29 luglio
«La peggiore legge ad
hoc»
Pene dure per i recidivi e salvacondotto per
Previti: il senato approva la «legge Vitali»
Aspettando Ciampi Il presidente ha già fatto sapere di ritenere incostituzionale
il provvedimento. Che ora passa alla camera, ma senza modifiche sostanziali. La
protesta dell'opposizione
ANDREA FABOZZI
ROMA
La legge ex Cirielli incassa il sì del senato, passa alla
camera e trova un nuovo padre. Da tempo il disegno di legge numero 3247 cercava
un'etichetta stabile. «Salva Previti» sarebbe perfetta, perché è questa la
ragione che spinge avanti in parlamento il ddl a dispetto di argomenti più
urgenti. Ma sarebbe poco, perché non si tratta solo dell'ultima legge ad
personam. E' un provvedimento che contiene una dura stretta carceraria ai danni
dei recidivi oltre che dei mafiosi e degli usurai. Indica la galera - più galera
- come unica soluzione di controllo sociale e non per tutti: i reati dei
colletti bianchi sono esclusi dall'aumento delle pene. Un po' a sorpresa il
nuovo padre si è materializzato sui banchi del governo ieri al senato. Quando un
emendamento presentato fuori tempo massimo e al di làdi ogni deroga
generosamente concessa dal presidente Pera - un emendamento necessario a
garantire Previti - è stato assunto dal sottosegretario Luigi Vitali. Al
forzista di fede previtiana che adesso sottogoverna al ministero della giustizia
sono bastate cinque parole a proposito dell'emendamento in questione - «il
governo lo fa proprio» - per garantirne l'approvazione e conquistarsi il titolo
di papà dell'ultimo mostriciattolo giuridico del centrodestra. Quella che per le
opposizioni è «la peggiore delle leggi ad hoc» d'ora in poi potrà essere
chiamata «legge Vitali».
I punti modificati dal senato
Legge che dovrà tornare alla camera perché il senato l'ha modificata in più
punti, cancellando le attenuanti obbligatorie per gli ultra settantenni,
modificando il sistema di sospensione della prescrizione nei casi di impedimento
delle parti, quasi raddoppiando le pene per mafiosi e usurai e soprattutto
correggendo (con la forzatura che si è detto) la ridicola previsione del
precedente articolo 10 in base alla quale la nuova legge si sarebbe dovuta
applicare solo al passato, solo ai procedimenti in corso alla data dell'entrata
in vigore.
Modifiche che però non ne cambiano la sostanza di legge repressiva sulla quale è
stato innestato un salvacondotto pensato per uno solo, Cesare Previti, che avrà
effetto per molti. Il presidente dell'Associazione magistrati Ciro Riviezzo teme
infatti «l'estinzione di migliaia di processi per istruire i quali spesso ci
sono voluti anni di indagini».
Queste modifiche che comunque non riguardano Previti (Alleanza nazionale
all'ultimo momento ha rinunciato a un emendamento che avrebbe dilatato i tempi
di prescrizione anche per lui) dovrebbero bastare secondo l'Udc D'Onofrio a non
far parlare più di legge «salva Previti». Il senatore della Margherita Nando
Dalla Chiesa si è allora divertito a trovare quanti più sinonimi possibili,
tutti comincianti con le lettere S e P: legge «sotto pressione», legge «santo
protettore», legge «sfregia parlamento», legge «senza pudore», legge «scaccia
pensieri» e legge «senza padre». Ma a questo punto un padre c'è, è il
sottosegretario Vitali.
Nell'emendamento del forzista Ziccone che la mossa del sottosegretario ha
permesso di far votare e approvare è previsto, accanto alla diminuzione delle
prescizione per gli incensurati (da 15 a 10 anni per Previti) e all'aumento per
i recidivi, anche un anno in più prima che il reato si estingua per i
procedimenti in corso, ma a patto che siano «già pendenti davanti alla
Cassazione». Il senatore verde Zancan ha fatto i conti: «Il procedimento a
carico dell'onorevole Previti (attualmente in appello, ndr) non andrà a
sentenza prima del 15 settembre, considerando i 90 giorni per il ricorso e i
tempi di iscrizione il fascicolo non sarà in Cassazione prima del 15 gennaio».
Due mesi per l'effetto amnistia
La previsione è semplice. Dopo l'estate il disegno di legge arriverà alla
camera: o la maggioranza riesce ad approvarlo definitivamente prima della
sessione di bilancio - e in questo caso per dirla con Zancan Previti
beneficierebbe dell'«effetto amnistia» - o la «legge Vitali» perde molto del suo
appeal per Berlusconi. Con un'incognita in più: l'atteggiamento del Quirnale.
Ciampi ha già fatto sapere a Berlusconi di considerare la legge incostituzionale
e quindi non promulgabile. Difficilmente i ritocchi fatti al senato basteranno
al presidente.
Intanto lo scontro sulla giustizia vive un'altra giornata campale. Con il
senatore di An Bobbio che arriva ad accusare l'opposizione di essere stata «per
tutta la legislatura e ancora oggi a fianco dei criminali e contro la tutela dei
cittadini onesti». Il presidente Pera finge di non sentire, mentre la seduta gli
sfugge di mano e i senatori del centrosinistra cominciano a urlare contro Bobbio
e a scandire «Previti, Previti». Ultimo intervento delle opposizioni quello del
diessinoCalvi: «Con questa legge la destra cancella la storia giuridica nel
nostro paese. Impone una cultura oscurantista che vede la pena come vendetta, lo
stato come strumento di repressione e le carceri come luogo di espiazione e non
di rieducazione». Poi si vota e la legge passa con 151 sì, tutti registrati dal
sistema elettronico. A futura memoria.
«Ho votato no per non
cedere al ricatto»
Renzo Gubert, senatore Udc e unico contrario
nel centrodestra: «Gli altri? Spaventati»
Mi ricandideranno? «Quelli di Forza Italia già dicono che posso dire addio al
seggio. Ma io non sopporto più questa politica che se ne frega dell'etica»
A. FAB.
Ha votato in dissenso dalla maggioranza sulle riforme
costituzionali, sulla guerra in Iraq e sulle leggi ad personam. Insegna
sociologia all'università di Trento e lo chiamano baffone. Ma non è un
rivoluzionario di estrema sinistra. E' un senatore dell'Udc. «Sono lontanissimo
dalla cultura marxista che ho sempre combattuto nella mia facoltà da studente e
da professore. Però...».
Però senatore Renzo Gubert?
«Però sono ancora più distante da una concezione della politica che se ne frega
dell'etica».
E' per questo che, unico parlamentare del centrodestra, ha votato contro la
legge salva-Previti?
«Per questo. C'è chi accetta di negoziare un sì a un provvedimento negativo
moralmente perché cerca qualche altro vantaggio».
A sinistra l'hanno invitato ad andare dalla loro parte, a destra le hanno
dato del «moralista».
«Mi fanno ridere. E come se non mi conoscessero. Io sono stato l'ultimo
segretario della Dc a Trento, poi con Martinazzoli nel partito Popolare. Sono il
presidente del Centro popolare del trentino, una formazione che ha fatto un
accordo con il Cdu di Buttiglione. E' per questo che mi trovo senatore del
centrodestra e nel gruppo dell'Udc, ma non sono iscritto al partito».
Nel suo intervento al senato ha detto che «c'è chi ingoia tutto pur di non
dispiacere a coloro che possono nuocere alle aspirazioni di cariche e carriere».
«Giusto»
Lo rivendica?
«Certo».
Si goda questi otto mesi al senato, saranno gli ultimi.
Pensa che non mi ricandideranno?
Ha ancora dei dubbi?
«Effettivamente quelli di Forza Italia a Trento è già un po' che lo vanno
dicendo. L'hanno scritto sui giornali e ripetuto in tv. Ma vedremo. Io ho un
buon rapporto con i miei elettori del collegio delle valli dolomitiche, Fiemme,
Fassa e Valsugana. Mi hanno fatto già vincere due volte».
Non aveva ancora sfidato Previti.
«Effettivamente pressioni ce ne sono state».
Racconti.
«Bè non che sia fatto sentire Previti in persona, no. Le solite minacce: se non
passa questa legge cade il governo... E a quel punto, per come è organizzato il
sistema di voto, con quattro persone nei partiti a decidere le candidature,
capisce che la pressione è forte».
Capisco. Ma che le hanno detto i suoi compagni di schieramento?
«La maggior parte è rimasta in un silenzio imbarazzato. Anche se c'è stato
qualcuno che in privato mi ha detto che avevo ragione. Poi però ha votato
insieme agli altri. Mi hanno lasciato solo. E ora mi attaccheranno. Ma sono
pronto».
E se lo attaccheranno in tv non li vedrà nemmeno. Non ce l'ha. Lo ha deciso
insieme alla moglie per non turbare con programmi «irresponsabili» i loro nove
figli.
28 luglio
La psicosi dell'acqua
avvelenata
di GABRIELE ROMAGNOLI
Se il presidente del più grande Paese del mondo afferma solennemente
che il dittatore dell'Iraq cerca di procurarsi in Niger l'uranio per
un attacco atomico e il suo popolo, atterrito, gli crede e gli dà
mandato per la guerra, ci sta che in una mattina d'estate uno o più
imbecilli comincino a spargere la voce che l'acqua di Roma è stata
avvelenata dai terroristi e una città in preda alla psicosi del
"prossimo bersaglio" chiuda per due ore i rubinetti della ragione.
"All'acqua! All'acqua!". È lo spirito (miserabile) dei tempi che
viviamo: piccoli untori, grandi tragedie e un'infinita disponibilità
a farsi contagiare. Ci sono, in una vicenda come questa, tre
protagonisti da considerare: l'untore, il suo megafono e la platea
in delirio.
L'untore della notizia può avere tre diverse nature: artistica,
interessata, demente. Non è detto che due o addirittura tutte e tre
non debbano coincidere. Era un untore artistico Orson Welles quando
andò alla radio e cominciò a raccontare la cronaca dell'invasione
marziana. Vittima della propria intelligenza o non previde che
l'avrebbero preso sul serio o, più probabilmente, lo fece e se ne
compiacque. L'untore interessato sparge informazioni che hanno per
lui o per la sua parte un tornaconto. Quello dell'uranio dal Niger è
solo un esempio. La propaganda del terrore è bipartisan. In queste
ore molti egiziani vengono convinti da un passaparola cominciato
chissà dove che "l'attentato di Sharm è stato commesso con esplosivo
israeliano", "gli esecutori beduini sono stati addestrati dal Mossad",
"il mandante è Israele, che vuole fermare il processo di
democratizzazione in atto", "attenzione, colpiranno ancora, dove non
hanno mai osato, alle piramidi". L'untore demente vuole soltanto
vedere che effetto fa.
Mai come nel caso di ieri verificare se "se la bevono". Non si
preoccupa della credibilità del virus che mette in circolazione, né
della propria attendibilità come fonte primaria. Sa che in pochi
minuti scatteranno l'effetto "valanga" e l'effetto "appropriazione".
La notizia verrà ingigantita e diffusa con il marchio di
"autenticità" di fonti secondarie, ritenute degne di fede.
Sono loro a fornire il megafono. Esistono, nella sua struttura, tre
livelli.
Il primo è quello, antichissimo, del passaparola, incontrolato e
incontrollabile. Il secondo è più moderno, spesso anonimo, ad alta
velocità.
Partono sms, e-mail, segnalazioni su Internet. Nella rete telefonica
e cibernetica il transito di informazioni utili e "patacche"
colossali si chiude probabilmente in pari, tra immagini storiche e
fotomontaggi, preziose segnalazioni di dispersi dello tsunami e
assurdi gatti in bottiglia. Il terzo livello è quello più
pericoloso, perché ricorre ai mezzi di comunicazioni tradizionali.
Nel caso di Roma, soprattutto le radio. Nel panorama della
radiofonia mondiale sono una cosa a parte: vivaci, impossibili da
non ascoltare, improbabili. Quale più, quale meno. La loro capacità
di permeare il tessuto della città è molto superiore a quella
dell'acqua. La volontà di farlo, assoluta. Il controllo della fonte,
limitato.
Sono passati pochi mesi dalla sera del derby sospeso all'Olimpico
perché, con lo stesso meccanismo, era stata diffusa la voce
(altrettanto infondata) dell'uccisione di un ragazzino. Ma sarebbe
ingeneroso scaricare sulle radio l'accusa. In questi anni quotidiani
che la gente paga in edicola hanno pubblicato titoli grandi quanto
la prima pagina tutti spavento e niente fondamento.
Un giornale ha fornito la data dell'attacco nucleare a New York con
la stessa leggerezza e vaghezza con cui si diffonde una qualsiasi
bufala di calciomercato "Il Milan vuole Ronaldinho", "Vogliono
cancellare Manhattan".
Tanto domani è sempre un altro giorno, non si vedrà. Per un curioso
fenomeno alcune tra le più attinte fonti giornalistiche, in America
come in Italia, sono siti dedicati al pettegolezzo. Se il
pettegolezzo fa notizia, è inevitabile che poi si faccia notizia.
Chi può distinguere?
Non certo la platea in delirio. Non certo questo pubblico tutto in
piedi, con le mani al cielo, in allerta permanente, arringato da
predicatori isterici, aizzati dal marketing della politica o
dell'editoria, dalla propria agitazione sofista (a forza di cambiare
posizione, una l'azzeccheranno pure), o dall'ansia di poter
finalmente proclamare: "Io ve l'avevo detto!". Diciamocelo subito
allora: un giorno probabilmente accadrà. A Roma, può darsi.
O altrove in Italia. Non sarà con l'acqua
avvelenata, ma con qualche mezzo primordiale e spettacolare perché
queste avanguardie della follia hanno anche la tara di dover versare
il proprio sangue in una forma di malinteso e marcio eroismo.
Accadrà e provocherà dolore, reazione e voglia di dimostrare che si
sa andare avanti con la dignità e la fermezza di chi non cede una
briciola delle proprie convinzioni sulla vita e su quel che c'è
dopo. Perché peggio di morire per la mano di un imbecille è vivere
seguendo i dettami di cento altri.
Politica 
«Il terrorismo ci
minaccia, l'ottimismo ci salverà»
di red
Ottimismo, volontà, un po’ più di impegno sul
lavoro, un posto nel Consiglio di sicurezza
dell’Onu e tutto si aggiusta, nonostante il
terrorismo e «l’Euro di Prodi»: eccola qua la
ricetta per l'Italia che Silvio Berlusconi
enuncia davanti al Consiglio nazionale di Forza
Italia in un lunghissimo discorso che va dalla
guerra all’Iraq («Perché dovremmo ritirarci: la
nostra è una missione di successo») all'economia
(«L'euro di Prodi ci ha fregati tutti»), dal
terrorismo («Siamo in massima allerta») alla
politica estera («Non saremo lasciati fuori dal
Consiglio di sicurezza dell'Onu. Non faremo la
figura che hanno fatto i governi di
centrosinistra»). Il tutto condito con
l’ingrediente che più di tutti piace al premier:
ottimismo a volontà |
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26 luglio
Lavavetri di ruolo per le auto blu
Regioni uliviste accusate di finanza allegra:
torna sul tappeto la questione morale, con l'esclusione delle Regioni di
centrodestra che non riescono più a trovare il tappeto
Atmosfera accesa, nel centrosinistra, dopo che
il Correntone ha accusato alcune Regioni uliviste di finanza allegra, e in
particolare di aver raddoppiato inutilmente alcune commissioni solo per
aumentare le assunzioni. La Regione Campania ha smentito con due duri
documenti, uno dell'Ufficio Stampa e uno dell'Ufficio Stampa bis. Ma la
polemica non si placa, e torna sul tappeto la questione morale, con
l'esclusione delle Regioni di centrodestra che non riescono più a trovare il
tappeto, da tempo trafugato da un usciere.
Vediamo i principali punti in discussione.
Regione Calabria Sotto accusa la Commissione Ponte sullo Stretto.
Istituita per verificare la stabilità del Ponte, ne ha costruito uno
identico nelle campagne di Catanzaro per effettuare con attendibilità le
prove necessarie, con un autogrill a metà della campata per promuovere i
prodotti tipici locali, vagliandone di persona la digeribilità e le qualità
organolettiche. Altro punto in discussione è la creazione di una Commissione
contro gli sprechi, formata da una trentina di economisti di Princeton, che
non è ancora riuscita a verificare gli sprechi ordinari perché è impegnata a
quantificare i suoi: esaminando i propri biglietti aerei da e per Princeton,
i prof si sono autodenunciati al Tar.
Rientrato, invece, lo scandalo della nota spese di un consulente della
Forestale, un botanico friulano che aveva messo in conto 110 bottigliette di
Stock 84 prelevate dal frigobar dell'albergo in una sola notte. Ha potuto
dimostrare di averle bevute. Il Canad-Air usato dalla moglie di un dirigente
della Forestale per accompagnare i figli a scuola è sotto sequestro.
Regione Campania Chiarito il mistero della Commissione Mare e della
Commissione Mediterraneo, considerate dagli accusatori un indecente
doppione. Le competenze sono profondamente diverse: la Mare si occupa degli
ombrelloni, la Mediterraneo delle sedie a sdraio. La gara d'appalto per il
nuovo Inno Campano, varata dalla Commissione Inno Campano, è sotto indagine
perché l'unico partecipante ammesso, cognato del presidente di commissione,
ha compilato l'apposito pentagramma con i suoi dati anagrafici anziché con
le note musicali.
Regione Calpaglia Formata dalla fusione di Calabria, Campania e
Puglia, la nuova super-regione fa molto discutere. Era proprio necessario
aggiungerla alla burocrazia già esistente, con tanto di sede su piattaforma
galleggiante ormeggiata ogni mese in una diversa città del Sud? E come
possono giustificare, gli amministratori meridionali, il fatto che la sede è
l'unico edificio mondiale degli ultimi trent'anni che non è stato progettato
da Renzo Piano?
Auto blu La recente delibera della Regione Calabria che assegna
l'auto blu anche alle rappresentanze calabresi all'estero (pizzerie, negozi
di alimentari, singole famiglie che si prodigano per conservare il dialetto
locale) ha acceso le polveri. Sotto accusa anche l'assunzione, a Napoli, di
500 lavavetri magrebini in livrea, appostati ai semafori solo per le
macchine della Regione. La costruzione a Cosenza di un terminal per auto
blu, con sala massaggi e buffet tipico, non ha contribuito a rasserenare gli
animi. Giustificata da 'ragioni di sicurezza', invece, la decisione di
alcune Regioni di dotare ogni auto blu di una hostess che spiega ai
passeggeri come aprire la portiera e allacciare le cinture.
Finita davanti al magistrato la vicenda della rivista 'Blue style', house
organ delle auto blu il cui appalto è stato dato a un pubblicista analfabeta
che si è limitato a riempire le pagine con i calendarietti porno per
elettrauto. Gli avvocati difensori sostengono che non c'è nessuna differenza
con i normali house-organ delle principali compagnie di bandiera.
Rientrate invece le polemiche, comuni a tutte le Regioni, sul gettone di
presenza. In un'animata conferenza stampa, alcuni presidenti di Regione
hanno mostrato ai giornalisti il gettone stesso: uno speciale conio in oro
zecchino delle dimensioni di una forma di parmigiano che è stato fatto
rotolare in sala stampa tramite un apposito scivolo.
L'opposizione Il centrodestra sta preparando un documento di
condanna. Da autorevoli indiscrezioni, risulta che il primo capo
d'imputazione sarà l'accusa di plagio.
23 luglio
Torino, tre avvisi di
garanzia per i responsabili dell'azienda
Le accuse: disastro doloso e omissioni di cautele infortunistiche
1300 vittime dell'amianto
tremano i vertici di Eternit
I
legali degli operai morti chiedono un risacimento di 60mln di euro
Il controllo di una
struttura
in Eternit
TORINO - Disastro doloso e
omissione di cautele contro gli infortuni: con queste motivazioni la
procura di Torino ha inviato tre avvisi di garanzia ai membri della
multinazionale Eternit. Sono circa 1300, infatti, gli italiani, che
dopo aver lavorato nell'azienda svizzera o nelle sue sedi
distaccate, sono morte per delle malattie, come il mesotelioma o
l'asbestosi, legate all'amianto.
Secondo il procuratore aggiunto Raffaele
Guariniello, l' amianto veniva impiegato anche al di fuori degli
stabilimenti: per la lavorazione di strade, tetti, opere murarie nel
cortili, spesso servendosi di materiale di scarto. Questo ha portato
a una situazione di pericolo per la "pubblica incolumità": gli
abitanti, infatti, sempre secondo la procura, non erano stati
avvertiti dei rischi derivanti dall' esposizione al minerale-tossico.
Il procedimento, avviato nel 2003 per chiarire le cause della morte
di alcune decine di operai italiani, ha subito oggi una svolta.
L'indagine, infatti, riguardava solo l'azienda che si trovava in
Svizzera e i rappresentanti italiani di questa. Solo in un secondo
momento i pubblici ministeri torinesi hanno voluto estendere i
controlli anche alle filiali italiane e ai massimi vertici della
multinazionale. Si è arrivati a studiare, così, i casi di 1.300
persone morte a partire dal 1970. E' prima volta che i fratelli
Schmidhaeny, imprenditori svizzeri fra i più ricchi del mondo,
vengono chiamati per l'interrogatorio.
In Italia gli stabilimenti messi sotto accusa sono quelli di:
Cavagnolo (Torino), Casale Monferrato (Alessandria), Rubiera (Reggio
Emilia), Bagnoli (Napoli).
I legali delle vittime dell'amianto in Italia chiedono alla sede
italiana di Eternit il sequestro conservativo di 60 milioni di euro,
cioè il patrimonio di Stephan Schmidheiny, per risarcire i
lavoratori e i familiari colpiti dal mesotelioma.
21 luglio
IL COMMENTO
La spallata
finale alla giustizia
di CURZIO MALTESE
La riforma della giustizia, approvata a colpi di
fiducia, è in pratica l'atto finale della legislatura. Una stagione di
potere che si chiude com'era cominciata, all'insegna degli interessi
personali e delle ossessioni di Berlusconi, anzitutto la vendetta sulla
magistratura indipendente. I conti sono presto fatti. Come ha scritto
Eugenio Scalfari la data più probabile per il voto è la prima o seconda
domenica di aprile 2006, che significa sciogliere il Parlamento a metà
febbraio. Appena il tempo di tornare dalle vacanze, presentare una finta
finanziaria elettorale ed è subito voto. Per la verità è molto probabile che
questa maggioranza trovi anche il modo, il tempo e la faccia di far passare
la legge salva-Previti, ultimo tassello di una controriforma che restaura
nell'Italia del Duemila alcuni suggestivi principi di giustizia medievale.
Il dimezzamento dei tempi di prescrizione, per esempio, recupera l'antico
diritto di censo. Non assisteremo mai più allo scempio di un ricco
processato e condannato per inezia come la corruzione di magistrati o la
bancarotta fraudolenta, quando ci sono tanti poveri ancora a piede libero
per crimini contro l'umanità, come fumare uno spinello o masterizzare un cd.
Si tratterà però soltanto del magico tocco finale. Il meglio, il peggio, è
già avvenuto. La riforma della giustizia è al pari di altre confezionate da
questa maggioranza (scuola, lavoro) una controriforma autoritaria e
incostituzionale. Con in più un grado di violenza vendicativa ai limiti
della paranoia. Si può scegliere, nel vasto campionario di idee copiate da
Licio Gelli, ideologo di riferimento della maggioranza, quale sia meritevole
di maggiore indignazione. Se la trovata umiliante del test psicoattitudinale
per diventare magistrati, che forse sarebbe più utile per dirigenti di enti
pubblici o consiglieri Rai. Oppure la norma ad personam per impedire a Gian
Carlo Caselli di diventare procuratore generale antimafia. Per non dire
dell'antico sogno da tangentisti di separare le carriere dei magistrati e
sottometterle alla politica.
Il risultato immediato della
controriforma sarà uno sfascio e una progressiva paralisi del sistema
giudiziario. I magistrati lo hanno capito e sono già scesi in piazza a
protestare come i siciliani a piazza della Memoria.
Avrebbero avuto ragione di scendere in strada anche i mafiosi, naturalmente
per festeggiare, ma non lo hanno fatto. Forse non piaceva il nome della
piazza. Il presidente Berlusconi, che quando deve raccontare una menzogna
preferisce non moderarsi e capovolgere direttamente la realtà, sostiene che
la legge sveltirà i processi. Un'affermazione interessante da parte di uno
che ha speso 500 miliardi di avvocati per rallentare i procedimenti a suo
carico, vanta sei prescrizioni sei e sarebbe in galera da quel dì se in
Italia la giustizia avesse tempi umani. Purtroppo non è nemmeno vera.
Soltanto la norma contro Caselli bloccherà decine di concorsi già indetti.
Le altre leggi e leggine che compongono la lunga resa dei conti fra
Berlusconi e la magistratura, dalla Cirami alla Cirielli, hanno già mandato
in fumo anni di lavoro e di inchieste. La nuova riforma, con il prevedibile
coronamento della salva-Previti, si tradurrà nel congelamento di migliaia di
processi. E' difficile sostenere che si tratti di pura sfortuna.
La sfortuna è di aver vissuto questa triste, inutile avventura che finisce
in un'altra penosa e servile barricata della maggioranza intorno agli
interessi del suo capo. Non esistono rimedi, almeno da qui al voto. La
palese incostituzionalità della riforma potrebbe convincere il presidente
Ciampi a rinviare ancora alle Camere il testo della legge. Da un punto di
vista tecnico, un secondo rifiuto alla firma sarebbe giustificato dal fatto
che la maggioranza non è intervenuta su nessuno dei punti segnalati nel
primo rinvio e ha anzi aggiunto qualche elemento peggiorativo. Ma il
conflitto fra Quirinale e Governo crescerebbe a livelli mai neppure
sfiorati.
Non resta dunque che aspettare, lasciar passare la nottata.
Nella serena certezza che se questi sono gli ultimi atti
del governo, la nottata passerà presto.
20 luglio
Dati Istat: il peggior
risultato per la bilancia commerciale dal 1992
A maggio 2005 l'export segna +8,9% e l'import +11,1%
Commercio estero, record
negativo
6,3 miliardi di deficit in 5 mesi
Sul peggioramento pesa
l'importazione di petrolio
ROMA - Record negativo per la bilancia commerciale italiana che nei primi
5 mesi dell'anno ha registrato il peggior risultato dal 1992: un saldo passivo
negli scambi con l'estero pari a 6.277 milioni di euro a fronte di un disavanzo
di 2.724 milioni rilevato nello stesso periodo del 2004. Nel solo mese di maggio
le esportazioni sono aumentate dell'8,9% mentre le importazioni hanno
registranno un incremento dell'11,1%. E' quanto risulta dai dati sul commercio
estero diffusi oggi dall'Istat.
Nel confronto con aprile 2005 i dati mensili indicano in maggio un andamento
stazionario per le esportazioni e una diminuzione dell'1,4% per le importazioni.
Nel mese di maggio 2005, rispetto allo stesso mese del 2004 le esportazioni
verso i paesi Ue sono aumentate dell'8,3% e le importazioni del 7,2%. Il saldo
commerciale è risultato positivo per 181 milioni di euro, a fronte di un surplus
di 34 milioni di euro registrato nello stesso mese del 2004.
Rispetto ad aprile 2005 - continua l'Istat - i dati mensili registrano in maggio
un incremento dello 0,6% delle esportazioni ed una flessione del 2,1% delle
importazioni.
L'export italiano a maggio 2005, secondo l'Istat, ha registrato aumenti
tendenziali, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, verso la Spagna
(+16,3%), la Francia (+9,5%) e la Germania (+4,5%). Nel complesso dei Paesi i
più elevati aumenti tendenziali delle esportazioni si sono registrati nei
confronti dell'Estonia (+44,1%), del Belgio (+26,3%), dell'Irlanda (+22,4%),
della Slovenia (+21,6%) mentre le flessioni più consistenti hanno riguardato
Lussemburgo, Lituania e Cipro. Le importazioni dai maggiori partner commerciali
sono aumentate dai Paesi Bassi (+18,2%), dal Belgio (+9,6%) e dalla Germania
(+6,1%).
Per quanto riguarda i diversi settori di attività economica, nelle esportazioni
i maggiori rialzi hanno riguardato, a maggio, i prodotti petroliferi raffinati
(+62,2%) e i prodotti dell'agricoltura e della pesca (+23,1%). Gli aumenti più
elevati delle importazioni, invece, sono stati per energia elettrica, gas e
acqua (+84,4%) e minerali energetici (+65%). Nei primi 5 mesi dell'anno gli
incrementi più consistenti dell'export hanno riguardato i prodotti petroliferi
raffinati e i metalli e prodotti in metallo. Per le importazioni i maggiori
rialzi hanno interessato i prodotti petroliferi raffinati e l'energia elettrica
il gas e l'acqua.
Considerando il solo settore dei minerali energetici, il saldo è risultato
negativo per 14,564 miliardi rispetto al deficit di 11,222 miliardi dello stesso
periodo del 2004. Di conseguenza, spiega l'Istat: "Il peggioramento di 3,553
miliardi del deficit complessivo tra i primi 5 mesi del 2005 e lo stesso periodo
del 2005 è imputabile per 3,342 miliardi al comparto dei minerali energetici".
Alcuni mesi fa latte contaminato negli
allevamenti della zona
Vertice per l'emergenza ambientale, Procura apre inchiesta
Lazio, allarme fiume inquinato
25 vacche muoiono sulla riva
L'episodio nella valle del fiume Sacco, un'area in cui
si concentrano industrie chimiche e farmaceutiche
Le vacche morte
ANAGNI (Frosinone) - Venticinque vacche trovate morte sulla
riva. Stramazzate dopo aver bevuto l'acqua avvelenata di un
ruscello, un affluente del fiume Sacco, nella zona di Anagni. E'
accaduto ieri nella zona industriale della cittadina del frusinate,
in un'area già al centro di polemiche per l'inquinamento prodotto
dalle numerose industrie chimiche e farmaceutiche. "Siamo di fronte
a un vera e propria emergenza ambientale", ha detto Piero Marrazzo,
presidente della Regione Lazio. La procura della Repubblica di
Frosinone ha aperto un'inchiesta.
Non è il primo episodio di grave inquinamento prodotto dalle
fabbriche della valle del Sacco. Il responsabile allevamenti della
Asl di Frosinone è cauto: "La maggior parte delle vacche era
stanziata qui, nel fiume bevevano tutti i giorni - dice il dottor
Osvaldo Caperna - Se c'è stato un versamento di sostanze velenose,
si è trattato soltanto di un episodio". Dopo i campionamenti
dell'acqua, nell'area incriminata (circa 200 ettari), previsti nuovi
controlli sui sedimenti, per cercare tracce della sostanza che
avrebbe causato la strage.
Il rischio ora è una possibile contaminazione delle falde acquifere.
"Non possiamo dire se siano state inquinate o meno. Questo almeno
fino a quando non avremo capito quale sostanza scorra nel ruscello
che si immette nel fiume Sacco", spiega il vicesindaco di Anagni,
Carlo Noto. "La concentrazione della sostanza inquinante doveva
essere altissima - continua il vicesindaco - Le mucche sono morte
sul colpo". Il ruscello scorre proprio nella zona industriale di
Anagni. "Le aziende versano dei liquidi, che dovrebbero essere
controllati, ma l'esperienza di ieri mi ha messo sul chi va là".
Da tempo ormai, gli allevatori della valle del Sacco vivono una
lunga serie di disagi, causata dal crescente inquinamento nel fiume
ciociaro e nei suoi affluenti. Nei mesi scorsi, nel triangolo di
Colleferro, Gavignana e Segni, il latte prodotto da alcuni
allevamenti di mucche è risultato contaminato. In quel tratto della
valle è stata anche rilevata la presenza di clorofluorocicloesano,
un pesticida che non viene più prodotto da 30 anni. Nella stessa
area erano stati scoperti fusti interrati della stessa sostanza, un
tempo prodotta da una fabbrica di Colleferro.
Il sindaco di Anagni Franco Fiorito è andato in Regione per un
incontro urgente con il presidente Piero Marrazzo. Prima ha firmato
un'ordinanza, girata ai comuni della zona, con il divieto di
abbeveramento nel ruscello e nel fiume. "Non possiamo certo correre
il rischio che qualche bambino giochi in quell'acqua - spiega il
vicesindaco. "Qui c'è stato un avvelenamento, non un inquinamento -
dice Daniela Valentini, assessore regionale all'Agricoltura -
Dobbiamo dare un segnale agli agricoltori di questa zona perché sono
spaventati. Non devono andare via da qui".
"Ieri pomeriggio, quando abbiamo capito che qualcosa stava
succedendo, ci siamo avvicinati al rio - racconta l'allevatore Luigi
Sabene - L'acqua era diversa, più scura rispetto a oggi, asciugava
la bocca". Questa situazione dell'acqua avvelenata "va avanti da un
anno e nessuno finora è intervenuto", aggiungono altri suoi
colleghi.
19 luglio
Succede soprattutto ai più giovani: inalano
il gas della bombola
Vengono archiviati come incidenti, a volte come overdose
Così si può morire di carcere
in cella un suicidio ogni 5 giorni
di ATTILIO BOLZONI
ROMA - Lo fanno con il
gas e sempre di notte. Si avvicinano alla bombola dei fornelli e
sniffano e sniffano fino a quando il torpore li porta via. Nel loro
gergo è la "piccola neve", butano e propano liquidi, al cervello non
arriva più ossigeno, un po' di euforia e poi l'avvelenamento. Se ne
vanno senza un grido. Li trovano la mattina dopo immobili sul
materasso, come fossero ancora nel sonno profondo. I referti medici
li archiviano sbrigativamente come "incidenti", a volte però le
perizie si spingono a diagnosticare un "decesso per overdose".
L'amministrazione penitenziaria preferisce seppellirli così: tossici
in astinenza. Mostrano sempre una certa avversione nel riconoscere
quelle morti. Sono troppo scomode. E troppe. Nelle carceri italiane
c'è un suicidio ogni cinque giorni.
Si muore di disperazione nelle prigioni. E contrariamente a ciò che
potrebbe sembrare ragionevole, si muore anche presto.
Dopo pochi mesi o solo dopo poche ore da quando si varca quel filo
spinato, nelle sezioni, nei camminamenti per l'aria degli "isolati",
sotto le torrette, dietro le mura che separano dall'altro mondo. E
sono gli uomini giovani che decidono di andarsene più degli altri,
che si ammazzano.
Marco ha legato il lenzuolo alle sbarre e poi intorno al collo. E si
è lasciato scivolare. Nunzio si è infilato un sacchetto di plastica
alla testa e ha stretto stretto fino a quando non respirava più. E
poi Maurizio a San Vittore con il fornellino, lo stordimento con il
gas, anche lui con la piccola neve, lo "sballetto delle carceri".
Avevano tutti e tre meno di quarant'anni.
Nessuno di loro doveva passare il resto della vita in quella o in
un'altra galera. Imputati di piccoli reati, pene brevi da scontare,
erano in attesa di giudizio. Come Marco e come Nunzio e come
Maurizio, il 40 per cento di chi si uccide aspetta ancora il
processo di primo grado.
Ci si toglie la vita più che fuori, nelle prigioni d'Italia.
Diciotto volte di più: è il tasso dei suicidi tra la popolazione
detenuta e l'altra, quella libera. E ci si uccide soprattutto nei
penitenziari che sono diventati casba, le case circondariali dove in
una cella ne ammucchiano sei o sette anche per un anno o due, dove i
letti a castello quasi toccano il soffitto, dove sono pochi gli
educatori e pochi gli psicologi, dove ancora meno sono i medici. E
dove la doccia non la puoi fare tutte le mattine, perché l'acqua non
basta mai per tutti. E le pareti trasudano di umidità. E c'è buio
anche quando splende il sole.
I più a rischio sono proprio quelli che chiamano i "nuovi giunti",
smarriti, spaventati, non abituati al carcere. "I detenuti più
giovani, quelli che entrano in penitenziario per la prima volta, non
hanno dimestichezza con gli stili di vita, le regole e le gerarchie
dominanti e sono sprovvisti di un "codice di comportamento" che li
pone al riparo delle insidie e dai traumi della vita reclusa",
spiega il sociologo Luigi Manconi, garante dei diritti "delle
persone private della libertà" per il Comune di Roma e autore di una
ricerca con Andrea Boraschi sui suicidi in carcere negli ultimi
anni. Sarà pubblicata nel prossimo autunno sulla "Rassegna italiana
di sociologia", è uno spaccato di quello che accade nel cupo
isolamento dei bracci, numeri, storie, tabelle e grafici che svelano
l'orrore della morte dietro le sbarre.
E' uno studio che disegna l'identikit del detenuto suicida, che
scopre a sorpresa come non c'è quasi mai relazione tra il togliersi
la vita e la "riduzione della speranza": non sono gli ergastolani
che si impiccano, che si avvelenano, che si soffocano. Non è solo la
lunga detenzione che fa paura. Dice ancora Manconi:
"L'ineluttabilità della pena e la certezza di dover scontare una
condanna pesano meno dell'incertezza sulla propria condizione. E la
possibilità di essere riconosciuti innocenti non appare sufficiente
a scongiurare la decisione del suicidio".
E' giovane il detenuto che si uccide, aspetta ancora di essere
giudicato, è appena entrato in carcere. Quasi il 20% dei suicidi
avviene tra il primo e il settimo giorno dall'ingresso alla
"matricola", il 50% nei primi sei mesi. E molti, subito dopo un
trasferimento da un carcere all'altro.
Il cambiamento provoca uno stress che per alcuni è insopportabile.
Per M. ad esempio, schizofrenico, già assolto per incapacità di
intendere e di volere, ricoverato più volte in ospedali psichiatrici
giudiziari. Appena l'hanno portato a Rebibbia, un primo maggio si è
impiccato.
Spesso la stampa non viene a conoscenza di quelli che non ci sono
più. Nessuno ne dà notizia. Il carcere custodisce tutti i suoi
segreti. E tende a far sempre una sua conta di quei morti. Sono 25
in questi primi sei mesi dell'anno secondo il Dap, il Dipartimento
dell'amministrazione penitenziaria.
Sono 30 secondo Manconi e tutte quelle associazioni che provano a
"guardare" nel pozzo nero dei bracci. È una guerra di numeri.
Come per i detenuti che muoiono per malattia. Le statistiche
ufficiali non calcolano mai quelli che tirano l'ultimo respiro su
un'ambulanza o in un reparto ospedaliero esterno. Alzano la media.
"Viceversa dalle carceri arriva con inesorabile puntualità la
segnalazione di tutti gli spettacoli musicali e teatrali, delle gare
sportive, dei concorsi di pittura e di poesia", scrivono su
"Ristretti Orizzonti", agenzia di informazione dal carcere che ha
appena sfornato un altro dossier su suicidi e "morti per cause non
chiare". E aggiungono: "L'istituzione carcere vuole dare di sé
un'immagine addolcita, troppo parziale".
E' guerra di numeri per il presente e per il passato. Dicono al Dap:
"Negli ultimi tre anni i suicidi sono calati". E hanno anche
istituito un gruppo, l'Umes, l'unità di monitoraggio degli "eventi
suicidiari". Ma abbiamo già visto anche per altre vicende carcerarie
come le direttive del centro non arrivino sempre a destinazione, nei
penitenziari. C'è un carcere virtuale fatto di norme e di
regolamenti, di progetti elaborati anche con le migliori intenzioni.
E c'è un carcere reale, quello dove si sente il sudore dei corpi,
l'odore della paura, il puzzo di morte. È un fosso. E in fondo al
fosso ci sono loro, i suicidi.
Raccontano Stefano Anastasia e Patrizio Gonnella - il primo tra i
fondatori dell'associazione Antigone e il secondo ex direttore di
istituti di pena e attualmente presidente nazionale di Antigone -
nel loro libro "Patrie galere": "Dopo il primo morto, traumatico per
tutti, a partire dal secondo ci si scandalizza sempre di meno. Una
grande percentuale di detenuti esprime idee di morte. Alcuni ci
provano. I tentativi di suicidio sono alcune migliaia l'anno...". E
quasi un quinto di chi minaccia di farsi fuori, poi lo fa davvero.
Anche in questo 2005 ce ne sono stati tanti.
Ogni prigione italiana ha le sue croci. Gioia, quarant'anni, carcere
di Parma. Detenuto italiano di ventotto anni, carcere di Bologna.
Detenuta jugoslava di trentuno anni, carcere di Torino. Nunzio
ventotto anni, carcere di Sulmona. Alfonso, trentacinque anni,
carcere di Torino. Sergio, ventinove anni, carcere di Padova...
18 luglio
Le prime vittime di un sistema economico che
non produce merci ma aria fritta sono proprio loro: i dirigenti che
fanno da fuochisti a una locomotiva sempre più ingovernabile
Il capitalismo ha rotto i lacci e
lacciuoli che lo rallentavano e corre per le immense praterie del
mercato globale e della rivoluzione tecnologica. Chi si ferma alla
conservazione del passato è perduto. Le aziende che producono macchine e
beni materiali sono sorpassate, bisogna produrre idee, ricerca,
desideri, mode. Fanno bene a Piombino a chiudere le acciaierie e a
dedicarsi a un gigantesco progetto turistico e chi si chiede chi avrà i
soldi per andare negli alberghi del progetto turistico se le acciaierie
chiudono è un sorpassato: arriveranno i cinesi, magari gli indiani.
È vero che i cinesi e indiani e magari africani hanno miliardi di
poveracci che non sanno come combinare il pranzo con la cena ma i loro
mercati sono in crescita, i loro consumi anche, per i nostri già ricchi
sono una buona occasione.
E i sempre poveri? I poveri sempre più poveri? Si aggiustino o
continuino a contare sui mega concerti di Live 8, su questa formidabile
medicina sociale di massa che risolve la miseria dei poveri facendo
cantare i ricchi. Un po' come ai tempi di Nerone che ricostruiva Roma
incendiandola e sfamava la plebe al suono della lira.
Le aziende che producono merci non rendono, rendono quelle come le
televisive che producono immagini, fantasmi, mode o come quelle dei
telefonini che moltiplicano informazioni false, inutili, ma anche tanta
pubblicità popolata da belle donne dal sorriso perverso e dalle curve
procaci che offrono nuovi gadget pronti a rompersi rapidamente e a
rifornire il mercato dei ricambi. Questa è l'economia bellezza!
È il tempo delle stock option, dei manager che non pensano ai beni
durevoli ma a far salire i profitti finanziari anche a danno
dell'azienda, dei grandi manager astuti che si mettono d'accordo per
rifilare alla loro azienda avanzi di magazzino a danno degli azionisti
ma a beneficio loro.
Cosa aspettiamo noi italiani a saltare sul carro del capitalismo
globale, moderno, creativo, innovativo che vende aria fritta e incassa
valuta pregiata da trasferire nei paradisi fiscali?
Forse ci trattiene il sospetto che questo tipo di capitalismo sia molto
ma molto rischioso economicamente come socialmente?
Di certo fra i primi a esserne vittime ci sono i manager che fanno da
fuochisti di una locomotiva sempre più ingovernabile. I manager della
provincia di Milano assunti nel 2004 sono stati 575, quelli dismessi,
scacciati, tagliati, licenziati 1.130, con un saldo passivo di 555. Nel
2003 era stato di 177. Idem nella regione lombarda: 805 assunti, 1.592
espulsi. Buona parte degli usciti che anni fa ritrovavano un posto nel
giro di pochi giorni ora deve aspettare se va bene dei mesi. "Oggi
spesso per tornare a lavorare", dice un esperto, "bisogna reinventarsi
un ruolo, magari come consulenti. Il problema è che chi resta fuori dal
mercato per qualche tempo viene guardato con sospetto".
Perché un aspetto crudele di questa società ultracompetitiva è che una
retrocessione, una sconfitta nell'economia, nella burocrazia
dirigenziale, si trasforma immediatamente in una sconfitta
professionale, umana.
Fare il manager è certo meglio che fare il bracciante, ma è singolare
che nel mercato dei manager si ripetano le crudeltà, le sofferenze, le
umiliazioni che c'erano nel mercato dei braccianti, quella che da alcuni
viene chiamata la rottamazione dei manager.
Non è piacevole a 40 o 50 anni affidarsi agli head hunting, i cacciatori
di teste in cerca di posti. A Milano e in Lombardia oggi i dirigenti di
industria disoccupati sono 5 mila, il doppio che nel 2000. I
licenziamenti aumentano del 15 per cento, le dimissioni volontarie sono
in calo del 20 per cento. I licenziamenti di operai sono triplicati nel
2003.
Per chi scava la talpa del vecchio Marx?
S'avanza la Populorum regressio
Papa Ratzinger in Valle d'Aosta prepara la prima enciclica. Teologi e
allibratori cercano di indovinare l'argomento trattato
C'è molta attesa per la prima
enciclica di papa Ratzinger, in preparazione in questi giorni di vacanza
in Valle d'Aosta. La stesura è stata fin qui rimandata per problemi
tecnici: non si riusciva a trovare un computer con i caratteri gotici.
Con un gesto molto apprezzato in Vaticano, il Museo Nazionale del
Fumetto ha fatto dono al pontefice della speciale tastiera usata da
Bonvi per il lettering di Sturmtruppen, sbloccando la situazione.
Teologi e allibratori, in stretto contatto tra loro, cercano di
indovinare l'argomento trattato. Questi i temi più probabili.
Contro Darwin Una dura confutazione dell'evoluzionismo, però
utilizzando categorie molto innovative: secondo Ratzinger, è la scimmia
che discende dall'uomo, del quale rappresenta il ramo degenere. Alcuni
cavernicoli panteisti, che adoravano cose assurde come le angurie e gli
spiedini di cinghiale anziché il Dio Unico Korkababuk, per punizione
divina furono trasformati in gorilla. Di lì la teoria ratzingeriana del
de-evoluzionismo, che è il contrario esatto del darwinismo: all'alba dei
tempi, l'uomo uscì già a immagine di Dio, in giacca e cravatta e con la
valigetta ventiquattrore, ma poi iniziò a regredire e presto, se non
tornerà sulla retta via, si trasformerà in protozoo o addirittura in
cane pechinese da compagnia, notoriamente l'anello più basso e
detestabile della catena della vita.
Contro il rock È nota l'idiosincrasia di questo Papa per la
musica rock, non per caso smascherata da alcuni demonologhi come veicolo
di messaggi satanici. In un rapporto riservato consegnato a Ratzinger
nei mesi scorsi, si sostiene che ascoltando al contrario il 45 giri di 'Be
bop a Loola' si ode distintamente la frase "se non ti levi
immediatamente il reggipetto, stasera guardo le finali del baseball in
tv". In opposizione a questa moda degenere, il Papa pensa di organizzare
un grande Live-Aid alternativo: 12 ore di canti gregoriani e di
cantautori di 'Radio Maria' in play-back, con raccolta di fondi per
annullare il debito dello Ior.
Contro Galileo Anche volendo ammettere che la Terra giri attorno
al Sole, si tratta di decidere se questa evidente stortura vada
accettata o rifiutata. Poiché le Scritture non ne fanno cenno, va
rifiutata, e bisogna vivere "ut Sol gireatur circum Terram", come se il
Sole girasse attorno alla Terra, secondo la definizione di Marcello
Pera. Nel nuovo catechismo verrà introdotto un apposito capitolo sulle
conseguenze dottrinarie che il geocentrismo avrà nell'uso delle creme
abbronzanti.
Contro il relativismo etico La nuova enciclica si chiamerà
'Giovedì gnocchi, venerdì pesce', e si propone di ristabilire l'ordine
della tradizione al disordine del relativismo, a cominciare dal
ripristino del digiuno, del cappello da prete e delle sberle in canonica
durante i corsi per cresimandi. Nuova impostazione anche per il dialogo
interreligioso, al quale Ratzinger tiene moltissimo: gli esponenti delle
altre religioni potranno presentare domanda di conversione all'apposito
sportello, presentandosi ginocchioni sui ceci. Necessario che si
adeguino alle indicazioni di Pera, che si raccomanda di "esistere come
se Dio vivesse".
Sacerdozio femminile La nuova enciclica 'Chi dice donna dice
danno' contiene importanti aperture alle donne. Il ruolo di perpetua
verrà finalmente istituzionalizzato con una investitura religiosa in
piena regola, nella quale il parroco consegnerà alle novizie una ramazza
consacrata e un tegame benedetto. Le donne che considerino ancora
ancillare e subalterno il loro ruolo nella Chiesa latina, e lo ritengano
il frutto di una società patriarcale e maschilista, potranno consolarsi,
come spiega bene Pera, "vivendo come se la Svezia non esistesse".
Contro il marxismo Non si sa ancora se si chiamerà 'Populorum
regressio' o 'De rerum vecchiarum', ma certo conterrà la denuncia delle
false teorie progressiste e la raccomandazione di tornare alla società
tradizionale armoniosamente divisa in classi sociali bene ordinate,
riflesso diretto dell'ordine celeste e della distribuzione delle cabine
sulle navi da crociera. Bisogna vivere, secondo l'accezione di Pera,
"come se il conto in banca esistesse".
Dell'Utri, le motivazioni della condanna: per trent'anni mediatore tra mafia
e Fininvest
di red.
Marcello Dell’Utri è stato per trent'anni anni mediatore tra Cosa Nostra e
la Fininvest. Per questo il tribunale di Palermo lo ha condannato nei mesi
scorsi a nove anni di reclusione per concorso in associazione mafiosa. Lo
afferma la motivazione della sentenza, depositata mercoledì e che chiama in
causa anche il patron della Fininvest, Silvio Berlusconi che era a
conoscenza dell’attività del suo fido.
Dell’Utri ha in particolare «chiesto ed ottenuto dal capo mandamento
mafioso Vittorio Mangano favori, promettendo anche appoggio in campo
politico e giudiziario». Mangano è il preteso stalliere della villa di
Arcore di Berlusconi. In realtà, scrivono i giudici, l’uomo era stato
“assunto” per garantire le relazioni tra Fininvest e l’organizzazione
mafiosa.
«Queste condotte - scrivono i giudici - sono rimaste pienamente ed
inconfutabilmente provate da fatti, episodi, testimonianze, intercettazioni
telefoniche ed ambientali di conversazioni tra lo stesso Dell'Utri e Silvio
Berlusconi, Vittorio Mangano, Gaetano Cinà ed anche da dichiarazioni di
collaboratori di giustizia».
Secondo il tribunale «la pluralità dell'attività posta in essere, per la
rilevanza causale espressa, ha costituito un concreto, volontario,
consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento
e rafforzamento di Cosa nostra alla quale è stata, tra l'altro, offerta
l'opportunità, sempre con la mediazione di Dell'Utri, di entrare in contatto
con importanti ambienti dell'economia e della finanza, così agevolandola nel
perseguimento dei suoi fini illeciti, sia meramente economici che, lato
sensu, politici»
Nella motivazione si parla, naturalmente, a lungo di Silvio Berlusconi,
al quale il tribunale rimprovera di aver rifiutato la testimoninanza che
avrebbe potuto chiarire i rapporti tra la sua azienda e i mafiosi.
«L'onorevole Berlusconi - scrivono i giudici - si è lasciato sfuggire l'imperdibile
occasione di fare personalmente, pubblicamente e definitivamente chiarezza
sulla delicata tematica in esame, incidente sulla correttezza e trasparenza
del suo precedente operato di imprenditore che solo lui avrebbe potuto
illustrare. Invece, ha scelto il silenzio».
Lunga 1800 pagine, divise in 18 capitoli, la motivazione racconta una
storia lunga quasi trent’anni, dai primissimi anni Settanta al 1998, quando
il processo era già iniziato da oltre un anno contro lo stesso Dell’Utri e
il capo mafioso Gaetano Cinà. Per il Tribunale «l'accurata e meticolosa
indagine dibattimentale ha consentito di acquisire inoppugnabili elementi di
riscontro alle condotte (anche se non a tutte) contestate ai due imputati».
Secondo i giudici gli elementi probatori emersi dall'indagine dibattimentale
hanno consentito di fare luce sulla posizione assunta da Dell'Utri nei
confronti di esponenti di Cosa nostra, sui contatti diretti e personali con
alcuni di essi (Bontate, Teresi, oltre a Mangano e Cinà), sul ruolo
ricoperto nell'attività di costante mediazione, con il coordinamento di
Gaetano Cinà, tra quel sodalizio criminoso, «il più pericoloso e sanguinario
nel panorama delle organizzazioni criminali operanti al mondo», e gli
ambienti imprenditoriali e finanziari milanesi con particolare riguardo al
gruppo Fininvest».
Il collegio si sofferma «sulla funzione di 'garanzià svolta nei confronti
di Silvio Berlusconi, il quale temeva che i suoi familiari fossero oggetto
di sequestri di persona, adoperandosi per l'assunzione di Vittorio Mangano
presso la villa di Arcore dello stesso Berlusconi, quale 'responsabilè (o
fattore o soprastante che dir si voglia) e non come mero stalliere, pur
conoscendo lo spessore delinquenziale dello stesso Mangano sin dai tempi di
Palermo (ed, anzi, proprio per tale sua qualità), ottenendo l'avallo
compiaciuto di Stefano Bontate e Girolamo Teresi, all'epoca due degli uomini
d'onore più importanti di Cosa nostra a Palermo».
Sugli ulteriori rapporti di Dell'Utri con Cosa nostra, «favoriti, in
alcuni casi», dalla fattiva opera di intermediazione di Cinà, protrattisi
per circa un trentennio nel corso del quale Dell'Utri «ha continuato
l'amichevole relazione sia con il Cinà che con Mangano, nel frattempo
nominato alla guida dell'importante mandamento mafioso palermitano di Porta
Nuova, palesando allo stesso una disponibilità non meramente fittizia,
incontrandolo ripetutamente nel corso del tempo, consentendo, anche grazie a
Cinà, che Cosa nostra percepisse lauti guadagni a titolo estorsivo
dall'azienda milanese facente capo a Berlusconi».
In
calo le morti bianche, ma non per i lavoratori extracomunitari
di red
PIù di 900mila infortuni sul lavoro all'anno, anche se in leggera
diminuzione rispetto al 2004 restano allarmanti in Italia i dati
sugli infortuni sul lavoro e le morti bianche. Il calo è stato
all’incirca dell’1,1% rispetto al 2003, secondo i dati diffusi dall’Inail
nel rapporto annuale 2004, presentato a Roma dal Presidente
dell’istituto, Mungari. Nel 2004 gli infortuni sono stati 966.568, a
fronte dei 977.310 dell'anno precedente:circa 11 mila casi in meno.
In lieve diminuzione anche il numero dei casi mortali. Nel 2004, le
morti bianche sono state 1.278, con una diminuzione di 152 casi
rispetto al 2003 e con una tendenza ulteriore alla flessione
rispetto ai 1.400 casi stimati nelle prime anticipazioni sull'entità
della mortalità da infortunio.
Cresce invece il numero di lavoratori extracomunitari (1.800.000
risultano assicurati) colpiti da infortunio, aumentati del 6%
rispetto al 2003 e ben del 25% rispetto al 2002. In ascesa anche i
casi mortali tra extracomunitari, saliti a 167, una cifra che
corrisponde al 13% dei decessi complessivi. A condizionare questo
dato è la pericolosità maggiore delle mansioni svolte dai lavoratori
provenienti da paesi che non fanno parte dell’Ue. I settori con
maggiori incidenti sono stati quello delle costruzioni, del
commercio, dei trasporti e delle comunicazioni, industria dei
metalli e industria meccanica. In tutti questi casi, però, avverte
il Rapporto dell'Inail, la diminuzione degli incidenti e delle morti
bianche è stata costante. In aumento, invece, il numero degli
infortuni tra i lavoratori della sanità e dei servizi sociali.
Sul fronte degli infortuni sul lavoro, l'Italia si colloca
leggermente al di sotto della media europea. Nello stesso anno, in
Germania e in Francia si sono registrati, rispettivamente, 4.082 e
4.887 casi di infortunio per 100 mila occupati, mentre in Italia
3.356. Tra i Paesi più virtuosi, l'Irlanda (1.204 casi) e la Svezia
(1.347). Ultima in classifica la Spagna, con 6.728 infortuni.
Nonostante la lieve riduzione di morti e infortuni, quello delle
condizioni di sicurezza sul lavoro rimane un problema grave per il
nostro paese. Ogni giorno qualcuno perde la vita sul lavoro e spesso
per questioni legate alla mancanza del rispetto delle norme di
sicurezza. Proprio mercoledì, giorno precedente all’uscita del
rapporto annuale Inail, sono state ben cinque le persone morte
durante l’attività lavorativa. Tre operai dell’Anas sono stati
travolti nel cosentino da un’auto sbandata e uscita fuori strada.
Due di loro sono morti ed uno è rimasto ferito. Le sigle sindacali,
condividendo il cordoglio dei familiari per il grave lutto subito,
annunciano quindi di aver già richiesto un immediato incontro
all'amministratore dell'Anas Vincenzo Pozzi e di aver dichiarato
un'ora di sciopero di tutti i dipendenti aziendali da effettuarsi il
giorno dei funerali delle vittime.
È «inaccettabile» che, per i lavoratori dell'Anas, i rischi di
infortuni in questi anni non sono diminuiti, in controtendenza
rispetto al dato nazionale. Lo affermano, in una nota, Filt-Cgil,
Fit-Cisl, Uilpa-Anas, Sada-Confsal e Sada-Confsal, ricordando che
«ancora una volta un gravissimo incidente sul lavoro ha mietuto
vittime e feriti gravi tra i cantonieri e gli occupanti del veicolo
investitore. I dati degli infortuni, cresciuti in modo evidente
dentro l'azienda dovrebbero far riflettere i vertici societari sul
fatto che l'attuale politica aziendale, porta risultati disastrosi
proprio dal punto di vista della sicurezza del lavoro degli addetti
alla manutenzione e ai servizi rivolti all'utenza stradale». Altre
tre persone sono morte sul lavoro: una sull’A3 Salerno-Reggio
Calabria, una a Roma, un’altra a Osoppo, in provincia di Udine.
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14 luglio
Dentro di noi
ROBERTO ZANINI
Erano quattro kamikaze, gli
assassini di Londra, tutti cittadini britannici. Non lo dice la polizia ma la
Bbc, però ci dicono che possiamo fidarci e inorridire in modo adeguato. Le
bombe umane saltano in aria anche tra le nostre tiepide case, hanno il
passaporto del nostro stesso colore. Non sono tra noi, sono noi, non
importa se da pochi mesi o molti anni. La loro esplosione segna, in qualche
modo, l'implosione dell'Occidente che si vuole combatta una guerra in difesa di
ciò che ha di più caro. Ma ciò che avevamo di caro è stato annichilito da molto
tempo, una guerra dopo l'altra. E la difesa armata dei presunti noi stessi ci ha
fatto diventare il nemico che dichiaravamo di voler combattere. Abbiamo fatto
quasi tutto da soli e ora terroristi suicidi occidentali uccidono cittadini
inermi occidentali in una capitale occidentale. Credevamo di essere al fronte ma
il fronte non c'è più, l'Oriente è venuto a trovarci e ha messo su casa. La
parola kamikaze la importò Marco Polo di ritorno dal Giappone ma in arabo non
esiste e anzi «vento divino», ciò che significa in italiano, è uno dei 99 bei
nomi di dio nella teologia islamica. Tanti saluti alla civiltà superiore. Il
vincolo della sopravvivenza non è più un deterrente, il limite ultimo e
invalicabile di una violenza che è ormai l'unico elemento di relazione tra gli
individui. Ciò che accade ogni giorno in Palestina o Iraq ci appare feroce e
incomprensibile. Oggi accade in Gran Bretagna, ben dentro il campo che dicono
sia il nostro, e comprendere diventa un obbligo.
E' proprio dal campo che bisogna uscire, dall'Occidente come camicia di forza,
sistema di valori intangibili da preservare, laddove necessario, con la spada (e
con la garanzia che, se a maneggiarla siamo noi, ciò non sarà considerato
anticristiano). Fuggire da questo Occidente, magari portandosi dietro la cassa.
Libertà, democrazia, uguaglianza, giornali: c'è un tesoro che non va dilapidato,
nella cassaforte occidentale. Tolerance and change, tolleranza e
cambiamento, sono state le parole d'ordine del sindaco di Londra, Ken
Livingstone, il giorno dopo il macello della sua città. Cambiamento, appunto.
Invece difendiamo a mano armata la nostra identità, per colpire il «nemico» ci
colpiamo da soli, in Italia pensiamo di scampare al prossimo attentato cacciando
i clandestini e controllando poste e telefoni: il cielo stellato sopra di noi,
le leggi speciali dentro di noi.
E' stato detto che l'impossibile immedesimazione con chi patisce una massima
ingiustizia - la guerra è una - è la radice dell'incomprensione di fronte al
terrorista suicida. Ora possiamo capire, e non è un bene che sia a prezzo del
nostro sangue, ora possiamo inorridire. Dei kamikaze, della guerra e di noi
stessi.
13 luglio
Il campo cancellato dalle ruspe, appello al
sindaco da intellettuali e cittadini
Il Comune non ne vuole sapere, per ora si occupano di loro due preti
Senza casa 40 bambini rom
"È la vergogna di Milano"
di RODOLFO SALA
Un campo nomadi a
Milano
MILANO - Settantasei rom rumeni con documenti in regola, tra
cui una quarantina di bambini, da quasi un mese stanno dividendo la
città di Milano. Fino a due settimane fa vivevano alla bell'e meglio
nel campo nomadi di via Capo Rizzuto, che adesso è un ammasso di
macerie. È stato raso al suolo, quel campo, perché ospitava uno
stupratore, arrestato dalla polizia dopo avere abusato, il 17
giugno, di una studentessa diciannovenne a Pero, alle porte di
Milano. Da allora i 76 rumeni (erano di più, ma loro non possono
essere espatriati, come si è fatto per gli altri) non li vuole più
nessuno.
Per una decina di giorni il Comune li ha fatti dormire nelle
strutture della Protezione civile: solo dormire, a ospitarli di
giorno per quel breve periodo ci ha pensato la Casa della Carità,
una struttura di accoglienza della Caritas. Poi il Comune non ha più
voluto saperne: e da domenica notte i rom romeni sono totalmente a
carico di due preti, don Virginio Colmegna e don Massimo Mapelli,
responsabili della Casa della Carità. Adesso sembra che il problema
sia tutto loro, di questi due sacerdoti che stanno facendo quel che
possono e che altri non vogliono fare. Li tengono lì alla Casa della
Carità, di giorno e di notte, ma dicono che non può essere per
molto.
Fine mese al massimo, come conferma il prefetto Bruno Ferrante,
protagonista di una difficilissima mediazione tra il Comune
(centrodestra) e la Provincia (centrosinistra), che su questa
vicenda non smettono di farsi la guerra. L'amministrazione del
capoluogo non vuole altri rom, e sostiene che una nuova sistemazione
(per i 76 rumeni e per chiunque altro) va trovata fuori dalla cinta
daziaria.
La Provincia si fa avanti offrendo soldi per nuovi campi e
proponendosi in un ruolo di coordinamento che Milano sembra mal
sopportare. Soprattutto perché il presidente diessino Filippo Penati
fa capire che non si deve scaricare il problema sui Comuni
dell'hinterland.
Risultato: tutto fermo, tutto affidato alla buona volontà di due
preti. E alla disponibilità di un immobiliarista, Marco Cabassi, che
dopo l'appello lanciato dal prefetto offre un proprio terreno come
soluzione temporanea (la gestione sarebbe comunque della Caritas).
Un terreno a Trezzano sul Naviglio, estrema periferia di Milano. Ma
puntuale arriva la risposta del sindaco: "Abbiamo già troppi
problemi". Un gruppo di esponenti della società civile medita su
dove sia sprofondato il proverbiale pragmatismo meneghino, dove sia
finita la città cont el coer in man che è sempre stata capace
di risolvere i suoi problemi, senza mai scacciare nessuno. Meditano
e scrivono: una lettera aperta al sindaco e ai presidenti di
Provincia e Regione: "Confessiamo di provare profonda vergogna per
questo spettacolo, la nostra Milano e la civile Lombardia non
meritano questa indecenza".
Tra i primi firmatari ci sono l'economista Marco Vitale i sociologi
Enrico Finzi e Francesca Zajczyc, la responsabile dell'ufficio studi
del Touring Club Cristina Rapisarda Sassoon, il presidente del
coordinamento dei comitati milanesi Carlo Montalbetti, il
responsabile dei City Angels (si occupano dei senza dimora) Mauro
Furlan, il responsabile di Legambiente Andrea Poggio.
12 luglio
Fino a 15 anni fa era simbolo di lavoro mal fatto,
disonestà e arroganza. Ora l'intera Europa lo teme. Ma sarà panico
all'arrivo di quello cinese
In Polonia, ai tempi del comunismo, l'idraulico era una figura simbolica.
Compariva nelle barzellette e negli sketch dei cabaret. Simboleggiava la
schizofrenia di quei tempi. Di giorno era impiegato in qualche istituzione,
fabbrica o impresa edile nazionale, ma fuori dell'orario di lavoro accettava
le chiamate dei privati. Ovviamente queste chiamate erano illegali, ma erano
del tutto accettate a livello sociale e tollerate dalle autorità. A dire il
vero, il mercato dei servizi privati a quell'epoca non esisteva, ma le
abitazioni date in uso dalle imprese nazionali avevano bisogno di immediate
ristrutturazioni.
In questa situazione l'idraulico era una figura molto ricercata. Condannati
a rubinetti e a tubi che perdevano, a canalizzazioni otturate, all'acqua
calda che usciva da entrambi i rubinetti o da nessuno dei due, i cittadini
disperati erano pronti a cadere in ginocchio davanti a un idraulico. E
l'idraulico lo sapeva bene. Prendeva un acconto, fissava un appuntamento, ma
al momento stabilito non si presentava. Si presentava quando gli faceva
comodo. Ad esempio dopo una settimana. Sporchi, desiderosi di farsi una
doccia, gli abitanti lo accoglievano ugualmente come un salvatore. Gli
offrivano caffè, cibo, alcol, e con tutti gli ossequi. L'idraulico mangiava,
beveva, ascoltava i complimenti e poi, lentamente e con dignità, si metteva
a lavorare. Svitava qualcosa, smontava qualcos'altro, faceva una baraonda
infernale in cucina o in bagno, poi perdeva improvvisamente la voglia,
tirava fuori la scusa che gli mancava qualche pezzo, lasciava quel bordello
promettendo di ritornare l'indomani e si presentava una settimana dopo e
solo grazie alla promessa di un ennesimo acconto. Talvolta non si
ripresentava e bisognava cercarne un altro. Questo era l'idraulico polacco
15 anni fa. Nella realtà, nelle barzellette, nel cabaret e nel cinema.
Nessun altro artigiano ha avuto l'onore di essere trasformato in un simbolo.
Oggi quel simbolo del lavoro fatto alla meno peggio, quell'allegoria della
disonestà, quella figura dell'arroganza, quell'incarnazione della
trascuratezza della professionalità toglie il sonno al Continente. Davanti
hanno paura l'Olanda, l'Austria. La dolce Francia trema al solo pensiero che
arrivi con le sue chiavi, i suoi tubi, le sue giunture e i suoi bocchettoni,
come se ad arrivare fossero quantomeno gli arcieri inglesi da quel di Crécy.
In una parola, d'improvviso è cambiato tutto: l'artigiano polacco, che
ancora fino a poco tempo fa nel suo paese era il simbolo del lavoro
abborracciato, d'improvviso si muove verso Occidente, dove se la cava
benissimo. Fonda imprese singole, impara il francese, offre i suoi servizi
su Internet, supera i suoi colleghi occidentali per qualità di servizi e
prezzi concorrenziali. Quel simbolo del catafascio comunista si trasforma in
un simbolo dell'espansione, dell'iniziativa, dell'elasticità del libero
mercato, abbandona un porto sicuro e si muove alla conquista di terre
lontane, quasi come un conquistatore idraulico. Ma l'Europa, e soprattutto
la dolce Francia, invece di rallegrarsi che lo studente ha fatto i compiti
così bene, si lamentano del fatto che qualcuno osa fare a casa loro la
stessa cosa che loro avevano fatto fino a quel momento. Solo che più a buon
mercato, più velocemente e meglio. Che la Francia non sia in grado di tenere
testa a un idraulico polacco? A un personaggio da cabaret? Non è da
escludere che si tratti di qualcosa di più profondo dell'economia, che si
tratti del subconscio più recondito. L'acqua è il simbolo di ciò che è più
primitivo nella nostra natura. Ed è difficile rassegnarsi al fatto che il
signore delle acque, colui che è in grado di dominarle sia uno straniero,
qualcuno che - Dio ce ne guardi! - arriva dal selvaggio Oriente. È quasi
come se un polacco rovistasse nei recessi più profondi dell'anima francese.
Spostando la questione su un piano un po' meno simbolico, possiamo osservare
che l'idraulico arriva il più delle volte proprio quando il proprietario, il
marito o il padrone di casa sono al lavoro. Lasciamo però da parte la
psicologia. Vedremo allora che le cose in fondo vanno nel verso giusto.
Tutti gli attori di questo spettacolo recitano la propria parte. La società
francese Danone, ad esempio, produce gli yogurt in Polonia e spazza via i
concorrenti più piccoli. L'idraulico polacco in Francia spazza via i suoi
colleghi pigri e sfaccendati. Nel primo caso si parla di conquista del
mercato, nel secondo di distruzione del mercato del lavoro. In realtà
abbiamo a che fare con un libero flusso di energia, con un gioco di forze
che spinge tanto i 'vecchi' quanto i 'nuovi' europei allo sforzo.
Naturalmente i 'nuovi' sono più espansivi come individui, mentre i 'vecchi'
hanno maggiori possibilità come istituzioni, imprese o consorzi. Questo
scontro del nuovo col vecchio, questo incontro della vitalità con il
potenziale economico può sprigionare quell'energia che permetterà all'Europa
di sopravvivere, o in ogni caso di prolungare il suo magnifico declino. Ma
il vero terrore deve ancora arrivare. La paura dell'idraulico polacco è
appena un esercizio. Immaginate il panico alla notizia di un 'idraulico
cinese'. E questo idraulico sicuramente arriverà.
7 luglio
I mandanti di Arcore
di Antonio Padellaro
Ieri, bastava guardare il Tg1 delle 13 e 30 per capire chi sono i mandanti
politici dell'aggressione leghista a Carlo Azeglio Ciampi. Subito dopo le
immagini insultanti del Borghezio e dei suoi compari Salvini e Speroni, che
mostrano al mondo come è stata ridotta l'Italia, va in onda il servizio sulla
cena di Berlusconi con i leghisti Bossi, Calderoli, Castelli, Maroni, Giorgietti.
«Piena intesa tra il leader del Carroccio e il premier», annuncia testualmente
il tg di governo tracciando così un limpido, ancorché involontario, nesso di
causa ed effetto tra la sera prima ad Arcore e il giorno dopo a Strasburgo. Non
sappiamo se sia stato preannunciato a Berlusconi ciò che gli squadristi in
camicia verde stavano organizzando.
Difficile, tuttavia, che gli ospiti e commensali non ne
sapessero niente visto che nella Lega non si muove foglia senza l'approvazione
del senatur, figuriamoci alla vigilia di una simile sceneggiata. Nessun dubbio,
invece, sulla «piena intesa» tra gli amici e alleati poiché il patto di governo
tra Lega e Forza Italia (regolarmente depositato dal notaio), e quello amicale
tra Bossi e Berlusconi, ha sempre rappresentato il muro maestro della Casa delle
Libertà; e continua a esserlo anche se tutto intorno sta crollando.
Perciò, la dichiarazione del presidente del Consiglio di condanna della
contestazione «in forma e in sostanza» dei leghisti non sembra altro che una
presa in giro degli italiani e del presidente della Repubblica.Davanti a un
episodio senza precedenti, di gravi offese rivolte alla massima istituzione
dello Stato, in pieno Parlamento Europeo, trasmesse sulla intera rete televisiva
internazionale, se Berlusconi avesse voluto sul serio condannare avrebbe dovuto
pretendere, immediatamente, le dimissioni di tutti i ministri del Carroccio. Se
non lo ha fatto è perché non poteva e, soprattutto, non voleva farlo.Rivediamo
la sequenza. Ciampi viene interrotto mentre elogia l'euro come fattore di
stabilità monetaria. Basta con l'euro, gridano gli esagitati. Ma è lo stesso,
identico concetto che Berlusconi va diffondendo in tutte le riunioni elettorali
di partito. Il «Giornale» del 29 giugno (quotidiano di famiglia e dunque fonte
inattaccabile) attribuisce a Berlusconi la seguente frase: «Tutti i sondaggi
dimostrano che la percezione dell'euro è negativa; dobbiamo associare questa
percezione al nostro avversario». Missione numero
uno, dunque: colpire Prodi. Missione numero due: fomentare il malcontento
sull'euro e indicarlo come causa principale dell'aumento dei prezzi e della
peggiorata condizione economica degli italiani. Si tratta di una palese
falsificazione che, come al solito, punta a scaricare il fallimento del governo
Berlusconi su altri soggetti politici. Chi? Prodi ma anche Ciampi, come
superministro del Tesoro protagonista del negoziato che, tra mille difficoltà,
riuscì ad associare l'Italia nell'Europa della moneta unica. Un merito storico
ma non per i mazzieri e i loro mandanti. Complici nello stesso disastroso
governo, conniventi nell'attacco permanente alle regole fondamentali della
convivenza. Con quella inesauribile voglia di gettare agli squali, mitragliare,
torturare, castrare che non ha uguali nel mondo civilizzato.
Non si dica adesso che i leghisti hanno esagerato. Non si esprima improvviso
stupore dopo che per cinque anni si è assistito senza reagire (con qualche rara
eccezione) a tutti gli eccessi, a tutti gli insulti, a tutte le peggiori
provocazioni razziste e xenofobe, a tutti i possibili
stravolgimenti costituzionali. Del resto, non è la prima volta che le camicie
verdi attaccano Ciampi. Gli stupiti dell'ultima ora dovrebbero, per
esempio, ricordarsi del 2 giugno. Quando, al presidente che aveva solennemente
dichiarato il grande senso storico della nascita della
Repubblica, il ministro Calderoli aveva tranquillamente risposto che per lui,
quello era un giorno di lutto. E del resto, non è stato l'ineffabile
titolare delle Riforme istituzionali (!) a definire Ciampi uno sconfitto insieme
all'euro e all'Europa? Di cosa ci si sorprende allora? Ci si
interroghi invece sulla colpevole sottovalutazione di chi ha costantemente fatto
finta di non vedere la crescita di una malformazione antinazionale e antieuropea
nutrita di paura, razzismo e bisogno di isolamento. L'attacco a Ciampi è solo
l'inizio.
1 luglio
Casini, l'anti
Zapatero |
Ritanna Armeni |
Pier Ferdinando Casini ha cominciato ieri la
sua corsa per la leadership dei cattolici italiani. Non più uniti
"nella politica", ma "in politica", come ha detto con arguzia
Francesco Cossiga.
In realtà questa corsa era cominciata con una rinuncia, con quello
che a molti è apparso - a torto - un passo indietro. La rinuncia
alla successione di Silvio Berlusconi alla guida della Casa della
Libertà prima delle elezioni del 2006. Da politico accorto, il
presidente della Camera aveva capito che non era conveniente
diventare il leader di una sconfitta, l'uomo che sanciva la fine del
governo di centro destra e l'avvento di Romano Prodi. La sua
immagine non ne sarebbe uscita bene, il suo futuro sarebbe
sicuramente stato danneggiato da una catastrofe largamente
annunciata, com'è oggi quella della Casa della libertà, che nessun
sondaggio vero dà oltre il 42 per cento. Neppure la possibilità che
la sua candidatura avrebbe potuto cambiare il quadro politico,
costringendo il centro sinistra a sostituire Romano Prodi, l'ha
convinto a cambiare strategia. Perché Pier Ferdinando Casini è uomo
lungimirante e si appresta ad una lunga marcia. E ieri appunto ha
fatto il primo passo. In occasione della presentazione del rapporto
2005 sulla libertà religiosa nel mondo si è presentato come
difensore della Chiesa contro "il laicismo di stato, cioè una sorta
di Stato senza religione e senza Dio che - ha detto - non ha niente
a che fare con un sano concetto di laicità dello Stato".
Secondo il presidente della Camera "la Chiesa si scontra con un
atteggiamento laicista che tende a proporne in forme più o meno
esplicite, la marginalizzazione ". Contro questa atteggiamento si è
schierato e da lì ha cominciato a delineare la sua immagine di
futuro possibile leader.
Un leader dei cattolici, innanzitutto, di coloro che si riconoscono
nel catechismo di papa Ratzinger e che credono che la Chiesa sia il
luogo dei valori morali fondamentali, quello in cui si definiscono
le regole della dottrina piuttosto che il luogo dell'incontro
dell'uomo con Dio.
Un leader di chi, a partire da questi valori, cerca un'appartenenza
politica. Oggi non strettamente legata ad u n partito, bensì ad
un'area che attraversa i due maggiori schieramenti, di centro destra
e di centro sinistra, ma che domani potrebbe trovare confini più
definiti, certezze più forti. Come qualcuno ha suggerito, un partito
neoguelfo propugnatore di quella "sana laicità" che consiste
nell'accettazione dei valori della Chiesa come unici. Gli unici
detentori di un'etica, di una dimensione valoriale.
Pier Ferdinando Casini comincia il suo cammino simbolicamente lo
stesso giorno in cui un altro leader in un altro paese si schiera
apertamente contro la Chiesa Cattolica facendo approvare una legge
che consente i matrimoni fra omosessuali. E' quella di Zapatero,
secondo Casini, una laicità malata da contrapporre alla "laicità
sana" di chi obbedisce a Ruini? Evidentemente sì. Tant'è che solo
qualche giorno fa durante una visita ufficiale in Spagna il
presidente della Camera ha apertamente criticato il governo spagnolo
e le sue leggi. Non si è trattato, no, di una distrazione dalle
regole più ovvie della diplomazia, ma di un'opzione ben consapevole,
tutta da giocare nella politica italiana e nel suo possibile futuro
di Grande Centro. In politica, appunto, contano molti i simboli - e
quello della nuova Spagna laica, capace di gettarsi dietro le spalle
più di cinquant'anni di buio clerico-franchista, lo sta diventando
per tutti. Perché non di laicismo si tratta, ma appunto di laicità -
di libertà, di piena dignità dei diritti delle persone, di autonomia
dell'etica dal Sacro. Su questo, non certo su un conflitto "datato"
ed erroneo tra chi professa un credo religioso e chi non ne professa
alcuno, si giocherà un pezzo del futuro di questo Paese.
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