricordava l'altro giorno una
frase di Andreiev che diceva: «Il peggio dell'orrore è quando non c'è orrore».
Cioè quando l'orrore si esercita ma, nella consuetudine, diventa oblio.
Scrivo io questa nota perché chi che dovrebbe scriverla,
Giuliana Sgrena, è stata sequestrata. Per aver esercitato per tutti noi il
mestiere di giornalista, di guardiana della barbarie, di narratrice. Il minimo
che le devo è sostituirla temporaneamente in attesa della felice conclusione di
questa vicenda.
Ps. Quando Giuliana leggerà quest'articolo e uscirà bene
dal sequestro - perché ne uscirà bene, non possiamo mica perdere sempre - il
manifesto dovrebbe dirle di venire qualche giorno a Città del Messico a
raccontare storie di bambini che giocano, di parchi pubblici e del meraviglioso
sole di fine inverno. Prima che torni al suo dovere, quello di documentare la
barbarie.
Morto
di uranio, prove cancellate
Il caso di un
militare ucciso dal cancro dopo diverse missioni in Bosnia e Kosovo. La Difesa
dà la pensione alla vedova, ma «sbianchetta» dai fogli matricolari il suo lavoro
nei Balcani. Le prime denunce dei carabinieri
ANGELO MASTRANDREA
ROMA
Si scrive linfoma di Hodgkin,
si legge, da qualche anno a questa parte, uranio impoverito. Soprattutto se ad
ammalarsi sono militari di ritorno dalle missioni nei Balcani. Proprio mentre la
commissione d'inchiesta votata all'unanimità lo scorso 17 novembre fa fatica a
insediarsi e l'opposizione denuncia i tentativi di «insabbiamento» da parte di
Forza Italia, il partito del ministro della difesa Martino, arrivano le prime
denunce da parte dei carabinieri e vengono fuori dei casi piuttosto inquietanti.
Come quello del marinaio Domenico Lofaro, morto per un linfoma al midollo
spinale lo scorso 30 aprile. Nello «stato di servizio» fornito dal ministero
della difesa, infatti, il povero Lofaro risulta arruolato, per «corso
volontario», a Mariscuola Taranto il 22 aprile dell'85. Da allora, con tanto di
date e giorni di servizio, vengono elencate tutte le sue attività: sulla fregata
speciale Orfun come sulla nave salvataggio Proteo, finanche una missione nel
Sinai. Nulla di nulla sui fronti di guerra o laddove sono stati utilizzati
proiettili all'uranio impoverito, dalla Somalia alla Bosnia e Kosovo, fino
all'Iraq. Spulciando bene nei trascorsi del militare, alla voce «attribuzioni»
si scopre invece, accanto a una «croce commemorativa» per la missione nel Sinai,
a una «croce d'argento per 16 anni di anzianità di servizio», a una «medaglia
Nato» e una «medaglia d'onore di lunga navigazione di terzo grado», anche una
«medaglia Weu» per l'«operazione ex Jugoslavia», conferitagli il 23 luglio del
`99.
Perché, dunque, la sua missione «di guerra» è stata
cancellata dal foglio matricolare? Una possibile risposta la dà Antonio Savino,
presidente dell'Unione nazionale arma carabinieri (Unac): «Il motivo potrebbe
ricercarsi nel fatto che molti reduci dalle missioni nella ex Jugoslavia sono
rimasti contaminati dall'uranio impoverito, fenomeno che da tempo i vertici
militari tentano di nascondere e sminuire nella sua entità». Ad avvalorare il
sospetto che si sia voluto mettere a tacere il caso c'è il fatto che alla vedova
è stata riconosciuta una pensione ad appena un mese dalla morte. Il 20 aprile
del 2004 a Lofaro viene effettuato l'esame istologico, tre giorni dopo la moglie
presenta richiesta di pensione, il 30 aprile il militare muore e la pensione
viene riconosciuta il 27 maggio. «Il che fa pensare che i medici conoscevano
l'esito infausto della malattia o si è trattato del classico avvicinamento dei
familiari, con benefici economici per indurli al silenzio sulla morte del
congiunto», sostiene Savino.
Tanto più che il caso non appare isolato. L'Unac sta
preparando un libro bianco che consegnerà alla commissione d'inchiesta appena
questa diventerà operativa. «Gli ospedali militari non certificano mai le cause
di servizio e non diagnosticano i linfomi», è la denuncia. Come è accaduto al
carabiniere calabrese Ciro Nastri. Rientrato da qualche anno dalle missioni in
Bosnia e Kosovo, in un ospedale militare gli hanno diagnosticato una gastrite
che si è poi rivelata un linfoma di Hodgkin. «Ma il problema che abbiamo è che,
di fronte al rischio di essere «congedati» senza stipendio né pensione, i
carabinieri che ci contattano preferiscono poi non denunciare», dice ancora
Savino. E «ora cominciano ad arrivare quelli di ritorno dall'Iraq, che ai primi
sintomi sono terrorizzati. Anche perché non sono state diffuse le mappe delle
zone in cui sono stati utilizzati i proiettili all'uranio impoverito, e ci
chiedono informazioni sulle zone in cui hanno prestato servizio. E' assurdo che
i carabinieri continuino a partire senza protezione e senza alcuna
informazione».
Un altro caso «sospetto» è quello del marinaio Crispino
Adragna, 25 anni da Trapani, colpito da linfoma durante il servizio militare
sulla nave Perseo, «che monta armi missilistiche» e che secondo i vertici
militari non avrebbe mai lasciato, nel periodo interessato, il porto di Taranto,
al contrario di quanto affermato dal militare ammalato, che dichiara di essere
stato nella ex Jugoslavia ai tempi del conflitto. Per l'Unac si tratterebbe
dell'«ennesimo tentativo di depistaggio dei massimi vertici militari».
7
febbraio
Giustizia e felicità (appalti
compresi)
STRETTAMENTE PERSONALE
Biagi Enzo
Dice Formigoni: «Forza Italia si è un po'
seduta». Non sarebbe un guaio devastante: si ha invece l' impressione che si sia
magari un po' intasata la vena polemica del presidente del Consiglio nella
grossolana distinzione tra Male e Bene. Non sono, e non lo sono mai stato,
comunista, ma ho avuto sempre rispetto per quel partito: nei 14 mesi in cui ho
fatto parte, durante la guerra, della Brigata partigiana «Giustizia e Libertà»
non ho incontrato in montagna liberali o ragazzi di destra. E, in fondo, i
compagni del Pci non debbono essere poi così malvagi se le loro trame non hanno
impedito all' onorevole Silvio Berlusconi non solo di entrare in politica
salvandosi da qualche inconveniente, ma addirittura di diventare un signore tra
i più ricchi d' Europa. Senza dubbio è bravo, anche nella scelta degli amici:
quel Bettino Craxi - ad esempio - che pianta a Londra una conferenza
internazionale per venire con una legge o un provvedimento di urgenza a salvare
le tv dell' amico Silvio. E deve essere proprio Unto del Signore, come è stato
rappresentato, e possiede qualche unguento miracoloso che, applicato nelle
giuste dosi, può addirittura trasformare il falso in bilancio in una deplorevole
distrazione di qualche contabile. Ha detto: «Ci sono anche momenti eroici, e
alla fine conta quello che c' è di attivo». Come no. Ha detto Romano Prodi:
«Questo Paese merita un po' di felicità». Ne ha passate tante. Quando, in giro
per il mondo, mi è capitato talvolta di sentirmi dire: «Lei è orgoglioso di
essere italiano?». Ho sempre risposto: «Non vedo motivi di alterigia o di
superbia, sono soprattutto contento dell' umanità della mia gente». Durante la
guerra e le varie occupazioni straniere su un muro di Roma apparve una scritta:
«Andatevene tutti, lasciateci piangere da soli». Il cardinale di Milano, Dionigi
Tettamanzi, invita gli amministratori pubblici a mettere «la giustizia sopra
ogni cosa». Se ho capito bene, credo includa anche gli appalti e le licenze.
4 febbraio
Milano, agli atti dell'inchiesta sull'acquisto di apparecchiature
un versamento di 11mila marchi da una multinazionale Usa
Tangenti sanità, un
assegno
accusa il ministro Sirchia
di MARCO
MENSURATI e LUCA FAZZO
MILANO - Un assegno con la data del 30
giugno 2000, tratto su un conto della Commerzbank di Francoforte sul Meno
intestato alla Immucor Incorporation, colosso mondiale delle apparecchiature
mediche per il sangue. Importo: undicimila marchi tedeschi. Beneficiario: "Prof.
Girolamo Sirchia", all'epoca dirigente dell'ospedale Policlinico di Milano, che
pochi mesi dopo sarebbe diventato ministro della Sanità del governo Berlusconi.
È questo il documento che è agli atti dell'indagine milanese condotta dai pm
Maurizio Romanelli ed Eugenio Fusco, e che sembra smentire in modo
inequivocabile la linea difensiva seguita dal ministro Sirchia da quando il suo
nome è comparso nelle carte dell'inchiesta. Da mesi, ormai, i pm sapevano che
numerosi primari dei reparti di Immunoematologia di mezza Italia avevano
ricevuto generosi ringraziamenti da parte della Immucor negli anni in cui la
multinazionale statunitense piazzava i suoi macchinari nei reparti trasfusionali
della sanità pubblica.
Due settimane fa, sotto la pressione dell'indagine, i vertici americani di
Immucor hanno scelto di collaborare con l'inchiesta, fornendo alla Procura
milanese l'elenco completo dei medici cui erano stati versati finanziamenti
sotto forma di "consulenze". Un capitolo a parte, in questa documentazione, era
dedicata al ministro Sirchia.
"Pagamenti dalla Immucor in assegni intestati a me? Che io mi ricordi,
assolutamente no", aveva dichiarato Sirchia il giorno in cui il suo nome era
iniziato a circolare, in seguito alla perquisizione disposta dalla Procura
milanese nei suoi ex uffici al Policlinico milanese. In realtà, nelle carte si
parlava esplicitamente di tre versamenti da undicimila marchi ciascuno (luglio
1999, febbraio 2000 e giugno 2000) nel periodo in cui all'ospedale milanese
veniva offerto da Immucor il macchinario I-track.
La
smentita di Sirchia era apparsa assai netta, tanto da suscitare la curiosità
degli stessi inquirenti. Ma la verifica nelle carte fornite dall'azienda
americana ha spazzato via i dubbi: ci sono le fotocopie. Gli assegni venivano
emessi dalla filiale tedesca di Immucor, portati attraverso un corriere Ups in
Svizzera e qui grazie ad un funzionario della banca Ubs venivano versati su un
conto. Ora su quel conto sta partendo la rogatoria della Procura milanese per
capire se oltre ai soldi di Immucor altre "consulenze" in nero siano state
incassate da Sirchia nel corso di questi anni.
2 febbraio
Le corti di Guantanamo fuorilegge»
Una sentenza di un giudice
federale dichiara «incostituzionali» le commissioni militari allestite da Bush
FRANCO
PANTARELLI
NEW YORK
Proprio
nel giorno in cui tutta l'amministrazione Bush è impegnata a celebrare la
«svolta storica dell'Iraq verso la democrazia», ecco il solito giudice
guastafeste impegnato a celebrare, invece, i passi indietro che alla democrazia
sono stati imposti «in casa». Joyce Hens Green, giudice federale del distretto
di Washington, sentenziando su un ricorso presentatole da undici detenuti di
Guantanamo, ha definito «incostituzionali» i tribunali allestiti per processare
quella gente. Rifacendosi a quella che a tutt'oggi costituisce la peggiore
«botta» subita finora da Bush, vale a dire la sentenza della Corte Suprema del
giugno scorso in cui si riconosce il diritto dei detenuti di contestare
legalmente, in sedi appropriate, la loro condizione, la signora Hens Green
dichiara nella sua sentenza che neanche la «guerra al terrorismo» può
giustificare «la negazione di diritti fondamentali per i quali il popolo di
questo paese ha lottato ed ha pagato con la vita per oltre 200 anni».
Le strutture create per giudicare i detenuti di Guantanamo
(che neanche gli uomini di Bush si sono azzardati a chiamare tribunali,
preferendo il termine «commissioni militari» che vuol dire tutto e niente) non
assicurano quei diritti fondamentali, dice la sentenza del giudice Hens Green, e
quindi la conclusione è che «i richiedenti hanno presentato valide obiezioni
nell'ambito del Quinto Emendamento della Costituzione degli Stati uniti» e che
la loro detenzione «viola il loro diritto a un giusto processo entro la legge».
I
l Quinto Emendamento, noto come quello che garantisce la
facoltà di non rispondere, stabilisce anche che «nessuno può essere privato
della sua vita, della sua libertà o delle sue proprietà senza un processo entro
la legge».
In gabbia da tre anni
I detenuti di Guantanamo, come si sa, sono chiusi nelle
loro «gabbie» da tre anni, senza che abbiano potuto vedere un avvocato, senza
che sia stato detto loro di che cosa sono accusati, in molti casi senza neanche
che sia stata riconosciuta formalmente la loro detenzione. Ciò che di loro si sa
- il numero di 540 e il nome e la nazionalità di una parte di loro - non sono
notizie ufficialmente accertate ma il prodotto del lavoro di alcuni giornalisti
del Washington Post che per mesi hanno certosinamente messo insieme tutti
i dati che riuscivano a raccogliere. I pochi che sono stati liberati, il cui
«lieto fine» dovrebbe dimostrare che in fondo le «commissioni militari»
funzionano, sia pure lentamente, dimostra invece l'arbitrarietà del tutto. La
loro fortuna è consistita nell'essere inglesi (tre) e australiani (uno), cioè
cittadini di due dei più convinti alleati degli Stati uniti nella guerra
illegale scatenata in Iraq.
E la prova che si è trattato solo di «favori» sta nel fatto
che gli americani continuano a sostenere, senza dimostrarlo con dati di fatto,
che quei quattro costituiscono ancora una «significativa minaccia».
La liberazione dell'ultimo di loro, l'australiano Mamdouh
Habib, denota anche lo «spirito» che c'è in giro. Fino all'ultimo i suoi
carcerieri gli dicevano che lo stavano rimandando in Egitto (dove a suo tempo
era stato già temporaneamente trasferito perché lo si potesse torturare senza
«interferenze»). «Ha saputo che stava andando a casa in Australia solo quando è
arrivato all'aereo e mi ha visto in cima alla scaletta», ha raccontato il suo
avvocato, Joe Margulis.
I precisi riferimenti alla Costituzione presenti nella
sentenza del giudice Hens Green sembrano destinati ad avvicinare il momento di
un nuovo, pesante intervento della Corte suprema su questa vicenda che tanto ha
contribuito - assieme alla storia di Abu Ghraib - a gettare una luce sinistra
sugli Stati uniti.
Ma c'è anche un'altra ragione per cui a questo punto
l'intervento del massimo organo della magistratura americana venga nuovamente
chiamato in causa, ed è il fatto che solo due settimane fa un altro giudice,
Richard Leon, anche lui del distretto di Washington, ha risposto al ricorso di
altri sette detenuti stabilendo che l'argomento dell'amministrazione Bush
(secondo il quale questi «combattenti nemici» non hanno nessun diritto e possono
essere trattenuti indefinitamente) è quello valido. Anche lui si rifaceva alla
sentenza di giugno della Corte Suprema di cui si diceva, per cui una sorta di
«parola finale» diventa sempre più indispensabile.
Francia, le nuove
carceri per i minori
Il governo ne vuole costruire sette. Meno investimenti per le pene alternative
Sono 623 i ragazzi tra i 13 e i 18 anni che scontano una
pena. Dai Centri educativi chiusi (Cef), però, si verificano troppe fughe
ANNA
MARIA MERLO
PARIGI
In
Francia, compiuti i 13 anni, si può finire in carcere se si è commesso un reato:
ci sono oggi 623 minorenni, tra i 13 e i 18 anni, nelle prigioni francesi, nel
2002 erano 936. Ma come se non bastassero i «quartieri per minorenni» nelle
carceri per adulti e i Centri educativi chiusi (Cef) - altri 14 apriranno nei
prossimi mesi e andranno ad aggiungersi agli 11 esistenti - il ministro della
giustizia, Dominique Perben, ha annunciato ieri la prossima costruzione di sette
Istituti penitenziari per minorenni (Epm), entro la fine del 2006, con una
capacità di accoglienza di 420 posti. Queste carceri minorili saranno una via di
mezzo tra i «quartieri» per minorenni delle carceri per adulti e i Centri
educativi chiusi, che hanno da un lato permesso di togliere dalla prigione un
terzo dei minorenni ma dall'altro sono accusati di essere troppo poco «chiusi»,
poiché la percentuale di fughe è elevata (e per chi scappa, c'è la prigione
tout court). Già i Centri educativi sono circondati da recinzioni,
hanno un'unica uscita la cui apertura è azionata da un telecomando, sono dotati
di un sistema di barriere a raggi infrarossi e di dispositivi per il controllo
dei movimenti. Ma visto che ciò non sembra bastare, Perben propone degli
Istituti penitenziari più severi. Il ministro ha chiesto agli architetti che li
progetteranno di prevedere un sistema che permetta «uno sguardo costante di un
adulto sui minorenni e che faciliti una visione più ampia possibile all'interno
dell'istituto», per tenere sotto controllo costantemente i detenuti. Dovranno
essere obbligatoriamente recintati da un muro alto almeno 6 metri, ma è stata
abolita la torretta di controllo, con le guardie carcerarie, per evitare che
«faccia troppo prigione». Secondo Perben, queste nuove prigioni per minorenni,
«offriranno una possibilità inedita di farsi carico dei minorenni carcerati,
permettendo di portare avanti azioni educative con l'obiettivo di prevenire la
recidiva». Dominique Perben, che ha presentato ieri questo progetto in uno dei
siti previsti, a Laveur (Tarn), ha enumerato i vantaggi di questi Istituti per
l'economia locale: nuove entrate finanziarie per i comuni che li ospiteranno,
arrivo di nuovi abitanti (gli educatori) e la creazione di 150 posti di lavoro
stabili per far vivere l'istituzione.
Le «case di correzione» per minorenni sono state chiuse in
Francia nel '78. Ma poiché la legge prevede l'imprigionamento dei minorenni,
sono stati aperti i «quartieri» nelle carceri per adulti e, dal 2002, esistono i
Centri educativi chiusi. I nuovi istituti penitenziari per minorenni saranno
delle «prigioni-scuole», ha spiegato il ministro: 20 ore di corsi la settimana,
20 ore di sport, più attività artistiche e culturali. Ogni detenuto avrà un
«binomio» di adulti come punto di riferimento (un sorvegliante e un educatore).
I magistrati specializzati nella delinquenza minorile sono
scettici, benché l'Associazione dei magistrati della gioventù e della famiglia
ritenga che sarebbe un passo avanti se l'apertura degli istituti penitenziari
significasse la chiusura dei «quartieri» per minorenni delle carceri. Ma,
secondo i magistrati, l'imprigionamento dei minorenni - che oggi dura in media
due mesi e mezzo - dovrebbe essere un'eccezione. Inoltre, il costo elevato sia
dei Centri chiusi che dei futuri istituti penitenziari (550 euro al giorno e a
persona) fa temere che una buona fetta dei mezzi finanziari venga assorbita da
queste strutture e che ci siano quindi meno investimenti per le pene alternative
al carcere, come per esempio l'affidamento del giovane delinquente a un
educatore, in situazione di libertà sorvegliata.
1
febbraio
IL RACCONTO
Le risate della Madonnina
di STEFANO BENNI
Come ogni anno, ritorna il mistero delle Madonne e dei Santi Piangenti.
Quest'anno è accaduto a Civitavecchia. E subito sulla legittima emozione dei
fedeli si è abbattuta un'invasione di giornalisti, esorcisti, vescovi
lacrimologi, esperti ieratico-idraulici e soprattutto politicanti religiosi e
laici, ognuno con la palese intenzione di spiegare perché la Madonna piangeva,
armati non del dubbio del mistero, ma della certezza del partito.
La Madonna piange perché è contro il referendum sugli embrioni, è contro la
distruzione della famiglia, è turbata dalla divisione tra Buttiglione, Follini e
Mastella, è preoccupata per le regionali. Naturalmente questo ha acceso il clima
di suggestione, e in Italia si segnalano ulteriori portenti.
La Madonna del Tir di Lagonegro. Su un camion bloccato tre giorni nella
neve sulla Salerno-Reggio Calabria, una madonna luminosa in bachelite che si
trovava dentro a una cabina, ha iniziato miracolosame nte a battere i denti, e
poco dopo, a ricoprirsi di un magico strato di brina. Molti automobilisti, prima
di svenire assiderati , l'hanno vista e hanno parlato con lei. Ma il fatto più
sconcertante è avvenuto su un'auto.
Da un Non-correre-pensa-a-me con l'effigie di San Cristoforo, è iniziato
a trasudare un vapore sulfureo e si è sentita chiaramente la voce del Santo
proferire le seguenti parole: Se becco questi dell'Anas gli faccio passare un
guaio. Il solerte Lunardi ha detto che lui si occupa di Grandi opere e non
di stradacce meridionali senza neanche un casello per incassare: comunque ha
mandato sul posto tre cugini ingegneri e un demonologo.
Lo Stalin di Cecina. Anche la sinistra ha voluto la sua apparizione. Nel
giardino di un operaio comunista, un nano di gesso, precisamente un Brontolo, ha
iniziato a imperlarsi di strane gocce, subito identificate dagli esperti come
sudore umano. Gli esperti mandati da Rutelli hanno stabilito che la statua è
addolorata per l'estremismo in seno all'Ulivo. Subito, in un casolare vicino, un
attivista di Rifondazione ha segnalato che il suo busto di Stalin si era
arroventato ed emetteva odore di ragù. Secondo gli esperti gastronomi, è un
segnale esoterico che la sinistra non deve essere il condimento, ma il primo
piatto nella coalizione di Prodi.
L'elefantino di Roma. Nel carcere di Regina Coeli, un senegalese detenuto
per commercio abusivo, ha detto di aver visto il suo elefantino sacro di legno
alzare la proboscide e camminare per alcuni centimetri. Del fatto sono stati
testimoni i compagni di cella. Subito le gu ardie carcerarie hanno segnalato
l'evento. Questo ha scatenato l'indignazione della classe politica. È ignobile,
ha detto il senatore Pera, che questi selvaggi pretendano di ottenere dei
miracoli che, come sappiamo, sono esclusiva delle religioni vere e superiori.
Già ci irrita il fatto che una Madonna pianga sotto Firenze, ha detto il
ministro Calderoli, ma degli infedeli delinquenti pretendano che crediamo alle
loro visioni, è il segno del lassismo morale dei tempi e della politicizzazione
della magistratura. Mentre Calderoli rilasciava l'intervista, è giunta notizia
che nel ristorante del signor Cheng a Milano, un Buddha di porcellana è
improvvisamente dimagrito della metà. Calderoli ha avuto un collasso.
Il David di Firenze. L'ondata di suggestione ha investito simulacri,
idoli e statuette in molte altre parti d'Italia. Una nota duchessa vip
televisiva, che ha voluto mantenere l'anonimato avendo venduto l'esclusiva a un
giornale, ha assicurato che la Bar bie di sua figlia ha pianto diversi litri di
Chanel numero cinque.
Ma davvero straordinario è ciò che è successo a Firenze in piazza della
Signoria. Il David di Donatello, famoso per la sua bellezza virile ma casta, ha
avuto una spaventosa erezione. Dove c'era il pistolino marmoreo ora hanno
trovato appoggio ben sette piccioni in fila. Si era pensato a uno scherzo, ma
sembra che l'aumento di volume sia reale e pesabile. La solita commissione
Grandi Opere formata da tre ingegneri cugini di Lunardi, un andrologo e una
pornostar sta esaminando il caso. La piazza è transennata.
L'omino di Arcore. Il caso più portentoso è avvenuto in un piccolo centro
della Lombardia. Protagonista un uomo modesto e riservato, che ama definirsi
esponente unico del Bene e Unto da Dio. Già in passato quest'uomo era stato
oggetto di eventi portentosi, come miliardi piovuti dal cielo e miracolose
prescrizioni da processi. Ebbene quest'uomo ha da tempo inspiegabili stimmate e
mutamenti somatici.
Anzitutto la faccia gli si è modificata tre o quattro volte. Poi gli sono
apparsi sul cranio pelato dei capelli di materiale misterioso, forse setole di
unicorno. Il viso si è coperto di una specie di fanghiglia rosea, simile a un
incarnato angelico, ma con forte odore di profumeria. La misteriosa stimmate
pilifera è sparita, per riapparire in alcune foto di tipo diverso e in color
nero pece. Di nuovo la peluria portentosa si è dileguata, ma ultimamente sulla
testa dell'uomo è apparsa una rada chioma stavolta di colore rossiccio. Le
autorità ecclesiastiche e cosmetiche sono perplesse.
Il piccolo asilo. Il caso più miracoloso è avvenuto nell'asilo di un
piccolo paese. Alcuni ragazzini che stavano giocando a pallone sul campo
dell'oratorio, hanno notato che una madonnina situata dietro una porta, non
piangeva, bensì rideva ogni volta che veniva fatto gol. Proprio una risata
argentina di allegria. Sembra inoltre che la statuina parteggiasse, con garbo,
per una delle due formazioni, e che abbia in alcune occasioni fischiato
maliziosamente interrompendo il gioco. I bambini non hanno chiamato né esorcisti
né madonnologi, e soprattutto neanche un giornalista, e hanno tenuto ben segreta
la cosa. Grazie a Dio, a Buddha e Manitù, nelle religiosità di cose semplici,
gioiose e nascoste che non hanno bisogno né di Inquuisizioni, né di arbitri, né
di telecamere.
(1 febbraio 2005)