29 luglio

«La peggiore legge ad hoc»
Pene dure per i recidivi e salvacondotto per Previti: il senato approva la «legge Vitali»
Aspettando Ciampi Il presidente ha già fatto sapere di ritenere incostituzionale il provvedimento. Che ora passa alla camera, ma senza modifiche sostanziali. La protesta dell'opposizione

ANDREA FABOZZI
ROMA
La legge ex Cirielli incassa il sì del senato, passa alla camera e trova un nuovo padre. Da tempo il disegno di legge numero 3247 cercava un'etichetta stabile. «Salva Previti» sarebbe perfetta, perché è questa la ragione che spinge avanti in parlamento il ddl a dispetto di argomenti più urgenti. Ma sarebbe poco, perché non si tratta solo dell'ultima legge ad personam. E' un provvedimento che contiene una dura stretta carceraria ai danni dei recidivi oltre che dei mafiosi e degli usurai. Indica la galera - più galera - come unica soluzione di controllo sociale e non per tutti: i reati dei colletti bianchi sono esclusi dall'aumento delle pene. Un po' a sorpresa il nuovo padre si è materializzato sui banchi del governo ieri al senato. Quando un emendamento presentato fuori tempo massimo e al di làdi ogni deroga generosamente concessa dal presidente Pera - un emendamento necessario a garantire Previti - è stato assunto dal sottosegretario Luigi Vitali. Al forzista di fede previtiana che adesso sottogoverna al ministero della giustizia sono bastate cinque parole a proposito dell'emendamento in questione - «il governo lo fa proprio» - per garantirne l'approvazione e conquistarsi il titolo di papà dell'ultimo mostriciattolo giuridico del centrodestra. Quella che per le opposizioni è «la peggiore delle leggi ad hoc» d'ora in poi potrà essere chiamata «legge Vitali».

I punti modificati dal senato

Legge che dovrà tornare alla camera perché il senato l'ha modificata in più punti, cancellando le attenuanti obbligatorie per gli ultra settantenni, modificando il sistema di sospensione della prescrizione nei casi di impedimento delle parti, quasi raddoppiando le pene per mafiosi e usurai e soprattutto correggendo (con la forzatura che si è detto) la ridicola previsione del precedente articolo 10 in base alla quale la nuova legge si sarebbe dovuta applicare solo al passato, solo ai procedimenti in corso alla data dell'entrata in vigore.

Modifiche che però non ne cambiano la sostanza di legge repressiva sulla quale è stato innestato un salvacondotto pensato per uno solo, Cesare Previti, che avrà effetto per molti. Il presidente dell'Associazione magistrati Ciro Riviezzo teme infatti «l'estinzione di migliaia di processi per istruire i quali spesso ci sono voluti anni di indagini».

Queste modifiche che comunque non riguardano Previti (Alleanza nazionale all'ultimo momento ha rinunciato a un emendamento che avrebbe dilatato i tempi di prescrizione anche per lui) dovrebbero bastare secondo l'Udc D'Onofrio a non far parlare più di legge «salva Previti». Il senatore della Margherita Nando Dalla Chiesa si è allora divertito a trovare quanti più sinonimi possibili, tutti comincianti con le lettere S e P: legge «sotto pressione», legge «santo protettore», legge «sfregia parlamento», legge «senza pudore», legge «scaccia pensieri» e legge «senza padre». Ma a questo punto un padre c'è, è il sottosegretario Vitali.

Nell'emendamento del forzista Ziccone che la mossa del sottosegretario ha permesso di far votare e approvare è previsto, accanto alla diminuzione delle prescizione per gli incensurati (da 15 a 10 anni per Previti) e all'aumento per i recidivi, anche un anno in più prima che il reato si estingua per i procedimenti in corso, ma a patto che siano «già pendenti davanti alla Cassazione». Il senatore verde Zancan ha fatto i conti: «Il procedimento a carico dell'onorevole Previti (attualmente in appello, ndr) non andrà a sentenza prima del 15 settembre, considerando i 90 giorni per il ricorso e i tempi di iscrizione il fascicolo non sarà in Cassazione prima del 15 gennaio».



Due mesi per l'effetto amnistia

La previsione è semplice. Dopo l'estate il disegno di legge arriverà alla camera: o la maggioranza riesce ad approvarlo definitivamente prima della sessione di bilancio - e in questo caso per dirla con Zancan Previti beneficierebbe dell'«effetto amnistia» - o la «legge Vitali» perde molto del suo appeal per Berlusconi. Con un'incognita in più: l'atteggiamento del Quirnale. Ciampi ha già fatto sapere a Berlusconi di considerare la legge incostituzionale e quindi non promulgabile. Difficilmente i ritocchi fatti al senato basteranno al presidente.

Intanto lo scontro sulla giustizia vive un'altra giornata campale. Con il senatore di An Bobbio che arriva ad accusare l'opposizione di essere stata «per tutta la legislatura e ancora oggi a fianco dei criminali e contro la tutela dei cittadini onesti». Il presidente Pera finge di non sentire, mentre la seduta gli sfugge di mano e i senatori del centrosinistra cominciano a urlare contro Bobbio e a scandire «Previti, Previti». Ultimo intervento delle opposizioni quello del diessinoCalvi: «Con questa legge la destra cancella la storia giuridica nel nostro paese. Impone una cultura oscurantista che vede la pena come vendetta, lo stato come strumento di repressione e le carceri come luogo di espiazione e non di rieducazione». Poi si vota e la legge passa con 151 sì, tutti registrati dal sistema elettronico. A futura memoria.

 

«Ho votato no per non cedere al ricatto»
Renzo Gubert, senatore Udc e unico contrario nel centrodestra: «Gli altri? Spaventati»


Mi ricandideranno? «Quelli di Forza Italia già dicono che posso dire addio al seggio. Ma io non sopporto più questa politica che se ne frega dell'etica»

A. FAB.
Ha votato in dissenso dalla maggioranza sulle riforme costituzionali, sulla guerra in Iraq e sulle leggi ad personam. Insegna sociologia all'università di Trento e lo chiamano baffone. Ma non è un rivoluzionario di estrema sinistra. E' un senatore dell'Udc. «Sono lontanissimo dalla cultura marxista che ho sempre combattuto nella mia facoltà da studente e da professore. Però...».

Però senatore Renzo Gubert?

«Però sono ancora più distante da una concezione della politica che se ne frega dell'etica».

E' per questo che, unico parlamentare del centrodestra, ha votato contro la legge salva-Previti?

«Per questo. C'è chi accetta di negoziare un sì a un provvedimento negativo moralmente perché cerca qualche altro vantaggio».

A sinistra l'hanno invitato ad andare dalla loro parte, a destra le hanno dato del «moralista».

«Mi fanno ridere. E come se non mi conoscessero. Io sono stato l'ultimo segretario della Dc a Trento, poi con Martinazzoli nel partito Popolare. Sono il presidente del Centro popolare del trentino, una formazione che ha fatto un accordo con il Cdu di Buttiglione. E' per questo che mi trovo senatore del centrodestra e nel gruppo dell'Udc, ma non sono iscritto al partito».

Nel suo intervento al senato ha detto che «c'è chi ingoia tutto pur di non dispiacere a coloro che possono nuocere alle aspirazioni di cariche e carriere».

«Giusto»

Lo rivendica?

«Certo».

Si goda questi otto mesi al senato, saranno gli ultimi.

Pensa che non mi ricandideranno?

Ha ancora dei dubbi?

«Effettivamente quelli di Forza Italia a Trento è già un po' che lo vanno dicendo. L'hanno scritto sui giornali e ripetuto in tv. Ma vedremo. Io ho un buon rapporto con i miei elettori del collegio delle valli dolomitiche, Fiemme, Fassa e Valsugana. Mi hanno fatto già vincere due volte».

Non aveva ancora sfidato Previti.

«Effettivamente pressioni ce ne sono state».

Racconti.

«Bè non che sia fatto sentire Previti in persona, no. Le solite minacce: se non passa questa legge cade il governo... E a quel punto, per come è organizzato il sistema di voto, con quattro persone nei partiti a decidere le candidature, capisce che la pressione è forte».

Capisco. Ma che le hanno detto i suoi compagni di schieramento?

«La maggior parte è rimasta in un silenzio imbarazzato. Anche se c'è stato qualcuno che in privato mi ha detto che avevo ragione. Poi però ha votato insieme agli altri. Mi hanno lasciato solo. E ora mi attaccheranno. Ma sono pronto».

E se lo attaccheranno in tv non li vedrà nemmeno. Non ce l'ha. Lo ha deciso insieme alla moglie per non turbare con programmi «irresponsabili» i loro nove figli.


 

28 luglio

La psicosi dell'acqua avvelenata
di GABRIELE ROMAGNOLI

Se il presidente del più grande Paese del mondo afferma solennemente che il dittatore dell'Iraq cerca di procurarsi in Niger l'uranio per un attacco atomico e il suo popolo, atterrito, gli crede e gli dà mandato per la guerra, ci sta che in una mattina d'estate uno o più imbecilli comincino a spargere la voce che l'acqua di Roma è stata avvelenata dai terroristi e una città in preda alla psicosi del "prossimo bersaglio" chiuda per due ore i rubinetti della ragione. "All'acqua! All'acqua!". È lo spirito (miserabile) dei tempi che viviamo: piccoli untori, grandi tragedie e un'infinita disponibilità a farsi contagiare. Ci sono, in una vicenda come questa, tre protagonisti da considerare: l'untore, il suo megafono e la platea in delirio.

L'untore della notizia può avere tre diverse nature: artistica, interessata, demente. Non è detto che due o addirittura tutte e tre non debbano coincidere. Era un untore artistico Orson Welles quando andò alla radio e cominciò a raccontare la cronaca dell'invasione marziana. Vittima della propria intelligenza o non previde che l'avrebbero preso sul serio o, più probabilmente, lo fece e se ne compiacque. L'untore interessato sparge informazioni che hanno per lui o per la sua parte un tornaconto. Quello dell'uranio dal Niger è solo un esempio. La propaganda del terrore è bipartisan. In queste ore molti egiziani vengono convinti da un passaparola cominciato chissà dove che "l'attentato di Sharm è stato commesso con esplosivo israeliano", "gli esecutori beduini sono stati addestrati dal Mossad", "il mandante è Israele, che vuole fermare il processo di democratizzazione in atto", "attenzione, colpiranno ancora, dove non hanno mai osato, alle piramidi". L'untore demente vuole soltanto vedere che effetto fa.

Mai come nel caso di ieri verificare se "se la bevono". Non si preoccupa della credibilità del virus che mette in circolazione, né della propria attendibilità come fonte primaria. Sa che in pochi minuti scatteranno l'effetto "valanga" e l'effetto "appropriazione". La notizia verrà ingigantita e diffusa con il marchio di "autenticità" di fonti secondarie, ritenute degne di fede.
Sono loro a fornire il megafono. Esistono, nella sua struttura, tre livelli.

Il primo è quello, antichissimo, del passaparola, incontrolato e incontrollabile. Il secondo è più moderno, spesso anonimo, ad alta velocità.
Partono sms, e-mail, segnalazioni su Internet. Nella rete telefonica e cibernetica il transito di informazioni utili e "patacche" colossali si chiude probabilmente in pari, tra immagini storiche e fotomontaggi, preziose segnalazioni di dispersi dello tsunami e assurdi gatti in bottiglia. Il terzo livello è quello più pericoloso, perché ricorre ai mezzi di comunicazioni tradizionali. Nel caso di Roma, soprattutto le radio. Nel panorama della radiofonia mondiale sono una cosa a parte: vivaci, impossibili da non ascoltare, improbabili. Quale più, quale meno. La loro capacità di permeare il tessuto della città è molto superiore a quella dell'acqua. La volontà di farlo, assoluta. Il controllo della fonte, limitato.

Sono passati pochi mesi dalla sera del derby sospeso all'Olimpico perché, con lo stesso meccanismo, era stata diffusa la voce (altrettanto infondata) dell'uccisione di un ragazzino. Ma sarebbe ingeneroso scaricare sulle radio l'accusa. In questi anni quotidiani che la gente paga in edicola hanno pubblicato titoli grandi quanto la prima pagina tutti spavento e niente fondamento.

Un giornale ha fornito la data dell'attacco nucleare a New York con la stessa leggerezza e vaghezza con cui si diffonde una qualsiasi bufala di calciomercato "Il Milan vuole Ronaldinho", "Vogliono cancellare Manhattan".

Tanto domani è sempre un altro giorno, non si vedrà. Per un curioso fenomeno alcune tra le più attinte fonti giornalistiche, in America come in Italia, sono siti dedicati al pettegolezzo. Se il pettegolezzo fa notizia, è inevitabile che poi si faccia notizia. Chi può distinguere?

Non certo la platea in delirio. Non certo questo pubblico tutto in piedi, con le mani al cielo, in allerta permanente, arringato da predicatori isterici, aizzati dal marketing della politica o dell'editoria, dalla propria agitazione sofista (a forza di cambiare posizione, una l'azzeccheranno pure), o dall'ansia di poter finalmente proclamare: "Io ve l'avevo detto!". Diciamocelo subito allora: un giorno probabilmente accadrà. A Roma, può darsi.

O altrove in Italia. Non sarà con l'acqua avvelenata, ma con qualche mezzo primordiale e spettacolare perché queste avanguardie della follia hanno anche la tara di dover versare il proprio sangue in una forma di malinteso e marcio eroismo. Accadrà e provocherà dolore, reazione e voglia di dimostrare che si sa andare avanti con la dignità e la fermezza di chi non cede una briciola delle proprie convinzioni sulla vita e su quel che c'è dopo. Perché peggio di morire per la mano di un imbecille è vivere seguendo i dettami di cento altri.

 
Politica
«Il terrorismo ci minaccia, l'ottimismo ci salverà»
di red
 

Ottimismo, volontà, un po’ più di impegno sul lavoro, un posto nel Consiglio di sicurezza dell’Onu e tutto si aggiusta, nonostante il terrorismo e «l’Euro di Prodi»: eccola qua la ricetta per l'Italia che Silvio Berlusconi enuncia davanti al Consiglio nazionale di Forza Italia in un lunghissimo discorso che va dalla guerra all’Iraq («Perché dovremmo ritirarci: la nostra è una missione di successo») all'economia («L'euro di Prodi ci ha fregati tutti»), dal terrorismo («Siamo in massima allerta») alla politica estera («Non saremo lasciati fuori dal Consiglio di sicurezza dell'Onu. Non faremo la figura che hanno fatto i governi di centrosinistra»). Il tutto condito con l’ingrediente che più di tutti piace al premier: ottimismo a volontà

26 luglio

Lavavetri di ruolo per le auto blu

Regioni uliviste accusate di finanza allegra: torna sul tappeto la questione morale, con l'esclusione delle Regioni di centrodestra che non riescono più a trovare il tappeto


 Atmosfera accesa, nel centrosinistra, dopo che il Correntone ha accusato alcune Regioni uliviste di finanza allegra, e in particolare di aver raddoppiato inutilmente alcune commissioni solo per aumentare le assunzioni. La Regione Campania ha smentito con due duri documenti, uno dell'Ufficio Stampa e uno dell'Ufficio Stampa bis. Ma la polemica non si placa, e torna sul tappeto la questione morale, con l'esclusione delle Regioni di centrodestra che non riescono più a trovare il tappeto, da tempo trafugato da un usciere.
Vediamo i principali punti in discussione.

Regione Calabria Sotto accusa la Commissione Ponte sullo Stretto. Istituita per verificare la stabilità del Ponte, ne ha costruito uno identico nelle campagne di Catanzaro per effettuare con attendibilità le prove necessarie, con un autogrill a metà della campata per promuovere i prodotti tipici locali, vagliandone di persona la digeribilità e le qualità organolettiche. Altro punto in discussione è la creazione di una Commissione contro gli sprechi, formata da una trentina di economisti di Princeton, che non è ancora riuscita a verificare gli sprechi ordinari perché è impegnata a quantificare i suoi: esaminando i propri biglietti aerei da e per Princeton, i prof si sono autodenunciati al Tar.
Rientrato, invece, lo scandalo della nota spese di un consulente della Forestale, un botanico friulano che aveva messo in conto 110 bottigliette di Stock 84 prelevate dal frigobar dell'albergo in una sola notte. Ha potuto dimostrare di averle bevute. Il Canad-Air usato dalla moglie di un dirigente della Forestale per accompagnare i figli a scuola è sotto sequestro.

Regione Campania Chiarito il mistero della Commissione Mare e della Commissione Mediterraneo, considerate dagli accusatori un indecente doppione. Le competenze sono profondamente diverse: la Mare si occupa degli ombrelloni, la Mediterraneo delle sedie a sdraio. La gara d'appalto per il nuovo Inno Campano, varata dalla Commissione Inno Campano, è sotto indagine perché l'unico partecipante ammesso, cognato del presidente di commissione, ha compilato l'apposito pentagramma con i suoi dati anagrafici anziché con le note musicali.

Regione Calpaglia Formata dalla fusione di Calabria, Campania e Puglia, la nuova super-regione fa molto discutere. Era proprio necessario aggiungerla alla burocrazia già esistente, con tanto di sede su piattaforma galleggiante ormeggiata ogni mese in una diversa città del Sud? E come possono giustificare, gli amministratori meridionali, il fatto che la sede è l'unico edificio mondiale degli ultimi trent'anni che non è stato progettato da Renzo Piano?

Auto blu La recente delibera della Regione Calabria che assegna l'auto blu anche alle rappresentanze calabresi all'estero (pizzerie, negozi di alimentari, singole famiglie che si prodigano per conservare il dialetto locale) ha acceso le polveri. Sotto accusa anche l'assunzione, a Napoli, di 500 lavavetri magrebini in livrea, appostati ai semafori solo per le macchine della Regione. La costruzione a Cosenza di un terminal per auto blu, con sala massaggi e buffet tipico, non ha contribuito a rasserenare gli animi. Giustificata da 'ragioni di sicurezza', invece, la decisione di alcune Regioni di dotare ogni auto blu di una hostess che spiega ai passeggeri come aprire la portiera e allacciare le cinture.
Finita davanti al magistrato la vicenda della rivista 'Blue style', house organ delle auto blu il cui appalto è stato dato a un pubblicista analfabeta che si è limitato a riempire le pagine con i calendarietti porno per elettrauto. Gli avvocati difensori sostengono che non c'è nessuna differenza con i normali house-organ delle principali compagnie di bandiera.
Rientrate invece le polemiche, comuni a tutte le Regioni, sul gettone di presenza. In un'animata conferenza stampa, alcuni presidenti di Regione hanno mostrato ai giornalisti il gettone stesso: uno speciale conio in oro zecchino delle dimensioni di una forma di parmigiano che è stato fatto rotolare in sala stampa tramite un apposito scivolo.

L'opposizione Il centrodestra sta preparando un documento di condanna. Da autorevoli indiscrezioni, risulta che il primo capo d'imputazione sarà l'accusa di plagio.

 

23 luglio

Torino, tre avvisi di garanzia per i responsabili dell'azienda
Le accuse: disastro doloso e omissioni di cautele infortunistiche
1300 vittime dell'amianto
tremano i vertici di Eternit

I legali degli operai morti chiedono un risacimento di 60mln di euro
 


Il controllo di una struttura
in Eternit

TORINO - Disastro doloso e omissione di cautele contro gli infortuni: con queste motivazioni la procura di Torino ha inviato tre avvisi di garanzia ai membri della multinazionale Eternit. Sono circa 1300, infatti, gli italiani, che dopo aver lavorato nell'azienda svizzera o nelle sue sedi distaccate, sono morte per delle malattie, come il mesotelioma o l'asbestosi, legate all'amianto.

Secondo il procuratore aggiunto Raffaele
Guariniello, l' amianto veniva impiegato anche al di fuori degli stabilimenti: per la lavorazione di strade, tetti, opere murarie nel cortili, spesso servendosi di materiale di scarto. Questo ha portato a una situazione di pericolo per la "pubblica incolumità": gli abitanti, infatti, sempre secondo la procura, non erano stati avvertiti dei rischi derivanti dall' esposizione al minerale-tossico.

Il procedimento, avviato nel 2003 per chiarire le cause della morte di alcune decine di operai italiani, ha subito oggi una svolta. L'indagine, infatti, riguardava solo l'azienda che si trovava in Svizzera e i rappresentanti italiani di questa. Solo in un secondo momento i pubblici ministeri torinesi hanno voluto estendere i controlli anche alle filiali italiane e ai massimi vertici della multinazionale. Si è arrivati a studiare, così, i casi di 1.300 persone morte a partire dal 1970. E' prima volta che i fratelli Schmidhaeny, imprenditori svizzeri fra i più ricchi del mondo, vengono chiamati per l'interrogatorio.

In Italia gli stabilimenti messi sotto accusa sono quelli di: Cavagnolo (Torino), Casale Monferrato (Alessandria), Rubiera (Reggio Emilia), Bagnoli (Napoli).

I legali delle vittime dell'amianto in Italia chiedono alla sede italiana di Eternit il sequestro conservativo di 60 milioni di euro, cioè il patrimonio di Stephan Schmidheiny, per risarcire i lavoratori e i familiari colpiti dal mesotelioma.

 

21 luglio

IL COMMENTO
La spallata finale alla giustizia
di CURZIO MALTESE

La riforma della giustizia, approvata a colpi di fiducia, è in pratica l'atto finale della legislatura. Una stagione di potere che si chiude com'era cominciata, all'insegna degli interessi personali e delle ossessioni di Berlusconi, anzitutto la vendetta sulla magistratura indipendente. I conti sono presto fatti. Come ha scritto Eugenio Scalfari la data più probabile per il voto è la prima o seconda domenica di aprile 2006, che significa sciogliere il Parlamento a metà febbraio. Appena il tempo di tornare dalle vacanze, presentare una finta finanziaria elettorale ed è subito voto. Per la verità è molto probabile che questa maggioranza trovi anche il modo, il tempo e la faccia di far passare la legge salva-Previti, ultimo tassello di una controriforma che restaura nell'Italia del Duemila alcuni suggestivi principi di giustizia medievale.

Il dimezzamento dei tempi di prescrizione, per esempio, recupera l'antico diritto di censo. Non assisteremo mai più allo scempio di un ricco processato e condannato per inezia come la corruzione di magistrati o la bancarotta fraudolenta, quando ci sono tanti poveri ancora a piede libero per crimini contro l'umanità, come fumare uno spinello o masterizzare un cd.
Si tratterà però soltanto del magico tocco finale. Il meglio, il peggio, è già avvenuto. La riforma della giustizia è al pari di altre confezionate da questa maggioranza (scuola, lavoro) una controriforma autoritaria e incostituzionale. Con in più un grado di violenza vendicativa ai limiti della paranoia. Si può scegliere, nel vasto campionario di idee copiate da Licio Gelli, ideologo di riferimento della maggioranza, quale sia meritevole di maggiore indignazione. Se la trovata umiliante del test psicoattitudinale per diventare magistrati, che forse sarebbe più utile per dirigenti di enti pubblici o consiglieri Rai. Oppure la norma ad personam per impedire a Gian Carlo Caselli di diventare procuratore generale antimafia. Per non dire dell'antico sogno da tangentisti di separare le carriere dei magistrati e sottometterle alla politica.

Il risultato immediato della controriforma sarà uno sfascio e una progressiva paralisi del sistema giudiziario. I magistrati lo hanno capito e sono già scesi in piazza a protestare come i siciliani a piazza della Memoria.

Avrebbero avuto ragione di scendere in strada anche i mafiosi, naturalmente per festeggiare, ma non lo hanno fatto. Forse non piaceva il nome della piazza. Il presidente Berlusconi, che quando deve raccontare una menzogna preferisce non moderarsi e capovolgere direttamente la realtà, sostiene che la legge sveltirà i processi. Un'affermazione interessante da parte di uno che ha speso 500 miliardi di avvocati per rallentare i procedimenti a suo carico, vanta sei prescrizioni sei e sarebbe in galera da quel dì se in Italia la giustizia avesse tempi umani. Purtroppo non è nemmeno vera. Soltanto la norma contro Caselli bloccherà decine di concorsi già indetti. Le altre leggi e leggine che compongono la lunga resa dei conti fra Berlusconi e la magistratura, dalla Cirami alla Cirielli, hanno già mandato in fumo anni di lavoro e di inchieste. La nuova riforma, con il prevedibile coronamento della salva-Previti, si tradurrà nel congelamento di migliaia di processi. E' difficile sostenere che si tratti di pura sfortuna.

La sfortuna è di aver vissuto questa triste, inutile avventura che finisce in un'altra penosa e servile barricata della maggioranza intorno agli interessi del suo capo. Non esistono rimedi, almeno da qui al voto. La palese incostituzionalità della riforma potrebbe convincere il presidente Ciampi a rinviare ancora alle Camere il testo della legge. Da un punto di vista tecnico, un secondo rifiuto alla firma sarebbe giustificato dal fatto che la maggioranza non è intervenuta su nessuno dei punti segnalati nel primo rinvio e ha anzi aggiunto qualche elemento peggiorativo. Ma il conflitto fra Quirinale e Governo crescerebbe a livelli mai neppure sfiorati.

Non resta dunque che aspettare, lasciar passare la nottata.

Nella serena certezza che se questi sono gli ultimi atti del governo, la nottata passerà presto.


 

20 luglio

Dati Istat: il peggior risultato per la bilancia commerciale dal 1992
A maggio 2005 l'export segna +8,9% e l'import +11,1%
Commercio estero, record negativo
6,3 miliardi di deficit in 5 mesi

Sul peggioramento pesa l'importazione di petrolio

ROMA - Record negativo per la bilancia commerciale italiana che nei primi 5 mesi dell'anno ha registrato il peggior risultato dal 1992: un saldo passivo negli scambi con l'estero pari a 6.277 milioni di euro a fronte di un disavanzo di 2.724 milioni rilevato nello stesso periodo del 2004. Nel solo mese di maggio le esportazioni sono aumentate dell'8,9% mentre le importazioni hanno registranno un incremento dell'11,1%. E' quanto risulta dai dati sul commercio estero diffusi oggi dall'Istat.

Nel confronto con aprile 2005 i dati mensili indicano in maggio un andamento stazionario per le esportazioni e una diminuzione dell'1,4% per le importazioni. Nel mese di maggio 2005, rispetto allo stesso mese del 2004 le esportazioni verso i paesi Ue sono aumentate dell'8,3% e le importazioni del 7,2%. Il saldo commerciale è risultato positivo per 181 milioni di euro, a fronte di un surplus di 34 milioni di euro registrato nello stesso mese del 2004.
Rispetto ad aprile 2005 - continua l'Istat - i dati mensili registrano in maggio un incremento dello 0,6% delle esportazioni ed una flessione del 2,1% delle importazioni.

L'export italiano a maggio 2005, secondo l'Istat, ha registrato aumenti tendenziali, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, verso la Spagna (+16,3%), la Francia (+9,5%) e la Germania (+4,5%). Nel complesso dei Paesi i più elevati aumenti tendenziali delle esportazioni si sono registrati nei confronti dell'Estonia (+44,1%), del Belgio (+26,3%), dell'Irlanda (+22,4%), della Slovenia (+21,6%) mentre le flessioni più consistenti hanno riguardato Lussemburgo, Lituania e Cipro. Le importazioni dai maggiori partner commerciali sono aumentate dai Paesi Bassi (+18,2%), dal Belgio (+9,6%) e dalla Germania (+6,1%).
Per quanto riguarda i diversi settori di attività economica, nelle esportazioni i maggiori rialzi hanno riguardato, a maggio, i prodotti petroliferi raffinati (+62,2%) e i prodotti dell'agricoltura e della pesca (+23,1%). Gli aumenti più elevati delle importazioni, invece, sono stati per energia elettrica, gas e acqua (+84,4%) e minerali energetici (+65%). Nei primi 5 mesi dell'anno gli incrementi più consistenti dell'export hanno riguardato i prodotti petroliferi raffinati e i metalli e prodotti in metallo. Per le importazioni i maggiori rialzi hanno interessato i prodotti petroliferi raffinati e l'energia elettrica il gas e l'acqua.

Considerando il solo settore dei minerali energetici, il saldo è risultato negativo per 14,564 miliardi rispetto al deficit di 11,222 miliardi dello stesso periodo del 2004. Di conseguenza, spiega l'Istat: "Il peggioramento di 3,553 miliardi del deficit complessivo tra i primi 5 mesi del 2005 e lo stesso periodo del 2005 è imputabile per 3,342 miliardi al comparto dei minerali energetici".

 

 

Alcuni mesi fa latte contaminato negli allevamenti della zona
Vertice per l'emergenza ambientale, Procura apre inchiesta
Lazio, allarme fiume inquinato
25 vacche muoiono sulla riva

L'episodio nella valle del fiume Sacco, un'area in cui
si concentrano industrie chimiche e farmaceutiche
 


Le vacche morte

ANAGNI (Frosinone) - Venticinque vacche trovate morte sulla riva. Stramazzate dopo aver bevuto l'acqua avvelenata di un ruscello, un affluente del fiume Sacco, nella zona di Anagni. E' accaduto ieri nella zona industriale della cittadina del frusinate, in un'area già al centro di polemiche per l'inquinamento prodotto dalle numerose industrie chimiche e farmaceutiche. "Siamo di fronte a un vera e propria emergenza ambientale", ha detto Piero Marrazzo, presidente della Regione Lazio. La procura della Repubblica di Frosinone ha aperto un'inchiesta.

Non è il primo episodio di grave inquinamento prodotto dalle fabbriche della valle del Sacco. Il responsabile allevamenti della Asl di Frosinone è cauto: "La maggior parte delle vacche era stanziata qui, nel fiume bevevano tutti i giorni - dice il dottor Osvaldo Caperna - Se c'è stato un versamento di sostanze velenose, si è trattato soltanto di un episodio". Dopo i campionamenti dell'acqua, nell'area incriminata (circa 200 ettari), previsti nuovi controlli sui sedimenti, per cercare tracce della sostanza che avrebbe causato la strage.

Il rischio ora è una possibile contaminazione delle falde acquifere. "Non possiamo dire se siano state inquinate o meno. Questo almeno fino a quando non avremo capito quale sostanza scorra nel ruscello che si immette nel fiume Sacco", spiega il vicesindaco di Anagni, Carlo Noto. "La concentrazione della sostanza inquinante doveva essere altissima - continua il vicesindaco - Le mucche sono morte sul colpo". Il ruscello scorre proprio nella zona industriale di Anagni. "Le aziende versano dei liquidi, che dovrebbero essere controllati, ma l'esperienza di ieri mi ha messo sul chi va là".

Da tempo ormai, gli allevatori della valle del Sacco vivono una lunga serie di disagi, causata dal crescente inquinamento nel fiume ciociaro e nei suoi affluenti. Nei mesi scorsi, nel triangolo di Colleferro, Gavignana e Segni, il latte prodotto da alcuni allevamenti di mucche è risultato contaminato. In quel tratto della valle è stata anche rilevata la presenza di clorofluorocicloesano, un pesticida che non viene più prodotto da 30 anni. Nella stessa area erano stati scoperti fusti interrati della stessa sostanza, un tempo prodotta da una fabbrica di Colleferro.

Il sindaco di Anagni Franco Fiorito è andato in Regione per un incontro urgente con il presidente Piero Marrazzo. Prima ha firmato un'ordinanza, girata ai comuni della zona, con il divieto di abbeveramento nel ruscello e nel fiume. "Non possiamo certo correre il rischio che qualche bambino giochi in quell'acqua - spiega il vicesindaco. "Qui c'è stato un avvelenamento, non un inquinamento - dice Daniela Valentini, assessore regionale all'Agricoltura - Dobbiamo dare un segnale agli agricoltori di questa zona perché sono spaventati. Non devono andare via da qui".

"Ieri pomeriggio, quando abbiamo capito che qualcosa stava succedendo, ci siamo avvicinati al rio - racconta l'allevatore Luigi Sabene - L'acqua era diversa, più scura rispetto a oggi, asciugava la bocca". Questa situazione dell'acqua avvelenata "va avanti da un anno e nessuno finora è intervenuto", aggiungono altri suoi colleghi.

 

19 luglio

Succede soprattutto ai più giovani: inalano il gas della bombola
Vengono archiviati come incidenti, a volte come overdose
Così si può morire di carcere
in cella un suicidio ogni 5 giorni

di ATTILIO BOLZONI
 


ROMA - Lo fanno con il gas e sempre di notte. Si avvicinano alla bombola dei fornelli e sniffano e sniffano fino a quando il torpore li porta via. Nel loro gergo è la "piccola neve", butano e propano liquidi, al cervello non arriva più ossigeno, un po' di euforia e poi l'avvelenamento. Se ne vanno senza un grido. Li trovano la mattina dopo immobili sul materasso, come fossero ancora nel sonno profondo. I referti medici li archiviano sbrigativamente come "incidenti", a volte però le perizie si spingono a diagnosticare un "decesso per overdose".

L'amministrazione penitenziaria preferisce seppellirli così: tossici in astinenza. Mostrano sempre una certa avversione nel riconoscere quelle morti. Sono troppo scomode. E troppe. Nelle carceri italiane c'è un suicidio ogni cinque giorni.

Si muore di disperazione nelle prigioni. E contrariamente a ciò che potrebbe sembrare ragionevole, si muore anche presto.

Dopo pochi mesi o solo dopo poche ore da quando si varca quel filo spinato, nelle sezioni, nei camminamenti per l'aria degli "isolati", sotto le torrette, dietro le mura che separano dall'altro mondo. E sono gli uomini giovani che decidono di andarsene più degli altri, che si ammazzano.

Marco ha legato il lenzuolo alle sbarre e poi intorno al collo. E si è lasciato scivolare. Nunzio si è infilato un sacchetto di plastica alla testa e ha stretto stretto fino a quando non respirava più. E poi Maurizio a San Vittore con il fornellino, lo stordimento con il gas, anche lui con la piccola neve, lo "sballetto delle carceri". Avevano tutti e tre meno di quarant'anni.

Nessuno di loro doveva passare il resto della vita in quella o in un'altra galera. Imputati di piccoli reati, pene brevi da scontare, erano in attesa di giudizio. Come Marco e come Nunzio e come Maurizio, il 40 per cento di chi si uccide aspetta ancora il processo di primo grado.

Ci si toglie la vita più che fuori, nelle prigioni d'Italia.
Diciotto volte di più: è il tasso dei suicidi tra la popolazione detenuta e l'altra, quella libera. E ci si uccide soprattutto nei penitenziari che sono diventati casba, le case circondariali dove in una cella ne ammucchiano sei o sette anche per un anno o due, dove i letti a castello quasi toccano il soffitto, dove sono pochi gli educatori e pochi gli psicologi, dove ancora meno sono i medici. E dove la doccia non la puoi fare tutte le mattine, perché l'acqua non basta mai per tutti. E le pareti trasudano di umidità. E c'è buio anche quando splende il sole.

I più a rischio sono proprio quelli che chiamano i "nuovi giunti", smarriti, spaventati, non abituati al carcere. "I detenuti più giovani, quelli che entrano in penitenziario per la prima volta, non hanno dimestichezza con gli stili di vita, le regole e le gerarchie dominanti e sono sprovvisti di un "codice di comportamento" che li pone al riparo delle insidie e dai traumi della vita reclusa", spiega il sociologo Luigi Manconi, garante dei diritti "delle persone private della libertà" per il Comune di Roma e autore di una ricerca con Andrea Boraschi sui suicidi in carcere negli ultimi anni. Sarà pubblicata nel prossimo autunno sulla "Rassegna italiana di sociologia", è uno spaccato di quello che accade nel cupo isolamento dei bracci, numeri, storie, tabelle e grafici che svelano l'orrore della morte dietro le sbarre.

E' uno studio che disegna l'identikit del detenuto suicida, che scopre a sorpresa come non c'è quasi mai relazione tra il togliersi la vita e la "riduzione della speranza": non sono gli ergastolani che si impiccano, che si avvelenano, che si soffocano. Non è solo la lunga detenzione che fa paura. Dice ancora Manconi: "L'ineluttabilità della pena e la certezza di dover scontare una condanna pesano meno dell'incertezza sulla propria condizione. E la possibilità di essere riconosciuti innocenti non appare sufficiente a scongiurare la decisione del suicidio".

E' giovane il detenuto che si uccide, aspetta ancora di essere giudicato, è appena entrato in carcere. Quasi il 20% dei suicidi avviene tra il primo e il settimo giorno dall'ingresso alla "matricola", il 50% nei primi sei mesi. E molti, subito dopo un trasferimento da un carcere all'altro.

Il cambiamento provoca uno stress che per alcuni è insopportabile. Per M. ad esempio, schizofrenico, già assolto per incapacità di intendere e di volere, ricoverato più volte in ospedali psichiatrici giudiziari. Appena l'hanno portato a Rebibbia, un primo maggio si è impiccato.

Spesso la stampa non viene a conoscenza di quelli che non ci sono più. Nessuno ne dà notizia. Il carcere custodisce tutti i suoi segreti. E tende a far sempre una sua conta di quei morti. Sono 25 in questi primi sei mesi dell'anno secondo il Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria.

Sono 30 secondo Manconi e tutte quelle associazioni che provano a "guardare" nel pozzo nero dei bracci. È una guerra di numeri.

Come per i detenuti che muoiono per malattia. Le statistiche ufficiali non calcolano mai quelli che tirano l'ultimo respiro su un'ambulanza o in un reparto ospedaliero esterno. Alzano la media. "Viceversa dalle carceri arriva con inesorabile puntualità la segnalazione di tutti gli spettacoli musicali e teatrali, delle gare sportive, dei concorsi di pittura e di poesia", scrivono su "Ristretti Orizzonti", agenzia di informazione dal carcere che ha appena sfornato un altro dossier su suicidi e "morti per cause non chiare". E aggiungono: "L'istituzione carcere vuole dare di sé un'immagine addolcita, troppo parziale".

E' guerra di numeri per il presente e per il passato. Dicono al Dap: "Negli ultimi tre anni i suicidi sono calati". E hanno anche istituito un gruppo, l'Umes, l'unità di monitoraggio degli "eventi suicidiari". Ma abbiamo già visto anche per altre vicende carcerarie come le direttive del centro non arrivino sempre a destinazione, nei penitenziari. C'è un carcere virtuale fatto di norme e di regolamenti, di progetti elaborati anche con le migliori intenzioni. E c'è un carcere reale, quello dove si sente il sudore dei corpi, l'odore della paura, il puzzo di morte. È un fosso. E in fondo al fosso ci sono loro, i suicidi.

Raccontano Stefano Anastasia e Patrizio Gonnella - il primo tra i fondatori dell'associazione Antigone e il secondo ex direttore di istituti di pena e attualmente presidente nazionale di Antigone - nel loro libro "Patrie galere": "Dopo il primo morto, traumatico per tutti, a partire dal secondo ci si scandalizza sempre di meno. Una grande percentuale di detenuti esprime idee di morte. Alcuni ci provano. I tentativi di suicidio sono alcune migliaia l'anno...". E quasi un quinto di chi minaccia di farsi fuori, poi lo fa davvero. Anche in questo 2005 ce ne sono stati tanti.

Ogni prigione italiana ha le sue croci. Gioia, quarant'anni, carcere di Parma. Detenuto italiano di ventotto anni, carcere di Bologna. Detenuta jugoslava di trentuno anni, carcere di Torino. Nunzio ventotto anni, carcere di Sulmona. Alfonso, trentacinque anni, carcere di Torino. Sergio, ventinove anni, carcere di Padova...

 
18 luglio

Le prime vittime di un sistema economico che non produce merci ma aria fritta sono proprio loro: i dirigenti che fanno da fuochisti a una locomotiva sempre più ingovernabile


Il capitalismo ha rotto i lacci e lacciuoli che lo rallentavano e corre per le immense praterie del mercato globale e della rivoluzione tecnologica. Chi si ferma alla conservazione del passato è perduto. Le aziende che producono macchine e beni materiali sono sorpassate, bisogna produrre idee, ricerca, desideri, mode. Fanno bene a Piombino a chiudere le acciaierie e a dedicarsi a un gigantesco progetto turistico e chi si chiede chi avrà i soldi per andare negli alberghi del progetto turistico se le acciaierie chiudono è un sorpassato: arriveranno i cinesi, magari gli indiani.

È vero che i cinesi e indiani e magari africani hanno miliardi di poveracci che non sanno come combinare il pranzo con la cena ma i loro mercati sono in crescita, i loro consumi anche, per i nostri già ricchi sono una buona occasione.

E i sempre poveri? I poveri sempre più poveri? Si aggiustino o continuino a contare sui mega concerti di Live 8, su questa formidabile medicina sociale di massa che risolve la miseria dei poveri facendo cantare i ricchi. Un po' come ai tempi di Nerone che ricostruiva Roma incendiandola e sfamava la plebe al suono della lira.

Le aziende che producono merci non rendono, rendono quelle come le televisive che producono immagini, fantasmi, mode o come quelle dei telefonini che moltiplicano informazioni false, inutili, ma anche tanta pubblicità popolata da belle donne dal sorriso perverso e dalle curve procaci che offrono nuovi gadget pronti a rompersi rapidamente e a rifornire il mercato dei ricambi. Questa è l'economia bellezza!

È il tempo delle stock option, dei manager che non pensano ai beni durevoli ma a far salire i profitti finanziari anche a danno dell'azienda, dei grandi manager astuti che si mettono d'accordo per rifilare alla loro azienda avanzi di magazzino a danno degli azionisti ma a beneficio loro.

Cosa aspettiamo noi italiani a saltare sul carro del capitalismo globale, moderno, creativo, innovativo che vende aria fritta e incassa valuta pregiata da trasferire nei paradisi fiscali?

Forse ci trattiene il sospetto che questo tipo di capitalismo sia molto ma molto rischioso economicamente come socialmente?
Di certo fra i primi a esserne vittime ci sono i manager che fanno da fuochisti di una locomotiva sempre più ingovernabile. I manager della provincia di Milano assunti nel 2004 sono stati 575, quelli dismessi, scacciati, tagliati, licenziati 1.130, con un saldo passivo di 555. Nel 2003 era stato di 177. Idem nella regione lombarda: 805 assunti, 1.592 espulsi. Buona parte degli usciti che anni fa ritrovavano un posto nel giro di pochi giorni ora deve aspettare se va bene dei mesi. "Oggi spesso per tornare a lavorare", dice un esperto, "bisogna reinventarsi un ruolo, magari come consulenti. Il problema è che chi resta fuori dal mercato per qualche tempo viene guardato con sospetto".

Perché un aspetto crudele di questa società ultracompetitiva è che una retrocessione, una sconfitta nell'economia, nella burocrazia dirigenziale, si trasforma immediatamente in una sconfitta professionale, umana.

Fare il manager è certo meglio che fare il bracciante, ma è singolare che nel mercato dei manager si ripetano le crudeltà, le sofferenze, le umiliazioni che c'erano nel mercato dei braccianti, quella che da alcuni viene chiamata la rottamazione dei manager.

Non è piacevole a 40 o 50 anni affidarsi agli head hunting, i cacciatori di teste in cerca di posti. A Milano e in Lombardia oggi i dirigenti di industria disoccupati sono 5 mila, il doppio che nel 2000. I licenziamenti aumentano del 15 per cento, le dimissioni volontarie sono in calo del 20 per cento. I licenziamenti di operai sono triplicati nel 2003.

Per chi scava la talpa del vecchio Marx?
 
S'avanza la Populorum regressio
Papa Ratzinger in Valle d'Aosta prepara la prima enciclica. Teologi e allibratori cercano di indovinare l'argomento trattato


C'è molta attesa per la prima enciclica di papa Ratzinger, in preparazione in questi giorni di vacanza in Valle d'Aosta. La stesura è stata fin qui rimandata per problemi tecnici: non si riusciva a trovare un computer con i caratteri gotici. Con un gesto molto apprezzato in Vaticano, il Museo Nazionale del Fumetto ha fatto dono al pontefice della speciale tastiera usata da Bonvi per il lettering di Sturmtruppen, sbloccando la situazione. Teologi e allibratori, in stretto contatto tra loro, cercano di indovinare l'argomento trattato. Questi i temi più probabili.

Contro Darwin Una dura confutazione dell'evoluzionismo, però utilizzando categorie molto innovative: secondo Ratzinger, è la scimmia che discende dall'uomo, del quale rappresenta il ramo degenere. Alcuni cavernicoli panteisti, che adoravano cose assurde come le angurie e gli spiedini di cinghiale anziché il Dio Unico Korkababuk, per punizione divina furono trasformati in gorilla. Di lì la teoria ratzingeriana del de-evoluzionismo, che è il contrario esatto del darwinismo: all'alba dei tempi, l'uomo uscì già a immagine di Dio, in giacca e cravatta e con la valigetta ventiquattrore, ma poi iniziò a regredire e presto, se non tornerà sulla retta via, si trasformerà in protozoo o addirittura in cane pechinese da compagnia, notoriamente l'anello più basso e detestabile della catena della vita.

Contro il rock È nota l'idiosincrasia di questo Papa per la musica rock, non per caso smascherata da alcuni demonologhi come veicolo di messaggi satanici. In un rapporto riservato consegnato a Ratzinger nei mesi scorsi, si sostiene che ascoltando al contrario il 45 giri di 'Be bop a Loola' si ode distintamente la frase "se non ti levi immediatamente il reggipetto, stasera guardo le finali del baseball in tv". In opposizione a questa moda degenere, il Papa pensa di organizzare un grande Live-Aid alternativo: 12 ore di canti gregoriani e di cantautori di 'Radio Maria' in play-back, con raccolta di fondi per annullare il debito dello Ior.

Contro Galileo Anche volendo ammettere che la Terra giri attorno al Sole, si tratta di decidere se questa evidente stortura vada accettata o rifiutata. Poiché le Scritture non ne fanno cenno, va rifiutata, e bisogna vivere "ut Sol gireatur circum Terram", come se il Sole girasse attorno alla Terra, secondo la definizione di Marcello Pera. Nel nuovo catechismo verrà introdotto un apposito capitolo sulle conseguenze dottrinarie che il geocentrismo avrà nell'uso delle creme abbronzanti.

Contro il relativismo etico La nuova enciclica si chiamerà 'Giovedì gnocchi, venerdì pesce', e si propone di ristabilire l'ordine della tradizione al disordine del relativismo, a cominciare dal ripristino del digiuno, del cappello da prete e delle sberle in canonica durante i corsi per cresimandi. Nuova impostazione anche per il dialogo interreligioso, al quale Ratzinger tiene moltissimo: gli esponenti delle altre religioni potranno presentare domanda di conversione all'apposito sportello, presentandosi ginocchioni sui ceci. Necessario che si adeguino alle indicazioni di Pera, che si raccomanda di "esistere come se Dio vivesse".

Sacerdozio femminile La nuova enciclica 'Chi dice donna dice danno' contiene importanti aperture alle donne. Il ruolo di perpetua verrà finalmente istituzionalizzato con una investitura religiosa in piena regola, nella quale il parroco consegnerà alle novizie una ramazza consacrata e un tegame benedetto. Le donne che considerino ancora ancillare e subalterno il loro ruolo nella Chiesa latina, e lo ritengano il frutto di una società patriarcale e maschilista, potranno consolarsi, come spiega bene Pera, "vivendo come se la Svezia non esistesse".

Contro il marxismo Non si sa ancora se si chiamerà 'Populorum regressio' o 'De rerum vecchiarum', ma certo conterrà la denuncia delle false teorie progressiste e la raccomandazione di tornare alla società tradizionale armoniosamente divisa in classi sociali bene ordinate, riflesso diretto dell'ordine celeste e della distribuzione delle cabine sulle navi da crociera. Bisogna vivere, secondo l'accezione di Pera, "come se il conto in banca esistesse".

 

 15 luglio

Dell'Utri, le motivazioni della condanna: per trent'anni mediatore tra mafia e Fininvest
di red.

Marcello Dell’Utri è stato per trent'anni anni mediatore tra Cosa Nostra e la Fininvest. Per questo il tribunale di Palermo lo ha condannato nei mesi scorsi a nove anni di reclusione per concorso in associazione mafiosa. Lo afferma la motivazione della sentenza, depositata mercoledì e che chiama in causa anche il patron della Fininvest, Silvio Berlusconi che era a conoscenza dell’attività del suo fido.

Dell’Utri ha in particolare «chiesto ed ottenuto dal capo mandamento mafioso Vittorio Mangano favori, promettendo anche appoggio in campo politico e giudiziario». Mangano è il preteso stalliere della villa di Arcore di Berlusconi. In realtà, scrivono i giudici, l’uomo era stato “assunto” per garantire le relazioni tra Fininvest e l’organizzazione mafiosa.

«Queste condotte - scrivono i giudici - sono rimaste pienamente ed inconfutabilmente provate da fatti, episodi, testimonianze, intercettazioni telefoniche ed ambientali di conversazioni tra lo stesso Dell'Utri e Silvio Berlusconi, Vittorio Mangano, Gaetano Cinà ed anche da dichiarazioni di collaboratori di giustizia».

Secondo il tribunale «la pluralità dell'attività posta in essere, per la rilevanza causale espressa, ha costituito un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di Cosa nostra alla quale è stata, tra l'altro, offerta l'opportunità, sempre con la mediazione di Dell'Utri, di entrare in contatto con importanti ambienti dell'economia e della finanza, così agevolandola nel perseguimento dei suoi fini illeciti, sia meramente economici che, lato sensu, politici»

Nella motivazione si parla, naturalmente, a lungo di Silvio Berlusconi, al quale il tribunale rimprovera di aver rifiutato la testimoninanza che avrebbe potuto chiarire i rapporti tra la sua azienda e i mafiosi. «L'onorevole Berlusconi - scrivono i giudici - si è lasciato sfuggire l'imperdibile occasione di fare personalmente, pubblicamente e definitivamente chiarezza sulla delicata tematica in esame, incidente sulla correttezza e trasparenza del suo precedente operato di imprenditore che solo lui avrebbe potuto illustrare. Invece, ha scelto il silenzio».

Lunga 1800 pagine, divise in 18 capitoli, la motivazione racconta una storia lunga quasi trent’anni, dai primissimi anni Settanta al 1998, quando il processo era già iniziato da oltre un anno contro lo stesso Dell’Utri e il capo mafioso Gaetano Cinà. Per il Tribunale «l'accurata e meticolosa indagine dibattimentale ha consentito di acquisire inoppugnabili elementi di riscontro alle condotte (anche se non a tutte) contestate ai due imputati». Secondo i giudici gli elementi probatori emersi dall'indagine dibattimentale hanno consentito di fare luce sulla posizione assunta da Dell'Utri nei confronti di esponenti di Cosa nostra, sui contatti diretti e personali con alcuni di essi (Bontate, Teresi, oltre a Mangano e Cinà), sul ruolo ricoperto nell'attività di costante mediazione, con il coordinamento di Gaetano Cinà, tra quel sodalizio criminoso, «il più pericoloso e sanguinario nel panorama delle organizzazioni criminali operanti al mondo», e gli ambienti imprenditoriali e finanziari milanesi con particolare riguardo al gruppo Fininvest».

Il collegio si sofferma «sulla funzione di 'garanzià svolta nei confronti di Silvio Berlusconi, il quale temeva che i suoi familiari fossero oggetto di sequestri di persona, adoperandosi per l'assunzione di Vittorio Mangano presso la villa di Arcore dello stesso Berlusconi, quale 'responsabilè (o fattore o soprastante che dir si voglia) e non come mero stalliere, pur conoscendo lo spessore delinquenziale dello stesso Mangano sin dai tempi di Palermo (ed, anzi, proprio per tale sua qualità), ottenendo l'avallo compiaciuto di Stefano Bontate e Girolamo Teresi, all'epoca due degli uomini d'onore più importanti di Cosa nostra a Palermo».

Sugli ulteriori rapporti di Dell'Utri con Cosa nostra, «favoriti, in alcuni casi», dalla fattiva opera di intermediazione di Cinà, protrattisi per circa un trentennio nel corso del quale Dell'Utri «ha continuato l'amichevole relazione sia con il Cinà che con Mangano, nel frattempo nominato alla guida dell'importante mandamento mafioso palermitano di Porta Nuova, palesando allo stesso una disponibilità non meramente fittizia, incontrandolo ripetutamente nel corso del tempo, consentendo, anche grazie a Cinà, che Cosa nostra percepisse lauti guadagni a titolo estorsivo dall'azienda milanese facente capo a Berlusconi».
 

 
In calo le morti bianche, ma non per i lavoratori extracomunitari
di red

PIù di 900mila infortuni sul lavoro all'anno, anche se in leggera diminuzione rispetto al 2004 restano allarmanti in Italia i dati sugli infortuni sul lavoro e le morti bianche. Il calo è stato all’incirca dell’1,1% rispetto al 2003, secondo i dati diffusi dall’Inail nel rapporto annuale 2004, presentato a Roma dal Presidente dell’istituto, Mungari. Nel 2004 gli infortuni sono stati 966.568, a fronte dei 977.310 dell'anno precedente:circa 11 mila casi in meno. In lieve diminuzione anche il numero dei casi mortali. Nel 2004, le morti bianche sono state 1.278, con una diminuzione di 152 casi rispetto al 2003 e con una tendenza ulteriore alla flessione rispetto ai 1.400 casi stimati nelle prime anticipazioni sull'entità della mortalità da infortunio.

Cresce invece il numero di lavoratori extracomunitari (1.800.000 risultano assicurati) colpiti da infortunio, aumentati del 6% rispetto al 2003 e ben del 25% rispetto al 2002. In ascesa anche i casi mortali tra extracomunitari, saliti a 167, una cifra che corrisponde al 13% dei decessi complessivi. A condizionare questo dato è la pericolosità maggiore delle mansioni svolte dai lavoratori provenienti da paesi che non fanno parte dell’Ue. I settori con maggiori incidenti sono stati quello delle costruzioni, del commercio, dei trasporti e delle comunicazioni, industria dei metalli e industria meccanica. In tutti questi casi, però, avverte il Rapporto dell'Inail, la diminuzione degli incidenti e delle morti bianche è stata costante. In aumento, invece, il numero degli infortuni tra i lavoratori della sanità e dei servizi sociali.

Sul fronte degli infortuni sul lavoro, l'Italia si colloca leggermente al di sotto della media europea. Nello stesso anno, in Germania e in Francia si sono registrati, rispettivamente, 4.082 e 4.887 casi di infortunio per 100 mila occupati, mentre in Italia 3.356. Tra i Paesi più virtuosi, l'Irlanda (1.204 casi) e la Svezia (1.347). Ultima in classifica la Spagna, con 6.728 infortuni.

Nonostante la lieve riduzione di morti e infortuni, quello delle condizioni di sicurezza sul lavoro rimane un problema grave per il nostro paese. Ogni giorno qualcuno perde la vita sul lavoro e spesso per questioni legate alla mancanza del rispetto delle norme di sicurezza. Proprio mercoledì, giorno precedente all’uscita del rapporto annuale Inail, sono state ben cinque le persone morte durante l’attività lavorativa. Tre operai dell’Anas sono stati travolti nel cosentino da un’auto sbandata e uscita fuori strada. Due di loro sono morti ed uno è rimasto ferito. Le sigle sindacali, condividendo il cordoglio dei familiari per il grave lutto subito, annunciano quindi di aver già richiesto un immediato incontro all'amministratore dell'Anas Vincenzo Pozzi e di aver dichiarato un'ora di sciopero di tutti i dipendenti aziendali da effettuarsi il giorno dei funerali delle vittime.

È «inaccettabile» che, per i lavoratori dell'Anas, i rischi di infortuni in questi anni non sono diminuiti, in controtendenza rispetto al dato nazionale. Lo affermano, in una nota, Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uilpa-Anas, Sada-Confsal e Sada-Confsal, ricordando che «ancora una volta un gravissimo incidente sul lavoro ha mietuto vittime e feriti gravi tra i cantonieri e gli occupanti del veicolo investitore. I dati degli infortuni, cresciuti in modo evidente dentro l'azienda dovrebbero far riflettere i vertici societari sul fatto che l'attuale politica aziendale, porta risultati disastrosi proprio dal punto di vista della sicurezza del lavoro degli addetti alla manutenzione e ai servizi rivolti all'utenza stradale». Altre tre persone sono morte sul lavoro: una sull’A3 Salerno-Reggio Calabria, una a Roma, un’altra a Osoppo, in provincia di Udine.
 


 

14 luglio

Dentro di noi
ROBERTO ZANINI
Erano quattro kamikaze, gli assassini di Londra, tutti cittadini britannici. Non lo dice la polizia ma la Bbc, però ci dicono che possiamo fidarci e inorridire in modo adeguato. Le bombe umane saltano in aria anche tra le nostre tiepide case, hanno il passaporto del nostro stesso colore. Non sono tra noi, sono noi, non importa se da pochi mesi o molti anni. La loro esplosione segna, in qualche modo, l'implosione dell'Occidente che si vuole combatta una guerra in difesa di ciò che ha di più caro. Ma ciò che avevamo di caro è stato annichilito da molto tempo, una guerra dopo l'altra. E la difesa armata dei presunti noi stessi ci ha fatto diventare il nemico che dichiaravamo di voler combattere. Abbiamo fatto quasi tutto da soli e ora terroristi suicidi occidentali uccidono cittadini inermi occidentali in una capitale occidentale. Credevamo di essere al fronte ma il fronte non c'è più, l'Oriente è venuto a trovarci e ha messo su casa. La parola kamikaze la importò Marco Polo di ritorno dal Giappone ma in arabo non esiste e anzi «vento divino», ciò che significa in italiano, è uno dei 99 bei nomi di dio nella teologia islamica. Tanti saluti alla civiltà superiore. Il vincolo della sopravvivenza non è più un deterrente, il limite ultimo e invalicabile di una violenza che è ormai l'unico elemento di relazione tra gli individui. Ciò che accade ogni giorno in Palestina o Iraq ci appare feroce e incomprensibile. Oggi accade in Gran Bretagna, ben dentro il campo che dicono sia il nostro, e comprendere diventa un obbligo.

E' proprio dal campo che bisogna uscire, dall'Occidente come camicia di forza, sistema di valori intangibili da preservare, laddove necessario, con la spada (e con la garanzia che, se a maneggiarla siamo noi, ciò non sarà considerato anticristiano). Fuggire da questo Occidente, magari portandosi dietro la cassa. Libertà, democrazia, uguaglianza, giornali: c'è un tesoro che non va dilapidato, nella cassaforte occidentale. Tolerance and change, tolleranza e cambiamento, sono state le parole d'ordine del sindaco di Londra, Ken Livingstone, il giorno dopo il macello della sua città. Cambiamento, appunto.

Invece difendiamo a mano armata la nostra identità, per colpire il «nemico» ci colpiamo da soli, in Italia pensiamo di scampare al prossimo attentato cacciando i clandestini e controllando poste e telefoni: il cielo stellato sopra di noi, le leggi speciali dentro di noi.

E' stato detto che l'impossibile immedesimazione con chi patisce una massima ingiustizia - la guerra è una - è la radice dell'incomprensione di fronte al terrorista suicida. Ora possiamo capire, e non è un bene che sia a prezzo del nostro sangue, ora possiamo inorridire. Dei kamikaze, della guerra e di noi stessi.

 

13 luglio

Il campo cancellato dalle ruspe, appello al sindaco da intellettuali e cittadini
Il Comune non ne vuole sapere, per ora si occupano di loro due preti
Senza casa 40 bambini rom
"È la vergogna di Milano"

di RODOLFO SALA
 


Un campo nomadi a Milano

MILANO - Settantasei rom rumeni con documenti in regola, tra cui una quarantina di bambini, da quasi un mese stanno dividendo la città di Milano. Fino a due settimane fa vivevano alla bell'e meglio nel campo nomadi di via Capo Rizzuto, che adesso è un ammasso di macerie. È stato raso al suolo, quel campo, perché ospitava uno stupratore, arrestato dalla polizia dopo avere abusato, il 17 giugno, di una studentessa diciannovenne a Pero, alle porte di Milano. Da allora i 76 rumeni (erano di più, ma loro non possono essere espatriati, come si è fatto per gli altri) non li vuole più nessuno.

Per una decina di giorni il Comune li ha fatti dormire nelle strutture della Protezione civile: solo dormire, a ospitarli di giorno per quel breve periodo ci ha pensato la Casa della Carità, una struttura di accoglienza della Caritas. Poi il Comune non ha più voluto saperne: e da domenica notte i rom romeni sono totalmente a carico di due preti, don Virginio Colmegna e don Massimo Mapelli, responsabili della Casa della Carità. Adesso sembra che il problema sia tutto loro, di questi due sacerdoti che stanno facendo quel che possono e che altri non vogliono fare. Li tengono lì alla Casa della Carità, di giorno e di notte, ma dicono che non può essere per molto.

Fine mese al massimo, come conferma il prefetto Bruno Ferrante, protagonista di una difficilissima mediazione tra il Comune (centrodestra) e la Provincia (centrosinistra), che su questa vicenda non smettono di farsi la guerra. L'amministrazione del capoluogo non vuole altri rom, e sostiene che una nuova sistemazione (per i 76 rumeni e per chiunque altro) va trovata fuori dalla cinta daziaria.

La Provincia si fa avanti offrendo soldi per nuovi campi e proponendosi in un ruolo di coordinamento che Milano sembra mal sopportare. Soprattutto perché il presidente diessino Filippo Penati fa capire che non si deve scaricare il problema sui Comuni dell'hinterland.
Risultato: tutto fermo, tutto affidato alla buona volontà di due preti. E alla disponibilità di un immobiliarista, Marco Cabassi, che dopo l'appello lanciato dal prefetto offre un proprio terreno come soluzione temporanea (la gestione sarebbe comunque della Caritas).

Un terreno a Trezzano sul Naviglio, estrema periferia di Milano. Ma puntuale arriva la risposta del sindaco: "Abbiamo già troppi problemi". Un gruppo di esponenti della società civile medita su dove sia sprofondato il proverbiale pragmatismo meneghino, dove sia finita la città cont el coer in man che è sempre stata capace di risolvere i suoi problemi, senza mai scacciare nessuno. Meditano e scrivono: una lettera aperta al sindaco e ai presidenti di Provincia e Regione: "Confessiamo di provare profonda vergogna per questo spettacolo, la nostra Milano e la civile Lombardia non meritano questa indecenza".

Tra i primi firmatari ci sono l'economista Marco Vitale i sociologi Enrico Finzi e Francesca Zajczyc, la responsabile dell'ufficio studi del Touring Club Cristina Rapisarda Sassoon, il presidente del coordinamento dei comitati milanesi Carlo Montalbetti, il responsabile dei City Angels (si occupano dei senza dimora) Mauro Furlan, il responsabile di Legambiente Andrea Poggio.

 

12 luglio

Fino a 15 anni fa era simbolo di lavoro mal fatto, disonestà e arroganza. Ora l'intera Europa lo teme. Ma sarà panico all'arrivo di quello cinese


 In Polonia, ai tempi del comunismo, l'idraulico era una figura simbolica. Compariva nelle barzellette e negli sketch dei cabaret. Simboleggiava la schizofrenia di quei tempi. Di giorno era impiegato in qualche istituzione, fabbrica o impresa edile nazionale, ma fuori dell'orario di lavoro accettava le chiamate dei privati. Ovviamente queste chiamate erano illegali, ma erano del tutto accettate a livello sociale e tollerate dalle autorità. A dire il vero, il mercato dei servizi privati a quell'epoca non esisteva, ma le abitazioni date in uso dalle imprese nazionali avevano bisogno di immediate ristrutturazioni.

In questa situazione l'idraulico era una figura molto ricercata. Condannati a rubinetti e a tubi che perdevano, a canalizzazioni otturate, all'acqua calda che usciva da entrambi i rubinetti o da nessuno dei due, i cittadini disperati erano pronti a cadere in ginocchio davanti a un idraulico. E l'idraulico lo sapeva bene. Prendeva un acconto, fissava un appuntamento, ma al momento stabilito non si presentava. Si presentava quando gli faceva comodo. Ad esempio dopo una settimana. Sporchi, desiderosi di farsi una doccia, gli abitanti lo accoglievano ugualmente come un salvatore. Gli offrivano caffè, cibo, alcol, e con tutti gli ossequi. L'idraulico mangiava, beveva, ascoltava i complimenti e poi, lentamente e con dignità, si metteva a lavorare. Svitava qualcosa, smontava qualcos'altro, faceva una baraonda infernale in cucina o in bagno, poi perdeva improvvisamente la voglia, tirava fuori la scusa che gli mancava qualche pezzo, lasciava quel bordello promettendo di ritornare l'indomani e si presentava una settimana dopo e solo grazie alla promessa di un ennesimo acconto. Talvolta non si ripresentava e bisognava cercarne un altro. Questo era l'idraulico polacco 15 anni fa. Nella realtà, nelle barzellette, nel cabaret e nel cinema. Nessun altro artigiano ha avuto l'onore di essere trasformato in un simbolo.

Oggi quel simbolo del lavoro fatto alla meno peggio, quell'allegoria della disonestà, quella figura dell'arroganza, quell'incarnazione della trascuratezza della professionalità toglie il sonno al Continente. Davanti hanno paura l'Olanda, l'Austria. La dolce Francia trema al solo pensiero che arrivi con le sue chiavi, i suoi tubi, le sue giunture e i suoi bocchettoni, come se ad arrivare fossero quantomeno gli arcieri inglesi da quel di Crécy. In una parola, d'improvviso è cambiato tutto: l'artigiano polacco, che ancora fino a poco tempo fa nel suo paese era il simbolo del lavoro abborracciato, d'improvviso si muove verso Occidente, dove se la cava benissimo. Fonda imprese singole, impara il francese, offre i suoi servizi su Internet, supera i suoi colleghi occidentali per qualità di servizi e prezzi concorrenziali. Quel simbolo del catafascio comunista si trasforma in un simbolo dell'espansione, dell'iniziativa, dell'elasticità del libero mercato, abbandona un porto sicuro e si muove alla conquista di terre lontane, quasi come un conquistatore idraulico. Ma l'Europa, e soprattutto la dolce Francia, invece di rallegrarsi che lo studente ha fatto i compiti così bene, si lamentano del fatto che qualcuno osa fare a casa loro la stessa cosa che loro avevano fatto fino a quel momento. Solo che più a buon mercato, più velocemente e meglio. Che la Francia non sia in grado di tenere testa a un idraulico polacco? A un personaggio da cabaret? Non è da escludere che si tratti di qualcosa di più profondo dell'economia, che si tratti del subconscio più recondito. L'acqua è il simbolo di ciò che è più primitivo nella nostra natura. Ed è difficile rassegnarsi al fatto che il signore delle acque, colui che è in grado di dominarle sia uno straniero, qualcuno che - Dio ce ne guardi! - arriva dal selvaggio Oriente. È quasi come se un polacco rovistasse nei recessi più profondi dell'anima francese.

Spostando la questione su un piano un po' meno simbolico, possiamo osservare che l'idraulico arriva il più delle volte proprio quando il proprietario, il marito o il padrone di casa sono al lavoro. Lasciamo però da parte la psicologia. Vedremo allora che le cose in fondo vanno nel verso giusto. Tutti gli attori di questo spettacolo recitano la propria parte. La società francese Danone, ad esempio, produce gli yogurt in Polonia e spazza via i concorrenti più piccoli. L'idraulico polacco in Francia spazza via i suoi colleghi pigri e sfaccendati. Nel primo caso si parla di conquista del mercato, nel secondo di distruzione del mercato del lavoro. In realtà abbiamo a che fare con un libero flusso di energia, con un gioco di forze che spinge tanto i 'vecchi' quanto i 'nuovi' europei allo sforzo. Naturalmente i 'nuovi' sono più espansivi come individui, mentre i 'vecchi' hanno maggiori possibilità come istituzioni, imprese o consorzi. Questo scontro del nuovo col vecchio, questo incontro della vitalità con il potenziale economico può sprigionare quell'energia che permetterà all'Europa di sopravvivere, o in ogni caso di prolungare il suo magnifico declino. Ma il vero terrore deve ancora arrivare. La paura dell'idraulico polacco è appena un esercizio. Immaginate il panico alla notizia di un 'idraulico cinese'. E questo idraulico sicuramente arriverà.

7 luglio

I mandanti di Arcore
di Antonio Padellaro

Ieri, bastava guardare il Tg1 delle 13 e 30 per capire chi sono i mandanti politici dell'aggressione leghista a Carlo Azeglio Ciampi. Subito dopo le immagini insultanti del Borghezio e dei suoi compari Salvini e Speroni, che mostrano al mondo come è stata ridotta l'Italia, va in onda il servizio sulla cena di Berlusconi con i leghisti Bossi, Calderoli, Castelli, Maroni, Giorgietti. «Piena intesa tra il leader del Carroccio e il premier», annuncia testualmente il tg di governo tracciando così un limpido, ancorché involontario, nesso di causa ed effetto tra la sera prima ad Arcore e il giorno dopo a Strasburgo. Non sappiamo se sia stato preannunciato a Berlusconi ciò che gli squadristi in camicia verde stavano organizzando.

Difficile, tuttavia, che gli ospiti e commensali non ne sapessero niente visto che nella Lega non si muove foglia senza l'approvazione del senatur, figuriamoci alla vigilia di una simile sceneggiata. Nessun dubbio, invece, sulla «piena intesa» tra gli amici e alleati poiché il patto di governo tra Lega e Forza Italia (regolarmente depositato dal notaio), e quello amicale tra Bossi e Berlusconi, ha sempre rappresentato il muro maestro della Casa delle Libertà; e continua a esserlo anche se tutto intorno sta crollando.
Perciò, la dichiarazione del presidente del Consiglio di condanna della contestazione «in forma e in sostanza» dei leghisti non sembra altro che una presa in giro degli italiani e del presidente della Repubblica.Davanti a un episodio senza precedenti, di gravi offese rivolte alla massima istituzione dello Stato, in pieno Parlamento Europeo, trasmesse sulla intera rete televisiva internazionale, se Berlusconi avesse voluto sul serio condannare avrebbe dovuto pretendere, immediatamente, le dimissioni di tutti i ministri del Carroccio. Se non lo ha fatto è perché non poteva e, soprattutto, non voleva farlo.Rivediamo la sequenza. Ciampi viene interrotto mentre elogia l'euro come fattore di stabilità monetaria. Basta con l'euro, gridano gli esagitati. Ma è lo stesso, identico concetto che Berlusconi va diffondendo in tutte le riunioni elettorali di partito. Il «Giornale» del 29 giugno (quotidiano di famiglia e dunque fonte inattaccabile) attribuisce a Berlusconi la seguente frase: «Tutti i sondaggi dimostrano che la percezione dell'euro è negativa; dobbiamo associare questa percezione al nostro avversario». Missione numero
uno, dunque: colpire Prodi. Missione numero due: fomentare il malcontento sull'euro e indicarlo come causa principale dell'aumento dei prezzi e della peggiorata condizione economica degli italiani. Si tratta di una palese falsificazione che, come al solito, punta a scaricare il fallimento del governo Berlusconi su altri soggetti politici. Chi? Prodi ma anche Ciampi, come superministro del Tesoro protagonista del negoziato che, tra mille difficoltà, riuscì ad associare l'Italia nell'Europa della moneta unica. Un merito storico ma non per i mazzieri e i loro mandanti. Complici nello stesso disastroso governo, conniventi nell'attacco permanente alle regole fondamentali della convivenza. Con quella inesauribile voglia di gettare agli squali, mitragliare, torturare, castrare che non ha uguali nel mondo civilizzato.
Non si dica adesso che i leghisti hanno esagerato. Non si esprima improvviso stupore dopo che per cinque anni si è assistito senza reagire (con qualche rara eccezione) a tutti gli eccessi, a tutti gli insulti, a tutte le peggiori provocazioni razziste e xenofobe, a tutti i possibili
stravolgimenti costituzionali. Del resto, non è la prima volta che le camicie verdi attaccano Ciampi. Gli stupiti dell'ultima ora dovrebbero, per
esempio, ricordarsi del 2 giugno. Quando, al presidente che aveva solennemente dichiarato il grande senso storico della nascita della
Repubblica, il ministro Calderoli aveva tranquillamente risposto che per lui, quello era un giorno di lutto. E del resto, non è stato l'ineffabile
titolare delle Riforme istituzionali (!) a definire Ciampi uno sconfitto insieme all'euro e all'Europa? Di cosa ci si sorprende allora? Ci si
interroghi invece sulla colpevole sottovalutazione di chi ha costantemente fatto finta di non vedere la crescita di una malformazione antinazionale e antieuropea nutrita di paura, razzismo e bisogno di isolamento. L'attacco a Ciampi è solo l'inizio.
 

 

1 luglio

Casini, l'anti Zapatero
Ritanna Armeni
Pier Ferdinando Casini ha cominciato ieri la sua corsa per la leadership dei cattolici italiani. Non più uniti "nella politica", ma "in politica", come ha detto con arguzia Francesco Cossiga.

In realtà questa corsa era cominciata con una rinuncia, con quello che a molti è apparso - a torto - un passo indietro. La rinuncia alla successione di Silvio Berlusconi alla guida della Casa della Libertà prima delle elezioni del 2006. Da politico accorto, il presidente della Camera aveva capito che non era conveniente diventare il leader di una sconfitta, l'uomo che sanciva la fine del governo di centro destra e l'avvento di Romano Prodi. La sua immagine non ne sarebbe uscita bene, il suo futuro sarebbe sicuramente stato danneggiato da una catastrofe largamente annunciata, com'è oggi quella della Casa della libertà, che nessun sondaggio vero dà oltre il 42 per cento. Neppure la possibilità che la sua candidatura avrebbe potuto cambiare il quadro politico, costringendo il centro sinistra a sostituire Romano Prodi, l'ha convinto a cambiare strategia. Perché Pier Ferdinando Casini è uomo lungimirante e si appresta ad una lunga marcia. E ieri appunto ha fatto il primo passo. In occasione della presentazione del rapporto 2005 sulla libertà religiosa nel mondo si è presentato come difensore della Chiesa contro "il laicismo di stato, cioè una sorta di Stato senza religione e senza Dio che - ha detto - non ha niente a che fare con un sano concetto di laicità dello Stato".

Secondo il presidente della Camera "la Chiesa si scontra con un atteggiamento laicista che tende a proporne in forme più o meno esplicite, la marginalizzazione ". Contro questa atteggiamento si è schierato e da lì ha cominciato a delineare la sua immagine di futuro possibile leader.

Un leader dei cattolici, innanzitutto, di coloro che si riconoscono nel catechismo di papa Ratzinger e che credono che la Chiesa sia il luogo dei valori morali fondamentali, quello in cui si definiscono le regole della dottrina piuttosto che il luogo dell'incontro dell'uomo con Dio.

Un leader di chi, a partire da questi valori, cerca un'appartenenza politica. Oggi non strettamente legata ad u n partito, bensì ad un'area che attraversa i due maggiori schieramenti, di centro destra e di centro sinistra, ma che domani potrebbe trovare confini più definiti, certezze più forti. Come qualcuno ha suggerito, un partito neoguelfo propugnatore di quella "sana laicità" che consiste nell'accettazione dei valori della Chiesa come unici. Gli unici detentori di un'etica, di una dimensione valoriale.

Pier Ferdinando Casini comincia il suo cammino simbolicamente lo stesso giorno in cui un altro leader in un altro paese si schiera apertamente contro la Chiesa Cattolica facendo approvare una legge che consente i matrimoni fra omosessuali. E' quella di Zapatero, secondo Casini, una laicità malata da contrapporre alla "laicità sana" di chi obbedisce a Ruini? Evidentemente sì. Tant'è che solo qualche giorno fa durante una visita ufficiale in Spagna il presidente della Camera ha apertamente criticato il governo spagnolo e le sue leggi. Non si è trattato, no, di una distrazione dalle regole più ovvie della diplomazia, ma di un'opzione ben consapevole, tutta da giocare nella politica italiana e nel suo possibile futuro di Grande Centro. In politica, appunto, contano molti i simboli - e quello della nuova Spagna laica, capace di gettarsi dietro le spalle più di cinquant'anni di buio clerico-franchista, lo sta diventando per tutti. Perché non di laicismo si tratta, ma appunto di laicità - di libertà, di piena dignità dei diritti delle persone, di autonomia dell'etica dal Sacro. Su questo, non certo su un conflitto "datato" ed erroneo tra chi professa un credo religioso e chi non ne professa alcuno, si giocherà un pezzo del futuro di questo Paese.