Archivio gennaio 2005

 

28 gennaio

Esquivel: «Il debito dei Paesi
dello tsunami va cancellato»

Intervista al premio Nobel per la pace

Porto Alegre

Aldolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la pace, si fa portavoce dell'appello di Jubilee South, sottoscritto da più di mille organizzazioni di tutto il mondo, per l'immediata e incondizionata la cancellazione totale del debito estero dei paesi colpiti dallo tsunami.


I paesi creditori propongono una moratoria, Jubilee South la cancellazione totale. Qual è la differenza?

La moratoria è soltanto una sospensione, e non è nemmeno stata approvata da tutti i paesi. Quello che bisogna abbattere, invece, è il meccanismo di dominio che il debito rappresenta e che costringe i paesi a distruggere la propria sanità, il proprio sistema educativo e le proprie infrastrutture per investire ogni risorsa esclusivamente nel pagamento degli interessi. Dopo lo tsunami i cosiddetti paesi donatori hanno promesso 6 miliardi di dollari di aiuti, ma i paesi del Sud del mondo ogni anno pagano 23,63 miliardi di dollari soltanto per saldare gli interessi. Siamo di fronte a un vero e proprio genocidio sociale compiuto dal Fondo Monetario, dalla Banca Mondiale e dal G8. I numeri di questo genocidio sono presto detti: 35 mila bambini che, secondo la Fao, muoiono di fame ogni giorno. Dobbiamo dire basta al pagamento del debito infinito e criminale, prima per i paesi colpiti dallo tsunami e poi per tutti gli altri.


Bastano i social forum mondiali per riuscire a imporre questo radicale cambiamento di rotta?

Potrei dire di no, visto che sono anni che continuiamo a chiedere la cancellazione del debito, ma ho fiducia perché vedo un movimento senza precedenti composto di una massa enorme di persone che stanno cominciando a incidere profondamente sulla politica dei governi. Credo però che sia necessario fare un salto di qualità notevole per riuscire a cambiare radicalmente la situazione. Mi viene in mente una storia raccontata da Eduardo Galeano a proposito di un cuoco molto democratico che, a un certo punto, decide di indire un'assemblea di tutti i polli, i pesci, le braciole e le bistecche che cucinerà nel corso della serata, affinché esprimano la propria opinione sul tipo di salsa con il quale vogliono essere cotti. Si alza una gallina e dice: io, veramente, preferirei non venire cucinata per niente. Mi dispiace, dice il cuoco, questo argomento è fuori dal tema della discussione. A volte ho la sensazione che l'unico spazio di manovra che ci viene concesso consista, essenzialmente, nella possibilità di decidere con che salsa farci cucinare. La globalizzazione ha provocato una concentrazione senza precedenti del potere in poche mani. O riusciamo a reagire con alternative concrete, basate sulla lotta dei popoli che stanno costruendo forme di resistenza ovunque, oppure saremo condannati per sempre a ragionare soltanto di salse?


A proposito di dominio: il 30 gennaio si terranno le elezioni in Iraq. Pensa che cambieranno qualcosa?

Non credo proprio. Sono stato in Iraq prima della guerra e ho visto quanto soffre la gente comune. Su di un paese allo stremo è intervenuta una grande potenza, che ha provocato più di diecimila morti senza peraltro riuscire a stabilizzare la situazione. E non si parla più di Afghanistan dove gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno massacrato migliaia di persone nell'indifferenza generale. In entrambi i casi si è trattato di punizioni collettive della peggiore specie. Non bisogna stancarsi di sottolinearlo: i popoli non possono essere considerati responsabili di quello che fanno i loro governanti.

Sabina Morandi

 

 

Vicino alle discariche si muore troppo

L'allarme lanciato dall'Oms: «Eccesso di mortalità in Campania»

A Napoli e a Caserta il tumore uccide più che altrove. Sono in tanti a pensare che non possa essere una coincidenza il fatto che queste zone siano state per anni violentate da discariche abusive. Ma un nesso certo tra patologia e rifiuti illegali sparsi ovunque fa fatica ad essere confermato: «C'è una grossa probabilità», si limita a dire, prudentemente, il capo della protezione civile Guido Bertolaso. Di certo in 104 comuni della provincia di Caserta e in 92 della provincia di Napoli i dati epidemiologici mostrano un «eccesso significativo», rispetto quanto si attendeva a livello regionale, di mortalità generale, di mortalità per varie cause tumorali e di malformazioni. In particolare, la mortalità è risultata in eccesso, per gli uomini, del 19% nel casertano e del 43% nei comuni del napoletano e, per le donne, del 23% in provincia di Caserta e del 47% in quella di Napoli.

L'allarme, sia chiaro, non arriva dalle popolazioni che da anni combattono contro le discariche; non arriva neppure dagli uomini e dalle donne, dagli anziani e dai ragazzi che occupano strade ed autostrade pur di non far passare i camion di rifiuti; né arriva da quelle comunità che si lasciano caricare dalle forze dell'ordine pur di bloccare i lavori per la costruzione di un termovalorizzatore. Lo dice uno studio pilota dal titolo "Trattamento dei rifiuti in Campania: impatto sulla salute umana" condotto dall'Oms, l'Istituto superiore di sanità, il Cnr, l'assessorato alla sanità e l'Osservatorio epidemiologico della Campania; studio presentato ieri a Napoli da Bertolaso e dal commissario straordinario, Corrado Catenacci.

Se qualcuno sta già pensando che questo comporterà un cambiamento di rotta nella politica dei rifiuti, ha preso un abbaglio. Tutt'altro. Lo stesso Catenacci, a margine della presentazione dello studio non ha esitato a definire le tante proteste di questi giorni del tutto «ingiustificate». Lamenta il fatto che le mobilitazioni vedano protagonisti «non solo le popolazioni interessate, ma anche politici, esponenti delle istituzioni e addirittura la Chiesa». E mette in guardia: «Qualora nei prossimi giorni non riuscissimo a utilizzare i siti già prescelti, con progetti già approvati e cantieri aperti e successivamente chiusi a causa delle proteste è evidente che, con la fine di febbraio, entreremo in piena emergenza». Insomma, per l'ex prefetto «non c'è altra strada che individuare nuovi siti dove stoccare i rifiuti, in attesa che si costruiscano i termovalorizzatori di Acerra e Santa Maria la Fossa». E, come aveva già fatto all'indomani dell'annuncio dell'inceneritore acerrano, minaccia: «Se non mi sarà data la possibilità di lavorare, potrei anche decidere di tornare alla mia vecchia occupazione, quella di pensionato». Non è detto che non venga accontentato. Rifondazione chiede da tempo il superamento della gestione commissariale e la provincializzazione dei rifiuti. Ora sono in tanti a chiederlo. E la questione verrà sottoposta nei prossimi giorni anche al ministro dell'Ambiente. Altero Matteoli, infatti, dovrebbe tornare presto a discutere di rifiuti in Campania nel corso di un incontro sulla discarica regionale prevista a Montesarchio. I lavori, qui, sono stati sospesi per una settimana proprio a seguito delle mobilitazioni. Il 28 febbraio, intanto, dovrebbe chiudere quella di Parapoti, in Irpinia.

Antonella Palermo 

 

27 gennaio

L'azienda vuol spostare la linea della Multipla vicino Teheran
"Stiamo assistendo alla lenta agonia di Mirafiori"

Fiat, lavoratori in sciopero
"No alle produzioni in Iran"

La nuova fabbrica pronta a produrre oltre 100.000 auto l'anno
 

 
TORINO - Mentre la Borsa scommette su un accordo tra Fiat e Gm sull'opzione put che, secondo le stime di Piazza Affari, potrebbe avvenire sulla cifra di 1,85 miliardi, la casa torinese annuncia il ritorno in Iran. E i sindacati che stanno pensando ad una giornata di mobilitazione a Roma a difesa del settore automobilistico.

Alle carrozzerie di Mirafiori, dove c'è la linea della Multipla, proprio una delle vetture che secondo l'intesa dovrebbe essere prodotta nello stabilimento vicino a Teheran, è partito uno sciopero dei lavoratori organizzato dalle Rsu. Un corteo di un migliaio di lavoratori ha attraversato la fabbrica. "E' stupefacente - sottolinea Antonio Marchina, responsabile torinese della Fim- che mentre il presidente della Fiat, Montezemolo, invita a fare squadra, il sindacato venga a sapere dai giornali che cosa intende fare l'azienda".

E le intenzioni dell'azienda sono chiare: tornare a produrre in Iran dopo cinquant'anni. In sintesi la realizzazione di uno stabilimento in grado di produrre, già dalla seconda metà del 2005, più di 100 mila unità annue. Cifra destinata ad aumentare fino a quota 250 mila, una volta raggiunta la piena capacità produttiva. Complessivamente, gli investimenti coperti dalla parte iraniana dovrebbero ammontare a 200 milioni di euro.
Nello stabilimento, situato a Saveh, a 130 chilometri a sud-ovest di Tehran, verranno prodotte Fiat Palio, Siena, Palio Weekend Adventure, Strada pick-up e una versione Mpv. E' prevista inoltre la produzione di veicoli a doppia alimentazione a metano e benzina, Fiat Multipla e Doblò.

Notizie che i lavoratori torinesi non hanno preso bene. E così, dopo aver attraversato la fabbrica, il corteo ha lasciato Mirafiori per raggiungere il Palavela, dove in questi giorni si svolgono i campionati europei di pattinaggio. "Vogliamo segnalare in questo luogo - spiega Vittorio De Martino, responsabile della Fiom di Mirafiori - i problemi produttivi e occupazionali di Torino, in particolare di Mirafiori. Tutto questo mentre la trattativa con Gm non lascia presagire nulla di buono perchè, comunque vada a finire, continueremo ad assistere alla lenta agonia dello stabilimento torinese".


Timori di una ripresa delle ostilità dopo l'accordo del 9 gennaio
La guerra civile dal 1983 ha provocato due milioni di vittime

Darfur, bombardamento al nord
cento morti per l'attacco aereo

 
ADDIS ABEBA (ETIOPIA) - Cento morti per un bombardamento aereo. L'incubo della guerra civile sembra non voler lasciare il Nord Darfur. L'attacco è avvenuto mercoledì sera, ma ne ha dato notizia oggi Adam Thiam, portavoce dell'Unione Africana (UA) da Addis Abeba.

Si tratta, secondo Thiam "del più grave attacco degli ultimi mesi" nella regione occidentale del Sudan e l'ultimo di una serie di gravi violazioni della fragile tregua tra il governo di Khartum e i due gruppi della guerriglia del Darfur. Un attacco che si teme possa "far riprendere le ostilità, perchè non si tratta di un atto isolato".

Thiam ha ricordato che le milizie filo governative Janjawid si sono rese responsabili di un grave attacco lo scorso 16 gennaio, che provocò come reazione un raid del Movimento di Liberazione del Sudan. Il portavoce non ha chiaramente indicato i responsabili del bombardamento di ieri sera, ma è noto che le milizie guerrigliere non hanno la disponibilità di forze aeree.

Il 9 gennaio scorso il Governo del Sudan il Sudan People Liberation Movement, (SPLM) hanno firmato a Nairobi uno storico accordo che mette fine alla ventennale guerra tra il Nord e il Sud del Paese. E proprio oggi è arrivata la denuncia della Caritas: la violenza continua, addirittura con maggiore intensità, nella regione nord-occidentale del Darfur.

La guerra civile nel Paese dal 1983 ha provocato due milioni di vittime. Fuori dagli accordi è rimasta proprio la questione Darfur, dove dallo scorso febbraio è in atto il sanguinoso scontro tra i ribelli anti-governativi ed le milizie arabe filogovernative, i famigerati Janiaweed, che sta provocando decine di migliaia di morti ed oltre un milione di profughi tra la popolazione civile.

 

26 gennaio

 

FECONDAZIONE ASSISTITA / VERSO IL VOTO

 Quattro volte Sì

 Una legge tutta sbagliata. La Chiesa arroccata su posizioni dogmatiche. Il politico e filosofo spiega perché i referendum vanno sostenuti
colloquio con Massimo Cacciari

 di Chiara Valentini

È un paese abbastanza confuso e frastornato quello che con sempre maggiori probabilità dovrà esprimere la sua opinione a proposito dei referendum sulla fecondazione assistita, fra manifesti strappacuore dove un feto che sembra già un neonato implora 'Mamma non uccidermi, mamma ti voglio bene'. Dove improbabili mamme-nonne rumene vicine alla settantina sono esibite in tv come spauracchi di quel che potrebbe accadere se - dio non voglia - si metterà mano alla legge 40. Dove i vescovi invitano la grande massa dei cattolici a non andare a votare per far mancare il quorum e dove da molte parti si agita il fantasma dell'eugenetica. Di questa Italia dove la ragionevolezza rischia di smarrirsi ancor prima che il confronto sia cominciato abbiamo discusso con Massimo Cacciari, il politico-filosofo che è una delle teste pensanti della Margherita. E che, dopo aver amministrato a lungo Venezia, è oggi preside della facoltà di Filosofia all'università Vita-San Raffaele di Milano.

Professor Cacciari, il cardinal Ruini ha fatto sapere che la legge sulla fecondazione assistita non si tocca e che la via più sicura perché questo succeda è il non voto dei cattolici. Che cosa ne pensa?
"Non mi sembra né giusto né corretto. Di fronte a una questione di principio la Cei dovrebbe invitare al confronto. Dovrebbe dire ai fedeli 'andate a votare, sostenete nell'urna le nostre posizioni'. Puntare sul disinteresse, cercar di sopire invece che chiarire ha poco senso. Se veramente si tratta di questioni tanto importanti la gente deve essere spinta a esprimersi secondo coscienza".

Molti cattolici, nel centro-sinistra ma anche nel Polo, avevano sperato che al contrario si potesse evitare lo scontro modificando in Parlamento le norme più inaccettabili, trovando un compromesso.
"Erano illusioni. Nessuna mediazione è possibile finché non si rimuove un punto fondamentale, la cosidetta tutela del concepito. Sostenere che l'embrione deve essere trattato come una persona, come un essere umano perfettamente formato, è un'assurdità, che introduce nel nostro diritto la categoria dell'omicidio dell'embrione. Da lì discendono le conseguenze più aberranti. È evidente che se l'embrione è una persona non posso congelarlo, non posso usarlo per la ricerca scientifica, sono impiccato a tutti i divieti di questa legge".

Quindi pensa che l'unica risposta possa venire dai referendum?
"Sì. Da laico considero quella convinzione del tutto infondata da un punto di vista logico e razionale. Solo se la rimuovo potrò poi discutere nel merito delle garanzie da introdurre. Ma anche nell'ottica religiosa mi meraviglia che la Chiesa si sia infilata in una posizione così rigidamente dogmatica".

A che cosa si riferisce?
"Al fatto che anche la Chiesa ha avuto nel corso dei secoli posizioni diverse. Grandi teologi come Alberto Magno e in parte come San Tommaso, oltre allo stesso Dante, dicono sia pure con parole diverse che l'anima viene infusa da Dio solo a partire da un certo momento, quando il feto è già formato. Con il massimo rispetto possibile vorrei far notare che quella dell'embrione considerato persona è una scelta di 'questa' Chiesa. Non fa parte di una tradizione teologica consolidata e non la si ritrova nelle parole di Gesù. Non c'è bisogno di scomodare Galileo per sapere che le posizioni della Chiesa cambiano nel tempo, sui problemi legati alla scienza ma non solo. Anche quello che oggi sembra un punto irrinunciabile in futuro potrà cambiare".

Problemi teologici a parte, lei pensa che gli italiani siano sufficientemente maturi da sapersi orientare in questo campo minato?
"Quello della maturità è un concetto difficile da applicare alle persone, figuriamoci a un intero popolo. Il problema caso mai è quello dell'informazione. Che dovrebbe essere trasmessa dalla televisione pubblica con una campagna seria, sopra le parti. Ma l'informazione del mono giornale televisivo berlusconiano mi sembra scarsa e ambigua. In questa situazione non sarà così facile arrivare al quorum. Ma se ci si arriva, si vince".

Per la verità anche ai tempi dei referendum del divorzio e dell'aborto non si può dire che ci fosse una campagna mediatica massiccia. Eppure gli italiani avevano saputo scegliere.
"Questa volta è molto più difficile. Il divorzio e l'aborto riguardavano la vita concreta delle persone e in primo luogo delle donne. Quelle leggi avevano cambiato la società, avevano contribuito a modernizzare l'Italia".

Con la fecondazione assistita si rimette in gioco anche l'aborto. È evidente che se si protegge un embrione di poche cellule, presto si chiederà di usare la stessa tutela anche nei riguardi del feto.
"Qui non credo che si otterrebbero risultati. Scatterebbe un meccanismo che è sovrano nelle nostre società, l'interesse privato. Per l'aborto c'è un interesse diretto di un gran numero di donne, di coppie, di famiglie. In un referendum su questo tema andrebbe a votare almeno il 70 per cento degli italiani".

Lei Cacciari voterà sì a tutti e quattro i referendum?
"Ma certo. E mi auguro che lo faccia più gente possibile. Anche se mi rendo conto che gli embrioni e le cellule staminali non esercitano la stessa attrattiva dell'aborto e del divorzio".

Non ci sarà anche una responsabilità dei laici, che esitano un po' troppo a impegnarsi nelle batteglie sulle idee, che faticano a rendere evidenti i loro principi?
"L'etica laica si basa su un pensiero critico, non dogmatico, non settario. Invita a ragionare, a cogliere i nessi, a confrontarsi. Guai se ci mettessimo a inseguire la destra di Bush sugli slogan gridati, sulle esternazioni militaresche. Dobbiamo risvegliare un gusto per l'analisi, sapendo che il nostro ethos è critico, è problematico. Come del resto dovrebbe essere anche per il credente".

Perché?
"Il vero credente non è mai un settario fondamentalista. Non è quello che giudica, che scaglia la prima pietra. In questo senso non c'è nessuno più laico di Gesù Cristo".

Sono immagini affascinanti. Ma se torniamo sul terreno della politica bisogna ammettere che l'Ulivo o quello che ne ha preso il posto non è riuscito ad esprimere posizioni comuni sulle grandi questioni, sui valori. E si presenterà ai referendum in ordine sparso.
"Lo stesso partito riformista non nascerà mai per semplici esigenze tattiche. Nascerà se si cominceranno ad affrontare alla radice i temi di principio come la fecondazione assistita. E se dalla discussione verrà fuori una qualche sintesi. Purtroppo però non si è nemmeno cominciato a confrontarsi sulla riforma fiscale o sul welfare, figuriamoci sulle questioni della vita e della morte. L'atteggiamento è 'prima lasciamo passare il ciclone Berlusconi e poi ne parleremo'. Ma in questo modo Berlusconi ce lo terremo per sempre".

Per risolvere il problema del quorum lei pensa che sarebbe meglio abbinare i referendum alle elezioni regionali?
"No. Proprio perché riguardano questioni di principio vanno fatti da soli, senza commistioni politiche. Con tutto il rispetto, non stiamo mica parlando della caccia o dell'orario dei negozi".

Se i referendum non passano chi raccoglie i frutti della sconfitta?
"Prima di tutto Berlusconi. Grazie anche al suo dispositivo mediatico dirà al mondo intero che i comunisti hanno voluto il voto a ogni costo, che lui ha lasciato libertà di coscienza e il popolo gli ha dato ragione".

E se invece i referendum ottengono la maggioranza?
"In quel caso a vincere è il Paese. La sinistra però dovrà guardarsi bene dall'esaltarsi per la vittoria e da suscitare polemiche anticlericali. Dovrà aprire immeditamente un confronto con i vari movimenti cattolici per definire una legge sensata e razionale, che rassicuri e garantisca tutti".

Ha già in mente qualcosa di preciso?
"Un'ottima base c'è già, ed è la proposta di legge di Giuliano Amato".


Quesiti in provetta

 Cosa chiedono i quattro referendum su cui andremo a votare in primavera

 Il concepito Il referendum vuole cancellare l'articolo 1 che riconosce al "concepito" gli stessi diritti di una persona già nata.

Eterologa Il referendum chiede di cancellare il divieto di fecondazione eterologa, quella cioè in cui si utilizzano ovuli o spermatozoi di donatori estranei alla coppia.

Ricerca Il referendum chiede di cancellare gli articoli che limitano la libertà di ricerca sugli embrioni per scoprire terapie contro gravi malattie.

Salute della donna Il referendum vuole cancellare l'obbligo di creare in vitro non più di tre embrioni e di impiantarli tutti nell'utero della donna. E reintroduce la diagnosi pre-impianto.

 

SCHWARZY
«Una vergogna per l'Austria»
Arnold Schwarzenegger, il governatore della California ma anche cittadino austriaco, dovrebbe essere privato della cittadinanza del suo paese d'origine. La proposta viene da Peter Pilz, esponente del Partito verde austriaco, che la motiva con la decisione del governatore austro-americano di confermare l'esecuzione, mercoledì scorso, di Donald Bearslee. Schwarzy è «probabilmente il più famoso cittadino austriaco all'estero - ha detto Pilz - e con la sua decisione ha gravemente danneggiato la reputazione dell'Austra». Le condanne a morte, ha continuato nella sua richiesta inoltrata al governo di Vienna - sono «inaccettabili in Austria e in Europa e nessun cittadino austriaco può macchiarsi di un assassinio di stato». E' improbabile che la richiesta di Pilz venga accettata.

 

Bolivia sull'orlo della secessione
S. Cruz, Padania boliviana, vuole l'indipendenza
MAURIZIO MATTEUZZI
Anche la lontana Bolivia ha i suoi padani, che reclamano l'autonomia, minacciano la secessione e in realtà ambiscono all'indipendenza. Sono i cruceños, gli abitanti di Santa Cruz, capitale dell'oriente boliviano - le terre basse rispetto e contro l'altipiano andino -, capitale economica - quasi il 29% del prodotto nazionale lordo, il 50% delle esportazioni totali, il 38% delle imposte nazionali -, il dipartimento più grande della Bolivia (370 mila km quadrati, quanto l'Italia) e il più ricco grazie a agro-business, allevamento e energia. Da sempre insofferenti e sprezzanti di fronte agli «andinos» dell'altipiano e dell'occidente -, hanno trovato l'ennesima occasione che cercavano - sono almeno 5 i «levantamientos cruceños» nel corso del `900 - nella debolezza del presidente della repubblica Carlos Mesa.

Mesa è entrato al Palacio Quemado - la sede della presidenza a La Paz - nell'ottobre del 2003, dopo la «rivolta del gas», il sanguinoso sommovimento popolare che costrinse alle dimissioni e alla fuga il presidente neo-liberista e filo-americano Gonzalo Sanchez de Losada. Mesa era il vicepresidente e la sua ascensione fu favorita dal fatto di essere un indipendente svincolato dagli screditatissimi partiti politici. Ma questa si è rivelata anche la sua debolezza. Perché per rispondere colossali problemi economici e sociali del paese più povero dell'America latina si è ritrovato solo, senza una base parlamentare nel Congresso.

I nodi sono venuti subito al pettine: il gas e l'acqua, contro i tentativi delle transnazionali - in larga misura già riusciti - di impossessarsene e privatizzarli; la coca, contro l'imposizione Usa di estirpare con la forza le colture millenarie; gli intrighi e le manovre dei partiti tradizionali - in qualche misura, lo stesso Mas del leader cocalero Evo Morales, favorito per le presidenziali del 2007 -; le pulsioni scissioniste di Santa Cruz.

Nel luglio 2004 Mesa ha promosso un referendum sul gas che ha vinto, ma la nuova «Ley de Hidrocarburos» non si è ancora vista. E neppure la promessa assemblea costituente.

In dicembre è stata la volta delle elezioni municipali, che hanno sancito una nuova debacle dei partiti tradizionali (ma non del Mas, diventato il primo partito) e hanno portato alla ribalta una costellazione di movimenti civici e di sindaci a cui Mesa cerca di fare riferimento.

Il 10 gennaio El Alto, la città gemella - e poverissima - sull'altipiano che domina La Paz, si è rivoltata contro Aguas de Illimani, la filiale boliviana della transnazionale francese Suez Lyonnaise des Eaux, che gestisce la fornitura idrica delle due città; e Santa Cruz si è rivoltata contro l'aumento del 25% dei prezzi del combustibile decisa il 31 dicembre da Mesa. Il presidente ha fatto parzialmente marcia indietro, impegnandosi alla rescissione del contratto di gestione ad Aguas de Illimani e abbassando l'aumento del diesel dal 25 al 15%. Ma i cruceños non si sono fermati e hanno inalberato la bandiera dell'autonomia. Il Comité Civico Pro Santa Cruz, pagato da agricoltori e industriali locali, si è impossessato della città e Ruben Costas, il suo leader, ha convocato per venerdì 28 un cabildo abierto, una sorta di assemblea cittadina che deciderà l'autonomia piena con «la nomina immediata di un governo provvisorio di Santa Cruz». Una proclamazione d'indipendenza. «Una decisione senza ritorno», ha detto.

La situazione è al limite della rottura. Le pulsioni scissioniste dell'opulenta Santa Cruz sono molto mal viste nel resto del paese. I comandi della forze armate sono riuniti. I sindaci, i sindacati, le organizzazioni imprenditoriali e quelle di campesinos e indigeni sono prima ancora che con Mesa con la difesa «della democrazia» e contro le manovre del «gruppo di potere oligarchico» cruceño . I partiti fingono di mediare ma in realtà giocano alla destabilizzazione di Mesa. Gli unici impegnati nella mediazione sono la chiesa cattolica, il defensor del pueblo e l'Assemblea permanente per i diritti umani. Mesa ha detto che non si dimetterà. Ma in questo momento le prospettive possibili sono o elezioni anticipate, o dimissioni, o l'invio dell'esercito. Una più critica dell'altra.

 

20 gennaio

Il secondo regno di Bush
tra l'America e il mondo
dal nostro inviato VITTORIO ZUCCONI

WASHINGTON - Duecento e quattro anni dopo il giuramento di Thomas Jefferson, il primo presidente americano a essere incoronato a Washington nel cantiere di un Campidoglio in costruzione, George Walker Bush poserà questa mattina la mano sulla Bibbia e chiederà, come tutti i suoi predecessori, l'aiuto di Dio, "so help me God", per governare gli Stati Uniti d'America fino al 2009.

Da questa cifra, da due secoli e più di democrazia elettorale ininterrotta da guerre, da maremoti migratori, da aggressioni esterne, da assassini politici e da scandali devastanti, è obbligatorio partire quando un presidente, nuovo o rieletto che sia, sale all'ombra del cupolone candido, sul terreno del Congresso dove va per riaffermare con quel gesto la primazia originaria del potere legislativo e federalista, sul potere esecutivo centrale.

La inauguration è, prima di essere la incoronazione di un vincitore, il Te Deum di una democrazia che celebra se stessa e la propria capacità di sopravvivere senza smarrirsi, un rito mai intenso come in questa prima cerimonia dopo quell'11 settembre che per un attimo parve mettere in discussione l'esistenza e la natura degli Stati Uniti.

La festa dell'insediamento non è dunque l'incoronazione di un uomo, di un Borbone o di un Windsor, per quanti balli, ricevimenti, gala, abiti lunghi e soldi (40 milioni di dollari questa volta, un record) siano bruciati. È, soprattutto quest'anno, un Thanksgiving politico, la festa del Ringraziamento di una nazione che persevera e prospera. E in momenti come questo ritrova e rinnova la propria identità, che non è un'identità in negativo, rabbiosamente etnica, confessionale o xenofoba, ma costituzionale.

Collocare nella prospettiva storica l'insediamento è sempre una necessità per chi, nel mondo, assiste al rito di questa "monarchia elettiva". Ma lo è specialmente quando al (temporaneo) trono americano sale, o risale, un personaggio controverso come George W. Bush che incarna, secondo il sondaggio internazionale dell'istituto demoscopico Pew, tutto ciò che l'Europa Occidentale, la galassia islamica, la gran parte dell'Asia (meno l'India) e l'America Latina, detestano degli Stati Uniti. Mai, da quando esistono le ricerche d'opinione, neppure nei decenni dell'antiamericanismo pilotato dal Cremlino, il prestigio internazionale di questo Paese e del suo Presidente era stato così basso e l'impopolarità dell'America tanto elevata.

È un'antipatia trasversale e transideologica generata inizialmente dalla figura dello stesso "W", dicono i ricercatori, ma che sta inesorabilmente tracimando da lui alla nazione che questa volta lo ha davvero eletto. Dunque il mito di un Bush "usurpatore", escrescenza estranea al corpo americano, che per quattro anni ha sostenuto coloro che ancora distinguevano fra lui e gli Usa cade oggi, nel bene e nel male.

La identificazione fra il "paese reale" e il "paese legale" è avvenuta e sarà sancita in questa capitale trasformata in un campo di Marte, tra incubi e succubi del terrorismo. Rammentare la transitorietà delle persone e la permanenza della democrazia serve oggi, come se ci fosse bisogno di abbassare la temperatura nel gelo di una Washington artica e dunque fausta per Bush che ricorda il freddo che accolse il primo insediamento del suo idolo Reagan, a raffreddare tanto l'esaltazione dei supporter quanto la rabbia impotente dei delusi.

Ai primi, che hanno salutato la vittoria di Bush come l'apoteosi e la "ratificazione" (sono parole sue) della guerra in Iraq, dell'unilateralismo interventista, delle farneticazioni neo conservatrici, dello sprezzo per la Vecchia Europa e per l'Onu, delle orribili bugie sulle armi, va ricordato che in democrazia una vittoria elettorale non fa una verità, fa soltanto un governo. E neppure otto anni, il massimo che la Costituzione conceda, possono davvero rivoluzionare e ribaltare una nazione troppo massiccia, troppo articolata, troppo poco statalista, per essere rivoltata da un governo.

Ai secondi, agli orfani inconsolabili della mitica "altra America" ancora impigliati nel culto dei morti, nell'adorazione di una sinistra che non esiste più nei leader e nella base elettorale, va seccamente ripetuto il brusco monito che il numero due della commissione Esteri del Senato, il democratico Joe Biden, tutto meno che un fan di Bush, ha lanciato in questi giorni, rivolto all'Europa: "Get over it! Get over it!", fatevela passare e rassegnatevi, George W è il legittimo Presidente e con lui noi dovremo trattare e vedercela per quattro anni, in questo spicchio di mondo atlantico euroamericano che sta diventando, giorno dopo giorno, sempre più periferico e marginale, quanto più aumenta la sua frammentazione.

Ascolteremo oggi con quali formule, comincerà il secondo atto, il "Bush Part II" (o III, se si conta anche il quadriennio di suo padre) ma lo ascolteremo con lo scetticismo che deve accompagnare questi discorsi di investitura, scritti da retori e sceneggiatori di professione. L'esperienza dello stesso Bush, che aveva promesso nel discorso del 2001 il contrario di quello che poi avrebbe fatto, ci insegna che estrapolare una presidenza dalle parole di un discorso è un esercizio di piaggeria o di antipatia, destinato a fallire quando la retorica incontra la realtà del mondo. L'ottimismo pacifista di un Wilson, l'isolazionismo di un Roosevelt, come il non interventismo di un Bush, vengono demoliti in pochi minuti dai cannoni della Krupp, dai siluri giapponesi a Pearl Harbor o dagli assassini delle Torri Gemelle. Già è arduo tracciare bilanci consuntivi sulle presidenze americane, come dimostrano le continue revisioni storiche. Tracciare un bilancio preventivo è impossibile, quando non è semplicemente disonesto.

Ma una cosa si può dire con certezza. Questo cinquantanovenne ingrigito e, come tutti, invecchiato dalla responsabilità immane della presidenza, non è lo stesso uomo che apparve quattro anni fa, sulla balconata del Campidoglio, come un personaggio smarrito e burbanzoso, in cerca d'autore, vestito d'un abito che "pareva stargli troppo largo, passato da un fratello maggiore", come notò David Ignatius sul Washington Post.

Questa mattina, l'immancabile abito blu a un petto con bandierina all'occhiello che indosserà sotto il cappotto fumo di Londra - se Laura lo convincerà a indossarlo superando il machismo texano nonostante la stufetta nascosta ai piedi sotto la balaustra - lo vestirà perfettamente, perché il presidente "accidentale" del 2001 è divenuto il presidente reale di questo 2005. È divenuto il comandante della nave America, piaccia o no la rotta che la nave sta seguendo. Altri, dopo di lui, cambieranno navigazione e dunque non si esaltino troppo i cortigiani del bushismo, né si deprimano troppo gli antipatizzanti. Ancora una volta, come ha sempre fatto, l'America spiazzerà amici e avversari, se non addirittura con il secondo Bush, certamente con chi verrà dopo, nella impermanenza delle dottrine e nella permanenza del pragmatismo.

Nel suo discorso di accettazione, tenuto in ritardo nel marzo del 1801 dopo due mesi di risse parlamentari per decidere se lui avesse davvero vinto la Casa Bianca, Jefferson propose alla propria giovanissima nazione e al resto del mondo "pace, commercio, amicizia onesta con tutti i popoli e vincoli di alleanza con nessuna". Ecco. Tutto passa e tutto ritorna, sotto i ponti d'America.



 

19 gennaio

IRAN
La Nobel Ebadi: basta celle-tortura
La Premio Nobel per la pace iraniana Shirin Ebadi ha denunciato ieri come «forma di tortura», assieme ad un gruppo di dissidenti, l'uso da parte delle autorità iraniane di lunghi periodi di detenzione in isolamento in minuscole celle e ha chiesto alla magistratura di porre fine a tale metodo. E subito dopo la denuncia della Ebadi, il governo di Tehran ha annunciato che la recente convocazione dell'avvocatessa premio Nobel da parte di una corte rivoluzionaria è il frutto di «un errore» e che il provvedimento sarà probabilmente annullato. «Il trattamento riservato ai prigionieri politici è peggiore di quello per i criminali», ha denunciato la Ebadi, che da anni si batte per la difesa dei diritti umani e che è stata lei stessa tenuta in isolamento in carcere per 25 giorni nel 2000. «È stata un'esperienza durissima - ha affermato - che mi ha provocato il ritorno di un handicap della parola di cui avevo sofferto nell'infanzia». La Ebadi ha quindi chiesto al capo dell'apparato giudiziario, l'ayatollah Mahmud Hashemi Shahrudi, di fare applicare un divieto dell'uso di questa pratica, divieto che lui stesso aveva annunciato sei mesi fa.


 «Commando Usa infiltrati in Iran»
L'inchiesta di Hersh: nel terzo atto della «guerra al terrore» Bush vuole distruggere l'infrastruttura militare di Tehran
MI. CO.
I falchi dell'amministrazione statunitense stanno già preparando la prossima tappa della guerra permanente: agenti segreti americani sono stati infiltrati in Iran dall'estate scorsa e stanno individuando una serie di obiettivi da colpire nell'ambito di un attacco «mirato» al regime degli ayatollah. A sostenerlo è Seymour Hersh, che in un articolo sul settimanale New Yorker costruito sulla base di fonti interne al governo Bush e alla Cia non manca di mettere in guardia i guerrafondai al potere a Washington dalle possibili conseguenze. Una simile offensiva - suggerisce il giornalista che portò alla luce lo scandalo delle torture nel carcere iracheno di Abu Ghraib - potrebbe avere l'effetto indesiderato di rafforzare il regime di Tehran. Nonostante la campagna irachena si stia rivelando un disastro, Bush ha interpretato il suo successo elettorale nella presidenziali del 2 novembre come una promozione popolare della sua politica mediorientale. Avanti tutta con l'«esportazione della democrazia» dunque, a suon di bombe s'intende. Secondo Hersh la responsabilità del «piano Iran» è stata affidata al riconfermato ministro della difesa Donald Rumsfeld. Dopo due anni di intense pressioni da parte del segretario alla difesa, il presidente avrebbe firmato una serie di ordini esecutivi che hanno autorizzato l'infiltrazione in Iran di di commando e unità delle forze speciali a caccia di sospetti «obiettivi terroristici». Così mentre le diplomazie europee sono impegnate in una serie di passaggi diplomatici sul nucleare iraniano, da Washington si insiste che nessuna trattativa con Tehran è valida senza la minaccia delle armi. E dalla scorsa estate gli uomini del Pentagono starebbero cercando le «prove» necessarie a far scattare il piano d'attacco, raccogliendo informazioni sul nucleare iraniano e sugli impianti chimici e missilistici di Tehran, sia quelli ufficiali che quelli segreti. Poco importa che domenica il portavoce del ministero degli esteri iraniano, Hamid Reza Asefi, abbia assicurato che le recenti rilevazioni da parte dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea) nei pressi della capiatale dimostreranno che «non abbiamo mai fatto niente d'illegale». Secondo il premio Pulitzer considerato uno dei migliori giornalisti investigativi del mondo l'obiettivo delle missioni segrete è «identificare e isolare una trentina, forse più, di obiettivi che possano essere distrutti con attacchi di precisione e rapide incursioni di commando», perché gli uomini del Pentagono hanno in mente di distruggere la maggior parte dell'infrastruttura militare di Tehran.

Puntuale è arrivata la smentita della Casa Bianca, per bocca del suo direttore della comunicazione, Dan Bartlett, che ha dichiarato alla Cnn che l'articolo di Hersh è pieno «di imprecisioni». Bartlett si è limitato ad affermare di non credere «che alcune delle conclusioni di Hersh siano basate su fatti». E quando gli è stato chiesto se l'opzione militare nei confronti dell'Iran fosse allora da scartare, ha risposto: «Nessun presidente in certe circostanze storiche ha mai scartato l'opzione militare». I commando sguinzagliati dall'amministrazione Usa oltre il confine iraniano, passando attaraverso l'Afghanistan, avrebbero una funzione importantissima: quella di non far ripetere a Bush la figuraccia fatta con le presunte armi di distruzione di massa di Saddam, mai trovate dopo che l'invasione della Mesopotamia era stata giustificata dalla possibilità che il dittatore iracheno le utilizzasse a fini terroristici. «Non vogliono fare nessun errore come quello iracheno, i repubblicani non potrebbero mai permetterselo», ha confidato ad Hersh una fonte interna al ministero della difesa Usa. Ma Hersh va oltre la semplice rivelazione del piano e si spinge fino a prevedere le conseguenze di un'eventuale azione militare contro Tehran. «L'idea che un attacco contro gli impianti nucleari iraniani produrrebbe una sollevazione contro il regime degli ayatollah è frutto di cattiva informazione, perché le ambizioni nucleari iraniane sono sostenute da tutto lo spettro politico del paese», dice ad Hersh Flynt Leverett, membro del Consiglio per la sicurezza nazionale di Bush. Insomma anche l'attacco all'Iran sarebbe un disastro.


 I PUBBLICI SONO FUORI
Tutto il settore pubblico rimane per ora scoperto. La riforma del ministro Maroni, vale infatti solo per il settore privato. Non è ancora stato stabilito nulla a proposito della copertura finanziaria statale per la trasformazione del Tfs (l'indennità di fine rapporto degli impiegati pubblici) in Tfr e il suo trasferimento ai fondi pensione.
 

TERRA TERRA
Brasile, la diga abbatte la foresta
KARIMA ISD
E' andata «avanti e indietro al ritmo del tango» - per usare l'espressione del sito www.socioambiental.org - la saga della diga Barra Grande, nella Mata Atlantica brasiliana, la già ultradepredata foresta della parte sud-orientale del paese, già ridotta al 7% della sua estensione originaria. L'invaso della diga, costruito sul fiume Pelotas, al confine fra gli stati del Rio Grande do Sul e di Santa Caterina, coprirà 6.000 ettari, fra i quali 2.000 di foresta pluviale di pino araucaria: uno degli ecosistemi più minacciati di estinzione e sede di una ricca biodiversità. Alleanze si sono fatte e rotte intorno a questa vicenda che ha risvolti tristemente esemplari. E che sembra concludersi male: il primo gennaio, in un periodo in cui agli avvocati ambientalisti che avevano fatto ricorso era stato detto che il tribunale era in vacanza, un giudice ha autorizzato il consorzio di costruttori a procedere con motoseghe e bulldozer, per tagliare la foresta di araucaria, ultimo passo necessario affinché la diga, già costruita, entri in funzione. Il fatto è che la diga Barra Grande non avrebbe mai dovuto essere iniziata. Tanto che lo scorso 28 dicembre il giudice Jurandi Borges Pinheiro aveva confermato l'ordine di sospendere le operazioni di abbattimento della foresta primaria, accogliendo il ricorso avanzato dalla Rete delle associazioni della foresta sulla costa atlantica e dalla Federazione dei gruppi ecologici dello stato di Santa Catarina (Feec). Gli ambientalisti parlavano di «cospirazione fraudolenta» fra le preposte autorità brasiliane - la licenza di taglio è stata accordata dall'Ibama, agenzia federale per l'ambiente - e il consorzio Baesa dei costruttori della diga, in particolare la compagnia di Pittsburg Alcoa, gigante dell'alluminio. Nelle valutazioni di impatto ambientale non comparivano i 2.000 ettari di foresta vergine di pino araucaria. Gli ecologisti chiedevano di verificare se l'invaso potesse operare a un livello più basso, tale da salvare quella foresta; in caso contrario, la loro richiesta era: si demolisca la diga. Del resto, mesi fa lo stesso presidente del Baesa ha dichiarato che senza quell'errore (?) la devastante opera non sarebbe mai stata autorizzata; ma, ha aggiunto, dato che la diga era già costruita, tanto valeva andare avanti. La decisione del giudice Pinheiro non era stata la prima contro l'abbattimento, che aveva suscitato una notevole attivismo «socio-giuridico». Nei mesi scorsi gli ambientalisti avevano un attivissimo alleato nel Mab, movimento brasiliano delle popolazioni colpite dalle dighe. Centinaia di attivisti in ottobre avevano bloccato gli operai muniti di motoseghe. Intanto i ricorsi degli ambientalisti trovavano riscontri positivi in decisioni giudiziarie. Ma a dicembre lo scenario è cambiato, tanto che il 23 i bulldozer riavviavano i motori: il consorzio di costruttori Baesa riteneva di avere via libera avendo raggiunto un accordo sulle questioni sociali con i rappresentanti del Mab, alla presenza del Ministero dell'energia e miniere e dell'Ibama nonché con il beneplacito del Ministero dell'ambiente, il quale comunque chiedeva una revisione delle procedure di valutazione dell'impatto ambientale, per evitare simili errori in futuro. Il movimento dei colpiti dalle dighe ha così sospeso la sua efficace opposizione, decidendo di accettare l'offerta della controparte: un aumento nel programma di compensazione per le famiglie che hanno perso le proprietà sotto le acque della diga e anche l'uso del legname tagliato per la costruzione di case per gli sfollati. Pochi giorni dopo, il giudice Pinheiro, stabiliva che l'accordo in questione non risolveva invece affatto la controversia ambientale e quindi poneva un altro stop ai lavori. Ma il primo gennaio ecco il verdetto. E adesso? La vicenda è stata seguita dall'International Rivers Network (www.irn.org) la cui corrispondente nella zona, Glenn Switkes, ci scrive: «Gli ambientalisti continueranno a far ricorsi, ma temo che basteranno pochi giorni per ridurre la foresta vergine a segatura...».


 

Donald Beardslee era stato condannato per due omicidi
Il governatore Schwarzenegger ha respinto la domanda di grazia
Torna il boia in California
prima esecuzione dopo 3 anni

L'uomo è stato messo a morte con l'iniezione letale
 
 
Donald Beardslee
SAN QUENTINO - La California ha eseguito oggi la prima condanna alla pena capitale da tre anni, mettendo a morte con un'iniezione letale Donald Beardslee, 61 anni, condannato nel 1984 per gli omicidi di due donne, avvenuti nel 1981. La condanna è stata eseguita poco dopo la mezzanotte (ora locale), quando è arrivata la comunicazione che il governatore dello Stato, Arnold Schwarzenegger, aveva respinto la richiesta di grazia.

Beardslee è morto senza dire niente: è apparso completamente passivo ai responsabili della prigione di San Quentino che lo hanno legato al tavolo, e gli hanno praticato l'iniezione con tre sostanze chimiche letali, tra le quali il cloruro di potassio, che causa l'arresto cardiaco. L'uomo non ha neanche richiesto "l'ultimo pasto" con un menu speciale, hanno detto alla prigione. Si è accontentato della solita cena, a base di chili, maccheroni, verdure miste, insalata e torta.

All'esecuzione hanno assistito quattro parenti delle vittime, ma nessun parente di Beardslee. L'avvocato dell'uomo aveva fatto ricorso sostenendo che il suo cliente era affetto da una malattia mentale aggravata da ferite al cervello, quando aveva ucciso Stacey Benjamin, 19 anni, e Patty Geddling, 23. Ma Schwarzenegger, nel respingere la richiesta di grazia, ha ribadito quanto stabilito nelle sentenze di condanna, e cioè che Beardslee era in grado di comprendere la gravità delle sue azioni.

L'uomo era un militare dell'Air Force, e nel 1968 aveva già ucciso una giovane donna, nel Missouri. Beardslee è l'undicesimo persona ad essere messa a morte da quando in California è tornata in vigore la pena capitale, nel 1978. Attualmente nel braccio della morte nello stato ci sono 640 persone, il numero più alto negli Stati Uniti. Il secondo stato è il Texas, con 455 condannati.


18 gennaio

La destra si scatena per un'inchiesta di "Report"
E Cuffaro ottiene una trasmissione riparatrice

Scoppia lo scandalo
la tv parla di mafia

di CURZIO MALTESE
 
UNA bella inchiesta di Report su Raitre ha interrotto per una sera gli anni di omertà televisiva sulla mafia, con l'eccezione di qualche buona ma innocua fiction.

Puntuale è scattata la censura della maggioranza. Tutti in prima fila, gli esponenti siciliani di Forza Italia, il presidente della Regione Cuffaro, il sindaco di Catania Scapagnini, non per combattere la mafia ma il giornalismo anti-mafia.

Per difendere la "loro" Sicilia "diffamata e offesa" con "vecchie storie", frutto di pregiudizio politico. Senza neppure rendersi conto di usare gli argomenti, il linguaggio, le frasi fatte di un Totò Riina o di tanti mafiosi da film.

In verità i legami fra Cosa Nostra e politica erano stati appena sfiorati dal programma di Raitre, forse nell'illusione di scampare alla mannaia. Ma ormai nella maggioranza dei "61 collegi su 61" basta la sola parola "mafia" per scatenare reazioni isteriche, violente e a volte ridicole. Come la richiesta di ottenere una "trasmissione riparatrice" su Raidue per "mostrare l'altro volto della Sicilia", avanzata da Cuffaro e prontamente accolta dallo spaventapasseri di destra piazzato alla direzione generale della tv pubblica, Flavio Cattaneo. Che ci faranno vedere, carretti e balli folcloristici? Sono anni che in tv, Rai o Mediaset, ci fanno vedere l'altro volto della Sicilia, quello falso, dove la mafia non esiste.

Il torto di Milena Gabanelli e degli inviati di Report è di aver ricordato che la mafia invece esiste ed è tornata a controllare il territorio. Non si sono visti scoop o rivelazioni clamorose nella puntata dell'altra sera.
Soltanto l'ostinato, intelligente racconto di che cos'è la nuova criminalità organizzata, attraverso episodi piccoli e grandi. I tre incendi al locale gestito dal capo dei commercianti anti racket del siracusano, scanditi ogni nove mesi esatti, nell'incredibile impotenza delle forze dell'ordine. Le strane fughe a un passo dall'arresto di Bernardo Provenzano, che dev'essere da trent'anni l'uomo più fortunato del pianeta oppure uno che ha buoni informatori nelle istituzioni. Un'inchiesta seria, documentata, equilibrata, che ha dato voce per una volta alla Sicilia del coraggio e dell'onestà, l'ha fatta sentire meno sola. Un ottimo esempio di quel servizio pubblico che tutti, a parole, invocano dalla Rai.

La censura a Report è l'ultimo episodio di una lunga storia di televisione di regime, cominciata nel 2001 con la vittoria di Berlusconi e il proclama di Sofia contro Biagi e Santoro, proseguita con l'epurazione della satira e dell'informazione indipendente, fino alla grottesca sospensione del Molière di Paolo Rossi domenica scorsa. Ma è anche l'episodio più grave e triste, nella sua cinica prevedibilità.

E' prevedibile ma deprimente che un personaggio come Totò Cuffaro, che deve rispondere alla giustizia dell'accusa di favoreggiamento alla mafia, scateni pubblicamente l'ennesima campagna contro l'antimafia. E' altrettanto scontato ma triste che Forza Italia, il cui fondatore Marcello Dell'Utri è stato condannato in primo grado a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, metta alla gogna chi indaga sulla mafia. Possibile che nessuno, nel centrodestra, provi imbarazzo per questo processo alla rovescia? Non ci aspettiamo grandi prove di senso dello Stato dalla maggioranza. Ma se è vero che "la Sicilia non è soltanto mafia" neppure lo è tutta l'Udc o Forza Italia.

E dunque perché lasciar parlare su questi temi soltanto una compagnia di indagati o condannati?

Quanto al danno che queste inchieste e perfino alcuni sceneggiati produrrebbe all'immagine della Sicilia e dell'Italia, vecchia accusa di Berlusconi, bisogna mettersi d'accordo. Un episodio come questo è destinato a fare il giro del pianeta, portando l'immagine più desolante di un'Italia omertosa, governata da amici degli amici.

Qualche mese fa le Monde ha rappresentato una vignetta con Berlusconi che presentava la sua squadra. Da una parte un gruppo di ciechi col bastone e i cani: "I miei elettori". Dall'altra un pugno di ceffi con coppola e occhiali da sole: "I mie collaboratori". La battuta è stata ripresa da tutte le televisioni del mondo, tranne una. Davvero un bel colpo d'immagine, altro che "La Piovra".

 

14 gennaio

COLOMBIA - UCCISO DIRIGENTE INDIGENO DEL POPOLO HUITOTO

Il dirigente indigeno colombiano Saul Márquez Tovar, scomparso in circostanze non ancora chiare il 6 gennaio scorso a Leticia, capitale del dipartimento meridionale di Amazonas, è stato rinvenuto morto nella località brasiliana di Tabatinga, appena oltre la frontiera tra i due Paesi: lo ha riferito l'Organizzazione nazionale indigena della Colombia (Onic), secondo cui la vittima presentava segni evidenti di violenza e torture.
"É stato legato, piedi e mani, e colpito ripetutamente sul volto; poi è stato colpito da almeno cinque pallottole" ha denunciato la Onic, senza aggiungere particolari sui possibili responsabili o il movente dell'omicidio.
Márquez, 28 anni, era il presidente dell'Associazione regionale indigena di Arica, che riunisce le comunità del popolo Huitoto, insediate lungo le rive del fiume Putumayo.
Padre di due bambini, si era impegnato in numerosi programmi di sviluppo per la sua gente, soprattutto nei settori dell'istruzione e della comunicazione.
"La sua morte, addolora quella parte del Paese che crede nel diritto alla differenza e alla dignità dei popoli ancestrali" ha fatto sapere la Onic in una nota, aggiungendo: "Sappiamo già che non ci saranno indagini né colpevoli, sappiamo già che l'impunità occulterà ancora una volta gli autori di questa come di altre uccisioni".
Solo lo scorso anno in Colombia, sono stati assassinati oltre 100 indigeni.

 

13 gennaio 2005

Reportage dal tribunale del Texas che processa Charles Graner
accusato di aver organizzato le torture sistematiche dei detenuti
Al processo del "diavolo"
dell'inferno di Abu Ghraib

dal nostro inviato CARLO BONINI
 
 
Graner all'uscita dalla corte

FORT HOOD (Texas) - Il diavolo di Abu Ghraib, lo "specialista" Charles A. Graner junior, sedicesima brigata di Polizia militare del Maryland, è una sagoma immobile e corpulenta che fatica a stare nell'uniforme verde oliva che ha insozzato con guinzagli, mazze d'acciaio e arnesi di sodomia per musulmani. Ha lo sguardo straniato del bambino, occhiali grandi da seminarista, l'incarnato liscio, ripulito dai baffi e dal ghigno che lo hanno consegnato all'orrore nella notte tra il 7 e l'8 novembre 2003.

L'America lo processa da tre giorni nell'anonimato di questa aula di Corte marziale foderata da pannelli e scranni in mogano scuro, moquette color cenere, pareti dall'intonaco giallo crema. Fort Hood, un punto geografico al centro del Texas, 60 miglia a nord di Austin. Cielo basso, grandi laghi, dolci colline, rivenditori d'auto di occasione, motel a buon prezzo, e carri armati. La casa della 4a divisione di fanteria, della 1a di cavalleria, del 3° corpo d'armata. Il pugno corazzato dell'esercito degli Stati Uniti in Iraq.

Il destino di Graner è affare di simili, che sarà risolto tra simili. Nella giuria siedono 10 uomini. Sette bianchi, due neri, un ispanico. Quattro ufficiali, sei sottufficiali. Tutti veterani delle campagne in Iraq e Afghanistan. Se vorranno consegnarlo ai 17 anni e mezzo di reclusione che per lui chiede l'accusa per 5 capi di imputazione (cospirazione; mancata osservanza dei propri doveri; maltrattamento di persone affidate alla propria custodia; lesioni aggravate; atti osceni), almeno 7 di loro dovranno pronunciare la parola "colpevole". "Al di là di ogni ragionevole dubbio" dovranno stabilire se nella notte di Abu Ghraib lo "specialista" si sia abbandonato alla vena sadica della sua vita disgraziata, alla passione per la sopraffazione che da civile gli era costata il matrimonio e il posto da secondino in un carcere della Pennsylvania o non, piuttosto, agli ordini di chi oggi non siede in quest'aula, ma al riparo delle gerarchie militari.


Il processo è nella risposta a questa domanda. Lo sa Graner, che fissa immobile un punto nel grande schermo dell'aula che ripropone ai giurati gli ingrandimenti dell'orrore di quella notte tra il 7 e l'8 novembre. Il "lavoro" che faceva sui prigionieri e che con feticismo documentava con la sua macchina fotografica digitale. Lo sa il suo avvocato Guy Womack, tenente colonnello dei marines a riposo, che nella sua petulante cantilena di uomo con l'accento del Sud, va ripetendo che "i fatti dimostreranno che Graner ha soltanto obbedito a degli ordini". Lo sa il maggiore Michael Holley, pubblico ministero e ufficiale sornione, che ha voglia di chiudere questa storia presto e in modo esemplare. Interrompendo le responsabilità della "catena di comando" lì dove oggi le fissa quest'aula. Allo specialista Charles A. Graner. Trentasei anni, "1.991,50 dollari al mese" per finire a spaccare ossa in una galera irachena, come documenta il cedolino dello stipendio depositato tra i documenti a disposizione della Corte.

* * *

Il maggiore Holley ha buon gioco. E lo sa quando deposita agli atti un nuovo video con masturbazioni di gruppo tra prigionieri. Chiede il buio in aula. Il maxi schermo illumina il volto di un disgraziato che dice di chiamarsi Hussein Mutar. Sarà questo primo testimone e come lui un secondo - anticipa l'ufficiale - a spiegare cosa significhi quella nuova prova di accusa.

Mutar parla lentamente. La sua deposizione è stata registrata in dicembre a Camp Victory, Bagdad. "Vivo a Bagdad, nella stessa casa dove sono stato prelevato a forza dalla polizia irachena una sera di ottobre del 2003. Mi accusarono di aver rubato una macchina e mi consegnarono agli americani, nel carcere di Abu Ghraib. Sono l'uomo in cima alla piramide di prigionieri nudi ritratta nella fotografia scattata dal caporale Graner la notte tra il 7 e l'8 novembre 2003...".
 

 Un'immagine delle torture
nel carcere di Abu Ghraib


Holley interrompe la deposizione registrata. Un'immagine proiettata in sovraimpressione mostra la piramide cui Mutar fa riferimento. E il cerchio luminoso con cui, a beneficio dei giurati, lo stesso Mutar indica un corpo di uomo contratto nell'umiliazione e nel terrore, riconoscibile per una cicatrice. Il suo. Il mucchio perde il suo bestiale anonimato.

Il nastro con la voce dell'iracheno riprende a correre. "La notte tra il 7 e l'8 novembre, Garner ci ordinò di uscire dalle celle. Ci fece spingere in uno stanzone dove ci venne ordinato di spogliarci completamente. A chi non faceva in fretta, gli abiti erano tranciati con un coltello. Cominciarono a pestarci, tra le urla e le risate dei soldati. Graner ordinò quindi di masturbarci e mentre lo facevamo girò un video. Poi, ci ammucchiò nella piramide. Io fui picchiato proprio da lui. Al volto, alle ginocchia. Riuscivo solo a sentire le mie urla e quelle dei miei compagni. Quando ci fecero rientrare nelle celle, i pavimenti erano stati allagati. Ci obbligarono a stenderci in quella melma gelida per tutta la notte. Ho pregato di morire...".

Una nuova videocassetta illumina lo schermo di un secondo volto. Ameen Al-Sheikh, siriano. La notte tra il 7 e l'8 novembre 2003 era nella piramide di Mutar. Ad Abu Ghraib, Ameen godeva di pessima reputazione. Con una pistola ottenuta da un secondino iracheno aveva cercato la rivolta e, sparando, aveva trovato nei bracci i colpi di risposta dei GI americani. Racconta: "Non so se Graner fosse o meno il responsabile. So che dava gli ordini. So che è un uomo cattivo. Quella notte, mi camminò sulla ferita da arma da fuoco che avevo alla gamba. E non era la prima volta che mi torturava. Lo aveva già fatto costringendomi a rimanere ammanettato alle inferriate della mia cella per una notte intera, finché la mia spalla non aveva ceduto. Ho visto Graner ordinare ai suoi soldati di pisciare sui prigionieri. Costringere uno dei nostri fratelli a raccogliere e mangiare la sua razione di cibo dal fondo di una tazza del cesso. Ci imponeva di bere alcool e agli affamati dava carne di maiale, minacciando di violentare le mogli e le figlie di chi rifiutava. Neppure Saddam era arrivato a tanto".

* * *

Lo "specialista" Graner fissa le immagini come se non lo riguardassero. Ha un solo sussulto. Che lo accende di disprezzo. "L'ultima volta che ho visto quel tale Ameen, ha cercato di ammazzarmi", dice. Ma poi torna prigioniero di un silenzio cupo. L'accusa chiama sul banco dei testi il soldato Ivan L. Frederick II e il soldato Jeremy C. Sivitis. I compagni di quella notte di violenze. Hanno patteggiato con l'accusa condanne miti (un anno Sivitis, 8 Frederick) in cambio del colpo di grazia con cui ora giustiziano Graner, senza mai incrociarne lo sguardo.

Racconta Sivitis: "La notte tra il 7 e l'8 novembre, un sottufficiale della polizia militare che indossava un paio di guanti ci diede l'ordine di impilare una serie di prigionieri nudi al centro del braccio. Quell'uomo è seduto in quest'aula. E' il caporale Graner...". Quell'uomo, prosegue, faceva mostra di essere il padrone del braccio, delle vite dei suoi prigionieri. "La pratica di ammanettare i prigionieri alle sbarre delle loro celle era abituale. Se ne occupava personalmente Graner. Una volta gli vidi stringere a tal punto le manette di un detenuto che le mani di quel poveretto diventarono viola. Ero convinto che avrebbe perso gli arti. Dimostrava di essere molto sicuro di quel che faceva e lo documentava in modo ossessivo. Non faceva altro che scattare foto. Una volta, mi mostrò quella di una irachena di 19 anni a seno scoperto e mi disse che, purtroppo, non era riuscito a fotografarle il pube". Della sopraffazione, Graner sembrava godere.

Ancora Sivitis: "Una volta si accanì su un prigioniero accusato di violenza sessuale su un ragazzo. Cominciò a tempestargli le tempie di pugni, finché quello non svenne. Io provai a farlo smettere. Gli dissi: "Signore, credo che il prigioniero abbia perso conoscenza..". E lui, guardandosi le nocche del pugno, scoppiò a ridere e disse: "Cazzo, fanno male, eh?"".

Ivan L. Frederick è un ragazzone alto, con un taglio di capelli che rende la testa ancor più piccola di quanto già non sia e due occhi infossati, che sembrano seguire il filo di un ragionamento non necessariamente legato alle domande che gli vengono rivolte. Ha picchiato con Graner. Sta già scontando il prezzo di quelle sevizie. "Quando la nostra unità arrivò ad Abu Ghraib - racconta - chiesi ai ragazzi dell'unità che rimpiazzavamo per quale motivo i prigionieri dovessero rimanere nudi e indossare biancheria intima da donna sulla testa. Mi venne risposto che le cose, ad Abu Ghraib, andavano in quel modo e che se l'intelligence militare lo chiedeva, il lavoro andava fatto. Graner era un interprete entusiasta di quell'andazzo. Tanto che ricevette l'apprezzamento degli ufficiali dell'intelligence militare. Poi, cominciò ad essere sempre più aggressivo, fino a quando io non ce la feci più a stargli dietro...".

L'avvocato Guy Womack ha un guizzo. Vede un primo spiraglio. Lo incalza. "Dunque, era l'intelligence militare a stabilire che venissero usati certi metodi?". "Posso dire che quando chiesi direttamente ad un ufficiale dell'intelligence militare come andasse fatto il lavoro, mi rispose: "Non me ne frega un accidente di come lo fai, purché lo fai e purché i prigionieri restino vivi". L'unica istruzione che ci venne data era di lavorare sui "punti di pressione"". Womack: "Posso chiederle cosa intendeva l'intelligence militare per "punti di pressione"?". "Le aree della cute che provocano dolore". Womack sorride. "Era quello che volevo sentirmi dire...".

Il maggiore Holley si drizza come chi avverte un improvviso pericolo. Fa due sole domande: "Soldato Frederick, eravate consapevoli che quanto facevate lei e il caporale Graner nel carcere di Abu Ghraib era contrario alla legge?". "Si, Signore". "Soldato Frederick, qualche ufficiale dell'intelligence militare vi ha mai ordinato di usare guinzagli e bastoni sui prigionieri. Di usare violenza sui loro corpi?". "No, Signore".

* * *

La difesa prova ad allargare il varco con il sergente Brian Lipinsky, sottufficiale dell'unità in cui Graner prestava servizio. Womack gli chiede conto del rapporto con cui, il 16 novembre 2003, diede atto dell'apprezzamento che per il lavoro del caporale nutriva l'intelligence militare. Lipinsky conferma quelle note, ma ne aggiunge il contesto. E sono ancora brutte notizie per Graner. "In quel periodo, Graner aveva cominciato a tirare la corda. Il suo comportamento si era fatto eccentrico, sia nel modo di presentarsi e vestire l'uniforme, sia nel modo di interpretare le generiche direttive dell'intelligence sulla necessità di ammorbidire la resistenza dei prigionieri".

Non va meglio con Thomas Archambault. E' un curioso ex sottufficiale di polizia. Si presenta (e così lo presenta la difesa) come "esperto in tecniche di coercizione sui detenuti". Prova a spiegare alla Corte che, per quel che gli consta, "Graner ha fatto un uso ragionevole della forza. Che, dato il contesto, chiunque, si sarebbe comportato in quel modo". Che "guinzagli e pile di corpi umani, non sono una novità nelle tecniche di controllo dei detenuti".

Il presidente della Corte, il colonnello James L. Pohl, ha una fiammata d'ira. Investe l'avvocato Womack. E le sue parole sembrano anticipare il giudizio. "Mi stia bene a sentire, avvocato, perché non glielo ripeterò una seconda volta. Se lei sta provando a far entrare in questo processo valutazioni ipotetiche su quale grado di sofferenza abbiano provato i prigionieri di Abu Ghraib, se lo scordi. A questo signore, vale la pena chiedere una sola cosa e sono io a fare la domanda: esiste un qualche manuale adottato in un qualunque penitenziario americano, civile o militare, che prevede l'uso di guinzagli e di piramidi umane come tecnica legittima di coercizione?". Archambault è una statua di sale. La risposta, un monosillabo che lo congeda: "No, Signore. Non esiste". Lo specialista Graner, per la prima volta, si piega su se stesso.

 

9 gennaio

CONTRORDINE
L'etica del taglione
ALESSANDRO ROBECCHI
Leggere su un giornale italiano che la tortura, tutto sommato, in fondo in fondo, a pensarci bene, non è poi così male, fa un certo effetto. Ma, pardon, mi correggo, non è tortura, stolto che sono. Il Foglio, l'unico quotidiano al mondo che sa l'inglese (compresi quelli americani e inglesi, ovvio) ci fa la lezioncina: il nuovo ministro della giustizia di Bush (e della nazione, ci mancherebbe!) non ha mai parlato di «tortura», ma di «stimoli» sui prigionieri. E' un decisivo argomento dialettico, una sfumatura: se mai un giorno dovrete stare a Guantanamo inginocchiati per tre anni con una tuta arancione e una buona razione di legnate stimolanti, avrete tempo per riflettere sulla sottigliezza. Dunque, alla fine, la decisione degli Stati uniti di non applicare la convenzione di Ginevra nelle sue attuali guerre in corso non è così male. Dopo Ashcroft che metteva il reggiseno alla statua della giustizia, ecco il signor Gonzales, che fa il suo brillante discorsetto, naturalmente condanna la «tortura», e nel contempo sollecita gli «stimoli». Già mi vedo i prigionieri di Abu Grahib che festeggiano nelle foto e nei filmini. Fin qui siamo, per così dire, alla constatazione di come va il mondo: la prima potenza mondiale eccetera eccetera che fa parlare i prigionieri a suo modo. Un po', credo, come ha sempre fatto. O fatto fare a professionisti ingaggiati sul posto in tutta l'America latina, o con le minoranze interne durante la seconda guerra mondiale, o con gli attori e gli sceneggiatori comunisti di Hollywood, o con le popolazioni indigene eccetera eccetera. Ecco, è la cara vecchia America. Di questi tempi poi, particolarmente impegnata nella dimostrazione dell'antica logica che il più stronzo deve picchiare più forte. Si chiama Impero, credo.

Ma se le guardie imperiali incutono un certo timore, altrettanto non si può dire dei loro uffici stampa, pericolosamente a corto di idee.L'illuminato ragionamento che giustifica la tortura è il seguente. A) Ci troviamo di fronte a un nuovo nemico e a un nuovo tipo di guerra. B) Dobbiamo usare metodi nuovi. C) Tagliamo le palle a quei bastardi finché non parlano! Vedete anche voi che il ragionamento è deboluccio: si invoca modernità e adeguamento al nuovo nemico e si finisce per usare gli stessi sistemi di venti secoli fa. Senza contare che ogni nemico in ogni guerra è sempre «nuovo», e ogni guerra è sempre una «nuova» guerra, e dunque allegramente ci adegueremo e compreremo nuovi elettrodi e pinze e strumenti stimolanti per sempre «nuovi» prigionieri. Non fa una grinza, ma dal punto di vista culturale - diciamolo - il ragionamento si avvicina più al modello Di Canio che a quello dell'intellettuale colto, sia pure neocon. Urge dunque correre ai ripari. Sì, va bene, tortura, stimoli, costrizioni, convenzione di Ginevra, belle parole. Ma, fateci caso, tutto viene più bello e luccicante se ci spalmate sopra, come una vernicetta trasparente, un po' di etica. Anche le peggiori scempiaggini (torturiamo la gente perché è una guerra nuova, ah, ah, ma chi gli scrive i testi a Ferrara?) sono più digeribili se condite con l'etica giusta. Come per il confetto Falqui, basta la parola: etica! Guardare in faccia questa cosa, cercare informazioni dai prigionieri e non aver paura di usare «stimoli» per convincerli, e dirlo in un'aula del Congresso degli Stati uniti è una cosa etica. Se lo dite con atteggiamento pensoso, magari con un po' di trombonica retorica sul male e il bene, e qualche trucchetto da buon prosatore, chissà, qualcuno può anche cascarci. Bene, salutiamo con un bell'applauso questa new entry del nuovo millennio, la tortura etica. Ora, abbellito e agghindato, reso accettabile dai sottili ragionamenti dei ponzatori e placcato di etica, anche il vecchio caro tubo di gomma per picchiare la gente è sdoganato, accettato, reso più umano e dolorosamente utile. Bisognerà avvertire le maestranze, quei bravi ragazzi americani di Abu Grahib: ehi, gente, tranquilli, è il vostro vecchio manganello, nuovo modello, modello etico.

Anche se, in tutta franchezza, mi sfugge il motivo per cui uno che giustifica la tortura debba poi darsi anche una giustificazione morale. Dico, va bene armarsi di strumenti teorici, è lodevole. Ma se sei arrivato alle pinze roventi, al guinzaglio e alla deprivazione sensoriale, che te ne fai dell'etica?

 

Nella società borghese il bancarottiere si sparava o si nascondeva. Ora va alla prima alla Scala

Giorgio Bocca

Il denaro al potere ha creato una nuova forma di sovversione: la demolizione strisciante dello Stato di diritto, dello Stato sociale, dello Stato etico non per cospirazione rivoluzionaria, ma per sistematica, aperta attuazione di un programma di destra al servizio del denaro.

Non diciamo che questa nuova destra berlusconiana è fascista, è qualcosa di peggio, il fascismo attaccava lo Stato liberale per ricostruirlo più forte e autoritario, il berlusconismo lo disgrega per avere mano libera nel saccheggio e nell'uso delle istituzioni.

Quali sono i nemici veri, odiati della stampa governativa? Le istituzioni fondamentali di uno Stato democratico: la Consulta che difende la Costituzione, la giustizia che difende la legge eguale per tutti, l'informazione che assicura la libera circolazione delle notizie e delle idee.

Il leader del partito del denaro, il Cavaliere, non ha mai nascosto la sua profonda insofferenza per lo Stato e per la separazione dei poteri. Ma vivere in un paese senza Stato o con uno Stato impaurito, sottomesso, in una giustizia che cerca formule ambigue per non dispiacere al padrone, è come vivere senza gravità, senza regole.

Il Cavaliere non nasconde le sue pulsioni anarcoidi, il suo profondo amore per il denaro padrone. Nelle manifestazioni pubbliche dello Stato ama presentarsi come l'intruso che comanda, sempre con la smorfia, il sorriso, il gesto di chi pensa: la commedia dello Stato di diritto è finita, vi ho fregato, sono io il più ricco, io che ho 'una marcia in più', io l'impunito.

Non è lui, si intende, l'inventore del Dio denaro, che in questo mediocre tempo sta allargando il suo dominio al mondo intero. C'è di peggio, c'è il trionfo del comunismo capitalista cinese, c'è l'imperialismo dei neoconservatori americani, c'è la democrazia russa gestita dalla burocrazia stalinista di Vladimir Putin, ma insomma anche da noi le cose cambiano, i valori si sovvertono. Sono scomparse, per dire, la decenza, la vergogna dei ladri, il silenzio sui delitti, la ricerca della stima altrui.

Nella società borghese il bancarottiere si sparava o si nascondeva. Oggi va alla prima della Scala, si fa intervistare, compare in televisione con lo stesso sorriso del capo del governo: sono più furbo, più bravo, più ricco di voi minchioni.

Nella democrazia del soldo che va formando anche da noi il suo regime, i nuovi padroni si vantano di rifiutare i giudici non graditi, li chiamano pubblicamente con termini infamanti, quali assassini o persecutori di parte, promuovono ai posti più alti della pubblica amministrazione furfanti notori, accettano per buone elezioni manovrate dalla mafia, e magari firmano assieme un invito a escludere dalla direzione dell'Antimafia il giudice Giancarlo Caselli come a ricordare che in questo paese l'accordo silenzioso fra il governo e la mafia è un caposaldo del sistema.

Che c'è di nuovo nel Bel Paese? Niente di nuovo sotto il sole come avvertiva l'Ecclesiaste. L'opposizione si adegua, se solo Romano Prodi osa attaccare il partito di governo lo sgridano, lo richiamano all'ordine; se un giudice manda assolto il Cavaliere, anche se in sostanza ammette che è stato un corruttore della giustizia, subito c'è anche fra gli oppositori chi compiace con arte ruffianesca: l'assoluzione va bene, dimostra che non c'è stata congiura dei giudici. Congiura no, ma adeguamento al nuovo potere, all'impunità del denaro.

Altri valori dello Stato che fu, evaporano, scompaiono. Un'informazione che informa, per esempio sostituita da una che promuove interessi amici, che trasforma tutto in pubblicità redazionale e che per farlo dice e disdice, presenta come ottimo e acquistabile ciò che nella pagina accanto è descritto come rischioso e abominevole. E scompare anche il senso del ridicolo, per scoprire la promozione sistematica dei peggiori, dei buffoni.

7 gennaio 2005

Guai ai poveri
IGNACIO RAMONET
La mega-scossa tellurica di Sumatra e le successive gigantesche onde anomale che hanno colpito, il 26 dicembre scorso, le coste dell'Oceano indiano hanno provocato una delle catastrofi più colossali della storia. La tragedia umana - 150.000 morti, 500.000 feriti, 5 milioni di sfollati, secondo dati ancora provvisori - raggiunge un'entità raramente vista in passato. A ciò si somma il carattere internazionale del disastro: otto paesi asiatici e cinque paesi africani sono stati colpiti lo stesso giorno dal cataclisma, che tra l'altro avrebbe ucciso circa 10mila cittadini di altri 45 paesi del mondo. La presenza di occidentali, e l'elevato numero di vittime tra loro, hanno contribuito al riverbero planetario della catastrofe, avvenuta - per una sorta di terribile contrasto - nel pieno delle feste di fine anno. Quest'ultimo elemento ha suscitato una copertura mediatica eccezionale dell'evento, che non sarebbe avvenuta - ed è un peccato - se la tragedia fosse stata circoscritta alla sua sola dimensione asiatica.

Tutto ciò provoca un formidabile shock emotivo, che colpisce profondamente l'opinione pubblica occidentale. Una commozione del tutto legittima di fronte a tanto sconforto, a tanta devastazione, a tanta desolazione, che si è tradotta in una tenace volontà di aiutare e in una calorosa gara di solidarietà. Raramente in passato, secondo le organizzazioni umanitarie, si era manifestata una generosità di questa ampiezza - tanto pubblica che privata.

Questa solidarietà nei confronti di tutte le vittime dell'Oceano indiano ha permesso a molti dei nostri concittadini di scoprire, al di là del cataclisma, la realtà delle ordinarie condizioni di vita degli abitanti di quei paesi. E appare del tutto evidente che l'aiuto mobilitato, nonostante la sua notevole consistenza, sarà del tutto insufficiente per risolvere difficoltà strutturali.

Ricordiamo solo qualche fatto.

Una catastrofe «naturale» di identica intensità causa meno vittime in un paese ricco che in un paese povero. Per esempio, il sisma di Bam, in Iran, avvenuto esattamente un anno prima, il 26 dicembre 2003, di intensità pari a 6,8 gradi della scala Richter, ha fatto più di 30.000 morti. Ma, tre mesi prima, il 26 settembre 2003, una scossa più violenta - 8 gradi - sull'isola Hokkaido, in Giappone, aveva provocato solo qualche ferito e nessun morto. Altro esempio: il 21 maggio 2003, un terremoto di 6,2 gradi Richter colpiva l'Algeria e causava più di 3.000 morti. Pochi giorni dopo, il 26 maggio, un sisma più violento - 7 gradi - scuoteva tutto il Giappone nord-occidentale, senza provocare vittime.

Perché tali differenze? Perché il Giappone, come altri paesi sviluppati, ha i mezzi finanziari per applicare norme di costruzione anti-sismiche molto più costose. Siamo allora disuguali di fronte ai cataclismi? Non c'è il minimo dubbio. Ogni anno, le catastrofi colpiscono circa 211 milioni di persone. I due terzi vivono nei paesi del Sud, dove la povertà fa aumentare il grado di vulnerabilità. Un rapporto intitolato Ridurre i rischi di disastri, pubblicato il 2 febbraio 2004 dal Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (Undp), si chiede addirittura se è lecito continuare a parlare di catastrofi «naturali». L'impatto di un sisma, di un ciclone o di un'inondazione varia a seconda dei paesi. Spesso dipende dalle politiche di prevenzione applicate dalle autorità.

Se lo stesso tsunami si fosse prodotto nell'Oceano pacifico, il numero di vittime sarebbe stato molto minore, perché gli stati rivieraschi - su iniziativa di due grandi potenze, il Giappone e gli Stati uniti - hanno messo a punto un sistema di rilevazione e di allerta in grado di segnalare in anticipo l'arrivo di «onde assassine» e di permettere quindi alle popolazioni della costa di mettersi al riparo.

Ma l'acquisto, l'installazione e la manutenzione di un tale sistema costano assai cari. La catastrofe dell'Oceano indiano ci emoziona a causa delle sue dimensioni, della sua brutalità e anche perché questa sommatoria di tragedie umane si è prodotta in un singolo giorno. Ma se osservassimo, per un anno, questi paesi e i loro abitanti con la stessa curiosità che mostriamo oggi, assisteremmo - al rallentatore - a una catastrofe umana di entità ancora più tragiche. Basta sapere che, ogni anno, negli stati del golfo del Bengala (India, Maldive, Sri Lanka, Bangladesh, Birmania, Thailandia, Malaysia e Indonesia), diversi milioni di persone (soprattutto bambini) muoiono semplicemente perché non dispongono di acqua potabile e bevono acqua contaminata.

L'aiuto pubblico e privato promesso ai paesi colpiti dallo tsunami è attualmente di circa 3 miliardi di dollari. Bisogna gioire dell'entità di questa somma. Ma essa è ancora trascurabile di fronte ad altre spese. Per esempio, il solo budget militare degli Stati uniti è pari, ogni anno, a 400 miliardi di dollari... Altro esempio: quando la Florida è stata colpita, nell'autunno 2004, da una serie di cicloni che provocarono danni consistenti ma non paragonabili al disastro attuale dell'Oceano indiano, Washington ha sbloccato immediatamente un aiuto di 3 miliardi di dollari... Ad ogni modo, le somme promesse sono insignificanti rispetto alle necessità degli stati colpiti dallo tsunami.

Bisogna sapere che, secondo gli ultimi dati della Banca mondiale, il debito pubblico estero di cinque di questi paesi supera i 300 miliardi di dollari. E il rimborso di tale debito implica cifre gigantesche: più di 32 miliardi di dollari l'anno. Ossia una cifra dieci volte maggiore delle promesse di fondi «generosamente» annunciate in questi giorni. A scala planetaria, ogni anno i paesi poveri rimborsano, verso il Nord ricco, a titolo di debito, più di 230 miliardi di dollari. E' il mondo alla rovescia.

Si è parlato, in occasione dello tsunami, di una moratoria del debito dei paesi colpiti. Ma non è tanto di una moratoria che c'è bisogno: il debito va semplicemente cancellato, allo stesso modo in cui gli Stati uniti hanno imposto ai loro partner del Club di Parigi la cancellazione del debito dell'Iraq, paese che occupano militarmente. Se si può fare per l'Iraq - che è un paese ricco di petrolio e gas -, perché non si potrebbe fare per paesi infinitamente più poveri e colpiti peraltro da una catastrofe di dimensioni bibliche?

Sempre secondo l'Undp, «su scala planetaria, mancano circa 80 miliardi di dollari l'anno per garantire a tutti i servizi di base», ossia l'accesso all'acqua potabile, un tetto, un'alimentazione decente, l'educazione primaria e le elementari cure mediche. E' l'ammontare esatto del budget supplementare che il presidente Bush ha appena chiesto al Congresso per finanziare la guerra in Iraq.

L'enormità dei bisogni mostra, in termini di paragone, che la generosità umanitaria, per quanto ammirevole e necessaria, non è una soluzione a lungo termine. L'emozione non può sostituire la politica. Ogni catastrofe rivela, come una sorta di lente di ingrandimento, l'angoscia strutturale dei più poveri, di quanti sono vittime ordinarie dell'ineguale e ingiusta ripartizione delle ricchezze nel mondo. E' per questo che, se veramente vogliamo che l'effetto dei cataclismi sia meno devastante, bisognerà cercare soluzioni permanenti. E favorire, per tutti gli abitanti del pianeta, una ridistribuzione compensatoria.

Sembra sempre più indipensabile, per affrontare situazioni d'emergenza come questa, e soprattutto per costruire un mondo più giusto, creare una sorta di Iva internazionale. Questa idea di «tassa planetaria» - prelevata sui mercati di cambio (Tobin tax), sulle vendite d'armi o sul consumo di energie non rinnovabili - è stata presentata all'Onu il 20 settembre 2004 dai presidente brasiliano Lula, dal cileno Lagos, dal francese Chirac e da Zapatero, primo ministro spagnolo. Più di cento paesi, ossia più della metà degli stati del mondo, appoggiano questa felice iniziativa.

Perché non far leva sull'emozione suscitata universalmente dalla catastrofe dell'oceano indiano per reclamare l'implementazione immediata di questa tassa internazionale di solidarietà?

(ignacio ramonet)



PINOCHET

Il giorno più atteso
LUIS SEPÚLVEDA
Solo poche ore fa stavo accomiatandomi da mio figlio Sebastián all'aeroporto di Gijón. Come sempre cercavo di mascherare la tristezza dell'addio dietro un paio di battute, e ho visto che il mio giovanotto di vent'anni, per mano con la sua fanciulla, mi mandava dei segnali prima di entrare nella sala d'imbarco. Come sempre, dal momento che l'uomo è un animale di costumi protettivi per assurdi che essi appaiano, sono rimasto lì finché l'areo è decollato. Come sempre, ho fatto il conto dei giorni e delle ore passati insieme e mi sono soffermato sul ricordo di una camminata sulla spiaggia solitaria mentre lui mi chiedeva di parlargli del mio ultimo viaggio in Cile. Emozionato, gli ho raccontato che era stato un bel viaggio, che mi ero incontrato con i mei vecchi amici, con i miei cari compagni della guardia del presidente Allende, e che lentamente cominciavo a pensare al mio ritorno. Mio figlio esibiva con orgoglio una maglietta del Forum sociale cileno, il bel disegno di Federica Matta risplendeva nella luce marina.

Quell'animale è sempre lì, senza che nessuno lo tocchi?, mi ha chiesto all'improvviso. Sì, l'animale, il criminale, l'assassino, il ladro era sempre in Cile, protetto dalla più odiosa impunità.

Staremo bene in Cile. Avrò un paio di cavalli, ho risposto per allontanare quella presenza vergognosa. Quando l'aereo di mio figlio era sparito dal pannello delle partenze, sono ritornato alla macchina, ho acceso il motore e allora il miracolo della radio mi ha regalato la notizia più attesa: la Corte suprema di giustizia aveva respinto il ricorso presentato dalla difesa dell'animale, del criminale, dell'assassino, del ladro, e lui dovrà affrontare il processo che aspetta la società cilena, i cileni che vivono fra la cordigliera e il mare, quelli che vivono nella diaspora, quelli che sono nati sotto altri cieli e sono cresciuti con il nostro amore per il lontano paese disseminato di isole.

Confesso di aver creduto che questo giorno così atteso non sarebbe mai arrivato, e non per sfiducia nella giustizia, bensì in quelli incaricati di amministrarla. Quante vite si sarebbero salvate se i tribunali cileni avessero accettato i ricorsi presentati dai familiari dei desaparecidos, degli assassinati nei centri di detenzione e di tortura, degli sgozzati di notte e nelle ore in cui solo i criminali potevano muoversi per le strade del Cile?

Fra il 1973 e il 1989 furono presentati migliaia di ricorsi d'urgenza, i familiari arrivavano con testimoni che avevano assistito alle detenzioni, ai sequestri, ai furti di persone, e nessuno fu accolto perché la giustizia era nelle mani di prevaricatori, di complici del dittatore.

Non credevo che questo giorno fosse possibile, però allo stesso tempo, poiché conosco e ammiro la storia civile del mio paese, ho sempre cercato di convincermi che il processo contro Pinochet è cominciato quando l'ultimo difensore del palazzo della Moneda sparò l'ultimo colpo in difesa della costituzione e della legalità.

Non sarà giudicato per tutti i suoi crimini, ma solo per alcuni, comunque tanto selvaggi e bestiali come tutti quelli che ordinò dalla sua codardia di satrapo, dalla sua viltà di essere mediocre e ottuso, dal fetore del suo tradimento. Però sarà giudicato, con tutte le garanzie che noi non avemmo, e ci rallegra che sia così perché noi crediamo nella giustizia.

E' dovere di tutti vegliare perché non gli capiti nulla, perché la sua salute si conservi, perché non gli manchi niente, e se è necessario fare una colletta pubblica per tenerlo vivo, facciamola. Quanto dobbiamo pagare?

Quel che importa è che mio figlio, i figli di tutti quelli che hanno sofferto, e le vedove e i genitori che seppellirono i loro figli, e le fidanzate dai corredi frustrati, e le nonne che si ritrovarono senza i destinatari delle loro carezze vedano l'animale fascista, il criminale venduto, l'assassino di sogni, il ladro di vite e di beni, fotografato di fronte e di profilo, con il suo numero da delinquente sotto la mascella, lasciando le impronte digitali delle sue grinfie nell'inchiostro nero della vergogna. E' questo che importa.

Mentre scrivo queste righe, mio figlio Sebastián vola verso la Germania e io ricordo la passeggiata sulla spiaggia deserta. Quando gli ho raccontato del mio ritorno a El Cañaveral, quel luogo sacro fra i monti dove il Dispositivo di sicurezza del presidente Allende, il Gap, si preparava a difendere la vita dei nostri dirigenti, di coloro che si erano fatti carico di realizzare il più bel sogno collettivo della mia generazione. Là, insieme a «Patán», «Galo», «El Pelao» e altri dei migliori, dei più coraggiosi compagni che abbia mai conosciuto e la cui amicizia è il mio grande orgoglio, ricordavamo senza retorica quel sogno pieno di aneddoti e di gioventù.

So che loro condividono la serena allegria per questo giorno, per questo giorno tanto atteso, in cui la tenue luce della giustizia si lascia vedere fra il fumo della Moneda in fiamme, fra i volti luminosi di tutti i compagni del Gap che caddero e che non sono mai scomparsi dalla nostra memoria. (luis sepulveda)
 
 

4 gennaio 2005

Divagazioni
ROSSANA ROSSANDA
Come davanti al terremoto di Lisbona, davanti alla catastrofe del Sudest asiatico ci si sente infinitamente piccoli e infinitamente non colpevoli. A dire il vero quella volta si accusarono i Lumi non di aver prodotto il sisma, ma di avere sopravvalutato la forza dell'uomo liberato dalla ragione. Parla e parla di magnifiche sorti e progressive, poi arriva uno scossone che lo riduce a quel che è, un verme. E la lenta ginestra che cresce dove è passato il fuoco distruttore del vulcano suggerirà a Leopardi uno dei suoi componimenti più alti. La piccolezza umana è più facile da accettare che le responsabilità umane. Che possiamo fare se siamo fragili e mortali e ora una catastrofe ora un incidente personale ci ridimensionano? E' questo, penso, che ha fatto scattare di fronte all'onda anomala una solidarietà che stenta a venir fuori quando a scatenare i disastri siamo noi, fragili creature ma diversamente potenti, per cui quasi ognuno può essere la catastrofe per un altro - cosa che consideriamo naturale come lo tsunami. Che possiamo farci se in quelle plaghe erano mediamente assai più indifesi di noi, che sulla costa della California o del Giappone siamo in grado di prevedere sia il terremoto sia quella massa d'acqua e scamparvi? Ci saranno sempre paesi ricchi e paesi poveri, gente protetta e gente esposta, templi di pietra che tengono, essendo stati costruiti per un re o un simbolo, e capanne e tramezzi che se ne vanno come fuscelli, essendo stati costruiti per gli uomini semplici.

Quel che non accettiamo di pagare in Tobin tax paghiamo volentieri, specie se con un sms firmato, in compassione. Tanto più che per alcuni di noi (le differenze ci sono anche qui dove le case tengono) di quella massa di soldi pubblici o pietosi rientrerà una buona parte per ricostruire alberghi e resort e ristoranti in modo che quelle incantevoli spiagge tornino a popolarsi di gente contenta di pagare per uno scenario di sogno meno che per un ombrellone a Rimini. Come e perché costi così poco non ce lo chiediamo, a meno di essere dei fanatici no-global, e tanto meno lo chiediamo all'indigeno, che siamo costretti a vedere quando ci serve al bar o rassetta la camera o vende un ricordino.

E' così. Prima o poi la mano invisibile del mercato farà il suo lavoro, qualcuno ne uscirà più ricco grazie alla costruzione o alla prevenzione, mentre le fosse comuni consumeranno in fretta quei corpi disfatti dal sole prima che li si potesse cercare, anche perché molti di quelli per cui ognuno di essi aveva un nome sono periti assieme a loro. O periranno nelle prossime ore, perché là dove manca tutto i disastri naturali hanno code di epidemie e di morte non meno micidiali.

Il nostro premier e l'establishment tutto (ancorché feriti e rattristati dal treppiede dell'irato mantovano) si preoccupano assai di essere elogiati per la generosità dei soccorsi e badano bene che dello tsunami non si faccia un uso politico. Sulla più pettegola delle nostre gazzette il direttore, del quale tutti ammirano l'acume, si è rallegrato che stavolta l'effetto serra non c'entri per niente, perché semmai l'effetto serra ci fosse entrato qualcuno avrebbe detto: ecco, è colpa degli Stati uniti che non hanno firmato il protocollo di Kyoto! Il mondo sta diventando così bizzarro che oggi i liberali parlano degli Usa come neanche Paolo Robotti parlava dell'Unione sovietica. Tranquilli, con il disastro del 26 dicembre George Bush non c'entra niente. Con quello che c'era prima e ci sarà dopo in quel lembo di crosta terrestre c'entra invece molto. Ma non lui solo. C'entra molto il sistema in cui tutti stiamo, e dà soltanto fastidio chi alza un dito per sussurrare: un momento, qualcosa non va. Per lo più si fa come quei vacanzieri che, trovandosi in un atollo poco distante risparmiato dall'onda, se ne sono stati zitti zitti quatti quatti per non interrompere il meritato riposo. Perché avrebbero dovuto precipitarsi via? Che cosa potrebbero fare per i morti poco più in là? Niente. Fugit hora e a meno di essere malati di ideologia, il mondo come va ce lo teniamo.

 

 

3 gennaio 2005

IL COMMENTO
In vacanza
con l'orrore
di MICHELE SERRA
 
Dalle zone del maremoto cominciano ad arrivare immagini diverse dalle pire, dai corpi irrigiditi, dallo strazio dei superstiti, dallo sfasciume lasciato sulle rive dalla risacca micidiale. Sono le istantanee del turismo che ricomincia, o che non si è mai fermato: bagnanti occidentali sdraiati al sole, "segnorine" dei locali tailandesi che invitano ammiccanti alla notte, comitive che sbarcano sorridenti dai loro charter prepagati.
Sarà anche la vita che continua, sarà anche il rispettabile bisogno di non interrompere il prezioso flusso di valuta, sarà che la natura, chiesto e ottenuto l'attonito rispetto degli uomini dopo il suo catastrofico sussulto, continua a dispensare, come sempre, la sua smagliante e quieta luce.

Resta il fatto che molte di quelle immagini sembrano fotomontaggi, con l'alito della morte che permea ancora i luoghi, la linea d'ombra dello tsunami che segna i muri a due metri di altezza, l'incrocio paradossale (negli aeroporti, sulle spiagge, tra gli uomini) tra catastrofe e svago che incombe ovunque.
Difficile, molto difficile moraleggiare sul da farsi, anche alla luce del fatto che dalle autorità locali arrivano messaggi spesso opposti, quasi dissociati, in Tailandia invitano i turisti a tornare in fretta nei loro Paesi, a Sri Lanka chiedono ai turisti di rimanere.

Resta l'evidente malessere (e mica sottile, anzi spesso e ingombrante) di una presenza leggera e oziosa, come quella dei turisti, in mezzo a un gigantesco cimitero, ancora fumante dei suoi fuochi frettolosi. Può darsi che, sui labbri cancellati della terra, il turismo rappresenti una delle tante forme possibili di soccorso, e una rassicurazione per i superstiti: ma con quale animo e quali aspettative migliaia di occidentali accettino di bagnarsi in quel mare, e divertirsi su quelle spiagge, rimane un mistero piuttosto fitto, che moltiplica fino quasi al paradosso il mistero più ordinario della festosa presenza degli uomini ricchi che si riposano e si svagano in mezzo alla gente povera.


Chiunque sia andato in vacanza nei Paesi dell'Africa, dell'Asia, dell'America Latina, a meno di possedere una speciale immunità alle domande ovvie, è stato costretto a confrontarsi con sperequazioni di vita spesso clamorose, villaggi turistici confortevoli in mezzo a lande di precarietà e miseria, alberghi scintillanti in mezzo all'opaco vivacchiare degli esclusi. Imbarcarsi oggi su un charter per il Sud-Est asiatico non può non costringere a chiedersi se in quegli aeroporti, per caso, qualcuno non stia aspettando ben altri carichi, soccorso medico, cibo, vestiti. Vivere laggiù, tra i palmizi incolumi, sapendo che a pochi chilometri manca l'acqua potabile o un ricovero per gli scampati, dev'essere una prova psicologica non facile, e comunque non esattamente in tono con lo spirito vacanziero.

È stato detto che il turismo, laggiù come altrove, è una risorsa decisiva, e che una carta di credito è una forma dannatamente concreta di aiuto. Ma ridurci a portatori di valuta, ignorando l'impatto che la nostra presenza benestante produce su quei Paesi, specie in un momento terribile come questo, forse però è leggermente meschino, e per giunta molto riduttivo proprio nei confronti delle nostre speciali responsabilità di ricchi. È ancora fresca l'eco delle polemiche per i primi, ridicoli stanziamenti decisi da governi di Paesi che con quei soldi non riescono a pagare nemmeno mezzo aereo da caccia, o a riasfaltare cinquanta chilometri di autostrada.

Le cifre sono poi state corrette, e di qualche zero, ma la tecnologia e la potenza economica dispiegate in molte altre occasioni - quelle belliche sono l'inevitabile paragone - fanno impallidire il gruzzolo raccolto dai paesi ricchi per lenire gli effetti di questo macello spaventoso. Sarebbe triste e parecchio ipocrita che il turismo, per un'interpretazione quantomeno dubbia del dare e dell'avere mondiale, fosse spacciato come un aspetto risolutivo del portare soccorso, "vado lì a fare il bagno in piscina così li aiuto a risollevarsi". Il turismo, a parte il dubbio impatto sociale e culturale sulla gente del posto, può anche essere, in un momento di emergenza come questo, un terribile impiccio, sottrarre risorse (penso all'acqua e al cibo, mica all'olio abbronzante e al deltaplano) a indigeni che ne avrebbero urgente bisogno, intralciare la logistica di chi organizza gli aiuti, sovrapporre ulteriori elenchi di nuovi arrivati a quelli, già così precari, di chi è sparito e viene ancora cercato disperatamente dai parenti lontani.

Un amico pilota dell'Alitalia, costernato, mi ha appena raccontato di avere dovuto litigare, l'altro giorno in uno di quegli aeroporti, con una famiglia di turisti italiani che aveva piantato una grana perché voleva rientrare in patria in prima classe, perbacco. I turisti occidentali hanno un'idea spesso molto estesa dei propri diritti. Ne avranno una ugualmente ampia dei diritti di chi non ha più niente, e magari aveva casa e cose a poca distanza da una piscina, da un bar, da una sala-massaggi? E comunque sia, chi di noi sarebbe felice di vedersi fotografare o filmare mentre beve una bibita in bermuda, mentre alle sue spalle si cercano i morti nel fango?