Archivio agosto 2005
31 agosto
Da Altroconsumo le cifre sugli aumenti della
spesa
Risparmi per i licei scientifici e gli istituti commerciali
Scuola, libri sempre più cari
Alle medie aumenti del 2,4%
ROMA - Autunno caldo per gli studenti delle scuole medie: i
libri sono sempre più cari. Un'inchiesta di Altroconsumo ha preso in
considerazione 600 classi di 29 scuole medie a Bari, Bologna,
Cagliari, Milano, Napoli, Palermo, Roma e Torino. E , rispetto allo
scorso anno, si registra un aumento della spesa media per l'acquisto
dei testi scolastici del 2,4%. Il che significa otto milioni di euro
in più a carico delle famiglie.
Nelle scuole medie i tetti di spesa stabiliti dal ministero
dell'Istruzione sono invariati rispetto allo scorso anno: 280 euro
per la prima classe, 108 per la seconda, 124 per la terza.
Altroconsumo ha verificato invece lo sforamento del tetto nel 44%
delle prime classi coinvolte nell'inchiesta. Peggio per chi
frequenterà il secondo anno: la spesa media è di ben 116 euro, con 2
classi su 3 oltre il limite del tetto. Nella terza media invece il
tetto è stato superato nel 38% delle classi esaminate.
Per quanto riguarda le scuole superiori, dove da due anni non
esistono più i tetti di spesa, il rincaro è del 6,4% al liceo
classico del 6,9% all'istituto tecnico industriale. Risparmiano solo
gli studenti dei licei scientifici e degli istituti tecnici
commerciali. Per loro si registra una diminuzione rispettivamente
del 4,5% e del 6,9%.
Altroconsumo ha inviato i risultati dell'inchiesta al ministro
dell'Istruzione Letizia Moratti e ha chiesto un intervento che
solleciti i presidi a convocare i consigli di classe negli istituti
in cui le adozioni dei libri di testo non hanno rispettato il limite
di spesa per provvedere a ridefinire le liste. Per l'associazione
dei consumatori anche i genitori devono fare la loro parte,
chiedendo l'intervento dei presidi, se i tetti sono stati ignorati.
Nel frattempo Altroconsumo invita a congelare i
prezzi di acquisto dei libri.
30 agosto
Vacanze sul Mar Nero
di CURZIO MALTESE
Bisogna chiedere scusa ai fratelli Vanzina. Per anni abbiamo creduto che
sfornassero filmacci di serie B. Invece era neorealismo. Un ritratto fedele
dei nuovi italiani. Il sospetto è nato con le intercettazioni di Fazio,
mirabile specchio di una classe dirigente dove tutto si tiene e si mescola,
Bankitalia e Anna Falchi, Briatore e la scalata al Corriere, l'alta finanza
e il salottino di Simona Ventura. La certezza è arrivata con l'ultima e
impagabile sortita del presidente del Consiglio sull'"enorme sacrificio" che
lo (e ci) attende: ricandidarsi alla guida dell'Italia. La scena era già un
set vanziniano, quasi un suggerimento: Vacanze sul Mar Nero. Dalla residenza
estiva di Putin, che percorre da due giorni mascherato da Massimo Boldi
quando recita l'industriale in barca, Berlusconi ha sparato una raffica da
bei tempi.
Ancora la storia dell'"amaro calice", annata 1993, stavolta nella variazione
"enorme sacrificio". Ancora la storia dei comunisti, davanti all'ex Kgb
Putin per giunta. Ancora l'auto esaltazione di un ego smisurato e
arroventato dall'estate, e poi rifatto, levigato, infoltito, infine lustrato
dalle amorevoli cure di un Bondi o di altri addetti alla manutenzione del
mito.
È difficile star dietro a tutte le battute di Berlusconi, decidere se faccia
più sorridere quella sulla propria insostituibilità ai tavoli dei summit
internazionali, oppure la paradossale vanteria sui crimini non commessi.
"Non abbiamo rubato; non abbiamo fatto controllare esponenti
dell'opposizione, pur avendo a disposizione i servizi segreti; non abbiamo
organizzato trasmissioni della tv pubblica, e tantomeno privata, contro gli
oppositori". A parte che sull'ultima affermazione ci sarebbe da discutere,
non è un bilancio da grande statista. Oltre alle leggi su misura, alla
recessione mai contrastata, alle grandi opere mai fatte, ci mancava soltanto
che il più ricco governante del pianeta si mettesse a rubare e a far spiare
Prodi e Fassino dagli agenti dei servizi.
Ma è inutile cercare una logica o peggio contrastare
le parole in libertà del premier con un ostinato elenco di fatti. Questo
show obbedisce appunto alle leggi dello spettacolo, al simbolismo della
rappresentazione, come tutti i precedenti e gli attrezzi di scena, dai
coturni ai piedi al ciuffo finto in capo. Non conta il senso di quel che
dice ma l'effetto che ha sul pubblico.
Stavolta, a occhio e croce, l'effetto è stato terrificante. Tanto vero che
gli ha risposto soltanto un certo Armando Dionisi, responsabile della
segreteria politica dell'Udc. Non Prodi e neppure Casini o Follini. È
bastata una frase di Dionisi: "Questo sacrificio non glielo sta chiedendo
nessuno".
L'equivalente, a teatro, di un fischio isolato in una platea muta e
distratta. Tutto qui, sipario. Si spera che dietro vi sia un ragionamento e
non semplicemente l'occasione agostana, la vacanza della politica. Da qui
alle elezioni Berlusconi proverà ogni settimana a scatenare la rissa con le
vecchie formule magiche di una volta per mettersi al centro della scena. Non
replicare è un buon esercizio zen e un'ottima strategia. Lasciare il campo
alle risposte dei centristi, che dispongono di bravi battutisti. Parlar
d'altro, magari di faccende serie, perché no. La campagna elettorale è già
troppo lunga, non c'è ragione di renderla ancor più penosa. Dopotutto è
difficile che gli italiani votino Berlusconi per non privarlo della
compagnia di Putin, Bush e Koizumi.
Senza contare che può sempre andarli a trovare da privato cittadino, i mezzi
non gli mancano e il barile di petrolio a 70 dollari non è un problema suo.
Nelle sceneggiature dei Vanzina possono ben figurare le gite nel ranch, la
visita alla dacia, la cena sushi dal cliente giapponese. Ogni epoca ha il
neorealismo che si merita.
L'Onu: in Uganda ogni settimana muoiono mille profughi |
Mille rifugiati
muoiono ogni settimana nel nord dell'Uganda di stenti, malattie e di
un conflitto dimenticato, almeno da noi. Questa la conclusione di un
rapporto preliminare congiunto redatto dal governo dell'Uganda, l'Onu
e organizzazioni non governative sulla mortalità nella regione.
Le statistiche dicono che 1,54 persone su diecimila muoiono ogni
giorno in campi profughi fatiscenti e sovraffollati abitati da 1,4
milioni di rifugiati. Lo standard di mortalità internazionalmente
accettato (sic!) è di una persona al dì. Baraccopoli poco protette
dalle forze di sicurezza ugandesi e quindi facile preda degli
attacchi della guerriglia fondamentalista cristiana dell'Esercito di
Liberazione del Signore (Lra) che vuole instaurare in Uganda un
regime basato sui dieci comandamenti biblici.
Potrebbe andare peggio, se non fosse che per farlo arruolano bambini
soldato (e le bambine diventano le "mogli" dei comandanti), uccidono
civili insensatamente e mischiano al retroterra biblico riti e
credenze animiste. Il leader militare e spirituale del gruppo è
Joseph Kony; sempre vestito di bianco, fa credere ai suoi uomini che
l'acqua santa protegga dalle pallottole e amputa i piedi a chi va in
bicicletta.
Nato nel 1986, la Lra era inizialmente guidata da Alice Lakwena come
risposta delle popolazioni Acholi che abitano il nord dell'Uganda al
colpo di stato militare contro il generale Tito Okello, che nel 1979
aveva contribuito a rovesciare Idi Amin, da parte dell'attuale
presidente Yoweri Museveni, di etnia Nyankole.
Lakwena, come Kony, diceva di parlare ad uno spirito - qualcuno
sostiene che fosse addirittura quello di un militare italiano morto
sul lago Vittoria - e che questo guidava le sue azioni. Ma l'acqua
santa e gli altri sortilegi non ressero l'urto dell'esercito di
Kampala e Alice fuggì in Kenya, dove ancora oggi è rifugiata.
La Lra però non si smantellò del tutto. Prese la sua guida un
lontano cugino della Lakwena, Joseph Kony. Cambiò anche la natura
della formazione che rivolse la sua attenzione non più tanto alle
autorità ed alle rivendicazioni etniche, ma contro la popolazione
civile.
Le testimonianze raccolte da organizzazioni come Amnesty
International e Human Rights Watch sui bambini soldato parlano di
violenze, droga, di «uccidi il tuo vicino altrimenti uccido te»,
esecuzioni e torture per tentativi di fuga e di un'intera
generazione di giovani trasformata in «night commuters».
Quarantamila piccoli pendolari notturni che, ogni notte, lasciano le
proprie capanne nella boscaglia per andare a dormire nei cortili
delle scuole o delle chiese per paura di essere rapiti dai ribelli.
L'Uganda sostiene di aver liberato circa cinquantamila bambini
soldato negli ultimi venti anni. Giovani che devono affrontare il
dramma di reinserirsi in società che hanno, loro malgrado, rapito,
vessato, violentato e ucciso. Secondo Hrw, altri trentamila bambini,
che rappresentano l'80% degli "uomini" di Kony, sarebbero ancora
nelle mani della guerriglia.
L'Esercito di Liberazione del Signore ha le sue basi nel sud Sudan e
per anni è stato sostenuto dal governo di Khartoum in risposta
all'appoggio ugandese, su incipit americano, dei ribelli del Sudan
People Liberation Movement (Splm) del defunto John Garang.
Dal 2002, quando ha firmato con l'Uganda un accordo che consente
all'esercito di Kampala di agire oltre confine, il Sudan ha smesso
di sostenere la Lra. Il nuovo vice-presidente sudanese, il sudista
Salva Kiir, ha detto, in virtù della pace firmata tra il governo di
Khartoum e il Splm nel gennaio scorso, che «la Lra deve fare la pace
con l'Uganda e lasciare il sud Sudan immediatamente altrimenti
troveremo noi delle soluzioni».
Il governo del presidente Yoweri Museveni, che recentemente ha fatto
modificare la Costituzione per garantirsi un terzo mandato, ha
alternato offensive militari (l'attuale è denominata "Operazione
pugno di ferro"), amnistie per i guerriglieri che si arrendono (14
mila ne hanno beneficiato ad oggi) e tentativi di mediazione.
L'ultima iniziativa, sostenuta da Norvegia, Regno Unito, Olanda e
Stati Uniti, è caduta nel vuoto e i colloqui di pace sono
attualmente congelati. Questo ha portato il ministro della difesa
ugandese, Ruth Nankabirwa, a dire, qualche giorno fa, che «non
accetteranno più cessate-il-fuoco, i ribelli non sono interessati
alle trattative e saranno sconfitti militarmente».
Sull'Uganda pende anche, dal luglio del 2004, l'indagine del
Tribunale penale internazionale dell'Aja. Il procuratore Moreno
Ocampo è pronto ad emettere un mandato di arresto internazionale
sulla testa di Joseph Kony per crimini contro l'umanità.
Ma non tutti sono d'accordo perché temono che giustizia estera e
attacchi militari rischino di minare le residue speranze di pace.
Gli anziani della comunità Acholi, principale vittima del conflitto,
hanno scelto: l'unica soluzione è il perdono. Achaye Jakeo, capo
tradizionale nel campo profughi di Pabbo, ha detto all'agenzia Irin:
«noi non pratichiamo forme occidentali di giustizia. Se qualcuno
dimostra rimorso per i suoi crimini, noi lo perdoniamo».
Il rientro nella società avviene attraverso un rituale complesso
chiamato "mapo oput". Il colpevole rompe un uovo crudo che
simbolizza un nuovo inizio e salta oltre un ramo di opobo per
rappresentare il passaggio dal passato al presente. Alla fine del
rito si beve, insieme alla vittima delle proprie malefatte, una
pozione amara fatta con le foglie dell'oput affinché si accetti
l'amaro passato con la promessa di non assaggiarlo più.
«La Lra non sono un gruppo straniero, ma sono i nostri figli e
figlie, fratelli che uccidono fratelli. Molti sono stati costretti a
diventare degli assassini - dice Jakeo - come possiamo continuare
come comunità se non li perdoniamo?». |
24 agosto
14 milioni di bambini morti non fanno notizia
(Don Vitaliano della Sala) |
I dati dell'Oms ignorati da giornali e Tv, impegnati a
raccontare a che ora è caduto il portaocchiali del papa
I dati diffusi in questi giorni dall'Organizzazione Mondiale della
Sanità e dalla Banca Mondiale, quindi non dagli uccelli del malaugurio
noglobal, sono raccapriccianti e dovrebbero far riflettere: 14 milioni
di bambini ogni anno muoiono per povertà, per malattie curabilissime,
per mancanza di cibo e acqua che in altri posti del pianeta si sprecano.
E stiamo parlando solo di bambini.
Ma tranne i lettori di Liberazione, pochi verranno a conoscenza di
queste cifre che dovrebbero far tremare i polsi: nessun quotidiano ha
pubblicato una sola riga, nessun TG ne ha parlato. Eppure i giornali ci
fanno sapere tutto sul presunto omicida Guglielmo Gatti, in quanti pezzi
ha ridotto i cadaveri dei coniugi Donegani e in quante buste li ha poi
rinchiusi; e ci fanno sapere tutto sulle vacanze del Presidente Ciampi e
di donna Franca, su quando hanno fatto il primo bagno e su quanto tempo
sono restati in acqua; e del papa a Colonia, ci hanno raccontato nei
minimi particolari a che ora gli è caduto il portaocchiali, quanti
secondi ha impiegato il Presidente tedesco per raccoglierlo, cosa ha
mangiato con i dodici giovani nel palazzo vescovile. Per non parlare
delle stupidaggini che ci propinano sul calcio, sulle corna estive dei
vip, sul trapianto di capelli di Berlusconi.
Su queste e altre cazzate si sprecano tantissime parole (e per fortuna
"Porta a Porta" di Vespa è in vacanza!). Per i poveri non c'è spazio per
un trafiletto, nemmeno da morti. Ci vuole fortuna anche a crepare: se
muori nelle Torri Gemelle o nella metropolitana di Londra per mano dei
famigerati terroristi di Bin Laden meriti, tuo malgrado, le prime
pagine; ma se muori negli "scantinati dell'umanità" a causa di una delle
tante povertà, e questi morti si contano in milioni, non hai diritto
nemmeno ad una riga sui cosiddetti mezzi di informazione: se sei
fortunato, tra un saluto e l'altro, ti nomina il papa all'Angelus
domenicale.
Eppure, ed è sempre l'Oms a dirlo, basterebbero 30/40 dollari pro capite
all'anno per far fronte, ad esempio, alle spese sanitarie; immagino ci
voglia anche meno per risolvere il problema della fame. Raccomandava
papa Paolo VI negli anni '60, nell'enciclica Populorum Progressio: «Una
cosa va ribadita: il superfluo dei paesi ricchi deve servire ai paesi
poveri. Diversamente, ostinandosi nella loro avarizia, non potranno che
suscitare il giudizio di Dio e la collera dei poveri, con conseguenze
imprevedibili. Chiudendosi dentro la corazza del proprio egoismo, le
civiltà attualmente fiorenti finirebbero con l'attentare ai loro valori
più alti».
Qualcuno a Rimini, da buon cattolico, dovrebbe ricordarselo e
raccontarlo al feldmaresciallo Marcello Pera: si occupi e preoccupi di
giustizia sociale globale, anziché incitare all'odio razziale; anzi, se
non per spirito umanitario, lo faccia proprio per preservare la nostra
razza dal meticciato che tanto lo spaventa: restituisca agli impoveriti
della terra quello che la grande e superiore civiltà occidentale ha loro
rubato, e questi non avranno più bisogno di rifugiarsi da noi, derubando
il nostro lavoro e le nostre donne.
Ogni giorno, in ogni momento della storia c'è chi getta croci sulle
spalle degli altri. Centinaia di milioni di bambini, donne e uomini dei
paesi poveri del mondo - ma sarebbe meglio parlare di paesi impoveriti
dall'occidente - portano sulle proprie spalle la croce con cui i paesi
ricchi li schiacciano; i poveri portano, come tanti povericristi, la
croce del benessere, dei consumi, della potenza economica dei ricchi. E,
visto che stiamo in tema, noi pilatescamente ce ne laviamo le mani,
anche noi di sinistra.
C'è oggi chi farebbe carte false per non essere chiamato comunista e si
affanna a gettare nella spazzatura non solo gli aspetti discutibili del
proprio passato, ma anche le utopie, gli ideali, le lotte e le conquiste
sociali per le quali altri hanno speso la vita. E così, più si prendono
le distanze dal comunismo, più si aderisce all'ideologia del
capitalismo. Questo tragicamente comporta che per non essere più
"comunisti" bisogna non vedere che esistono mercati che fagocitano gli
uomini per salvaguardare i profitti; che si moltiplicano le violazioni
delle più elementari libertà; che masse di diseredati sono derubate del
diritto ad una vita almeno non indecente; bisogna negare, cioè, che
esistono ingiustizie strutturali da sovvertire, sistemi di
disuguaglianze da rovesciare.
Ci sono momenti nella vita in cui le cose ci appaiono di una semplicità
estrema, di una chiarezza senza alcuna traccia di ambiguità, momenti in
cui diventa immediato sapere e decidere da che parte stare. Don Lorenzo
Milani, il priore di Barbiana, mostrava ai suoi ragazzi una fotografia
di un torturato e del suo carnefice e chiedeva loro, a bruciapelo, «tu
da che parte stai?». I ragazzi rispondevano senza esitazione indicando
la parte del torturato. Non si domandavano neanche chi fosse la vittima
e per quali ragioni venisse aggredita, se era un buono perseguitato o un
cattivo "punito". Comprendevano che si trattava comunque di uno che
stava subendo, che il potere non stava dalla parte sua, che si trattava,
in quella situazione e in quel momento, del debole e della vittima. E
bisogna sempre stare dalla parte di quello che "sta sotto".
Viviamo nell'era della globalizzazione, e ci rendiamo sempre più conto
che alla mondializzazione dei mercati corrisponde la mondializzazione
dell'impoverimento, l'esclusione sistematica e programmata di centinaia
di milioni di esseri umani dai "benefici" del mercato. Io non credo che
esistano soltanto le due categorie di comunismo e liberismo; quest'ultima
vincente e l'altra di cui seppellire finanche i più miseri resti. Credo
che tra di esse si insinuino, con la forza di cunei, le donne e gli
uomini, il cui numero si conta in miliardi, che vivono ricacciati ai
margini del sistema mondiale e a cui non è stata riservata alcuna
possibilità di futuro. Tra attuali liberisti e ex comunisti convertiti
di fresco al cosiddetto "neoliberismo dal volto umano", queste donne e
questi uomini sono la parte con la quale stare, per la quale schierarsi.
E schierarsi per i poveri significa scegliere la loro causa, i loro
interessi; ed escludere, perciò, necessariamente gli interessi
conservatori dei ricchi, il loro stile di vita (che è un insulto ai
poveri), i loro privilegi, i loro profitti, la loro gestione parziale
del potere, i loro sfruttamenti.
Se è vero che la politica è occuparsi, non di pettegolezzi e spartizioni
di poltrone, ma del bene comune, allora soprattutto di questi uomini e
di queste donne, e delle soluzioni possibili ai loro problemi, ci
piacerebbe sentir parlare dai candidati alle primarie di ottobre e da
quelli alle politiche del prossimo anno. |
21 agosto
Venerdì le
indiscrezioni sull'Outlook, poi corrette dal Fondo
Ora le previsioni tengono conto del pil del secondo trimestre
Fmi rivede la stima sull'Italia
crescita zero anziché -0,3%
Washington, la sede del
Fmi
ROMA - Crescita zero. Questa la stima del Fondo monetario
internazionale per l'Italia. Venerdì erano circolate indiscrezioni
giornalistiche secondo cui il Fmi prevedeva una contrazione dello
0,3%. La previsione è stata ricalcolata, secondo quanto apprende
l'Ansa da fonti del Fondo Monetario da Washington, tenendo conto del
buon dato del secondo trimestre reso noto dall'Istat l'11 agosto. Il
dato potrebbe avere un effetto di miglioramento anche sul 2006, per
il quale il Fmi stimava una crescita dell'1,5%.
Il pil del secondo trimestre dell'anno è risultato in aumento dello
0,7% rispetto al trimestre precedente e dello 0,1% nel confronto con
lo stesso periodo del 2004. E quando venerdì erano state diffuse le
indiscrezioni sulle stime del Fmi, il governo aveva sottolineato
come quelle previsioni non tenessero conto di quel dato.
Secondo quanto spiegano fonti di Washington, i dati resi noti dal
sito internet del Financial Times Deutschland venivano da una
bozza del World Economic Outlook vecchia di un paio di settimane,
che quindi non teneva conto del dato del pil del secondo trimestre
pubblicato dall'Istat l'11 agosto.
I dati dell'Outlook, si precisa dal Fondo, sono provvisori fino alla
pubblicazione alle riunioni di fine settembre e vengono
costantemente aggiornati: per quanto riguarda l'Italia questo è
avvenuto sempre venerdì.
Le previsioni del Fmi risultano quindi ora uguali a quelle del
governo italiano, che nel Dpef aveva ridotto la previsione di
crescita per il 2005 a zero e aveva indicato quella per il 2006
all'1,5%. Ma non è escluso che nella versione finale dell'Outlook
quest'ultimo dato non risulti lievemente migliore per un effetto di
trascinamento positivo frutto del passaggio da -0,3% a zero.
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8 agosto
Ha perso le
regionali e la battaglia sulle tasse
ma non si rassegna all'invecchiamento
Il look, la riforma più riuscita
del premier che sfida il tempo
Per Scapagnini, suo medico, il Cavaliere
"è tecnicamente immortale"
di SEBASTIANO MESSINA
Silvio Berlusconi
Le esportazioni calano, il potere d'acquisto diminuisce, il Pil
precipita, ma la principale preoccupazione del presidente del
Consiglio resta quella di aumentare il numero dei suoi capelli. "Ci
rivediamo tra un anno" deve avergli detto il chirurgo,
accompagnandolo alla porta, il 5 agosto del 2004. E lui dopo un anno
esatto si è ripresentato, con una tempestività svizzera: se fosse
altrettanto puntuale nel mantenere le promesse elettorali, oggi gli
italiani potrebbero andare in vacanza con i soldi risparmiati con le
tasse, salutare il poliziotto di quartiere e attraversare il Ponte
sullo Stretto.
Ma siccome ormai viviamo in una Bandana Republic, lasciamo perdere
le pignolerie e rallegriamoci del progressivo ringiovanimento
estetico del nostro premier, il quale - come ci ha assicurato il suo
medico personale, il dottor Scapagnini - "è tecnicamente immortale"
e ha un'età biologica inferiore di 12 anni alla sua età anagrafica.
Ed è un peccato che le prossime elezioni arrivino in primavera e non
nell'autunno del 2006, altrimenti ci sarebbe il tempo per un terzo
trapiantino e Berlusconi potrebbe sfoggiare un ciuffo alla Little
Tony, dimostrando non 68 né 58 ma solo 48 anni (e persino 38, con il
solito fotoritocco).
In ogni caso, le foto scattate per i manifesti del 2001, quelle
sulle quali il Cavaliere appariva con più capelli di quanti non ne
avesse allora, l'anno prossimo non potranno essere più utilizzate,
ma per la ragione opposta: il rinfoltimento chirurgico ha ormai
superato quello, diciamo così, fotografico. Ma proprio per questo
lui sarà felice di rifarle, le foto elettorali, ostentando ed
esibendo il lavoro del dottor Rosati.
Dopo aver perso la
battaglia per la riduzione delle tasse, dopo la sconfitta sul fronte
dell'economia, dopo essere stato battuto alle regionali, il
presidente del Consiglio torna dunque a cimentarsi nella sua sfida
personale contro la calvizie, da lui citata (insieme alla vittoria
sul cancro) come esempio limpido di affermazione della forza di
volontà. E' una sua vecchia fissazione, questa: uno che ha
conquistato sette scudetti, quattro coppe dei Campioni e due
Supercoppe non poteva darla vinta ai recettori degli androgeni,
invisibili colpevoli della sua calvizie.
La sua recherche del capello perduto è diventata la sua battaglia
contro il tempo e contro la natura, la bandiera della sua ribellione
all'invecchiamento dei comuni mortali. E chi se ne importa se
qualcuno dà di gomito al vicino, durante i vertici dei Grandi,
sussurrando che a poco a poco la capigliatura del premier italiano
sta superando quella di Putin, lasciando il francese Chirac solo con
la sua autorevolissima stempiatura.
Chi se ne importa se fioriscono nuove battute e nuove barzellette,
se poi i sondaggi rivelano che per il 37 per cento dell'elettorato
il suo aspetto è migliorato, e per il 23 per cento è aumentato
addirittura il suo grado di autorevolezza, grazie al prodigioso
trapianto di bulbi piliferi.
Certo, qualcuno si domanderà: perché proprio adesso? Forse perché
ancora gli brucia la sconfitta del 1996 con quel Prodi che, pur
avendo solo tre anni meno di lui, ha tanti capelli in più (e tutti
neri, per giunta). O forse perché gli è tornato in mente un vecchio
libro di Artur Bloch ("La legge di Murphy") ovvero la regola di
Noble: "A parità di condizioni, un uomo calvo non verrà eletto
presidente degli Stati Uniti". Corollario: "Di fronte a una scelta
tra due candidati calvi, gli elettori voteranno per il meno calvo
dei due".
Prepariamoci dunque a rivedere la bandana presidenziale (e magari
anche quella di Emilio Fede, solerte imitatore del suo idolo), e a
confrontare, mese dopo mese, il Berlusconi "prima della cura" e
quello "dopo la cura". Sapendo in partenza, però, che il
trapianto-bis del Berlusconi-ter funzionerà più di un'ospitata a
"Porta a porta", più di mille poster 6x3, più di cento servizi del
Tg1. Che c'è un'Italia che ha altro per la testa eppure - a quanto
pare - si lascia sedurre dall'"immortalità tecnica" dell'uomo più
ricco del paese.
E che le nostre ironie, le nostre barzellette, i
nostri sfottò e le nostre caricature non scalfiranno
l'effetto-prodigio della più riuscita riforma berlusconiana: quella
del suo look.
5 agosto
Nuovi cittadini
GIANFRANCO BETTIN
Difficile immaginare un'accoppiata di provvedimenti così
precisamente reazionaria come quella messa a segno, in due o tre giorni, dal
consiglio di stato e dal consiglio dei ministri a proposito del diritto di voto
amministrativo degli immigrati extracomunitari. Ha cominciato il consiglio di
stato, rovesciando un proprio parere di un anno fa (il n. 8007 del 28 luglio
2004) favorevole ai comuni che volessero, con modifica del proprio statuto,
attribuire agli stranieri extracomunitari il diritto di voto attivo e passivo
nei consigli di circoscrizione, e quindi bocciando l'iniziativa di alcuni comuni
piemontesi, tra i quali Torino. Su questo provvedimento è subito balzato il
governo, come un gatto di fronte a un boccone ghiotto, cassando la delibera del
consiglio comunale di Genova che il 27 luglio 2004 aveva conferito agli
immigrati in Italia da almeno 10 anni e in regola con il permesso di soggiorno
il diritto di voto per le elezioni comunali e circoscrizionali.
Il «busillis» considerato insormontabile dal consiglio di stato risiede nella
supposta mancanza di una base giuridica nazionale a supporto di queste decisioni
locali e, più in generale e più radicalmente, nella potestà della scelta in
questa materia che starebbe esclusivamente nelle mani dello stato. Forzature
locali non sarebbero ammesse. La destra festeggia, e non ci si stupisca per
questo entusiasmo centralista della Lega. Le (poche per fortuna) regioni che
amministra sono esempi preclari di centralismo, ambiscono a essere staterelli a
base etnica. A Roma, finché può, si comporta dunque allo stesso modo.
Il carattere reazionario dei provvedimenti in questione deriva dal loro
contrapporsi allo spirito e alla sostanza dei processi di partecipazione e di
inclusione avviati a livello locale, dei quali il diritto di voto è elemento
cardine. Un diritto che si radica negli articoli 48 e 51 della Costituzione, i
quali garantendo il diritto di voto e l'accesso agli uffici pubblici a tutti i
cittadini non lo escludono per nessuno e, anzi, lo incoraggiano nei fatti, in
una visione inclusiva della cittadinanza. Un diritto che altri paesi europei
hanno da tempo riconosciuto per le elezioni amministrative, paesi come l'Irlanda
(dal 1963), la Svezia (dal 1975), la Danimarca (dal 1981), l'Olanda (dal 1985) e
la Norvegia (dal 1993). Un diritto contemplato dalla risoluzione del parlamento
europeo del 15 gennaio 2004 che introduce il concetto di cittadinanza civile,
che permette di attribuire ai cittadini dei paesi terzi uno status con diritti e
doveri, compreso il diritto di voto alle elezioni amministrative ed europee,
rilevando il positivo ruolo di integrazione che può svolgere.
Un diritto, ancora, ed ecco evitato il presunto busillis, che il titolo V
della Costituzione italiana recentemente modificato consente agli enti locali di
disciplinare laddove all'art.114, secondo comma, recita: «i comuni, le province,
le città metropolitane e le regioni sono enti istituzionali con propri statuti,
poteri e funzioni, secondo i principi fissati dalla Costituzione». Nella prassi
e nella norma consolidata lo statuto di un comune è l'atto che stabilisce il
patto di cittadinanza e le regole di convivenza. E' dunque dagli statuti
comunali che può e deve venire quell'innovazione nel rapporto tra istituzioni e
«nuovi cittadini» che va nel senso dell'inclusione e della partecipazione. I
comuni più lungimiranti lo stanno facendo da tempo, in numero crescente. I
reazionari lo vogliono impedire, impedendo che la cosa pubblica sia davvero di
tutti, che tutti se ne sentano parte.
3 agosto
La Francia licenzia
prima
Villepin introduce contratti-prova lunghi due
anni: il padrone rescinde quando vuole
Sindacati spiazzati La nuova normativa avrebbe dovuto entrare in vigore da
settembre, ma il premier ha voluto anticiparla per decreto. Le organizzazioni
dei lavoratori avevano già fissato le proteste, e ora dovranno scioperare a
giochi fatti
ANNA MARIA MERLO
PARIGI
E'il «blitz dell'estate» secondo sindacati e opposizione.
Ieri, il primo ministro Dominique de Villepin ha fatto passare per decreto una
profonda riforma del diritto del lavoro, che aumenta il precariato, che già
riguarda il 75% delle nuove assunzioni in Francia. Per il momento è riservato
solo alle piccole imprese, con meno di 20 dipendenti, ma il Medef (la
Confindustria francese) già chiede che venga esteso a tutte: il «contratto nuove
assunzioni» permette di assumere con un periodo di «prova» allungato fino a due
anni, durante il quale il datore di lavoro (e anche il dipendente) potrà mettere
fine al contratto senza dover dare giustificazioni, sia di carattere economico
che di «errore» da parte della persona impiegata. L'idea liberista del governo
Villepin è che l'occupazione crescerà se i datori di lavoro potranno licenziare
con più facilità. La lotta alla disoccupazione, che tocca il 10,1% della
popolazione attiva (c'è stato un leggero miglioramento dello 0,1% a giugno), è
la principale preoccupazione del nuovo governo, in vista delle legislative e
delle presidenziali del 2007. «Questo progetto non mira alla crescita e alla
creazione di posti di lavoro - ribatte Maryle Dumas, della Cgt - ma a mettere
nuovi mezzi a disposizione degli imprenditori per estendere il precariato».
Stesso tono dal partito socialista: per il portavoce, Julien Dray, questa svolta
liberista «sarà senza effetto sull'occupazione e sul potere d'acquisto», mentre
rappresenta «il colpo di grazia al diritto del lavoro, perché ormai i contratti
a termine saranno la regola, quelli a tempo indeterminato l'eccezione».
Villepin, che in un primo tempo aveva previsto l'entrata in vigore del nuovo
contratto a settembre, l'ha anticipata con un blitz già da domani. Così i
sindacati, che hanno previsto una giornata di protesta per il 12 o 13 settembre,
si troveranno di fronte a una situazione di fatto, che renderà più difficile la
mobilitazione.
E' da una trentina d'anni che l'organizzazione del padronato francese (prima il
Cnpf poi il Medef) chiede un alleggerimento delle norme che regolano i
licenziamenti. Già Jacques Chirac nell'86, quando era primo ministro, aveva
abrogato l'autorizzazione amministrativa ai licenziamenti, fatta votare dalla
sinistra nel primo periodo dell'era Mitterrand.
Tra i decreti approvati ieri - Villepin ha scelto di ricorrere a questa forma
«d'emergenza» che bypassa il parlamento - anche la possibilità di non
conteggiare più nel numero dei dipendenti gli assunti con meno di 26 anni. «Una
provocazione», reagiscono i sindacati, perché, tra l'altro, incide sul numero di
dipendenti necessari perché scatti l'obbligo, per l'azienda, «di rispettare i
diritti sindacali». Ma le organizzazioni dei lavoratori contestano tutta la
filosofia dell' «emergenza lavoro» di Villepin. Aumentare il precariato,
difatti, non fa che accrescere la principale diseguaglianza che colpisce oggi i
lavoratori: la «sicurezza» del posto, con tutto ciò che implica (possibilità di
accedere a un prestito bancario, a un contratto di affitto ecc., cioè la
possibilità di programmare il futuro).
Villepin, che sa di essere a capo di un governo di emergenza che deve salvare il
salvabile per l'Ump di Chirac, si è rifiutato ieri di fare previsioni
sull'effetto che le nuove norme sui licenziamenti facili avranno sulle
assunzioni. Ma secondo un sondaggio realizzato a metà luglio presso le imprese
con meno di 20 dipendenti, ci sarebbe un potenziale di 500 mila assunzioni. Il
96% delle imprese francesi hanno meno di 20 addetti e rappresentano poco meno di
un terzo dei posti di lavoro sui 22 milioni di dipendenti che conta il paese.
Già oggi, intorno ai 5 milioni hanno un contratto precario, o a part-time o a
tempo determinato. Ma nelle nuove assunzioni prevalgono i contratti precari.
Dunque Villepin ribalta la logica: «Mentre il nostro diritto del lavoro è uno
dei più protettivi d'Europa, gran parte dei lavoratori dipendenti esprimono un
sentimento di insicurezza sul lavoro». E' già prevista una valutazione del
«contratto nuove assunzioni» nel 2008, quando potrebbe essere esteso a tutte le
imprese francesi.
ROMA
Terrorista per caso
La storia del pakistano fermato al Vittorio
Occupato. Sabato un corteo
CI. GU.
ROMA
La sua unica colpa è di fare l'ambulante davanti al
McDonald's di Ostia. E di servirsi, ogni tanto, del gabinetto del fast-food. Per
questo Mirza Abdul Rehman, paksitano, ha passato ventiquattr'ore nella questura
di Roma. E'lui l'uomo fermato dopo la retata che venerdì scorso ha colpito il
centro occupato Vittorio di Ostia e rilasciato dal gip, che non ha ravvisato
alcun elemento di pericolosità nella storia di Abdul. Ha 44 anni, un pacemaker
al cuore, e da quanto si è riuscito a capire sarebbe sospettato di aver
posizionato un fumogeno davanti al ristorante americano. Un episodio accaduto
qualche tempo fa, che suscitò scarsa attenzione persino nella cronaca locale. La
polizia ha fatto irruzione al Vittorio Occupato alle sei di mattina, un
rastrellamento in piena regola. «Gli agenti non sapevano neanche bene che fare,
hanno preso le persone a caso usando maniere pesanti e alla fine di mezzo c'è
finito Abdul», ha spiegato ieri Luca Faggio, uno degli occupanti del centro
durante la conferenza stampa convocata per denunciare questo primo eclatante
esperimento dei controlli antiterrorismo. Sul fermo di Abdul se ne sono dette di
tutti i colori, a cominciare dal fatto che il pakistano fosse l'anello di
collegamento tra il terrorismo di stampo anarco insurrezionalista e quello di
matrice islamica. Lui ancora fatica a credere quello che gli è capitato. Non ha
mai avuto problemi con la polizia, e all'improvviso si è trovato chiuso in una
cella della questura «con pugni, calci e mi chiamavano bastardo». Perdipiù, ci
tiene a sottolineare, «neanche la medicina per la pressione». Secondo il
deputato di Rifondazione Giovanni Russo Spena, che ha censurato qualsiasi
tentativo di criminalizzare le esperienze dei centri sociali, il fermo del
pakistano potrebbe essere «il primo caso conosciuto del fermo fino a 48 ore
previsto dal pacchetto Pisanu votato, purtroppo, a larga maggioranza dal
parlamento». La senatrice dei Verdi Tana De Zulueta ha invitato «a vigilare con
attenzione», ricordando che certi atteggiamenti repressivi permangono anche dopo
la fine dell'emergenza. Grande preoccupazione è stata espressa dai
rappresentanti delle occupazioni romane: il timore (quasi una certezza) è che
con la scusa del terrorismo si vogliano «risolvere» le tante vertenze ancora
aperte. Facile: basta gettare il sospetto di terrorismo su qualsivoglia
esperienza fuori dal controllo delle istituzioni. Per dare una risposta di segno
diverso, sabato sera alle 21,30 è stata convocata una manifestazione al Pontile
di Ostia