Archivio gennaio 2005
28 gennaio
Esquivel: «Il debito dei Paesi |
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Intervista al premio Nobel per la pace |
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Porto Alegre Aldolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la pace, si fa portavoce dell'appello di Jubilee South, sottoscritto da più di mille organizzazioni di tutto il mondo, per l'immediata e incondizionata la cancellazione totale del debito estero dei paesi colpiti dallo tsunami.
La moratoria è soltanto una sospensione, e non è nemmeno stata approvata da tutti i paesi. Quello che bisogna abbattere, invece, è il meccanismo di dominio che il debito rappresenta e che costringe i paesi a distruggere la propria sanità, il proprio sistema educativo e le proprie infrastrutture per investire ogni risorsa esclusivamente nel pagamento degli interessi. Dopo lo tsunami i cosiddetti paesi donatori hanno promesso 6 miliardi di dollari di aiuti, ma i paesi del Sud del mondo ogni anno pagano 23,63 miliardi di dollari soltanto per saldare gli interessi. Siamo di fronte a un vero e proprio genocidio sociale compiuto dal Fondo Monetario, dalla Banca Mondiale e dal G8. I numeri di questo genocidio sono presto detti: 35 mila bambini che, secondo la Fao, muoiono di fame ogni giorno. Dobbiamo dire basta al pagamento del debito infinito e criminale, prima per i paesi colpiti dallo tsunami e poi per tutti gli altri.
Potrei dire di no, visto che sono anni che continuiamo a chiedere la cancellazione del debito, ma ho fiducia perché vedo un movimento senza precedenti composto di una massa enorme di persone che stanno cominciando a incidere profondamente sulla politica dei governi. Credo però che sia necessario fare un salto di qualità notevole per riuscire a cambiare radicalmente la situazione. Mi viene in mente una storia raccontata da Eduardo Galeano a proposito di un cuoco molto democratico che, a un certo punto, decide di indire un'assemblea di tutti i polli, i pesci, le braciole e le bistecche che cucinerà nel corso della serata, affinché esprimano la propria opinione sul tipo di salsa con il quale vogliono essere cotti. Si alza una gallina e dice: io, veramente, preferirei non venire cucinata per niente. Mi dispiace, dice il cuoco, questo argomento è fuori dal tema della discussione. A volte ho la sensazione che l'unico spazio di manovra che ci viene concesso consista, essenzialmente, nella possibilità di decidere con che salsa farci cucinare. La globalizzazione ha provocato una concentrazione senza precedenti del potere in poche mani. O riusciamo a reagire con alternative concrete, basate sulla lotta dei popoli che stanno costruendo forme di resistenza ovunque, oppure saremo condannati per sempre a ragionare soltanto di salse?
Non credo proprio. Sono stato in Iraq prima della guerra e ho visto quanto soffre la gente comune. Su di un paese allo stremo è intervenuta una grande potenza, che ha provocato più di diecimila morti senza peraltro riuscire a stabilizzare la situazione. E non si parla più di Afghanistan dove gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno massacrato migliaia di persone nell'indifferenza generale. In entrambi i casi si è trattato di punizioni collettive della peggiore specie. Non bisogna stancarsi di sottolinearlo: i popoli non possono essere considerati responsabili di quello che fanno i loro governanti. Sabina Morandi
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26 gennaio
Quattro volte Sì
Una legge tutta sbagliata.
La Chiesa arroccata su posizioni dogmatiche. Il politico e filosofo spiega
perché i referendum vanno sostenuti
colloquio con Massimo Cacciari
di Chiara Valentini
È
un paese abbastanza confuso e frastornato quello che con sempre maggiori
probabilità dovrà esprimere la sua opinione a proposito dei referendum sulla
fecondazione assistita, fra manifesti strappacuore dove un feto che sembra già
un neonato implora 'Mamma non uccidermi, mamma ti voglio bene'. Dove improbabili
mamme-nonne rumene vicine alla settantina sono esibite in tv come spauracchi di
quel che potrebbe accadere se - dio non voglia - si metterà mano alla legge 40.
Dove i vescovi invitano la grande massa dei cattolici a non andare a votare per
far mancare il quorum e dove da molte parti si agita il fantasma
dell'eugenetica. Di questa Italia dove la ragionevolezza rischia di smarrirsi
ancor prima che il confronto sia cominciato abbiamo discusso con Massimo
Cacciari, il politico-filosofo che è una delle teste pensanti della Margherita.
E che, dopo aver amministrato a lungo Venezia, è oggi preside della facoltà di
Filosofia all'università Vita-San Raffaele di Milano.
Professor Cacciari, il cardinal Ruini ha fatto sapere che la legge sulla
fecondazione assistita non si tocca e che la via più sicura perché questo
succeda è il non voto dei cattolici. Che cosa ne pensa?
"Non mi sembra né giusto né corretto. Di fronte a una questione di principio la
Cei dovrebbe invitare al confronto. Dovrebbe dire ai fedeli 'andate a votare,
sostenete nell'urna le nostre posizioni'. Puntare sul disinteresse, cercar di
sopire invece che chiarire ha poco senso. Se veramente si tratta di questioni
tanto importanti la gente deve essere spinta a esprimersi secondo coscienza".
Molti cattolici, nel centro-sinistra ma anche nel Polo, avevano sperato che
al contrario si potesse evitare lo scontro modificando in Parlamento le norme
più inaccettabili, trovando un compromesso.
"Erano illusioni. Nessuna mediazione è possibile finché non si rimuove un punto
fondamentale, la cosidetta tutela del concepito. Sostenere che l'embrione deve
essere trattato come una persona, come un essere umano perfettamente formato, è
un'assurdità, che introduce nel nostro diritto la categoria dell'omicidio
dell'embrione. Da lì discendono le conseguenze più aberranti. È evidente che se
l'embrione è una persona non posso congelarlo, non posso usarlo per la ricerca
scientifica, sono impiccato a tutti i divieti di questa legge".
Quindi pensa che l'unica risposta possa venire dai referendum?
"Sì. Da laico considero quella convinzione del tutto infondata da un punto di
vista logico e razionale. Solo se la rimuovo potrò poi discutere nel merito
delle garanzie da introdurre. Ma anche nell'ottica religiosa mi meraviglia che
la Chiesa si sia infilata in una posizione così rigidamente dogmatica".
A che cosa si riferisce?
"Al fatto che anche la Chiesa ha avuto nel corso dei secoli posizioni diverse.
Grandi teologi come Alberto Magno e in parte come San Tommaso, oltre allo stesso
Dante, dicono sia pure con parole diverse che l'anima viene infusa da Dio solo a
partire da un certo momento, quando il feto è già formato. Con il massimo
rispetto possibile vorrei far notare che quella dell'embrione considerato
persona è una scelta di 'questa' Chiesa. Non fa parte di una tradizione
teologica consolidata e non la si ritrova nelle parole di Gesù. Non c'è bisogno
di scomodare Galileo per sapere che le posizioni della Chiesa cambiano nel
tempo, sui problemi legati alla scienza ma non solo. Anche quello che oggi
sembra un punto irrinunciabile in futuro potrà cambiare".
Cosa chiedono i quattro referendum su cui andremo a votare in primavera
Il concepito Il
referendum vuole cancellare l'articolo 1 che riconosce al "concepito" gli stessi
diritti di una persona già nata.
Eterologa Il referendum chiede di cancellare il divieto di fecondazione
eterologa, quella cioè in cui si utilizzano ovuli o spermatozoi di donatori
estranei alla coppia.
Ricerca Il referendum chiede di cancellare gli articoli che limitano la
libertà di ricerca sugli embrioni per scoprire terapie contro gravi malattie.
Salute della donna Il referendum vuole cancellare l'obbligo di creare in
vitro non più di tre embrioni e di impiantarli tutti nell'utero della donna. E
reintroduce la diagnosi pre-impianto.
SCHWARZY
«Una
vergogna per l'Austria»
Arnold Schwarzenegger, il
governatore della California ma anche cittadino austriaco, dovrebbe essere
privato della cittadinanza del suo paese d'origine. La proposta viene da Peter
Pilz, esponente del Partito verde austriaco, che la motiva con la decisione del
governatore austro-americano di confermare l'esecuzione, mercoledì scorso, di
Donald Bearslee. Schwarzy è «probabilmente il più famoso cittadino austriaco
all'estero - ha detto Pilz - e con la sua decisione ha gravemente danneggiato la
reputazione dell'Austra». Le condanne a morte, ha continuato nella sua richiesta
inoltrata al governo di Vienna - sono «inaccettabili in Austria e in Europa e
nessun cittadino austriaco può macchiarsi di un assassinio di stato». E'
improbabile che la richiesta di Pilz venga accettata.
Bolivia sull'orlo della secessione
S. Cruz, Padania
boliviana, vuole l'indipendenza
MAURIZIO MATTEUZZI
Anche la lontana Bolivia ha
i suoi padani, che reclamano l'autonomia, minacciano la secessione e in realtà
ambiscono all'indipendenza. Sono i
cruceños, gli abitanti di Santa Cruz,
capitale dell'oriente boliviano - le terre basse rispetto e contro l'altipiano
andino -, capitale economica - quasi il 29% del prodotto nazionale lordo, il 50%
delle esportazioni totali, il 38% delle imposte nazionali -, il dipartimento più
grande della Bolivia (370 mila km quadrati, quanto l'Italia) e il più ricco
grazie a agro-business, allevamento e energia. Da sempre insofferenti e
sprezzanti di fronte agli «andinos»
dell'altipiano e dell'occidente -, hanno trovato l'ennesima occasione che
cercavano - sono almeno 5 i «levantamientos
cruceños» nel corso del `900 - nella
debolezza del presidente della repubblica Carlos Mesa.
Mesa è entrato al Palacio Quemado - la sede della
presidenza a La Paz - nell'ottobre del 2003, dopo la «rivolta del gas», il
sanguinoso sommovimento popolare che costrinse alle dimissioni e alla fuga il
presidente neo-liberista e filo-americano Gonzalo Sanchez de Losada. Mesa era il
vicepresidente e la sua ascensione fu favorita dal fatto di essere un
indipendente svincolato dagli screditatissimi partiti politici. Ma questa si è
rivelata anche la sua debolezza. Perché per rispondere colossali problemi
economici e sociali del paese più povero dell'America latina si è ritrovato
solo, senza una base parlamentare nel Congresso.
I nodi sono venuti subito al pettine: il gas e l'acqua,
contro i tentativi delle transnazionali - in larga misura già riusciti - di
impossessarsene e privatizzarli; la coca, contro l'imposizione Usa di estirpare
con la forza le colture millenarie; gli intrighi e le manovre dei partiti
tradizionali - in qualche misura, lo stesso Mas del leader cocalero Evo
Morales, favorito per le presidenziali del 2007 -; le pulsioni scissioniste di
Santa Cruz.
Nel luglio 2004 Mesa ha promosso un referendum sul gas che
ha vinto, ma la nuova «Ley de Hidrocarburos» non si è ancora vista. E
neppure la promessa assemblea costituente.
In dicembre è stata la volta delle elezioni municipali, che
hanno sancito una nuova debacle dei partiti tradizionali (ma non del Mas,
diventato il primo partito) e hanno portato alla ribalta una costellazione di
movimenti civici e di sindaci a cui Mesa cerca di fare riferimento.
Il 10 gennaio El Alto, la città gemella - e poverissima -
sull'altipiano che domina La Paz, si è rivoltata contro Aguas de Illimani,
la filiale boliviana della transnazionale francese Suez Lyonnaise des Eaux,
che gestisce la fornitura idrica delle due città; e Santa Cruz si è rivoltata
contro l'aumento del 25% dei prezzi del combustibile decisa il 31 dicembre da
Mesa. Il presidente ha fatto parzialmente marcia indietro, impegnandosi alla
rescissione del contratto di gestione ad Aguas de Illimani e abbassando
l'aumento del diesel dal 25 al 15%. Ma i cruceños non si sono fermati e
hanno inalberato la bandiera dell'autonomia. Il Comité Civico Pro Santa Cruz,
pagato da agricoltori e industriali locali, si è impossessato della città e
Ruben Costas, il suo leader, ha convocato per venerdì 28 un cabildo abierto,
una sorta di assemblea cittadina che deciderà l'autonomia piena con «la nomina
immediata di un governo provvisorio di Santa Cruz». Una proclamazione
d'indipendenza. «Una decisione senza ritorno», ha detto.
La situazione è al limite della rottura. Le pulsioni
scissioniste dell'opulenta Santa Cruz sono molto mal viste nel resto del paese.
I comandi della forze armate sono riuniti. I sindaci, i sindacati, le
organizzazioni imprenditoriali e quelle di campesinos e indigeni sono
prima ancora che con Mesa con la difesa «della democrazia» e contro le manovre
del «gruppo di potere oligarchico» cruceño . I partiti fingono di mediare
ma in realtà giocano alla destabilizzazione di Mesa. Gli unici impegnati nella
mediazione sono la chiesa cattolica, il defensor del pueblo e l'Assemblea
permanente per i diritti umani. Mesa ha detto che non si dimetterà. Ma in questo
momento le prospettive possibili sono o elezioni anticipate, o dimissioni, o
l'invio dell'esercito. Una più critica dell'altra.
20 gennaio
Il secondo regno di Bush
tra l'America e il mondo
dal nostro inviato
VITTORIO ZUCCONI
WASHINGTON -
Duecento e quattro anni dopo il giuramento di Thomas Jefferson, il primo
presidente americano a essere incoronato a Washington nel cantiere di un
Campidoglio in costruzione, George Walker Bush poserà questa mattina la mano
sulla Bibbia e chiederà, come tutti i suoi predecessori, l'aiuto di Dio, "so
help me God", per governare gli Stati Uniti d'America fino al 2009.
Da questa cifra, da due secoli e più di democrazia elettorale ininterrotta da
guerre, da maremoti migratori, da aggressioni esterne, da assassini politici e
da scandali devastanti, è obbligatorio partire quando un presidente, nuovo o
rieletto che sia, sale all'ombra del cupolone candido, sul terreno del Congresso
dove va per riaffermare con quel gesto la primazia originaria del potere
legislativo e federalista, sul potere esecutivo centrale.
La inauguration è, prima di essere la incoronazione di un vincitore, il Te Deum
di una democrazia che celebra se stessa e la propria capacità di sopravvivere
senza smarrirsi, un rito mai intenso come in questa prima cerimonia dopo quell'11
settembre che per un attimo parve mettere in discussione l'esistenza e la natura
degli Stati Uniti.
La festa dell'insediamento non è dunque l'incoronazione di un uomo, di un
Borbone o di un Windsor, per quanti balli, ricevimenti, gala, abiti lunghi e
soldi (40 milioni di dollari questa volta, un record) siano bruciati. È,
soprattutto quest'anno, un Thanksgiving politico, la festa del Ringraziamento di
una nazione che persevera e prospera. E in momenti come questo ritrova e rinnova
la propria identità, che non è un'identità in negativo, rabbiosamente etnica,
confessionale o xenofoba, ma costituzionale.
Collocare nella prospettiva storica l'insediamento è sempre una necessità per
chi, nel mondo, assiste al rito di questa "monarchia elettiva". Ma lo è
specialmente quando al (temporaneo) trono americano sale, o risale, un
personaggio controverso come George W. Bush che incarna, secondo il sondaggio
internazionale dell'istituto demoscopico Pew, tutto ciò che l'Europa
Occidentale, la galassia islamica, la gran parte dell'Asia (meno l'India) e
l'America Latina, detestano degli Stati Uniti. Mai, da quando esistono le
ricerche d'opinione, neppure nei decenni dell'antiamericanismo pilotato dal
Cremlino, il prestigio internazionale di questo Paese e del suo Presidente era
stato così basso e l'impopolarità dell'America tanto elevata.
È un'antipatia trasversale e transideologica generata inizialmente dalla figura
dello stesso "W", dicono i ricercatori, ma che sta inesorabilmente tracimando da
lui alla nazione che questa volta lo ha davvero eletto. Dunque il mito di un
Bush "usurpatore", escrescenza estranea al corpo americano, che per quattro anni
ha sostenuto coloro che ancora distinguevano fra lui e gli Usa cade oggi, nel
bene e nel male.
La identificazione fra il "paese reale" e il "paese legale" è avvenuta e sarà
sancita in questa capitale trasformata in un campo di Marte, tra incubi e
succubi del terrorismo. Rammentare la transitorietà delle persone e la
permanenza della democrazia serve oggi, come se ci fosse bisogno di abbassare la
temperatura nel gelo di una Washington artica e dunque fausta per Bush che
ricorda il freddo che accolse il primo insediamento del suo idolo Reagan, a
raffreddare tanto l'esaltazione dei supporter quanto la rabbia impotente dei
delusi.
Ai primi, che hanno salutato la vittoria di Bush come l'apoteosi e la
"ratificazione" (sono parole sue) della guerra in Iraq, dell'unilateralismo
interventista, delle farneticazioni neo conservatrici, dello sprezzo per la
Vecchia Europa e per l'Onu, delle orribili bugie sulle armi, va ricordato che in
democrazia una vittoria elettorale non fa una verità, fa soltanto un governo. E
neppure otto anni, il massimo che la Costituzione conceda, possono davvero
rivoluzionare e ribaltare una nazione troppo massiccia, troppo articolata,
troppo poco statalista, per essere rivoltata da un governo.
Ai secondi, agli orfani inconsolabili della mitica "altra America" ancora
impigliati nel culto dei morti, nell'adorazione di una sinistra che non esiste
più nei leader e nella base elettorale, va seccamente ripetuto il brusco monito
che il numero due della commissione Esteri del Senato, il democratico Joe Biden,
tutto meno che un fan di Bush, ha lanciato in questi giorni, rivolto all'Europa:
"Get over it! Get over it!", fatevela passare e rassegnatevi, George W è il
legittimo Presidente e con lui noi dovremo trattare e vedercela per quattro
anni, in questo spicchio di mondo atlantico euroamericano che sta diventando,
giorno dopo giorno, sempre più periferico e marginale, quanto più aumenta la sua
frammentazione.
Ascolteremo oggi con quali formule, comincerà il secondo atto, il "Bush Part II"
(o III, se si conta anche il quadriennio di suo padre) ma lo ascolteremo con lo
scetticismo che deve accompagnare questi discorsi di investitura, scritti da
retori e sceneggiatori di professione. L'esperienza dello stesso Bush, che aveva
promesso nel discorso del 2001 il contrario di quello che poi avrebbe fatto, ci
insegna che estrapolare una presidenza dalle parole di un discorso è un
esercizio di piaggeria o di antipatia, destinato a fallire quando la retorica
incontra la realtà del mondo. L'ottimismo pacifista di un Wilson,
l'isolazionismo di un Roosevelt, come il non interventismo di un Bush, vengono
demoliti in pochi minuti dai cannoni della Krupp, dai siluri giapponesi a Pearl
Harbor o dagli assassini delle Torri Gemelle. Già è arduo tracciare bilanci
consuntivi sulle presidenze americane, come dimostrano le continue revisioni
storiche. Tracciare un bilancio preventivo è impossibile, quando non è
semplicemente disonesto.
Ma una cosa si può dire con certezza. Questo cinquantanovenne ingrigito e, come
tutti, invecchiato dalla responsabilità immane della presidenza, non è lo stesso
uomo che apparve quattro anni fa, sulla balconata del Campidoglio, come un
personaggio smarrito e burbanzoso, in cerca d'autore, vestito d'un abito che
"pareva stargli troppo largo, passato da un fratello maggiore", come notò David
Ignatius sul Washington Post.
Questa mattina, l'immancabile abito blu a un petto con bandierina all'occhiello
che indosserà sotto il cappotto fumo di Londra - se Laura lo convincerà a
indossarlo superando il machismo texano nonostante la stufetta nascosta ai piedi
sotto la balaustra - lo vestirà perfettamente, perché il presidente
"accidentale" del 2001 è divenuto il presidente reale di questo 2005. È divenuto
il comandante della nave America, piaccia o no la rotta che la nave sta
seguendo. Altri, dopo di lui, cambieranno navigazione e dunque non si esaltino
troppo i cortigiani del bushismo, né si deprimano troppo gli antipatizzanti.
Ancora una volta, come ha sempre fatto, l'America spiazzerà amici e avversari,
se non addirittura con il secondo Bush, certamente con chi verrà dopo, nella
impermanenza delle dottrine e nella permanenza del pragmatismo.
Nel suo discorso di accettazione, tenuto in ritardo nel marzo del 1801 dopo due
mesi di risse parlamentari per decidere se lui avesse davvero vinto la Casa
Bianca, Jefferson propose alla propria giovanissima nazione e al resto del mondo
"pace, commercio, amicizia onesta con tutti i popoli e vincoli di alleanza con
nessuna". Ecco. Tutto passa e tutto ritorna, sotto i ponti d'America.
19 gennaio
IRAN
La
Nobel Ebadi: basta celle-tortura
La Premio Nobel per
la pace iraniana Shirin Ebadi ha denunciato ieri come «forma di tortura»,
assieme ad un gruppo di dissidenti, l'uso da parte delle autorità iraniane di
lunghi periodi di detenzione in isolamento in minuscole celle e ha chiesto alla
magistratura di porre fine a tale metodo. E subito dopo la denuncia della Ebadi,
il governo di Tehran ha annunciato che la recente convocazione dell'avvocatessa
premio Nobel da parte di una corte rivoluzionaria è il frutto di «un errore» e
che il provvedimento sarà probabilmente annullato. «Il trattamento riservato ai
prigionieri politici è peggiore di quello per i criminali», ha denunciato la
Ebadi, che da anni si batte per la difesa dei diritti umani e che è stata lei
stessa tenuta in isolamento in carcere per 25 giorni nel 2000. «È stata
un'esperienza durissima - ha affermato - che mi ha provocato il ritorno di un
handicap della parola di cui avevo sofferto nell'infanzia». La Ebadi ha quindi
chiesto al capo dell'apparato giudiziario, l'ayatollah Mahmud Hashemi Shahrudi,
di fare applicare un divieto dell'uso di questa pratica, divieto che lui stesso
aveva annunciato sei mesi fa.
«Commando
Usa infiltrati in Iran»
L'inchiesta di Hersh: nel
terzo atto della «guerra al terrore» Bush vuole distruggere l'infrastruttura
militare di Tehran
MI. CO.
I falchi
dell'amministrazione statunitense stanno già preparando la prossima tappa della
guerra permanente: agenti segreti americani sono stati infiltrati in Iran
dall'estate scorsa e stanno individuando una serie di obiettivi da colpire
nell'ambito di un attacco «mirato» al regime degli ayatollah. A sostenerlo è
Seymour Hersh, che in un articolo sul settimanale
New Yorker
costruito sulla base di fonti interne al governo Bush e alla Cia non manca di
mettere in guardia i guerrafondai al potere a Washington dalle possibili
conseguenze. Una simile offensiva - suggerisce il giornalista che portò alla
luce lo scandalo delle torture nel carcere iracheno di Abu Ghraib - potrebbe
avere l'effetto indesiderato di rafforzare il regime di Tehran. Nonostante la
campagna irachena si stia rivelando un disastro, Bush ha interpretato il suo
successo elettorale nella presidenziali del 2 novembre come una promozione
popolare della sua politica mediorientale. Avanti tutta con l'«esportazione
della democrazia» dunque, a suon di bombe s'intende. Secondo Hersh la
responsabilità del «piano Iran» è stata affidata al riconfermato ministro della
difesa Donald Rumsfeld. Dopo due anni di intense pressioni da parte del
segretario alla difesa, il presidente avrebbe firmato una serie di ordini
esecutivi che hanno autorizzato l'infiltrazione in Iran di di commando e unità
delle forze speciali a caccia di sospetti «obiettivi terroristici». Così mentre
le diplomazie europee sono impegnate in una serie di passaggi diplomatici sul
nucleare iraniano, da Washington si insiste che nessuna trattativa con Tehran è
valida senza la minaccia delle armi. E dalla scorsa estate gli uomini del
Pentagono starebbero cercando le «prove» necessarie a far scattare il piano
d'attacco, raccogliendo informazioni sul nucleare iraniano e sugli impianti
chimici e missilistici di Tehran, sia quelli ufficiali che quelli segreti. Poco
importa che domenica il portavoce del ministero degli esteri iraniano, Hamid
Reza Asefi, abbia assicurato che le recenti rilevazioni da parte dell'Agenzia
internazionale per l'energia atomica (Aiea) nei pressi della capiatale
dimostreranno che «non abbiamo mai fatto niente d'illegale». Secondo il premio
Pulitzer considerato uno dei migliori giornalisti investigativi del mondo
l'obiettivo delle missioni segrete è «identificare e isolare una trentina, forse
più, di obiettivi che possano essere distrutti con attacchi di precisione e
rapide incursioni di commando», perché gli uomini del Pentagono hanno in mente
di distruggere la maggior parte dell'infrastruttura militare di Tehran.
Puntuale è arrivata la smentita della Casa Bianca, per
bocca del suo direttore della comunicazione, Dan Bartlett, che ha dichiarato
alla Cnn che l'articolo di Hersh è pieno «di imprecisioni». Bartlett si è
limitato ad affermare di non credere «che alcune delle conclusioni di Hersh
siano basate su fatti». E quando gli è stato chiesto se l'opzione militare nei
confronti dell'Iran fosse allora da scartare, ha risposto: «Nessun presidente in
certe circostanze storiche ha mai scartato l'opzione militare». I commando
sguinzagliati dall'amministrazione Usa oltre il confine iraniano, passando
attaraverso l'Afghanistan, avrebbero una funzione importantissima: quella di non
far ripetere a Bush la figuraccia fatta con le presunte armi di distruzione di
massa di Saddam, mai trovate dopo che l'invasione della Mesopotamia era stata
giustificata dalla possibilità che il dittatore iracheno le utilizzasse a fini
terroristici. «Non vogliono fare nessun errore come quello iracheno, i
repubblicani non potrebbero mai permetterselo», ha confidato ad Hersh una fonte
interna al ministero della difesa Usa. Ma Hersh va oltre la semplice rivelazione
del piano e si spinge fino a prevedere le conseguenze di un'eventuale azione
militare contro Tehran. «L'idea che un attacco contro gli impianti nucleari
iraniani produrrebbe una sollevazione contro il regime degli ayatollah è frutto
di cattiva informazione, perché le ambizioni nucleari iraniane sono sostenute da
tutto lo spettro politico del paese», dice ad Hersh Flynt Leverett, membro del
Consiglio per la sicurezza nazionale di Bush. Insomma anche l'attacco all'Iran
sarebbe un disastro.
I
PUBBLICI SONO FUORI
Tutto il settore
pubblico rimane per ora scoperto. La riforma del ministro Maroni, vale infatti
solo per il settore privato. Non è ancora stato stabilito nulla a proposito
della copertura finanziaria statale per la trasformazione del Tfs (l'indennità
di fine rapporto degli impiegati pubblici) in Tfr e il suo trasferimento ai
fondi pensione.
TERRA TERRA
Brasile, la diga abbatte la foresta
KARIMA ISD
E' andata «avanti e
indietro al ritmo del tango» - per usare l'espressione del sito
www.socioambiental.org - la saga della diga Barra Grande, nella Mata Atlantica
brasiliana, la già ultradepredata foresta della parte sud-orientale del paese,
già ridotta al 7% della sua estensione originaria. L'invaso della diga,
costruito sul fiume Pelotas, al confine fra gli stati del Rio Grande do Sul e di
Santa Caterina, coprirà 6.000 ettari, fra i quali 2.000 di foresta pluviale di
pino araucaria: uno degli ecosistemi più minacciati di estinzione e sede di una
ricca biodiversità. Alleanze si sono fatte e rotte intorno a questa vicenda che
ha risvolti tristemente esemplari. E che sembra concludersi male: il primo
gennaio, in un periodo in cui agli avvocati ambientalisti che avevano fatto
ricorso era stato detto che il tribunale era in vacanza, un giudice ha
autorizzato il consorzio di costruttori a procedere con motoseghe e bulldozer,
per tagliare la foresta di araucaria, ultimo passo necessario affinché la diga,
già costruita, entri in funzione. Il fatto è che la diga Barra Grande non
avrebbe mai dovuto essere iniziata. Tanto che lo scorso 28 dicembre il giudice
Jurandi Borges Pinheiro aveva confermato l'ordine di sospendere le operazioni di
abbattimento della foresta primaria, accogliendo il ricorso avanzato dalla Rete
delle associazioni della foresta sulla costa atlantica e dalla Federazione dei
gruppi ecologici dello stato di Santa Catarina (Feec). Gli ambientalisti
parlavano di «cospirazione fraudolenta» fra le preposte autorità brasiliane - la
licenza di taglio è stata accordata dall'Ibama, agenzia federale per l'ambiente
- e il consorzio Baesa dei costruttori della diga, in particolare la compagnia
di Pittsburg Alcoa, gigante dell'alluminio. Nelle valutazioni di impatto
ambientale non comparivano i 2.000 ettari di foresta vergine di pino araucaria.
Gli ecologisti chiedevano di verificare se l'invaso potesse operare a un livello
più basso, tale da salvare quella foresta; in caso contrario, la loro richiesta
era: si demolisca la diga. Del resto, mesi fa lo stesso presidente del Baesa ha
dichiarato che senza quell'errore (?) la devastante opera non sarebbe mai stata
autorizzata; ma, ha aggiunto, dato che la diga era già costruita, tanto valeva
andare avanti. La decisione del giudice Pinheiro non era stata la prima contro
l'abbattimento, che aveva suscitato una notevole attivismo «socio-giuridico».
Nei mesi scorsi gli ambientalisti avevano un attivissimo alleato nel Mab,
movimento brasiliano delle popolazioni colpite dalle dighe. Centinaia di
attivisti in ottobre avevano bloccato gli operai muniti di motoseghe. Intanto i
ricorsi degli ambientalisti trovavano riscontri positivi in decisioni
giudiziarie. Ma a dicembre lo scenario è cambiato, tanto che il 23 i bulldozer
riavviavano i motori: il consorzio di costruttori Baesa riteneva di avere via
libera avendo raggiunto un accordo sulle questioni sociali con i rappresentanti
del Mab, alla presenza del Ministero dell'energia e miniere e dell'Ibama nonché
con il beneplacito del Ministero dell'ambiente, il quale comunque chiedeva una
revisione delle procedure di valutazione dell'impatto ambientale, per evitare
simili errori in futuro. Il movimento dei colpiti dalle dighe ha così sospeso la
sua efficace opposizione, decidendo di accettare l'offerta della controparte: un
aumento nel programma di compensazione per le famiglie che hanno perso le
proprietà sotto le acque della diga e anche l'uso del legname tagliato per la
costruzione di case per gli sfollati. Pochi giorni dopo, il giudice Pinheiro,
stabiliva che l'accordo in questione non risolveva invece affatto la
controversia ambientale e quindi poneva un altro stop ai lavori. Ma il primo
gennaio ecco il verdetto. E adesso? La vicenda è stata seguita dall'International
Rivers Network (www.irn.org) la cui corrispondente nella zona, Glenn Switkes, ci
scrive: «Gli ambientalisti continueranno a far ricorsi, ma temo che basteranno
pochi giorni per ridurre la foresta vergine a segatura...».
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14 gennaio
13 gennaio 2005
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9 gennaio
CONTRORDINE
L'etica del taglione
ALESSANDRO ROBECCHI
Leggere su un giornale italiano che la tortura, tutto
sommato, in fondo in fondo, a pensarci bene, non è poi così male, fa un certo
effetto. Ma, pardon, mi correggo, non è tortura, stolto che sono. Il Foglio,
l'unico quotidiano al mondo che sa l'inglese (compresi quelli americani e
inglesi, ovvio) ci fa la lezioncina: il nuovo ministro della giustizia di Bush
(e della nazione, ci mancherebbe!) non ha mai parlato di «tortura», ma di
«stimoli» sui prigionieri. E' un decisivo argomento dialettico, una sfumatura:
se mai un giorno dovrete stare a Guantanamo inginocchiati per tre anni con una
tuta arancione e una buona razione di legnate stimolanti, avrete tempo per
riflettere sulla sottigliezza. Dunque, alla fine, la decisione degli Stati uniti
di non applicare la convenzione di Ginevra nelle sue attuali guerre in corso non
è così male. Dopo Ashcroft che metteva il reggiseno alla statua della giustizia,
ecco il signor Gonzales, che fa il suo brillante discorsetto, naturalmente
condanna la «tortura», e nel contempo sollecita gli «stimoli». Già mi vedo i
prigionieri di Abu Grahib che festeggiano nelle foto e nei filmini. Fin qui
siamo, per così dire, alla constatazione di come va il mondo: la prima potenza
mondiale eccetera eccetera che fa parlare i prigionieri a suo modo. Un po',
credo, come ha sempre fatto. O fatto fare a professionisti ingaggiati sul posto
in tutta l'America latina, o con le minoranze interne durante la seconda guerra
mondiale, o con gli attori e gli sceneggiatori comunisti di Hollywood, o con le
popolazioni indigene eccetera eccetera. Ecco, è la cara vecchia America. Di
questi tempi poi, particolarmente impegnata nella dimostrazione dell'antica
logica che il più stronzo deve picchiare più forte. Si chiama Impero, credo.
Ma se le guardie imperiali incutono un certo timore, altrettanto non si può dire
dei loro uffici stampa, pericolosamente a corto di idee.L'illuminato
ragionamento che giustifica la tortura è il seguente. A) Ci troviamo di fronte a
un nuovo nemico e a un nuovo tipo di guerra. B) Dobbiamo usare metodi nuovi. C)
Tagliamo le palle a quei bastardi finché non parlano! Vedete anche voi che il
ragionamento è deboluccio: si invoca modernità e adeguamento al nuovo nemico e
si finisce per usare gli stessi sistemi di venti secoli fa. Senza contare che
ogni nemico in ogni guerra è sempre «nuovo», e ogni guerra è sempre una «nuova»
guerra, e dunque allegramente ci adegueremo e compreremo nuovi elettrodi e pinze
e strumenti stimolanti per sempre «nuovi» prigionieri. Non fa una grinza, ma dal
punto di vista culturale - diciamolo - il ragionamento si avvicina più al
modello Di Canio che a quello dell'intellettuale colto, sia pure neocon. Urge
dunque correre ai ripari. Sì, va bene, tortura, stimoli, costrizioni,
convenzione di Ginevra, belle parole. Ma, fateci caso, tutto viene più bello e
luccicante se ci spalmate sopra, come una vernicetta trasparente, un po' di
etica. Anche le peggiori scempiaggini (torturiamo la gente perché è una guerra
nuova, ah, ah, ma chi gli scrive i testi a Ferrara?) sono più digeribili se
condite con l'etica giusta. Come per il confetto Falqui, basta la parola: etica!
Guardare in faccia questa cosa, cercare informazioni dai prigionieri e non aver
paura di usare «stimoli» per convincerli, e dirlo in un'aula del Congresso degli
Stati uniti è una cosa etica. Se lo dite con atteggiamento pensoso, magari con
un po' di trombonica retorica sul male e il bene, e qualche trucchetto da buon
prosatore, chissà, qualcuno può anche cascarci. Bene, salutiamo con un bell'applauso
questa new entry del nuovo millennio, la tortura etica. Ora, abbellito e
agghindato, reso accettabile dai sottili ragionamenti dei ponzatori e placcato
di etica, anche il vecchio caro tubo di gomma per picchiare la gente è
sdoganato, accettato, reso più umano e dolorosamente utile. Bisognerà avvertire
le maestranze, quei bravi ragazzi americani di Abu Grahib: ehi, gente,
tranquilli, è il vostro vecchio manganello, nuovo modello, modello etico.
Anche se, in tutta franchezza, mi sfugge il motivo per cui uno che giustifica la
tortura debba poi darsi anche una giustificazione morale. Dico, va bene armarsi
di strumenti teorici, è lodevole. Ma se sei arrivato alle pinze roventi, al
guinzaglio e alla deprivazione sensoriale, che te ne fai dell'etica?
Giorgio Bocca
Il denaro al potere ha creato una nuova forma di
sovversione: la demolizione strisciante dello Stato di diritto, dello Stato
sociale, dello Stato etico non per cospirazione rivoluzionaria, ma per
sistematica, aperta attuazione di un programma di destra al servizio del denaro.
Non diciamo che questa nuova destra berlusconiana è fascista, è qualcosa di
peggio, il fascismo attaccava lo Stato liberale per ricostruirlo più forte e
autoritario, il berlusconismo lo disgrega per avere mano libera nel saccheggio e
nell'uso delle istituzioni.
Quali sono i nemici veri, odiati della stampa governativa? Le istituzioni
fondamentali di uno Stato democratico: la Consulta che difende la Costituzione,
la giustizia che difende la legge eguale per tutti, l'informazione che assicura
la libera circolazione delle notizie e delle idee.
Il leader del partito del denaro, il Cavaliere, non ha mai nascosto la sua
profonda insofferenza per lo Stato e per la separazione dei poteri. Ma vivere in
un paese senza Stato o con uno Stato impaurito, sottomesso, in una giustizia che
cerca formule ambigue per non dispiacere al padrone, è come vivere senza
gravità, senza regole.
Il Cavaliere non nasconde le sue pulsioni anarcoidi, il suo profondo amore per
il denaro padrone. Nelle manifestazioni pubbliche dello Stato ama presentarsi
come l'intruso che comanda, sempre con la smorfia, il sorriso, il gesto di chi
pensa: la commedia dello Stato di diritto è finita, vi ho fregato, sono io il
più ricco, io che ho 'una marcia in più', io l'impunito.
Non è lui, si intende, l'inventore del Dio denaro, che in questo mediocre tempo
sta allargando il suo dominio al mondo intero. C'è di peggio, c'è il trionfo del
comunismo capitalista cinese, c'è l'imperialismo dei neoconservatori americani,
c'è la democrazia russa gestita dalla burocrazia stalinista di Vladimir Putin,
ma insomma anche da noi le cose cambiano, i valori si sovvertono. Sono
scomparse, per dire, la decenza, la vergogna dei ladri, il silenzio sui delitti,
la ricerca della stima altrui.
Nella società borghese il bancarottiere si sparava o si nascondeva. Oggi va alla
prima della Scala, si fa intervistare, compare in televisione con lo stesso
sorriso del capo del governo: sono più furbo, più bravo, più ricco di voi
minchioni.
Nella democrazia del soldo che va formando anche da noi il suo regime, i nuovi
padroni si vantano di rifiutare i giudici non graditi, li chiamano pubblicamente
con termini infamanti, quali assassini o persecutori di parte, promuovono ai
posti più alti della pubblica amministrazione furfanti notori, accettano per
buone elezioni manovrate dalla mafia, e magari firmano assieme un invito a
escludere dalla direzione dell'Antimafia il giudice Giancarlo Caselli come a
ricordare che in questo paese l'accordo silenzioso fra il governo e la mafia è
un caposaldo del sistema.
Che c'è di nuovo nel Bel Paese? Niente di nuovo sotto il sole come avvertiva l'Ecclesiaste.
L'opposizione si adegua, se solo Romano Prodi osa attaccare il partito di
governo lo sgridano, lo richiamano all'ordine; se un giudice manda assolto il
Cavaliere, anche se in sostanza ammette che è stato un corruttore della
giustizia, subito c'è anche fra gli oppositori chi compiace con arte
ruffianesca: l'assoluzione va bene, dimostra che non c'è stata congiura dei
giudici. Congiura no, ma adeguamento al nuovo potere, all'impunità del denaro.
Altri valori dello Stato che fu, evaporano, scompaiono. Un'informazione che
informa, per esempio sostituita da una che promuove interessi amici, che
trasforma tutto in pubblicità redazionale e che per farlo dice e disdice,
presenta come ottimo e acquistabile ciò che nella pagina accanto è descritto
come rischioso e abominevole. E scompare anche il senso del ridicolo, per
scoprire la promozione sistematica dei peggiori, dei buffoni.
7 gennaio 2005
Guai ai poveri
IGNACIO RAMONET
La mega-scossa tellurica
di Sumatra e le successive gigantesche onde anomale che hanno colpito, il 26
dicembre scorso, le coste dell'Oceano indiano hanno provocato una delle
catastrofi più colossali della storia. La tragedia umana - 150.000 morti,
500.000 feriti, 5 milioni di sfollati, secondo dati ancora provvisori -
raggiunge un'entità raramente vista in passato. A ciò si somma il carattere
internazionale del disastro: otto paesi asiatici e cinque paesi africani sono
stati colpiti lo stesso giorno dal cataclisma, che tra l'altro avrebbe ucciso
circa 10mila cittadini di altri 45 paesi del mondo. La presenza di
occidentali, e l'elevato numero di vittime tra loro, hanno contribuito al
riverbero planetario della catastrofe, avvenuta - per una sorta di terribile
contrasto - nel pieno delle feste di fine anno. Quest'ultimo elemento ha
suscitato una copertura mediatica eccezionale dell'evento, che non sarebbe
avvenuta - ed è un peccato - se la tragedia fosse stata circoscritta alla sua
sola dimensione asiatica.
Tutto ciò provoca un formidabile shock emotivo, che
colpisce profondamente l'opinione pubblica occidentale. Una commozione del
tutto legittima di fronte a tanto sconforto, a tanta devastazione, a tanta
desolazione, che si è tradotta in una tenace volontà di aiutare e in una
calorosa gara di solidarietà. Raramente in passato, secondo le organizzazioni
umanitarie, si era manifestata una generosità di questa ampiezza - tanto
pubblica che privata.
Questa solidarietà nei confronti di tutte le vittime
dell'Oceano indiano ha permesso a molti dei nostri concittadini di scoprire,
al di là del cataclisma, la realtà delle ordinarie condizioni di vita degli
abitanti di quei paesi. E appare del tutto evidente che l'aiuto mobilitato,
nonostante la sua notevole consistenza, sarà del tutto insufficiente per
risolvere difficoltà strutturali.
Ricordiamo solo qualche fatto.
Una catastrofe «naturale» di identica intensità causa
meno vittime in un paese ricco che in un paese povero. Per esempio, il sisma
di Bam, in Iran, avvenuto esattamente un anno prima, il 26 dicembre 2003, di
intensità pari a 6,8 gradi della scala Richter, ha fatto più di 30.000 morti.
Ma, tre mesi prima, il 26 settembre 2003, una scossa più violenta - 8 gradi -
sull'isola Hokkaido, in Giappone, aveva provocato solo qualche ferito e nessun
morto. Altro esempio: il 21 maggio 2003, un terremoto di 6,2 gradi Richter
colpiva l'Algeria e causava più di 3.000 morti. Pochi giorni dopo, il 26
maggio, un sisma più violento - 7 gradi - scuoteva tutto il Giappone
nord-occidentale, senza provocare vittime.
Perché tali differenze? Perché il Giappone, come altri
paesi sviluppati, ha i mezzi finanziari per applicare norme di costruzione
anti-sismiche molto più costose. Siamo allora disuguali di fronte ai
cataclismi? Non c'è il minimo dubbio. Ogni anno, le catastrofi colpiscono
circa 211 milioni di persone. I due terzi vivono nei paesi del Sud, dove la
povertà fa aumentare il grado di vulnerabilità. Un rapporto intitolato
Ridurre i rischi di disastri, pubblicato il 2 febbraio 2004 dal Programma
delle Nazioni unite per lo sviluppo (Undp), si chiede addirittura se è lecito
continuare a parlare di catastrofi «naturali». L'impatto di un sisma, di un
ciclone o di un'inondazione varia a seconda dei paesi. Spesso dipende dalle
politiche di prevenzione applicate dalle autorità.
Se lo stesso tsunami si fosse prodotto nell'Oceano
pacifico, il numero di vittime sarebbe stato molto minore, perché gli stati
rivieraschi - su iniziativa di due grandi potenze, il Giappone e gli Stati
uniti - hanno messo a punto un sistema di rilevazione e di allerta in grado di
segnalare in anticipo l'arrivo di «onde assassine» e di permettere quindi alle
popolazioni della costa di mettersi al riparo.
Ma l'acquisto,
l'installazione e la manutenzione di un tale sistema costano assai cari. La
catastrofe dell'Oceano indiano ci emoziona a causa delle sue dimensioni, della
sua brutalità e anche perché questa sommatoria di tragedie umane si è prodotta
in un singolo giorno. Ma se osservassimo, per un anno, questi paesi e i loro
abitanti con la stessa curiosità che mostriamo oggi, assisteremmo -
al rallentatore
- a una catastrofe umana di entità ancora più
tragiche. Basta sapere che, ogni anno, negli stati del golfo del Bengala
(India, Maldive, Sri Lanka, Bangladesh, Birmania, Thailandia, Malaysia e
Indonesia), diversi milioni di persone (soprattutto bambini) muoiono semplicemente perché non
dispongono di acqua potabile e bevono acqua contaminata.
L'aiuto pubblico e privato promesso ai paesi colpiti
dallo tsunami è attualmente di circa 3 miliardi di dollari. Bisogna gioire
dell'entità di questa somma. Ma essa è ancora trascurabile di fronte ad altre
spese. Per esempio, il solo budget militare degli Stati uniti è pari, ogni
anno, a 400 miliardi di dollari... Altro esempio: quando la Florida è stata
colpita, nell'autunno 2004, da una serie di cicloni che provocarono danni
consistenti ma non paragonabili al disastro attuale dell'Oceano indiano,
Washington ha sbloccato immediatamente un aiuto di 3 miliardi di dollari... Ad
ogni modo, le somme promesse sono insignificanti rispetto alle necessità degli
stati colpiti dallo tsunami.
Bisogna sapere che, secondo gli ultimi dati della Banca
mondiale, il debito pubblico estero di cinque di questi paesi supera i 300
miliardi di dollari. E il rimborso di tale debito implica cifre gigantesche:
più di 32 miliardi di dollari l'anno. Ossia una cifra dieci volte maggiore
delle promesse di fondi «generosamente» annunciate in questi giorni. A scala
planetaria, ogni anno i paesi poveri rimborsano, verso il Nord ricco, a titolo
di debito, più di 230 miliardi di dollari. E' il mondo alla rovescia.
Si è parlato, in occasione dello tsunami, di una
moratoria del debito dei paesi colpiti. Ma non è tanto di una moratoria che
c'è bisogno: il debito va semplicemente cancellato, allo stesso modo in cui
gli Stati uniti hanno imposto ai loro partner del Club di Parigi la
cancellazione del debito dell'Iraq, paese che occupano militarmente. Se si può
fare per l'Iraq - che è un paese ricco di petrolio e gas -, perché non si
potrebbe fare per paesi infinitamente più poveri e colpiti peraltro da una
catastrofe di dimensioni bibliche?
Sempre secondo l'Undp, «su scala planetaria, mancano
circa 80 miliardi di dollari l'anno per garantire a tutti i servizi di base»,
ossia l'accesso all'acqua potabile, un tetto, un'alimentazione decente,
l'educazione primaria e le elementari cure mediche. E' l'ammontare esatto del
budget supplementare che il presidente Bush ha appena chiesto al
Congresso per finanziare la guerra in Iraq.
L'enormità dei bisogni mostra, in termini di paragone,
che la generosità umanitaria, per quanto ammirevole e necessaria, non è una
soluzione a lungo termine. L'emozione non può sostituire la politica. Ogni
catastrofe rivela, come una sorta di lente di ingrandimento, l'angoscia
strutturale dei più poveri, di quanti sono vittime ordinarie dell'ineguale e
ingiusta ripartizione delle ricchezze nel mondo. E' per questo che, se
veramente vogliamo che l'effetto dei cataclismi sia meno devastante, bisognerà
cercare soluzioni permanenti. E favorire, per tutti gli abitanti del pianeta,
una ridistribuzione compensatoria.
Sembra sempre più indipensabile, per affrontare
situazioni d'emergenza come questa, e soprattutto per costruire un mondo più
giusto, creare una sorta di Iva internazionale. Questa idea di «tassa
planetaria» - prelevata sui mercati di cambio (Tobin tax), sulle vendite
d'armi o sul consumo di energie non rinnovabili - è stata presentata all'Onu
il 20 settembre 2004 dai presidente brasiliano Lula, dal cileno Lagos, dal
francese Chirac e da Zapatero, primo ministro spagnolo. Più di cento paesi,
ossia più della metà degli stati del mondo, appoggiano questa felice
iniziativa.
Perché non far leva sull'emozione suscitata
universalmente dalla catastrofe dell'oceano indiano per reclamare
l'implementazione immediata di questa tassa internazionale di solidarietà?
(ignacio ramonet)
PINOCHET
Il
giorno più atteso
LUIS SEPÚLVEDA
Solo poche ore fa stavo
accomiatandomi da mio figlio Sebastián all'aeroporto di Gijón. Come sempre
cercavo di mascherare la tristezza dell'addio dietro un paio di battute, e ho
visto che il mio giovanotto di vent'anni, per mano con la sua fanciulla, mi
mandava dei segnali prima di entrare nella sala d'imbarco. Come sempre, dal
momento che l'uomo è un animale di costumi protettivi per assurdi che essi
appaiano, sono rimasto lì finché l'areo è decollato. Come sempre, ho fatto il
conto dei giorni e delle ore passati insieme e mi sono soffermato sul ricordo
di una camminata sulla spiaggia solitaria mentre lui mi chiedeva di parlargli
del mio ultimo viaggio in Cile. Emozionato, gli ho raccontato che era stato un
bel viaggio, che mi ero incontrato con i mei vecchi amici, con i miei cari
compagni della guardia del presidente Allende, e che lentamente cominciavo a
pensare al mio ritorno. Mio figlio esibiva con orgoglio una maglietta del
Forum sociale cileno, il bel disegno di Federica Matta risplendeva nella luce
marina.
Quell'animale è sempre lì, senza che nessuno lo tocchi?,
mi ha chiesto all'improvviso. Sì, l'animale, il criminale, l'assassino, il
ladro era sempre in Cile, protetto dalla più odiosa impunità.
Staremo bene in Cile. Avrò
un paio di cavalli, ho risposto per allontanare quella presenza vergognosa.
Quando l'aereo di mio figlio era sparito dal pannello delle partenze, sono
ritornato alla macchina, ho acceso il motore e allora il miracolo della radio
mi ha regalato la notizia più attesa: la Corte suprema di giustizia aveva
respinto il ricorso presentato dalla difesa dell'animale, del criminale,
dell'assassino, del ladro, e lui dovrà affrontare il processo che aspetta la
società cilena, i cileni che vivono fra la cordigliera e il mare, quelli che
vivono nella diaspora, quelli che sono nati sotto altri cieli e sono cresciuti
con il nostro amore per il lontano paese disseminato di isole.
Confesso di aver creduto che questo giorno così atteso
non sarebbe mai arrivato, e non per sfiducia nella giustizia, bensì in quelli
incaricati di amministrarla. Quante vite si sarebbero salvate se i tribunali
cileni avessero accettato i ricorsi presentati dai familiari dei
desaparecidos, degli assassinati nei centri di detenzione e di tortura,
degli sgozzati di notte e nelle ore in cui solo i criminali potevano muoversi
per le strade del Cile?
Fra il 1973 e il 1989 furono presentati migliaia di
ricorsi d'urgenza, i familiari arrivavano con testimoni che avevano assistito
alle detenzioni, ai sequestri, ai furti di persone, e nessuno fu accolto
perché la giustizia era nelle mani di prevaricatori, di complici del
dittatore.
Non credevo che questo giorno fosse possibile, però allo
stesso tempo, poiché conosco e ammiro la storia civile del mio paese, ho
sempre cercato di convincermi che il processo contro Pinochet è cominciato
quando l'ultimo difensore del palazzo della Moneda sparò l'ultimo colpo in
difesa della costituzione e della legalità.
Non sarà giudicato per tutti i suoi crimini, ma solo per
alcuni, comunque tanto selvaggi e bestiali come tutti quelli che ordinò dalla
sua codardia di satrapo, dalla sua viltà di essere mediocre e ottuso, dal
fetore del suo tradimento. Però sarà giudicato, con tutte le garanzie che noi
non avemmo, e ci rallegra che sia così perché noi crediamo nella giustizia.
E' dovere di tutti vegliare perché non gli capiti nulla,
perché la sua salute si conservi, perché non gli manchi niente, e se è
necessario fare una colletta pubblica per tenerlo vivo, facciamola. Quanto
dobbiamo pagare?
Quel che importa è che mio figlio, i figli di tutti
quelli che hanno sofferto, e le vedove e i genitori che seppellirono i loro
figli, e le fidanzate dai corredi frustrati, e le nonne che si ritrovarono
senza i destinatari delle loro carezze vedano l'animale fascista, il criminale
venduto, l'assassino di sogni, il ladro di vite e di beni, fotografato di
fronte e di profilo, con il suo numero da delinquente sotto la mascella,
lasciando le impronte digitali delle sue grinfie nell'inchiostro nero della
vergogna. E' questo che importa.
Mentre scrivo queste righe, mio figlio Sebastián vola
verso la Germania e io ricordo la passeggiata sulla spiaggia deserta. Quando
gli ho raccontato del mio ritorno a El Cañaveral, quel luogo sacro fra i monti
dove il Dispositivo di sicurezza del presidente Allende, il Gap, si preparava
a difendere la vita dei nostri dirigenti, di coloro che si erano fatti carico
di realizzare il più bel sogno collettivo della mia generazione. Là, insieme a
«Patán», «Galo», «El Pelao» e altri dei migliori, dei più coraggiosi compagni
che abbia mai conosciuto e la cui amicizia è il mio grande orgoglio,
ricordavamo senza retorica quel sogno pieno di aneddoti e di gioventù.
So che loro condividono la serena allegria per questo
giorno, per questo giorno tanto atteso, in cui la tenue luce della giustizia
si lascia vedere fra il fumo della Moneda in fiamme, fra i volti luminosi di
tutti i compagni del Gap che caddero e che non sono mai scomparsi dalla nostra
memoria. (luis sepulveda)
4 gennaio 2005
Divagazioni
ROSSANA ROSSANDA
Come
davanti al terremoto di Lisbona, davanti alla catastrofe del Sudest asiatico ci
si sente infinitamente piccoli e infinitamente non colpevoli. A dire il vero
quella volta si accusarono i Lumi non di aver prodotto il sisma, ma di avere
sopravvalutato la forza dell'uomo liberato dalla ragione. Parla e parla di
magnifiche sorti e progressive, poi arriva uno scossone che lo riduce a quel che
è, un verme. E la lenta ginestra che cresce dove è passato il fuoco distruttore
del vulcano suggerirà a Leopardi uno dei suoi componimenti più alti. La
piccolezza umana è più facile da accettare che le responsabilità umane. Che
possiamo fare se siamo fragili e mortali e ora una catastrofe ora un incidente
personale ci ridimensionano? E' questo, penso, che ha fatto scattare di fronte
all'onda anomala una solidarietà che stenta a venir fuori quando a scatenare i
disastri siamo noi, fragili creature ma diversamente potenti, per cui quasi
ognuno può essere la catastrofe per un altro - cosa che consideriamo naturale
come lo tsunami. Che possiamo farci se in quelle plaghe erano mediamente assai
più indifesi di noi, che sulla costa della California o del Giappone siamo in
grado di prevedere sia il terremoto sia quella massa d'acqua e scamparvi? Ci
saranno sempre paesi ricchi e paesi poveri, gente protetta e gente esposta,
templi di pietra che tengono, essendo stati costruiti per un re o un simbolo, e
capanne e tramezzi che se ne vanno come fuscelli, essendo stati costruiti per
gli uomini semplici.
Quel che non accettiamo di pagare in Tobin tax paghiamo
volentieri, specie se con un sms firmato, in compassione. Tanto più che per
alcuni di noi (le differenze ci sono anche qui dove le case tengono) di quella
massa di soldi pubblici o pietosi rientrerà una buona parte per ricostruire
alberghi e resort e ristoranti in modo che quelle incantevoli spiagge tornino a
popolarsi di gente contenta di pagare per uno scenario di sogno meno che per un
ombrellone a Rimini. Come e perché costi così poco non ce lo chiediamo, a meno
di essere dei fanatici no-global, e tanto meno lo chiediamo all'indigeno, che
siamo costretti a vedere quando ci serve al bar o rassetta la camera o vende un
ricordino.
E' così. Prima o poi la mano invisibile del mercato farà il
suo lavoro, qualcuno ne uscirà più ricco grazie alla costruzione o alla
prevenzione, mentre le fosse comuni consumeranno in fretta quei corpi disfatti
dal sole prima che li si potesse cercare, anche perché molti di quelli per cui
ognuno di essi aveva un nome sono periti assieme a loro. O periranno nelle
prossime ore, perché là dove manca tutto i disastri naturali hanno code di
epidemie e di morte non meno micidiali.
Il nostro premier e l'establishment tutto (ancorché feriti
e rattristati dal treppiede dell'irato mantovano) si preoccupano assai di essere
elogiati per la generosità dei soccorsi e badano bene che dello tsunami non si
faccia un uso politico. Sulla più pettegola delle nostre gazzette il direttore,
del quale tutti ammirano l'acume, si è rallegrato che stavolta l'effetto serra
non c'entri per niente, perché semmai l'effetto serra ci fosse entrato qualcuno
avrebbe detto: ecco, è colpa degli Stati uniti che non hanno firmato il
protocollo di Kyoto! Il mondo sta diventando così bizzarro che oggi i liberali
parlano degli Usa come neanche Paolo Robotti parlava dell'Unione sovietica.
Tranquilli, con il disastro del 26 dicembre George Bush non c'entra niente. Con
quello che c'era prima e ci sarà dopo in quel lembo di crosta terrestre c'entra
invece molto. Ma non lui solo. C'entra molto il sistema in cui tutti stiamo, e
dà soltanto fastidio chi alza un dito per sussurrare: un momento, qualcosa non
va. Per lo più si fa come quei vacanzieri che, trovandosi in un atollo poco
distante risparmiato dall'onda, se ne sono stati zitti zitti quatti quatti per
non interrompere il meritato riposo. Perché avrebbero dovuto precipitarsi via?
Che cosa potrebbero fare per i morti poco più in là? Niente. Fugit hora e
a meno di essere malati di ideologia, il mondo come va ce lo teniamo.
3 gennaio 2005
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