Archivio Marzo 2004
30 marzo
Rischi
Finché
vince la sinistra spagnola, passi. Finché vince quella francese, passi. Ma con
l'aria che tira, qui rischiamo che vince pure la sinistra italiana. (jena)
Sindrome
francese
ROSSANA
ROSSANDA
Alle elezioni regionali in
Francia la sinistra plurale, che era stata messa a terra nelle ultime
legislative, ha sfondato: si è conquistata il governo di 21 regioni su 22 -
sola eccezione l'Alsazia - cosa che non era mai avvenuta nell'esagono. E'
cambiato il vento, dicono i commentatori italiani, presi di contropiede. Fino a
un mese fa spirava a favore della destra, adesso spira a favore della sinistra.
Ma questa interpretazione atmosferica è un po' sciocca. Se è vero che
l'elettorato è diventato più nervoso, che è finita l'epoca in cui da una
elezione all'altra era tanto se i protagonisti della scena politica cambiavano
due o tre punti, perché ciascuno di loro aveva un legame ormai perduto con una
sua base sicura, un'osservazione appena un poco attenta dice che nella vecchia
Europa il vento non cambia affatto: qualunque governo va a picco se entra in
guerra dietro agli Stati Uniti e se insiste nella demolizione dello stato
sociale, partita duramente iniziata ma nel nostro continente non ancora chiusa.
Se è la destra che va in guerra e fa una politica puramente monetaria,
antinflazionista, tutta di tagli alla spesa sociale, un agglomerato di sinistra
al primo appuntamento la farà cadere. Lo stesso agglomerato farà cadere il
governo di sinistra se crede di poter percorrere quella stessa strada. E' una
lezione che Massimo D'Alema dovrebbe meditare. I governi di sinistra che hanno
tentato di cavalcare una «modernizzazione» moderata - prima Gonzales in
Spagna, poi il governo Jospin in Francia e il centrosinistra in Italia - sono
caduti come birilli. E Schroeder è in difficoltà, e anche Blair.
Con la questione sociale non si scherza. In Francia la
delusione era stata così amara e furente che perfino buona parte dei lavoratori
erano giunti a votare per protesta l'estrema destra. Jospin era una brava
persona, ma sull'occupazione e il welfare aveva ceduto ai dettami europei e alla
linea sciagurata dell'Internazionale socialista. Raffarin, seguendo politiche
analoghe, è sceso in breve tempo al 37 per cento.
Ha ammesso la sconfitta, perché non s'è sognato di
addizionare al suo 37 e qualcosa per cento il 12 e qualcosa per cento di Le Pen,
che la borghesia francese non ha sdoganato né in sede nazionale né in quella
locale. Mentre in Italia Berlusconi, Fini e il casto Follini non mettono paletti
a destra, inglobano tutto, inseguono e lusingano fin la peggiore canaglia
populista. Non è una differenza da poco. Per questo motivo in Francia le
sinistre della Lega comunista di Krivine e di Lotta operaia di Arlette
Larguiller, nonché una parte degli astensionisti, sanno di non rischiare granché,
contando che la stessa odiata classe dirigente borghese esclude per principio la
propria ala estrema. Lo «spirito repubblicano» non è uno scherzo. Il governo
Raffarin non ha reagito col berlusconiano «tirerò dritto» e non ha accusato
complotti comunisti. Ha incassato il colpo e dovrà, come minimo, andare a un
rimpasto. Per lo stesso presidente Chirac è un guaio serio.
La sinistra plurale, vittoriosa, dovrà ricordare bene che
le è stata offerta una seconda occasione, nella quale deve dare risposta alla
questione che a qualunque sinistra si presenta dappertutto: non deve dire di sì
alla guerra - ma questo in Francia nessuno glielo chiede - e non può consegnare
l'occupazione, i diritti del lavoro, la previdenza, la sanità, la scuola e la
ricerca al mercato, alla competitività, ai parametri di Maastricht e al Patto
di stabilità. Non lo può fare perché sarebbe rovesciata di nuovo, e stavolta
in modo da non potersi risollevare per un pezzo. Questo vale anche per Zapatero
che ha vinto e per Schroeder che rischia di perdere di brutto. La Carta europea
non la aiuterà: deve modificarla nei fatti e con i rapporti di forza che oggi
sono mutati a suo favore. La democrazia è logorata e l'alternanza non avrà più
nulla di meccanico.
GIORNALISTI
La
7, sciopero e proteste
La
Federazione nazionale della stampa e l'Associazione stampa romana denunciano il
«grave comportamento dei dirigenti della 7 che hanno impedito l'attuazione
dello sciopero dei giornalisti nella forma dell'astensione dalle prestazioni
audio-video» annunciato per ieri contro i tagli previsti dall'editore. La Fnsi
e l'Asr si riservano azioni in tutte le sedi «per difendere i diritti del
sindacato e dei giornalisti radiotv da sempre rispettosi delle leggi e
dell'interesse dei cittadini a essere correttamente informati». Il comitato di
redazione della 7, anche in relazione al comunicato del sindacato dei
giornalisti, conferma lo sciopero audio-video per oggi e definisce «gravissimo»
il comportamento dell'azienda e della direzione che ha impedito la realizzazione
delle finestre informative. Solidarietà ai giornalisti dell'emittente anche
dall'Usigrai, il sindacato dei giornalisti Rai, e dall'associazione Articolo 21.
29 marzo
IL COMMENTO
Una
ricetta per vivere peggio
di
LUCIANO GALLINO
CON LA proposta di sopprimere
alcune festività al fine di rilanciare la produzione il presidente del
Consiglio dimostra di essere un fine economista; ovvero di essere, in tema di
economia, ben consigliato. Un ponte in meno, ha detto, produce un incremento
sensibile sul prodotto nazionale. Non c'è dubbio che le cifre gli diano
ragione. Il Pil viene prodotto con poco più di 200 giornate lavorative,
corrispondenti a 1620 ore effettivamente lavorate in media per occupato.
Una media che combina gli orari più lunghi dell'industria e quelli un po' più
brevi del pubblico impiego, gli impieghi a tempo pieno e quelli a tempo
parziale. In una giornata di lavoro si produce dunque un mezzo punto percentuale
di Pil. Basterebbe allora sopprimere, per dire, sei giornate festive l'anno per
incrementare di colpo la crescita del Pil del 3 per cento annuo.
Ci avessimo soltanto pensato prima, l'economia del paese non si troverebbe nella
situazione critica che molti lamentano. O forse no. Perché nel ragionamento che
suggerisce di lavorare di più per arricchirsi tutti c'è una piccola crepa.
Esso implica infatti che l'intera produzione addizionale di beni e servizi
eventualmente ottenuta con alcune giornate lavorative in più sia interamente
venduta. Il che non sembra davvero realistico.
Moltissime imprese faticano oggi a vendere le quantità di beni che producono
con le giornate di lavoro attualmente effettuate. È la radice della crisi che
le minaccia. In molti settori industriali esiste un eccesso di capacità
produttiva: le aziende potrebbero produrre cento, ma dato che riescono sì e no
a vendere settanta, quello producono. È proprio per questo motivo che hanno
chiesto, e prontamente ottenuto dal governo con la legge 30 e il relativo
decreto attuativo dell'ottobre scorso, nuovi tipi di contratto che permettono di
occupare forza lavoro in maniera discontinua, come il lavoro in affitto (detto
anche, pudicamente, "in somministrazione") e il lavoro intermittente.
In modo da adattare l'occupazione in azienda all'andamento del proprio mercato.
A fronte di queste situazioni,
l'aggiunta di alcuni giorni lavorativi al calendario annuo genererebbe
presumibilmente più disoccupazione, e più precarietà.
D'altra parte la discussione sulla necessità di provare ad accrescere
l'occupazione non già aumentando, bensì diminuendo gli orari di lavoro, va
avanti da decenni in tutti i Paesi europei, dal Portogallo alla Finlandia,
dall'Irlanda alla Grecia.
Da essa sono scaturiti contratti collettivi e interventi legislativi che hanno
portato a ridurre le ore annue effettivamente lavorate pro capite dalle
1800-2000 del 1970 alle 1330-1700 di inizio del XXI secolo, con un parallelo e
sostanziale incremento di produttività. Il limite inferiore, nel cennato rango
delle ore lavorate pro capite nel 2001, è segnato dall'Olanda, a causa della
grande diffusione in tale paese del tempo parziale; mentre quello superiore
tocca al Regno Unito. Con le sue 1620 ore l'anno l'Italia supera di circa 50 ore
la Francia - nonostante le riduzioni d'orario realizzate in essa con la legge
sulle 35 ore, che ha avuto indubbi effetti positivi sull'occupazione - di 100
ore il Belgio, di 170 ore la Germania. Non siamo insomma i più pigri tra gli
europei.
Ancora, è la riduzione degli orari di lavoro, non già il loro aumento, che ha
permesso di superare crisi aziendali gravissime, come quella della Volkswagen
alcuni anni fa. Per tacere di altri dati che possono lasciare indifferenti i
fini economisti, ma ai quali i milioni di persone che svolgono altri ordinari
mestieri attribuiscono una certa importanza.
Nel 1970, quando in Italia si lavorava 1900 ore l'anno, si viveva quasi 10 anni
di meno. Più precisamente, la età mediana dei morti era inferiore a quella
odierna di circa 10 anni. Altri fattori hanno sicuramente contribuito a questo
straordinario risultato, in primo luogo il sistema sanitario nazionale.
Ma un fattore determinante sono stati l'aumento delle giornate di vacanza, degli
svaghi, del riposo, delle cure per la persona, delle attività culturali, delle
relazioni sociali, del tempo dedicato ai figli, reso possibile dalla riduzione
di oltre 250 ore dell'orario annuo di lavoro.
Proporre oggi di ricominciare a lavorare di più, significa quindi prospettare
la possibilità - quali che siano le buone intenzioni del proponente - di
ricominciare a vivere peggio, e forse anche meno a lungo. È possibile che il
presidente del Consiglio, buttando lì l'idea di lavorare qualche giorno in più
l'anno, avesse in mente il caso di qualche altro paese.
Ad esempio il caso della Corea del Sud, dove si lavora tuttora 2.500 ore l'anno.
Ma non sembra questo un Paese adatto da prendere a modello per l'Italia, quando
si pensi alle condizioni di lavoro, di ambiente, di tutele legislative, di
rappresentanza sindacale in esso predominanti.
Oppure quello degli Stati Uniti, dove in effetti le ore annue realmente lavorate
superano le 1800, con un considerevole aumento rispetto a un decennio fa. Ma gli
americani non lavorano di più per amore del Pil. Lo fanno perché vi sono
costretti dai bassi salari. In Usa il salario medio dei lavoratori dipendenti,
al di sotto del livello di quadro o capo intermedio (foreman), è infatti
tuttora inferiore, in termini reali, a quello del 1973, dopo una forte discesa
durata quasi vent'anni, e un parziale ricupero da metà degli Anni '90.
Il salario basso obbliga a fare gli straordinari, a cercarsi due lavori, a
lavorare in due in famiglia anche se l'onere per la famiglia è grave. Spinge
anche, ovviamente, a fare meno giorni di vacanza e di riposo. Anche questo
modello di lavoro e di vita non sembra, in verità, particolarmente attraente.
Gli Indiana Jones della superiore inciviltà |
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E'
triste constatarlo, ma è inutile negarlo: soltanto i poveri rischiano di
diventare razzisti |
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Luogo
Comune |
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Zincone
Giuliano |
Aristide Malnati è un
esperto: ha partecipato come assistente a nove campagne di scavi nell'
oasi egiziana del Fayyum, esplorando il sito greco-romano di Tebtynis. Ora
Malnati racconta (su Libero) che un gruppo di professori del Cairo ha
deciso di denunciare alle autorità locali e all' Unesco i comportamenti
«neocolonialisti e razzisti» di molti archeologi stranieri, che
sfruttano e maltrattano la manodopera locale. Tra gli aguzzini sarebbero
compresi anche gli Indiana Jones italiani e, in particolare, i ricercatori
dell' Università Statale di Milano. Secondo l' accusa, i sorveglianti (o
raìs) frustano gli operai quando tentano di riposarsi. Questa gente
lavora sette ore al giorno, sotto un astro cannibale (all' ombra, i gradi
sono 45), per guadagnare circa tre euro. Niente occhiali contro la polvere
e contro il sole, niente scarpe. E la sabbia nasconde scorpioni, schegge,
serpenti. Una tenda per dormire in dieci, un buco in terra come wc comune.
Poi, bastonate per chi si distrae, per chi perde tempo scaricando i
detriti. I fanatici dei «relativismi culturali» rifiuteranno di
scandalizzarsi. In fondo (diranno), il costo del lavoro è quello che è,
in Egitto. La frusta è un' usanza locale, le scarpe e gli occhiali non
sono attrezzi comuni per quella classe operaia sottomessa, abituata al
caldo, alla coabitazione e alle ancestrali scomodità. Può darsi, può
darsi. Peccato che il benessere (il decente trattamento) di questi
lavoratori dipenda da chi li ha assunti e cioè dagli squisiti
intellettuali dell' Occidente. Peccato che il severo articolo di Aristide
Malnati sia uscito sul giornale (Libero) che più d' ogni altro esalta «la
nostra superiore civiltà». Se allarghiamo lo sguardo e ci allontaniamo
dall' Egitto, siamo costretti a osservare almeno un paio di panorami
sempre uguali. In assenza di regole e di castighi, chiunque abbia facoltà
di sfruttare il prossimo esegue puntualmente questa condanna, mettendo al
primo posto il proprio guadagno. Senza andare troppo lontano vediamo che,
in Italia, si accumulano profitti assoldando con pochi euro immigrati
stagionali per opere di facchinaggio, per la raccolta di pomodori o di
carote, per i piccoli mestieri che gli italiani rifiutano. Ma li rifiutano
quando sono sottopagati, non garantiti, non assistiti. Li accetterebbero,
forse, in cambio di un equo trattamento. E allora bisogna ammettere che,
qui come in Egitto, non prevale la sete di civiltà, ma la semplice fame
di risparmi. La quale da noi (da noi!) uccide quattro lavoratori al
giorno, perché, soprattutto nei cantieri, si tagliano le spese per la
sicurezza. E poi, certo, tutti gli investimenti volano altrove, e
inseguono i costi del lavoro più bassi, nei Paesi lontani, privi di
regole fastidiose e di sindacati. Tremenda e cronica è la tentazione di
esercitare un qualsiasi potere. Non è detto che questa crudeltà
appartenga soltanto ai ceti privilegiati. Anzi: i poveri sorveglianti (raìs)
degli scavi archeologici egiziani sono certamente più inflessibili contro
i poveri operai di quanto non lo siano i professori occidentali che li
governano. Il razzismo, in Italia come altrove, è molto (molto!) raro tra
gli intellettuali e i facoltosi. Questo bubbone non è un pregiudizio, ma
(ahinoi) è proprio un giudizio. E' rarissimo, o quasi inesistente, l'
ebete che crede d' appartenere a una «razza pura». E' sempre più
frequente, invece, il comune cittadino delle periferie che (a torto o a
ragione) si sente assediato dagli immigrati, dallo spettacolo degli
agnelli sgozzati sul terrazzino, dai rumori notturni del Ramadan, dai
bimbi esotici che frenano tutta la classe perché parlano male l'
italiano, dai lavoratori che accettano bassi salari e che, dunque,
diventano «concorrenti sleali». E' triste constatarlo, ma è inutile
negarlo: soltanto i poveri rischiano di diventare razzisti. Durante il
colonialismo francese, gli africani temevano soprattutto i petits blancs,
i bianchi subalterni che erano i più arroganti e crudeli, perché la loro
condizione sociale era molto simile a quella dei neri e, quindi, potevano
ostentare soltanto il colore della pelle come segno di dominio.
Continueremo a fare quest' errore, in Egitto, a Milano, a Roma? E sarà
questa la bandiera della nostra «superiore civiltà»? |
25 marzo
Ragazzini
TOMMASO DI FRANCESCO
Il mondo che doveva
essere salvato dai ragazzini, sta diventando, davanti ai nostri occhi di
osservatori impotenti, il mondo che preferibilmente uccide proprio i bambini.
Nelle innumerevoli «piccole» guerre dimenticate le armi, troppe pesanti,
spesso sono imbracciate da mani troppo esili. E nei grandi conflitti, ferite
aperte insanabili, il bersaglio fisso resta significativamente quello. Quasi a
voler confermare che la guerra non è solo totale distruzione, ma riduzione ai
minimi termini mortali di ogni presenza vitale. Così le immagini di un
ragazzino di 14 anni - la madre denuncia addirittura che ha «problemi psichici»
- fermato con una cintura kamikaze a Nablus e pronto a farsi esplodere, sembra
voler racchiudere l'apertura di tutte le porte di tutti gli inferni. I mandanti
di questa azione criminale non possono ricorrere alla giustificazione
dell'inferno quotidiano rappresentato dell'occupazione militare israeliana dei
territori palestinesi, quell'immensa prigione per tre milioni di individui
ridotti a fare i piccioni del tiro al bersaglio dei soldati israeliani che, a
piacimento, da un governo all'altro, occupano e rioccupano in una specie di
coazione a ripetere la prepotenza militare. Lì, è vero, ogni legittimità e
diritto internazionale si sono infranti contro il muro - è il caso di dire - di
Sharon. Ma nessuna logica di pura violenza, di uso strumentale di corpi
innocenti diventati bombe umane potrà mai essere una risposta.
La rincorsa del sangue, ormai è chiaro, uccide insieme agli innocenti, le
stesse ragioni del popolo palestinese.
L'assassinio più che mirato dello sceicco Yassin appare fatto a bella posta
perché il gioco mortale dell'oca non si fermi, perché la vendetta risponda
nella «stessa misura», e il fondamentalismo rimanga l'unica arma per un popolo
intero, ora alle prese con l'ultimo annuncio provocatorio del governo
israeliano: «Adesso tocca ad Arafat». Non devono esistere vie d'uscita.
Bisogna invece dire no. E non siamo «poeti» a pensarlo, se addirittura il
nuovo leader di Hamas, Rantisi ieri - certo per escluderla «se resta
l'occupazione» - è inaspettatamente, tornato sulla «possibilità della tregua».
Ora tutti aspettiamo l'attentato. E invece sarebbe decisivo - certo incredibile,
ma auspicabile lo stesso - che ad una uccisione volutamente efferata
corrispondesse stavolta il massimo di politicità e di risposta di massa. Quel
che spaventa davvero i generali israeliani e il governo Sharon, trincerati e
pronti con il 60% di sostegno degli israeliani, a rispondere con mezzi militari
imparagonabili, non è e non sarà il kamikaze che seminerà schegge di morte
tra altri civili israeliani, uccidendo nel mucchio. A preoccupare sono invece la
mobilitazione diffusa e l'inusitato silenzio che si è sparso nelle città
palestinesi. Quel silenzio racconta che per un popolo intero la misura è colma,
quel silenzio è civile e si propone come forza d'urto reale verso i potenti
della terra ben più di una risposta militare. E chiama a mobilitazione noi.
Anche perché non c'è una risposta militare che tenga all'arroganza di Sharon,
ai suoi missili Cruise, agli Apache, ai carri armati, agli F-16.
Se la miseria palestinese spinge i giovani ad essere disponibili a far commesse
- ricordava Zvi Schuldiner solo martedì -, chiunque usi di questa disponibilità
per portare morte in campo nemico, sappia che corrisponde alla stessa violenza
dell'occupante che non ha certo lesinato a sparare coi tank su folle di
ragazzini «armati» di sassi. E' la stessa cancellazione del diritto alla vita.
Non ci sono da liberare soltanto i territori, ma i corpi e le vite dei deboli e
dei diversi, delle donne, la speranza dei giovani, la memoria degli anziani. Che
il mondo resti salvato dai ragazzini, soprattutto da quelli palestinesi.
23 marzo
IL COMMENTO
Quel che m'aveva impressionato, nei giorni scorsi, è che nessun israeliano
pronuncia più la parola pace. Le pochissime, residue speranze d'una svolta
che fermi o almeno riduca la carneficina, appaiono infatti svanite. E le
attese si sono ormai ridotte a due: l'attesa snervante delle bombe, e poi,
sugli schermi della tv, le immagini delle rappresaglie israeliane.
"Dovessi riassumere il momento psicologico in Israele", m'aveva
detto l'altro giorno il filosofo Avishai Margalit, uno dei più prestigiosi
intellettuali israeliani, "userei la parola scoramento. Oppure
disperazione. Ma non la disperazione "attiva" di cui parla Kant, che
bene o male contiene ancora una volontà, una capacità di reagire. No, qui si
tratta ormai d'una cupa rassegnazione al peggio".
Il peggio ha preso forma ieri mattina a Gaza, attorno alle 6, quando un
elicottero dell'esercito ha indirizzato tre missili sullo sceicco Ahmed Yassin,
il capo religioso e politico di Hamas, facendolo a pezzi. Con quei tre missili
il governo Sharon ha intrapreso un'"escalation" senza più freni o
cautele, di cui saranno in molti a pagare il prezzo. In Israele, nella
Palestina occupata, e forse in tutto il Medio Oriente. Il peggio, appunto, che
poteva succedere. Perché l'omicidio dello sceicco Yassin è un altro calcio
nel termitaio del terrorismo islamico, un altro fiammifero acceso di fianco
allo zolfo del fanatismo fondamentalista. L'apertura dissennata d'un altro
varco alle offensive della Jihad.
Il silenzio che gravava nelle strade di Gerusalemme ieri sera (pochissime
automobili in giro, caffè deserti, saracinesche abbassate nella parte araba
della città, famiglie riunite attorno all'apparecchio televisivo per seguire
i notiziari), era quello dei momenti di maggior tensione nella storia del
conflitto israelo-palestinese.
Ricordava le ore in cui ventun anni fa
giunsero le notizie della strage di Sabra e Shatila, o le sere successive
all'assassinio di Rabin.
Nessuno in Israele ignora, infatti, che i tre missili di Gaza provocheranno
una risposta terroristica sanguinosa. Che è una questione di giorni, forse di
ore: ma che il conto alla rovescia è già cominciato.
È vero, gran parte degli israeliani (tra cui gli autisti dei due taxi che ho
preso nel pomeriggio) sono convinti che Sharon abbia fatto bene: che con i
palestinesi si può trattare soltanto con la forza. E infatti un sondaggio di
pochi giorni fa rivelava che il 68 per cento degli intervistati era favorevole
all'eliminazione "mirata" dei leader della rivolta, "anche
quando vi viene coinvolta la popolazione civile". Mentre soltanto una
parte minoritaria, se non si deve dire elitaria, della società israeliana
pensa che l'omicidio dello sceicco Yassin sia stato un errore.
Ma c'è una cosa che gli uni e gli altri sanno bene. Sanno che a Gaza decine
di giovani bussano ogni settimana alla porta di Hamas, chiedendo che venga
loro affidata una spedizione suicida. Quelli che vengono rimandati indietro si
rifanno vivi, di nuovo imploranti, dopo pochi giorni, e di nuovo vengono
respinti. Ognuno di loro potrà essere richiamato, tuttavia, al momento
opportuno. E ormai i tempi tra il reclutamento e l'attentato si sono fatti
stretti. Il periodo di preparazione mistico-religiosa, i giorni d'isolamento
che il "martire" doveva vivere prima di farsi esplodere in una città
israeliana, sono cose dei primordi del terrorismo suicida. Adesso basta un
pomeriggio per insegnare allo shaid come s'innesca la cintura esplosiva, e
dove dovrà andare a innescarla. Poche, semplici, terribili istruzioni che nei
prossimi pomeriggi verranno impartite a una schiera di giovani aspiranti al
martirio.
Che cosa potrebbe esserci quindi, nelle strade di Gerusalemme, se non
l'ansioso silenzio di stasera? Chi può illudersi che i lunghi tratti del Muro
già eretti, i reticolati percorsi dalla corrente elettrica, i posti di blocco
dell'esercito, gli elicotteri in ricognizione riescano a fermare gli shaid e
il loro carico di odio e dinamite? Gli "omicidi mirati" dei capi
delle organizzazioni terroristiche palestinesi vanno avanti ormai da anni, ma
non hanno impedito che in questi anni centinaia d'attentati facessero scorrere
una quantità di sangue israeliano: 377 morti e più di 2000 feriti tra la
sola popolazione civile.
Del resto non erano soltanto l'Unione europea per bocca di Javier Solana, o
gli editoriali di Haaretz e della stampa liberal di mezzo mondo, o i pacifisti
israeliani, a dire che la politica della pura repressione condotta da Sharon,
"omicidi mirati" compresi, non stava servendo a niente. C'erano ben
quattro ex capi dello Shin Bet, il famoso servizio segreto - uno dei vanti
d'Israele - , che tre mesi fa l'avevano dichiarato in modo esplicito: in
assenza di qualsiasi iniziativa politica, la repressione può portare soltanto
alla catastrofe. Uno di loro, Ami Ayalin, aveva avvertito: ci sono le prove, i
numeri: più s'ammazzano i capi e più aumentano gli attentatori-suicidi.
Sinché l'altro giorno, durante la seduta del governo che ha deciso la
condanna a morte dello sceicco Yassin, non s'è alzato a parlare l'attuale
capo dei servizi, Avi Dichter. Se volete farlo, ha detto Dichter, fatelo. Ma
io sono contrario, perché i vantaggi che ne possono venire sono assai
inferiori ai guai cui andremo incontro.
Perciò è difficile capire quale calcolo abbia spinto Sharon a volere
l'eliminazione del capo di Hamas. Perché Sharon conosce gli arabi, sa sino a
che punto si sia andata islamizzando negli ultimi anni Gaza. E non poteva
quindi ignorare l'effetto sconvolgente che avrebbe avuto tra i palestinesi di
Gaza l'omicidio d'un vecchio paralitico in sedia a rotelle, all'uscita dalla
moschea dopo la preghiera del mattino. Non poteva aver trascurato che proprio
quei simboli, la vecchiaia, l'invalidità, l'uscita dalla moschea, avrebbero
reso la morte dello sceicco Yassin un evento incancellabile, gravido di nuovo
e tremendo odio, nella rivolta palestinese contro l'occupazione israeliana.
Certo, Ahmed Yassin era il responsabile della morte di centinaia d'israeliani:
nei caffè dove parlavano con gli amici, negli autobus con cui andavano al
lavoro, nelle strade mentre facevano la spesa. È stato lui a seminare Gaza e
in parte anche la Cisgiordania, di quella cultura della morte da cui sono
emersi gli shaid, i terroristi suicidi che con le loro bombe hanno modificato
per la prima volta il rapporto di forze tra occupati e occupanti, togliendo a
quest'ultimi la totale capacità di sopraffazione che avevano sempre avuto. È
stato lui a inserire nell'atto costitutivo di Hamas quella frase
impressionante: "Dio è la meta, il Profeta la guida, il Corano la
costituzione, la guerra santa indica la strada, e morire per Dio è il più
profondo, nobile desiderio".
Ma il punto che più interessa, stasera, non è la malvagità dello sceicco:
è quello della valutazione politica con cui è stata decisa la sua morte,
l'opportunità della decisione, il fatto di non aver esitato dinanzi alle
gravi conseguenze che essa non può non comportare. In due parole, quel che
Sharon aveva e ha in mente. Dove pensa di portare Israele, lui che nel gennaio
2001 s'era fatto eleggere promettendo: "Datemi cento giorni, e schiaccerò
l'Intifada".
A occhio, Ariel Sharon peserà ormai ben più d'un quintale. Il passo è
ancora energico, perché dopo una vita trascorsa più sui trattori della sua
fattoria e sui campi di battaglia che non negli uffici ministeriali, la
muscolatura dev'essergli rimasta soda. Ma con tutto quel grasso, con lo
stomaco che gli si protende enorme dalla cintola, il fiato s'è fatto corto. E
non è solo per questo, la condizione fisica d'un vecchio di 76 anni, che
Sharon dà un'impressione d'affanno. C'è altro, infatti. Il turbine di due
scandali finanziari che investe da mesi lui e i suoi figli, le indagini della
magistratura, le richieste di dimissioni che vengono dai partiti della
sinistra. E se tutto questo non bastasse, c'è il bilancio di tre anni di
governo. Fine d'ogni dialogo con i palestinesi, attentati spaventosi, crisi
economica, rovina dell'immagine d'Israele nel mondo.
Sì, questo è il punto. La difficoltà di capire a che cosa miri, cosa
intenda fare per tenere il suo paese al riparo d'altre sventure, Sharon. E la
difficoltà di capire perché la maggioranza degli israeliani continui a
dargli fiducia.
21 marzo
Bandiera mia, facciamo pace |
19 marzo
«Una
giornata per la pace»
Centinaia di migliaia di persone in arrivo a Roma per
la giornata mondiale contro la guerra di domani. Gli organizzatori: «Non avremo
nulla a che vedere con la manifestazione bipartisan del Campidoglio, chi non ha
votato per il ritiro delle truppe è avvisato». Torna in piazza la «superpotenza»
pacifista
ANGELO MASTRANDREA
ROMA
Nulla a che vedere con
il flop bipartisan di ieri al Campidoglio. Anche chi non era totalmente
contrario alla manifestazione indetta dall'Anci ieri a Roma, è convinto che
domani nella capitale andrà in scena un altro spettacolo. «Sarà un grande
fiume di popolo», annuncia il comitato Fermiamo la guerra, che non azzarda
cifre sulla partecipazione ma racconta di come dopo l'attentato di Madrid le
richieste siano addirittura triplicate «e c'è gente che protesta perché è
stata lasciata a terra», come racconta Gianfranco Benzi della Cgil. A Bologna,
per fare un esempio, il locale social forum è stato costretto a una trattativa
urgente con Trenitalia per un secondo treno speciale perché uno non sarebbe
bastato a farci entrare tutti. E anche la presenza «istituzionale» sarà di
gran lunga superiore a quella di ieri: accanto ai parlamentari del
centrosinistra e di Rifondazione che hanno votato contro il rifinanziamento
della missione in Iraq, ci saranno ben 150 gonfaloni di comuni, province e
regioni di tutta Italia. Accantonate divisioni e beghe interne, la «superpotenza»
pacifista si appresta così a tornare in piazza unitariamente per la prima volta
dal 12 aprile di un anno fa, a bombardamenti in Iraq ancora in corso. «E'
chiaro che si tratta di un corteo più difficile di quella del 15 febbraio di un
anno fa», spiega Piero Bernocchi dei Cobas, ma «credo che le cifre siano
assolutamente paragonabili ed è sicuro che questa manifestazione andrà in una
direzione opposta a quella di ieri in Campidoglio». Al di là delle cifre e
della difficile ripetibilità dei tre milioni di persone di un anno fa, per il
presidente dell'Arci Tom Benetollo sarà una «rivolta contro la cappa di piombo
che ci stanno mettendo sulla testa», mentre per il coordinatore della Tavola
della pace Flavio Lotti sarà «una manifestazione di solidarietà, di forte
protesta e di proposta». E comunque sarà solo l'inizio di una campagna per il
ritiro delle truppe dall'Iraq. «Continueremo fin quando non se ne andranno»,
continua Bernocchi, che tranquillizza sulle possibili contestazioni ai leader
del centrosinistra che sfileranno con i pacifisti: «Nessuno di noi metterà le
mani addosso a qualcun altro. Però siamo sbalorditi che esponenti politici di
rilievo che ci ritengono irresponsabili vogliano partecipare. Li invitiamo
almeno a capire che saranno in una manifestazione che dice cose contrarie alle
loro».
Critiche all'atteggiamento del centrosinistra e alla manifestazione bipartisan
di ieri anche da Giovanni Berlinguer del correntone Ds: «Ha creato una grande
confusione, perché era partita come una manifestazione dei comuni ma si è
tentato di trasformarla in una manifestazione di intese tra maggioranza e
opposizione» ed è stata strumentalizzata dalla maggioranza contro il corteo
pacifista di domani. Nel quale entrerà d'ufficio anche la guerra in Kosovo,
dove a distanza di cinque anni dai bombardamenti «umanitari» sono ripresi gli
scontri etnici. A dimostrazione, per Alfio Nicotra del Prc, che «non c'è
nessuna guerra vinta dall'Occidente in questi dieci anni che abbia portato la
pace».
Il corteo, che ufficialmente dovrebbe partire alle 14 da piazza Barberini ma
presumibilmente comincerà a espandersi nelle vie e piazze vicine fin dal primo
mattino come accade di solito in occasioni del genere, sarà aperto da un grande
patchwork delle bandiere arcobaleno firmate nelle varie tappe delle
quattro carovane della pace che hanno attraversato in lungo e largo l'Italia
negli ultimi venti giorni. «Saranno la testimonianza dell'opposizione popolare
alla guerra», dice Fabio Alberti di Un ponte per. Seguiranno i tre striscioni
del comitato organizzatore, che sintetizzeranno le parole d'ordine della
manifestazione e rimarcheranno la solidarietà con il popolo spagnolo: «Fuori
le truppe. L'Iraq agli iracheni», «No ala guerra y al terror» e «Vostre
le guerre nostre le vittime da Baghdad a Madrid e nel mondo». A seguire tutto
il resto, spezzoni organizzati, Attac e anarchici, disobbedienti e
antimperialisti, cattolici di base e pacifisti senza appartenenze, senza se e
senza ma, con l'Onu e «senza Onu».
Sul palco del Circo Massimo non ci saranno esponenti di partito, ma
interverranno solo rappresentanti della società civile che si oppone alla
guerra: Philis Bennis, rappresentante di United for peace and justice, la
coalizione statunitense che ha lanciato la mobilitazione mondiale del 20 marzo e
che chiede «un sostegno internazionale per sfidare le politiche del governo
Bush»; Jari Sheese, dell'associazione Military families speak out,
moglie di un militare riservista in Iraq; Milagros Hernandez, portavoce del
Forum sociale di Madrid; Bernarda Alima, membro della commissione giustizia e
pace del Congo; Muhammed Tanji, segretario del Movimento palestinese per la
cultura e lo sviluppo; Anat Matar del Forum dei genitori dei refusenik
israeliani. Seguiranno un messaggio del vescovo ausiliare della chiesa cattolica
caldea di Baghdad Shelemon Warduni, un ricordo della giornalista del Tg3 Ilaria
Alpi e dell'operatore Milan Hrovatin a 10 anni dal loro assassinio. Infine sarà
letta una poesia di Rachel Corrie, pacifista americana uccisa un anno fa da
militari israeliani mentre tentava di opporsi all'abbattimento di alcune
abitazioni nella striscia di Gaza.
17
marzo
Pietre
e cestini
E'arrivato in
elicottero all'ospedale San Matteo di Pavia per posare la prima pietra del nuovo
pronto soccorso. Molte pietre seguiranno di qui a giugno, la cazzuola virtuale
è uno degli strumenti preferiti da Silvio in campagna elettorale. Ha assicurato
che tra tre anni, quando il nuovo pronto soccorso sarà ultimato (??), lui sarà
ancora ben saldo al comando. Nell'ora passata a terra si è beccato del «buffone»
da due medici «specializzandi». Questa volta ha incassato con fair play. Con
gran codazzo di ministri e papaveri locali, la cerimonia si è conclusa con
tramezzini e spumantino offerti a 800 avventori nella sala mensa dell'ospedale.
9 mila euro solo per le tovaglie, tutto pagato dalla Fondazione Cariplo e dalla
Banca del Monte. Occupata la mensa da Berlusconi, duecento lavoratori del San
Matteo sono stati mandati a casa in permesso retribuito (da chi?). Gli altri
duemila, per non far torti, godranno in futuro le ore di libertà retribuita.
Ieri hanno pranzato con il cestino, come in uno studio Mediaset. L'ufficio
stampa del policlinico si è premurato di ricordare un precedente illustre: fu
Benito Mussolini a inaugurare il San Matteo. Da un cavaliere all'altro. (m. ca.)
Rai,
scontro al vertice su «Ballarò»
Dopo lo stop
alla puntata dedicata alle elezioni spagnole, la presidente Annunziata invoca
l'autonomia dei direttori di rete e accusa il direttore generale Cattaneo: «Usa
due pesi e due misure. Si vuole nascondere la sconfitta di Aznar?»
MICAELA BONGI
ROMA
Un serrato botta e risposta tra la presidente Rai Lucia
Annunziata e il direttore generale Flavio Cattaneo, con la prima che accusa il
dg di usare «due pesi e due misure» e il secondo ostinato sulla sua posizione.
Il comitato di redazione del Tg1 sconforato («è una sconfitta per tutti») e
quello del Tg3 «sconcertato». L'opposizione in rivolta e la Casa berlusconiana,
come sempre, stretta intorno al dg contro la «presidente di garanzia». La
cancellazione della puntata di Ballarò sulle elezioni spagnole imposta dal solerte Cattaneo
provoca un nuovo, duro scontro ai piani alti di viale Mazzini. E conferma la
blindatura della Rai berlusconiana. La decisione di mandare comunque in onda Ballarò
questa sera, nella sua consueta collocazione del martedì, rimandando la
puntata di Enigma su Aldo Moro saltata
venerdì scorso (per far posto a uno speciale del programma condotto da Giovanni
Floris sulle stragi di Madrid), era stata presa domenica sera dal direttore di
Raitre Paolo Ruffini. Lunedì la risposta della direzione generale: niente da
fare, si è deciso di invertire la programmazione e dunque andrà in onda Enigma,
tantopiù che era stato lo stesso Ruffini a proporre che la trasmissione
cadesse il 16 marzo, anniversario del rapimento Moro. Il direttore della terze
rete fa subito sapere di non essere d'accordo: da venerdì a oggi, argomenta,
sono accadute molte cose, è compito del servizio pubblico informare. Ieri è la
volta di Floris, il conduttore di Ballarò:
«Non capisco perché non si debba andare in onda quando l'attualità chiama in
modo evidente la necessità d'informazione». Il giornalista riferisce che era
tutto pronto per la puntata, i filmati come gli ospiti: un esponente del Psoe,
Bertinotti, Dini e pure Selva, fiero sostenitore della tesi che in Spagna, con
la vittoria dei socialisti, bin Laden ha segnato un altro punto, e ieri
amareggiato per la cancellazione della puntata. Conclude Floris: «Mi dispiace,
ma sono un dipendente Rai e obbedisco alle indicazioni dell'azienda».
La presidente è invece su tutte le furie. Prende
carta e penna e scrive a Cattaneo: «Caro direttore, mi è chiara la tua logica
impeccabile ma, come sempre, viziata da un formalismo che non fa i conti né con
i contenuti né con i doppi standard che sono la regola sotto la tua direzione».
Annunziata ricorda il «clamoroso sviluppo delle vicende spagnole imprevisto
venerdì»; domanda se l'autonomia dei direttori di rete esista o meno; cita,
indirettamente, l'esempio del direttore di Raidue, Marano, che ha mandato in
onda Belli per sempre (la risposta a Bisturi)
nonostante la contrarietà del dg. Insomma: «Il solito metodo Cattaneo: due
pesi e due misure. Al di sotto del quale - conclude Annunziata - c'è un'unica
paura: che a Ballarò si celebri forse
la caduta di Aznar?».
Poi Annunziata risponde anche al portavoce del
premier Paolo Bonaiuti, che lunedì - mentre Berlusconi taceva sulla vittoria di
Zapatero - non aveva trovato di meglio da fare che sostenere, sulla base delle
ospitate da Vespa, che Rutelli e Fassino occupano la Rai. A Bonaiuti Annunziata
risponde con i dati dell'Osservatorio di Pavia che smentiscono le affermazioni
del sottosegretario alla presidenza del consiglio. Da viale Mazzini parte subito
la nota per dire che i numeri illustrati da Annunziata sono «parziali». E
Cattaneo ingaggia un match epistolare
con la presidente: ricorda che lunedì le reti Rai si sono occupate della Spagna
(basta cosi?), esalta la logica del servizio pubblico alla quale si ascriverebbe
la decisione di mandare in onda Enigma nel giorno dell'anniversario del «delitto Moro» (in realtà
ieri è stato l'anniversario del rapimento) dubitando del fatto che «il
presidente» si fosse «reso conto di questa coincidenza di date». E si
prosegue con questo tono, con Annunziata che sottolinea come gli approfondimenti
su temi diversi non debbano necessariamente elidersi, ricorda di aver seguito da
giornalista «la dolorosa vicenda del sequestro», e Cattaneo che ribatte sì,
«lo so perfettamente, lei ha seguito la strage di via Fani e il rapimento come
giornalista del manifesto», il che
per il dg evidentemente la dice lunga.
Lo scontro va avanti, ma il risultato non cambia.
Niente Ballarò, sordina sul voto
spagnolo e il ministro Gasparri pronto a esprimere la posizione del governo: «Se
una puntata va in onda in un giorno e non in un altro non mi pare un problema».
TELEVISIONE
Spagna,
i terroristi della Rai
NORMA RANGERI
Alla Rai di Berlusconi le scelte elettorali degli
spagnoli non sono mai piaciute. Quando, lo scorso maggio, il popolare Aznar
prese la prima botta dai socialisti (si trattava di un test amministrativo), il Tg1
relegò la notizia all'ultimo posto, dopo una partita di coppa dei campioni.
Oggi, davanti al rovesciamento di fronte della politica spagnola, quegli stessi
tg (che non possono minimizzare lo storico capovolgimento) sposano la tesi di
Gustavo Selva sgolandosi per convincere il pubblico della tv che a Madrid ha
vinto bin Laden. E' la tesi che rimbalza, infiocchettata, negli approfondimenti
serali. Si va da un tranquillo «stalinisti di ieri e di oggi» a un allusivo «per
chi ha votato bin Laden» (Socci, Raidue), e si prosegue con Vespa in un ideale
passaggio del testimone. Ammesso (e non concesso) che la decisione del direttore
generale, Cattaneo, di sospendere Ballarò,
per far posto all'anniversario del rapimento Moro, fosse giustificata, tuttavia
di fronte alla serata-bin Laden di lunedì, costruita sull'equivalenza «voto ai
socialisti, voto ai terroristi», sarebbe stato doveroso ristabilire la
par-condicio lasciando spazio a una serata-Zapatero. Anche per disintossicare il
teleutente dai monopolisti delle opinioni, arrivati al punto di rifilarci il
direttore del Giornale sia da Socci che da Vespa (non c'è più limite).
Questi sono i giornalisti preferiti dal cavaliere e
si danno un gran da fare per dimostrarlo, con scarso successo Socci (lui e la tv
sono un ossimoro), con maggiore seguito Vespa. Dalle 21 all'una di notte, i due
hanno versato fiumi di propaganda nell'etere pubblico, affidato alla solita
compagnia di Arcore. Dal tuttologo Rainvest, Giampiero Mughini, figura tipica
dell'intellettuale a gettone, a un giornalista del Foglio, all'obiettivo notista de La
Stampa («Aznar ha inviato in Iraq un
contingente di pace»), al berlusconiano avvocato Taormina, a uno scrittore
russo, fiero anticomunista. La transfuga Mussolini e il sottosegretario
Mantovano riequilibravano appena il monocolore di Forza Italia. Dei tre
esponenti del centrosinistra (per divertirsi ci vuole sempre un spalla) uno (Di
Pietro) lasciava lo studio dopo un quarto d'ora, stanco di quella gazzarra
infernale, gli altri due (Intini e Rizzo) rimanevano a fare da alibi alla
sceneggiata.
Stabilito che in Spagna ha vinto il terrorismo, ora
vogliamo dargliela vinta anche in Iraq ritirando le truppe? Tocca al ministro
Martino prendersela con Rutelli («lei racconta balle»), mentre l'esperto Magdi
Allam, offre esempi di equidistanza («la sconfitta di Bush è la sconfitta del
mondo libero»). Su tutti vigila il conduttore di Porta a Porta, generoso
nel dispensare le personali confidenze del presidente del consiglio: «Berlusconi
mi ha spiegato, ripetutamente, quanto avesse cercato di convincere Bush a non
fare la guerra». Vogliamo dubitare? «Certe cose Berlusconi le raccontava alle
mamme», scherza Rutelli. Allora mamma Vespa chiama in soccorso Sergio Romano,
ma non basta, bisogna fare di più. Quando il presidente della Margherita
auspica il rafforzamento delle misure di sicurezza, anche spendendo di più, il
nostro tenta lo sgambetto («tagliando dove?») e cade («per esempio
reintroducendo la tassa di successione»).
La presidente della Rai continuerà a scrivere
lettere di protesta e i berlusconiani a rifilarci seratine come questa.
16 marzo
Più
fiducia
ROSSANA ROSSANDA
Il risultato delle
elezioni legislative spagnole ha preso tutti di contropiede. Non parliamo della
miserevole Rai, incapace di proporre delle finestre in tempo reale,
semplicemente ascoltando le antenne spagnole, per non dare un dispiacere a
Berlusconi. Parliamo dello stupore, anche nostro, nel vedere che un paese,
colpito orribilmente tre giorni prima, invece che ripiegare in un riflesso
d'ordine, ha fatto un secco ragionamento: ci colpiscono perché il governo ci ha
cacciato in guerra contro l'Iraq, una guerra che l'85 per cento di noi non
voleva, e dopo averci tirato addosso la Jihad, per tre giorni ha cercato di
imbrogliarci sugli autori dell'attentato. E questo governo ha spazzato via.
Neppure noi pensavamo più che l'opinione, per quanto avvelenata dai governi e
dalle tv reagisse con tanta lucidità e decisione. Dobbiamo dare più fiducia
alle nostre stesse ragioni. I voti che Aznar ha perduto sono andati al Partito
socialista spagnolo, che senza la sua opposizione alla guerra difficilmente li
avrebbe presi; la Spagna non aveva perdonato ai socialisti di Gonzales la
corruzione, le illegalità, la debolezza, le speranze bruciate. Ma non ha
ragionato in termini di politica piccola: primo, non restare nelle mani d'un
presidente del consiglio bellicista e imbroglione. Dovrebbero pensarci bene
anche gli italiani alle prossime tornate elettorali. Quanto al Psoe, dovrà
gestire ora una situazione non facile senza ripetere gli errori del passato. Ma
una cosa ha sicuramente capito, ha segnato subito una discontinuità con le
scelte di politica estera del governo Aznar.
E' un risultato che scompagina quella che pareva la tendenza europea. A destra
era andata la Francia, a destra è andata qualche settimana fa la Grecia, a
destra alcune elezioni parziali ma significative in Germania. Ma non è più così
certo che andrà così: per quanto infuriati siano i cittadini da politiche
economiche miopi e restrittive, che lungi dal sollecitare una ripresa la rendono
ancora meno probabile, la scelta fondamentale torna a essere la questione della
pace e della guerra. E se si votasse domani nessuno giurerebbe sulla tenuta né
di Berlusconi né di Blair. E non ci si dica come già qualcuno tenta: non
possiamo permettere che sia il terrorismo a decidere della nostra sorte. La
semplice verità è che questo terrorismo islamista non può essere vinto sul
piano militare perché è una rete nascosta, sicuramente articolata, potente nei
mezzi, e che usa una massa di umiliazioni e sofferenze dell'enorme settore
mediorientale. Bush e i suoi torpidi alleati hanno evocato questo fantasma, del
quale nulla sapevano e lo hanno moltiplicato. Ed è vero che è un fantasma
feroce, lo ammette, si vanta della sua tradizione di morte data e ricevuta, è
deciso a vendicarsi. Oggi ancora un ritiro da quell'Iraq bruciante e una
soluzione giusta per i palestinesi e Israele potrebbe fermarli, facendogli
mancare l'acqua in cui nuota. Domani non è detto che sarà ancora così.
Scegliere la pace è insomma la sola realpolitik. Essa esige non più «intelligence»
ma più intelligenza; esige di capire dove si sono messi brutalmente i piedi, di
sanare almeno alcune delle più clamorose ferite, di sradicare il terrorismo in
senso proprio, separandolo cioè dalle sofferenze che gli permettono di
estendersi. Insomma smettere con l'attuale ottusità dell'Occidente sommata alla
secolare voglia di rapina che gli è propria. Questo il modesto Psoe lo aveva
capito. Non pare che ci arrivino da noi Piero Fassino e la Margherita, che si
perdono in gesticolazioni a uso interno - come è stato il balletto del voto non
voto alle Camere - e sono tentati di prendere a braccetto Berlusconi per uno
show di giovedì a favore dei neoconservatori. Prodi, che dell'Europa capisce
probabilmente qualcosa più di loro, dovrebbe suggerirgli di lasciare Berlusconi
nella palude in cui è già sprofondato Aznar, e mettercela tutta perché sabato
20 il paese pacifico e ragionante che manifesterà a Roma li senta accanto a sé.
Meglio tardi che mai.
11
marzo
E'
sciopero generale
I delegati di Cgil, Cisl, Uil decidono la data: 26
marzo. Saranno 4 ore per tutti i settori, ma scuola, università e Poste
raddoppiano, 8 ore. Tutta la giornata anche per il Lazio e la Sicilia.
Berlusconi: «Pronti a incontrare i sindacati, ma la riforma delle pensioni
andrà avanti»
PAOLO ANDRUCCIOLI
Le quattro ore di sciopero generale decise ieri dall'assemblea nazionale dei
delegati per il 26 marzo prossimo diventeranno otto per la scuola, per le Poste
e per tutti i lavoratori della regione Lazio e della Sicilia. Per gli altri
settori saranno le varie strutture territoriali del sindacato a decidere la
collocazione oraria delle 4 ore di blocco. Il 26 marzo si fermeranno anche i
trasporti aerei, ferroviari e marittimi, compreso il trasporto pubblico;
rimarranno fermi quattro ore anche i lavoratori delle attività portuali, delle
autostrade e dell'Anas; scioperano anche i lavoratori del credito e della
riscossione tributi. La decisione formale dello sciopero è stata presa nel
corso di un'assemblea nazionale molto partecipata (erano più di cinquemila i
delegati e gli ospiti). Alta anche la tensione per un tipo di assise unitaria
che era diventata un'anomalia per le profonde fratture fra i tre sindacati. Per
una strana coincidenza, la prima assemblea unitaria dopo il Patto per l'Italia e
i tanti accordi separati, si è tenuta proprio all'Eur, dove nel 1978 ci fu la
famosa «svolta», che diede avvio alla lunga stagione della moderazione
salariale. Una coincidenza ricordata anche ieri dal delegato che ha dato il via
all'assemblea. Tutt'altra scena oggi, con il sindacato che tenta di rimettere
insieme i cocci dell'unità per fronteggiare un governo liberista che ha
sbagliato completamente la sua ricetta e ha anche tradito le promesse. Lo hanno
detto con chiarezza ieri, sia il segretario generale della Cisl, Savino Pezzotta,
sia quello della Uil, Luigi Angeletti, i due sindacalisti che hanno sottoscritto
il Patto per l'Italia. Pezzotta ha parlato di promesse non mantenute e della
necessità di rilanciare la politica economica. Secondo Angeletti, quella del
governo è una ricetta completamente sbagliata del governo per rilanciare
l'economia: i tagli alla spesa sociale e le privatizzazioni.
«Bisogna cambiare l'agenda e le priorità», hanno ribadito tutti e tre i
segretari generali. «Abbiamo il dovere - ha detto il segretario generale della
Cgil, Guglielmo Epifani nella relazione d'apertura - di mettere la nostra forza,
la rappresentanza dei nostri interessi, i nostri valori di solidarietà e
giustizia sociale, al servizio di una strategia alta e non rinviabile: arrestare
il declino del paese». La preoccupazione per ciò che sta succedendo è emersa
ieri con nettezza dagli inteventi dei segretari generali, ma anche da quelli dei
sei delegati di base che hanno parlato nel corso della mattinata. Dall'Alitalia
(ha parlato il delegato Lucio Fiore), al settore tessile (Carminati Simonetta),
passando per un'azienda della Parmalat in Sicilia (Caterina Provenza) e per la
Montefibre di Acerra (Mimmo Beneduce), per finire poi con una insegnante
precaria a Milano da 23 anni (Maria Pia Cardamone) e per una rappresentante dei
pensionati romani di Testaccio (Sonia Montanari), è stata ieri scattata in
diretta una fotografia dell'Italia delle tante crisi industriali e della
precarizzazione delle forme di lavoro in tutti i settori. C'è ormai la prova
evidente che il mercato non sa «autoregolarsi» e che le privatizzazioni non
sono state affatto il toccasana che in molti in questi anni hanno voluto
spacciare per risolutivo. «Ci vuole una svolta radicale di politica economica -
ha detto Epifani - l'obiettivo fondamentale deve tornare a essere la crescita
degli investimenti, di quelli privati e di quelli pubblici». E' sicuro però
che abbiamo più bisogno soprattutto degli investimenti pubblici, come d'altra
parte fanno oggi tutti i paesi, sia avanzati, sia in via di sviluppo. Ci vuole
insomma - è la conclusione dei discorsi dei tre segretari - non solo una nuova
politica keynesiana, «ma qualcosa di diverso e ancora più ambizioso. Ci vuole
un intervento paragonabile a quello della ricostruzione dopo la seconda guerra
mondiale.
Su queste basi i sindacati rilanciano dunque la mobilitazione che non si
fermerà il 26. Per il 3 aprile è infatti prevista già una grande
manifestazione dei pensionati a Roma. Dopo la dichiarazioni di sciopero è stato
subito un fiorire di dichiarazioni, da quella del premier a «Porta a Porta», a
quelle di Fini e Maroni. In particolare è Fini che cerca di cogliere al volo la
frase di Pezzotta: su queste nostre proposte vogliamo riaprire il confronto con
il governo. Per accettare il confronto, il governo dovrebbe però buttare alle
ortiche tutte le sue politiche, a partire ovviamente dalla delega sulle
pensioni. Non sembra questa l'aria.
10 marzo
Chi svuota le culle
IDA
DOMINIJANNI
Nel
lontano dicembre del 1997 la rivista Via
Dogana, bimestrale della Libreria delle donne di Milano, pubblicò un
fascicolo dedicato alla diminuzione delle nascite. Si intitolava «Culle
semivuote» e nel sottotitolo, con l'onestà talvolta spietata che caratterizza
lo stile autocoscienziale, si chiedeva e chiedeva alle lettrici: «Che cosa ci
sta capitando?», ovvero: per quali ragioni mettiamo al mondo sempre meno figli?
Le risposte spaziavano dall'economia alla psicoanalisi, e ai primi posti non
mettevano la mancanza di soldi e servizi bensì la crisi del patto (patriarcale)
fra i sessi che per secoli ha sostenuto la riproduzione nelle società
occidentali, la libertà guadagnata dalle donne che ne orienta le scelte su
strategie di vita diverse da quella della maternità, la crisi del desiderio
sessuale intervenuta negli uomini per reazione alla libertà femminile suddetta,
la generale crisi di senso che non predispone più le nostre società
all'accoglienza della nascita (né all'elaborazione della morte), la
trasformazione della famiglia tradizionale in nuclei monoparentali o di single,
l'espropriazione dell'autorità materna a opera delle schiere di esperti che
infestano quotidianamente tribunali, scuole, convegni e talk show.
Oggi
il presidente Ciampi si pone la stessa preoccupata domanda e fornisce un'unica
risposta: culle vuote perché mancano gli asili nido, mancano gli orari
flessibili, mancano i mariti disposti ad aiutare in casa, manca tutto ciò che
potrebbe e dovrebbe aiutare le donne, pardon le mamme, a conciliare famiglia e
lavoro. Non che tutto questo non manchi, per carità. Ma «che cosa ci sta
capitando», perché dall'alto del Colle e con gran consenso di firme (tutte
maschili) sui giornali la festa della donna si trasformi senza parere in festa
della mamma, e tutte veniamo precipitate all'improvviso in una rappresentazione
della condizione femminile in perfetto stile anni Cinquanta? Con la differenza
che negli anni Cinquanta, tempi di baby boom, c'era il miracolo economico, uno
stato sociale in costruzione, e a chiedere gli asili nido era l'Unione donne
italiane. Adesso invece c'è il declino (che qualcosa con la denatalità
c'entrerà pure, ma Ciampi deplora la retorica del declino), uno stato sociale
disfatto, gli asili nido continuano a mancare (e non sono mai stati abbondanti),
e a chiederli, non si sa a chi se non a se stessi, sono gli stessi uomini
politici che hanno fatto l'Italia per decenni, o altri che la fanno oggi in
continuità con una genealogia di governo tutta maschile, ma rivolgendosi alle
donne perché in qualche modo facciano quadrare il cerchio della vita associata.
Chi ha costruito l'Italia com'è? Chi ha costruito, e poi smontato, uno stato
sociale che anche nei suoi momenti di gloria ha sempre fatto leva sul doppio e
triplo lavoro femminile? Chi ha inventato un sistema della flessibilità
misurato sulle esigenze di libertà non delle donne ma delle imprese? Chi
consente che si ricominci a licenziare le lavoratrici in gravidanza? Chi ha
approvato o lasciato approvare una legge come quella contro
la procreazione assistita? E perché oggi toccherebbe di nuovo alle donne
far quadrare i conti dell'euro e quelli delle nascite?
Mai si era visto, negli
ultimi decenni, un 8 marzo così piatto e omologato, nei contenuti e nelle
forme, nelle bandierine di destra e in quelle di sinistra che ci si piantano
sopra. Dicono gli studi di mercato che la festa declina (anch'essa), le mimose
scarseggiano, gli inviti a cena languono e di regali non se ne parla e meno
male: stava diventando una delle tante saghe del consumo che costellano il
calendario. In compenso non declina la saga della ripetizione politica e
mediatica. Di leader in leader, di giornale in giornale, di televisione in
televisione, suona ovunque la stessa musica: le donne sono sempre più
protagoniste della vita sociale, studiano più degli uomini (e non è poco, in
tempi di analfabetismo di ritorno dell'intero paese), lavorano meglio degli
uomini, invadono arti, mestieri e professioni; ma non sfondano nei luoghi della
decisione, non sono deputate e non sono senatrici, non siedono nei consigli
d'amministrazione, non dirigono i giornali (fatto salvo il
manifesto, puntualizziamo con l'Unità
di ieri). E giù i rimedi: un bonus a destra un servizio sociale a sinistra, e
quote a spiovere, il 30% di candidate alle europee, anzi il 50% nella lista
Prodi, e poi si vedrà alle amministrative e alle politiche. In tempi di
femminilizzazione della società, l'elettorato femminile va blandito, con
ricette spacciate per nuove ma in realtà già sventolate, millantate, promesse
e fallite altre volte. Non solo per la malafede o la misoginia maschile. Ma
perché non fanno i conti col desiderio femminile, anche quando vengono portate
avanti da quel ceto femminile burocratizzato che detta legge nelle commissioni
per le pari opportunità. E il desiderio femminile perlopiù non si attacca al
potere e non lo considera l'unica misura del mondo. Non ama i santuari della
politica, finché sono quello che sono, e preferisce costruire sfera pubblica
altrove e altrimenti.
Non è l'unico
imbroglio in circolazione. A chi si allarma preoccupato, anche legittimamente
preoccupato, per il calo di natalità, bisognerebbe ricordare che nel mondo
globale non è su scala nazionale che si misura la crescita futura dell'umanità,
e che forse converrebbe guardare con favore ai e alle migranti non solo quando
servono a riempire caselle vuote del mercato del lavoro. A chi in occasione
dell'8 marzo rispolvera il metro recriminatorio della parità incompiuta, dei
servizi inesistenti e del potere insufficiente per leggere i grafici di casa
nostra, bisognerebbe ricordare di non ribaltare questo lamento in vanagloria dei
diritti occidentali quando tranciano giudizi sul velo o muovono guerra al burqa.
A chi, da destra e da sinistra, in prossimità delle elezioni si sporge tanto a
parlare di donne, bisognerebbe chiedere di riflettere un poco su di sé. Dice il
presidente Ciampi che una società con poche madri e pochi figli è destinata a
scomparire, e ha ragione. Ma anche una società popolata di uomini col velo, a
copertura del sé pubblico e privato, non è destinata a vivere e a riprodursi
felicemente.
9
marzo
I giudici: "Una
corruzione devastante per la democrazia
L'azienda di Silvio Berlusconi aveva interesse nell'affare"
Sme,
depositate le motivazioni
'Previti corrompeva per Fininvest'
"Squillante pagava gli altri
colleghi. Nessuna prova contro Verde"
MILANO
- Quello che è accaduto nella vicenda della vendita della Sme è stato
"devastante per il sistema democratico" perché i giudici hanno
venduto la loro imparzialità dietro un corrispettivo. E in questo la Fininvest
di Silvio Berlusconi aveva interesse. E Cesare Previti, avvocato dell'azienda,
era il "corruttore" e il giudice Renato Squillante era "il
corrotto messosi a disposizione per favorire l'interesse di una parte, (la
Finivest o comunque società collegate o partecipate)".
Inoltre Squillante aveva "lo specifico incarico" di pagare gli altri
colleghi giudici, le dichiarazioni di Stefania Ariosto, il teste Omega, erano
attendibili perché hanno trovato riscontri e il giudice Filippo Verde non è
stato corrotto perché non vi è alcuna prova che dimostri il contrario.
Sono questi i punti principali che tengono in piedi la struttura della sentenza
del processo Sme con cui il 22 novembre scorso, i giudici della prima sezione
penale del tribunale di Milano hanno, tra l'altro, condannato Cesare Previti a 5
anni di reclusione, Attilio Pacifico a 4 anni, Squillante a 8 anni e hanno
assolto Verde. E' quanto si legge nelle motivazioni che sono state depositate
stamani. Oltre 200 pagine, redatte dal presidente del collegio Luisa Ponti per
spiegare il perché di quelle condanne e di quelle assoluzioni e per bollare
quel sistema di corruzione di magistrati come "devastante per il sitema
democratico".
I giudici si concentrano sul rapporto tra Previti, Pacifico e Squillante.
"E il rapporto sia personale sia soprattutto economico tra questi tre
soggetti - si legge - ancora in essere e vivace a fine 1995-primi 1996, compreso
l'aspetto del versamento di somme consistenti di denaro, pervenute su uno dei
conti esteri di Squillante, è quanto emerso anche da risultanze
obiettive".
Squillante.
"Se Squillante assolveva in specifico l'incarico di pagatore nei confronti
di altri colleghi, non poteva che essere lui stesso il collegamento tra gli
erogatori e gli altri magistrati cui proporre - se avessero accettato a loro
volta - di farsi comprare; o anche solo nei cui confronti attuare un intervento
o comunque una indebita ingerenza". La posizione dell'ex capo dei Gip di
Roma è la più grave, si legge nelle motivazioni. Non solo vendeva la sua
funzione "dietro corrispettivo", ma era anche il collettore degli
altri atti di corruzione. "La dazione di denaro - si legge nelle
motivazioni - è l'ulteriore elemento determinante in tale contesto di accordo
corruttivo in quanto non ha altro significato in via logica che quello della
remunerazione promessa in adempimento dell'accordo corruttivo: e tale valenza
esclusiva fa sì che inconsistenti siano i rilievi secondo cui l'accusa non
avrebbe adempiuto l'obbligo di provare la correlazione tra patto corruttivo e
ricezione o versamento (a seconda che si tratti del corrotto o dei
corruttori)".
"Corruzione devastante".
Riferendosi alla responsabilità dei tre imputati condannati per corruzione,
Luisa Ponti afferma tra l'altro: "La corruzione di un magistrato, che per
denaro o per altra utilità sottomette il proprio dovere di imparzialità e
terzietà agli interessi di parte che agitano il piano processuale, è
devastante (...) per lo stesso sistema democratico stabilito, in cui il valore
essenziale della giurisdizione è proprio quello dell'autonomia ed imparzialità
del giudice".
La Fininvest. Scrivono i giudici:
"Silvio Berlusconi ha anche detto che lui non aveva alcun interesse nella
vicenda giudiziaria, dopo aver ottenuto, in sostanza, attraverso l'offerta poi
formalizzata Iar, che il ministro delle Partecipazioni statali bloccasse
l'esecuzione delle intese intervenute tra De Benedetti e Prodi. Ma sta di fatto
che la Iar, di cui era azionista la Fininvest insieme a Barilla, è intervenuta
in tutti i gradi del giudizio". "Non si può dire quindi a maggior
ragione - è la conclusione - che la Fininvest non avesse interesse alla vicenda
giudiziaria originariamente attivata da Buitoni; vicenda di cui ebbe modo di
occuparsi certamente Previti (che era il legale di riferimento per tutte le
cause Fininvest a Roma)".
Verde. "Non c'è prova, in
questo contesto dibattimentale che possa collegare l'asserita ricezione della
somma di almeno 200 milioni a un previo accordo di messa a disposizione
aprioristica da parte di Verde della propria funzione giudiziaria a favore di
Previti che nella specie avrebbe agito per conto della Iar". Così si
spiega come alla base della sentenza con cui il giudice Verde diede torto a
Carlo De Benedetti nella vicenda del mancato acquisto dall'Iri della Sme, non ci
fosse corruzione.
3
Marzo
In vece
Un importante leader politico ha dichiarato ieri di essere
anticomunista da sempre e ha proposto una riforma della giustizia che entusiasma
la destra. Pensavate fosse Berlusconi, in vece è Rutelli. (jena)
1^ Marzo
Il
grande orecchio
GIULIETTO
CHIESA
Taci. L'amico ti ascolta! Il governo di quel tale che
avrebbe dovuto guidare il centro-sinistra mondiale, è di nuovo nei guai per
l'Iraq. Il suo ex ministro Claire Short gli ha messo tra le gambe la notizia che
i servizi segreti britannici e americani avevano riempito di «pulci»
nientemeno che il segretario generale dell'Onu, Kofi Annan. Tony non smentisce e
non conferma, perché - dice - non può. Ma non può nemmeno chiamare in
giudizio la signora Short. Troppo rischioso, mica è la Bbc. E poi il suo
governo poche ore prima aveva lasciato cadere l'accusa contro miss Khatarine Gun.
La quale aveva rivelato, via fax al The London Observer, che i servizi
segreti statunitensi ordinarono a quelli britannici di spiare, per conto loro,
un certo numero di diplomatici stranieri delle Nazioni unite. Perché? Per Kofi
Annan come per la storia rivelata da miss Gun, si trattava semplicemente di
raccogliere quello che i russi chiamano «kompromat», materiali compromettenti.
Si voleva sapere, probabilmente tutto della loro vita, anche privata, in modo
tale da poter influenzare i loro comportamenti nel consiglio di sicurezza sulla
faccenda della guerra irachena.
Per la precisione, oltre al segretario generale, gli oggetti di tante cure erano
i diplomatici dei «paesi di mezzo» del consiglio di sicurezza - Angola,
Bulgaria, Camerun, Cile, Guinea, Pakistan - quelli che sarebbero stati decisivi
per raggiungere la maggioranza dei voti, e così costringere la Francia e la
Russia a cedere, o a usare il diritto di veto, o a rimanere isolati.
Scopriamo così che Blair e Bush stavano compromettendo l'intero processo
democratico delle Nazioni unite, torcevano il braccio a paesi sovrani, agivano
al di fuori delle leggi internazionali per preparare un atto a sua volta
illegale. E forse è solo un piccolo spaccato di un agire gangsteristico che
pare essere diventato la norma.
Che quella guerra fosse, sotto ogni profilo, illegale. Che si trattasse di
aggressione premeditata senza motivi, o per futili motivi, come la pretesa di
esportare laggiù la democrazia americana lo sappiamo da tempo. Adesso sappiamo
di più: che quei lestofanti non solo hanno massacrato migliaia di civili e
qualche decina di migliaia di militari (che sono persone anche loro) iracheni,
ma hanno attentato e stanno attentando alle nostre libertà democratiche. Perché
sarebbe da ingenui pensare che i vari Echelon in funzione da tempo si occupino
soltanto di diplomatici del Camerun, una tantum. Se sono andati così in alto da
toccare Kofi Annan, chi altri potrebbero risparmiare?
Si occupano, evidentemente, di tutti i politici che possono prendere decisioni
che riguardano, direttamente o indirettamente, «gli interessi nazionali degli
Stati uniti d'America».
Quindi è d'obbligo un avvertimento a tutti. Usate poco le comunicazioni
elettroniche e fate come si faceva a Mosca ai bei tempi del socialismo reale
sovietico. Cioè, se dovete dire qualche cosa a qualcuno/a, invitatela/o a fare
una passeggiata nella via più rumorosa della città.
Così vorrei chiedere a quelli che non hanno votato per il ritiro dei nostri da
Nassiriya, ma come si fa a stare laggiù in quella compagnia? Non vi accorgete
che in questo modo, dimostrate - tra l'altro - un solenne disprezzo per
l'intelligenza degli iracheni? Non vi passa per l'anticamera del cervello che
loro ci percepiscono laggiù esattamente per quello che Berlusconi e Bush hanno
voluto che fossimo? Cioè degli aggressori?
Non vi viene voglia, una volta ogni tanto, di fare qualche cosa neanche «di
sinistra» (perché quelli che vi chiedono di votare no sono molti di più di
quelli «di sinistra»), ma semplicemente qualche cosa che indichi che siete
attenti ai sentimenti di una parte preponderante del vostro stesso elettorato?