Archivio Marzo 2004

 

30 marzo

Rischi
Finché vince la sinistra spagnola, passi. Finché vince quella francese, passi. Ma con l'aria che tira, qui rischiamo che vince pure la sinistra italiana. (jena)

Sindrome francese
ROSSANA ROSSANDA
Alle elezioni regionali in Francia la sinistra plurale, che era stata messa a terra nelle ultime legislative, ha sfondato: si è conquistata il governo di 21 regioni su 22 - sola eccezione l'Alsazia - cosa che non era mai avvenuta nell'esagono. E' cambiato il vento, dicono i commentatori italiani, presi di contropiede. Fino a un mese fa spirava a favore della destra, adesso spira a favore della sinistra. Ma questa interpretazione atmosferica è un po' sciocca. Se è vero che l'elettorato è diventato più nervoso, che è finita l'epoca in cui da una elezione all'altra era tanto se i protagonisti della scena politica cambiavano due o tre punti, perché ciascuno di loro aveva un legame ormai perduto con una sua base sicura, un'osservazione appena un poco attenta dice che nella vecchia Europa il vento non cambia affatto: qualunque governo va a picco se entra in guerra dietro agli Stati Uniti e se insiste nella demolizione dello stato sociale, partita duramente iniziata ma nel nostro continente non ancora chiusa. Se è la destra che va in guerra e fa una politica puramente monetaria, antinflazionista, tutta di tagli alla spesa sociale, un agglomerato di sinistra al primo appuntamento la farà cadere. Lo stesso agglomerato farà cadere il governo di sinistra se crede di poter percorrere quella stessa strada. E' una lezione che Massimo D'Alema dovrebbe meditare. I governi di sinistra che hanno tentato di cavalcare una «modernizzazione» moderata - prima Gonzales in Spagna, poi il governo Jospin in Francia e il centrosinistra in Italia - sono caduti come birilli. E Schroeder è in difficoltà, e anche Blair.

Con la questione sociale non si scherza. In Francia la delusione era stata così amara e furente che perfino buona parte dei lavoratori erano giunti a votare per protesta l'estrema destra. Jospin era una brava persona, ma sull'occupazione e il welfare aveva ceduto ai dettami europei e alla linea sciagurata dell'Internazionale socialista. Raffarin, seguendo politiche analoghe, è sceso in breve tempo al 37 per cento.

Ha ammesso la sconfitta, perché non s'è sognato di addizionare al suo 37 e qualcosa per cento il 12 e qualcosa per cento di Le Pen, che la borghesia francese non ha sdoganato né in sede nazionale né in quella locale. Mentre in Italia Berlusconi, Fini e il casto Follini non mettono paletti a destra, inglobano tutto, inseguono e lusingano fin la peggiore canaglia populista. Non è una differenza da poco. Per questo motivo in Francia le sinistre della Lega comunista di Krivine e di Lotta operaia di Arlette Larguiller, nonché una parte degli astensionisti, sanno di non rischiare granché, contando che la stessa odiata classe dirigente borghese esclude per principio la propria ala estrema. Lo «spirito repubblicano» non è uno scherzo. Il governo Raffarin non ha reagito col berlusconiano «tirerò dritto» e non ha accusato complotti comunisti. Ha incassato il colpo e dovrà, come minimo, andare a un rimpasto. Per lo stesso presidente Chirac è un guaio serio.

La sinistra plurale, vittoriosa, dovrà ricordare bene che le è stata offerta una seconda occasione, nella quale deve dare risposta alla questione che a qualunque sinistra si presenta dappertutto: non deve dire di sì alla guerra - ma questo in Francia nessuno glielo chiede - e non può consegnare l'occupazione, i diritti del lavoro, la previdenza, la sanità, la scuola e la ricerca al mercato, alla competitività, ai parametri di Maastricht e al Patto di stabilità. Non lo può fare perché sarebbe rovesciata di nuovo, e stavolta in modo da non potersi risollevare per un pezzo. Questo vale anche per Zapatero che ha vinto e per Schroeder che rischia di perdere di brutto. La Carta europea non la aiuterà: deve modificarla nei fatti e con i rapporti di forza che oggi sono mutati a suo favore. La democrazia è logorata e l'alternanza non avrà più nulla di meccanico.




 GIORNALISTI
La 7, sciopero e proteste
La Federazione nazionale della stampa e l'Associazione stampa romana denunciano il «grave comportamento dei dirigenti della 7 che hanno impedito l'attuazione dello sciopero dei giornalisti nella forma dell'astensione dalle prestazioni audio-video» annunciato per ieri contro i tagli previsti dall'editore. La Fnsi e l'Asr si riservano azioni in tutte le sedi «per difendere i diritti del sindacato e dei giornalisti radiotv da sempre rispettosi delle leggi e dell'interesse dei cittadini a essere correttamente informati». Il comitato di redazione della 7, anche in relazione al comunicato del sindacato dei giornalisti, conferma lo sciopero audio-video per oggi e definisce «gravissimo» il comportamento dell'azienda e della direzione che ha impedito la realizzazione delle finestre informative. Solidarietà ai giornalisti dell'emittente anche dall'Usigrai, il sindacato dei giornalisti Rai, e dall'associazione Articolo 21.
 

 

29 marzo

IL COMMENTO
Una ricetta per vivere peggio
di LUCIANO GALLINO

CON LA proposta di sopprimere alcune festività al fine di rilanciare la produzione il presidente del Consiglio dimostra di essere un fine economista; ovvero di essere, in tema di economia, ben consigliato. Un ponte in meno, ha detto, produce un incremento sensibile sul prodotto nazionale. Non c'è dubbio che le cifre gli diano ragione. Il Pil viene prodotto con poco più di 200 giornate lavorative, corrispondenti a 1620 ore effettivamente lavorate in media per occupato.

Una media che combina gli orari più lunghi dell'industria e quelli un po' più brevi del pubblico impiego, gli impieghi a tempo pieno e quelli a tempo parziale. In una giornata di lavoro si produce dunque un mezzo punto percentuale di Pil. Basterebbe allora sopprimere, per dire, sei giornate festive l'anno per incrementare di colpo la crescita del Pil del 3 per cento annuo.

Ci avessimo soltanto pensato prima, l'economia del paese non si troverebbe nella situazione critica che molti lamentano. O forse no. Perché nel ragionamento che suggerisce di lavorare di più per arricchirsi tutti c'è una piccola crepa. Esso implica infatti che l'intera produzione addizionale di beni e servizi eventualmente ottenuta con alcune giornate lavorative in più sia interamente venduta. Il che non sembra davvero realistico.

Moltissime imprese faticano oggi a vendere le quantità di beni che producono con le giornate di lavoro attualmente effettuate. È la radice della crisi che le minaccia. In molti settori industriali esiste un eccesso di capacità produttiva: le aziende potrebbero produrre cento, ma dato che riescono sì e no a vendere settanta, quello producono. È proprio per questo motivo che hanno chiesto, e prontamente ottenuto dal governo con la legge 30 e il relativo decreto attuativo dell'ottobre scorso, nuovi tipi di contratto che permettono di occupare forza lavoro in maniera discontinua, come il lavoro in affitto (detto anche, pudicamente, "in somministrazione") e il lavoro intermittente. In modo da adattare l'occupazione in azienda all'andamento del proprio mercato.

A fronte di queste situazioni, l'aggiunta di alcuni giorni lavorativi al calendario annuo genererebbe presumibilmente più disoccupazione, e più precarietà.
D'altra parte la discussione sulla necessità di provare ad accrescere l'occupazione non già aumentando, bensì diminuendo gli orari di lavoro, va avanti da decenni in tutti i Paesi europei, dal Portogallo alla Finlandia, dall'Irlanda alla Grecia.

Da essa sono scaturiti contratti collettivi e interventi legislativi che hanno portato a ridurre le ore annue effettivamente lavorate pro capite dalle 1800-2000 del 1970 alle 1330-1700 di inizio del XXI secolo, con un parallelo e sostanziale incremento di produttività. Il limite inferiore, nel cennato rango delle ore lavorate pro capite nel 2001, è segnato dall'Olanda, a causa della grande diffusione in tale paese del tempo parziale; mentre quello superiore tocca al Regno Unito. Con le sue 1620 ore l'anno l'Italia supera di circa 50 ore la Francia - nonostante le riduzioni d'orario realizzate in essa con la legge sulle 35 ore, che ha avuto indubbi effetti positivi sull'occupazione - di 100 ore il Belgio, di 170 ore la Germania. Non siamo insomma i più pigri tra gli europei.

Ancora, è la riduzione degli orari di lavoro, non già il loro aumento, che ha permesso di superare crisi aziendali gravissime, come quella della Volkswagen alcuni anni fa. Per tacere di altri dati che possono lasciare indifferenti i fini economisti, ma ai quali i milioni di persone che svolgono altri ordinari mestieri attribuiscono una certa importanza.

Nel 1970, quando in Italia si lavorava 1900 ore l'anno, si viveva quasi 10 anni di meno. Più precisamente, la età mediana dei morti era inferiore a quella odierna di circa 10 anni. Altri fattori hanno sicuramente contribuito a questo straordinario risultato, in primo luogo il sistema sanitario nazionale.

Ma un fattore determinante sono stati l'aumento delle giornate di vacanza, degli svaghi, del riposo, delle cure per la persona, delle attività culturali, delle relazioni sociali, del tempo dedicato ai figli, reso possibile dalla riduzione di oltre 250 ore dell'orario annuo di lavoro.

Proporre oggi di ricominciare a lavorare di più, significa quindi prospettare la possibilità - quali che siano le buone intenzioni del proponente - di ricominciare a vivere peggio, e forse anche meno a lungo. È possibile che il presidente del Consiglio, buttando lì l'idea di lavorare qualche giorno in più l'anno, avesse in mente il caso di qualche altro paese.

Ad esempio il caso della Corea del Sud, dove si lavora tuttora 2.500 ore l'anno. Ma non sembra questo un Paese adatto da prendere a modello per l'Italia, quando si pensi alle condizioni di lavoro, di ambiente, di tutele legislative, di rappresentanza sindacale in esso predominanti.

Oppure quello degli Stati Uniti, dove in effetti le ore annue realmente lavorate superano le 1800, con un considerevole aumento rispetto a un decennio fa. Ma gli americani non lavorano di più per amore del Pil. Lo fanno perché vi sono costretti dai bassi salari. In Usa il salario medio dei lavoratori dipendenti, al di sotto del livello di quadro o capo intermedio (foreman), è infatti tuttora inferiore, in termini reali, a quello del 1973, dopo una forte discesa durata quasi vent'anni, e un parziale ricupero da metà degli Anni '90.

Il salario basso obbliga a fare gli straordinari, a cercarsi due lavori, a lavorare in due in famiglia anche se l'onere per la famiglia è grave. Spinge anche, ovviamente, a fare meno giorni di vacanza e di riposo. Anche questo modello di lavoro e di vita non sembra, in verità, particolarmente attraente.

 

Gli Indiana Jones della superiore inciviltà

E' triste constatarlo, ma è inutile negarlo: soltanto i poveri rischiano di diventare razzisti

 

Luogo Comune

 

Zincone Giuliano

Aristide Malnati è un esperto: ha partecipato come assistente a nove campagne di scavi nell' oasi egiziana del Fayyum, esplorando il sito greco-romano di Tebtynis. Ora Malnati racconta (su Libero) che un gruppo di professori del Cairo ha deciso di denunciare alle autorità locali e all' Unesco i comportamenti «neocolonialisti e razzisti» di molti archeologi stranieri, che sfruttano e maltrattano la manodopera locale. Tra gli aguzzini sarebbero compresi anche gli Indiana Jones italiani e, in particolare, i ricercatori dell' Università Statale di Milano. Secondo l' accusa, i sorveglianti (o raìs) frustano gli operai quando tentano di riposarsi. Questa gente lavora sette ore al giorno, sotto un astro cannibale (all' ombra, i gradi sono 45), per guadagnare circa tre euro. Niente occhiali contro la polvere e contro il sole, niente scarpe. E la sabbia nasconde scorpioni, schegge, serpenti. Una tenda per dormire in dieci, un buco in terra come wc comune. Poi, bastonate per chi si distrae, per chi perde tempo scaricando i detriti. I fanatici dei «relativismi culturali» rifiuteranno di scandalizzarsi. In fondo (diranno), il costo del lavoro è quello che è, in Egitto. La frusta è un' usanza locale, le scarpe e gli occhiali non sono attrezzi comuni per quella classe operaia sottomessa, abituata al caldo, alla coabitazione e alle ancestrali scomodità. Può darsi, può darsi. Peccato che il benessere (il decente trattamento) di questi lavoratori dipenda da chi li ha assunti e cioè dagli squisiti intellettuali dell' Occidente. Peccato che il severo articolo di Aristide Malnati sia uscito sul giornale (Libero) che più d' ogni altro esalta «la nostra superiore civiltà». Se allarghiamo lo sguardo e ci allontaniamo dall' Egitto, siamo costretti a osservare almeno un paio di panorami sempre uguali. In assenza di regole e di castighi, chiunque abbia facoltà di sfruttare il prossimo esegue puntualmente questa condanna, mettendo al primo posto il proprio guadagno. Senza andare troppo lontano vediamo che, in Italia, si accumulano profitti assoldando con pochi euro immigrati stagionali per opere di facchinaggio, per la raccolta di pomodori o di carote, per i piccoli mestieri che gli italiani rifiutano. Ma li rifiutano quando sono sottopagati, non garantiti, non assistiti. Li accetterebbero, forse, in cambio di un equo trattamento. E allora bisogna ammettere che, qui come in Egitto, non prevale la sete di civiltà, ma la semplice fame di risparmi. La quale da noi (da noi!) uccide quattro lavoratori al giorno, perché, soprattutto nei cantieri, si tagliano le spese per la sicurezza. E poi, certo, tutti gli investimenti volano altrove, e inseguono i costi del lavoro più bassi, nei Paesi lontani, privi di regole fastidiose e di sindacati. Tremenda e cronica è la tentazione di esercitare un qualsiasi potere. Non è detto che questa crudeltà appartenga soltanto ai ceti privilegiati. Anzi: i poveri sorveglianti (raìs) degli scavi archeologici egiziani sono certamente più inflessibili contro i poveri operai di quanto non lo siano i professori occidentali che li governano. Il razzismo, in Italia come altrove, è molto (molto!) raro tra gli intellettuali e i facoltosi. Questo bubbone non è un pregiudizio, ma (ahinoi) è proprio un giudizio. E' rarissimo, o quasi inesistente, l' ebete che crede d' appartenere a una «razza pura». E' sempre più frequente, invece, il comune cittadino delle periferie che (a torto o a ragione) si sente assediato dagli immigrati, dallo spettacolo degli agnelli sgozzati sul terrazzino, dai rumori notturni del Ramadan, dai bimbi esotici che frenano tutta la classe perché parlano male l' italiano, dai lavoratori che accettano bassi salari e che, dunque, diventano «concorrenti sleali». E' triste constatarlo, ma è inutile negarlo: soltanto i poveri rischiano di diventare razzisti. Durante il colonialismo francese, gli africani temevano soprattutto i petits blancs, i bianchi subalterni che erano i più arroganti e crudeli, perché la loro condizione sociale era molto simile a quella dei neri e, quindi, potevano ostentare soltanto il colore della pelle come segno di dominio. Continueremo a fare quest' errore, in Egitto, a Milano, a Roma? E sarà questa la bandiera della nostra «superiore civiltà»?

25 marzo

Ragazzini
TOMMASO DI FRANCESCO
Il mondo che doveva essere salvato dai ragazzini, sta diventando, davanti ai nostri occhi di osservatori impotenti, il mondo che preferibilmente uccide proprio i bambini. Nelle innumerevoli «piccole» guerre dimenticate le armi, troppe pesanti, spesso sono imbracciate da mani troppo esili. E nei grandi conflitti, ferite aperte insanabili, il bersaglio fisso resta significativamente quello. Quasi a voler confermare che la guerra non è solo totale distruzione, ma riduzione ai minimi termini mortali di ogni presenza vitale. Così le immagini di un ragazzino di 14 anni - la madre denuncia addirittura che ha «problemi psichici» - fermato con una cintura kamikaze a Nablus e pronto a farsi esplodere, sembra voler racchiudere l'apertura di tutte le porte di tutti gli inferni. I mandanti di questa azione criminale non possono ricorrere alla giustificazione dell'inferno quotidiano rappresentato dell'occupazione militare israeliana dei territori palestinesi, quell'immensa prigione per tre milioni di individui ridotti a fare i piccioni del tiro al bersaglio dei soldati israeliani che, a piacimento, da un governo all'altro, occupano e rioccupano in una specie di coazione a ripetere la prepotenza militare. Lì, è vero, ogni legittimità e diritto internazionale si sono infranti contro il muro - è il caso di dire - di Sharon. Ma nessuna logica di pura violenza, di uso strumentale di corpi innocenti diventati bombe umane potrà mai essere una risposta.

La rincorsa del sangue, ormai è chiaro, uccide insieme agli innocenti, le stesse ragioni del popolo palestinese.

L'assassinio più che mirato dello sceicco Yassin appare fatto a bella posta perché il gioco mortale dell'oca non si fermi, perché la vendetta risponda nella «stessa misura», e il fondamentalismo rimanga l'unica arma per un popolo intero, ora alle prese con l'ultimo annuncio provocatorio del governo israeliano: «Adesso tocca ad Arafat». Non devono esistere vie d'uscita.

Bisogna invece dire no. E non siamo «poeti» a pensarlo, se addirittura il nuovo leader di Hamas, Rantisi ieri - certo per escluderla «se resta l'occupazione» - è inaspettatamente, tornato sulla «possibilità della tregua». Ora tutti aspettiamo l'attentato. E invece sarebbe decisivo - certo incredibile, ma auspicabile lo stesso - che ad una uccisione volutamente efferata corrispondesse stavolta il massimo di politicità e di risposta di massa. Quel che spaventa davvero i generali israeliani e il governo Sharon, trincerati e pronti con il 60% di sostegno degli israeliani, a rispondere con mezzi militari imparagonabili, non è e non sarà il kamikaze che seminerà schegge di morte tra altri civili israeliani, uccidendo nel mucchio. A preoccupare sono invece la mobilitazione diffusa e l'inusitato silenzio che si è sparso nelle città palestinesi. Quel silenzio racconta che per un popolo intero la misura è colma, quel silenzio è civile e si propone come forza d'urto reale verso i potenti della terra ben più di una risposta militare. E chiama a mobilitazione noi. Anche perché non c'è una risposta militare che tenga all'arroganza di Sharon, ai suoi missili Cruise, agli Apache, ai carri armati, agli F-16.

Se la miseria palestinese spinge i giovani ad essere disponibili a far commesse - ricordava Zvi Schuldiner solo martedì -, chiunque usi di questa disponibilità per portare morte in campo nemico, sappia che corrisponde alla stessa violenza dell'occupante che non ha certo lesinato a sparare coi tank su folle di ragazzini «armati» di sassi. E' la stessa cancellazione del diritto alla vita. Non ci sono da liberare soltanto i territori, ma i corpi e le vite dei deboli e dei diversi, delle donne, la speranza dei giovani, la memoria degli anziani. Che il mondo resti salvato dai ragazzini, soprattutto da quelli palestinesi.


23 marzo

IL COMMENTO
Il conto alla rovescia del terrore
di SANDRO VIOLA

Quel che m'aveva impressionato, nei giorni scorsi, è che nessun israeliano pronuncia più la parola pace. Le pochissime, residue speranze d'una svolta che fermi o almeno riduca la carneficina, appaiono infatti svanite. E le attese si sono ormai ridotte a due: l'attesa snervante delle bombe, e poi, sugli schermi della tv, le immagini delle rappresaglie israeliane. "Dovessi riassumere il momento psicologico in Israele", m'aveva detto l'altro giorno il filosofo Avishai Margalit, uno dei più prestigiosi intellettuali israeliani, "userei la parola scoramento. Oppure disperazione. Ma non la disperazione "attiva" di cui parla Kant, che bene o male contiene ancora una volontà, una capacità di reagire. No, qui si tratta ormai d'una cupa rassegnazione al peggio".

Il peggio ha preso forma ieri mattina a Gaza, attorno alle 6, quando un elicottero dell'esercito ha indirizzato tre missili sullo sceicco Ahmed Yassin, il capo religioso e politico di Hamas, facendolo a pezzi. Con quei tre missili il governo Sharon ha intrapreso un'"escalation" senza più freni o cautele, di cui saranno in molti a pagare il prezzo. In Israele, nella Palestina occupata, e forse in tutto il Medio Oriente. Il peggio, appunto, che poteva succedere. Perché l'omicidio dello sceicco Yassin è un altro calcio nel termitaio del terrorismo islamico, un altro fiammifero acceso di fianco allo zolfo del fanatismo fondamentalista. L'apertura dissennata d'un altro varco alle offensive della Jihad.

Il silenzio che gravava nelle strade di Gerusalemme ieri sera (pochissime automobili in giro, caffè deserti, saracinesche abbassate nella parte araba della città, famiglie riunite attorno all'apparecchio televisivo per seguire i notiziari), era quello dei momenti di maggior tensione nella storia del conflitto israelo-palestinese.

Ricordava le ore in cui ventun anni fa giunsero le notizie della strage di Sabra e Shatila, o le sere successive all'assassinio di Rabin.
Nessuno in Israele ignora, infatti, che i tre missili di Gaza provocheranno una risposta terroristica sanguinosa. Che è una questione di giorni, forse di ore: ma che il conto alla rovescia è già cominciato.
È vero, gran parte degli israeliani (tra cui gli autisti dei due taxi che ho preso nel pomeriggio) sono convinti che Sharon abbia fatto bene: che con i palestinesi si può trattare soltanto con la forza. E infatti un sondaggio di pochi giorni fa rivelava che il 68 per cento degli intervistati era favorevole all'eliminazione "mirata" dei leader della rivolta, "anche quando vi viene coinvolta la popolazione civile". Mentre soltanto una parte minoritaria, se non si deve dire elitaria, della società israeliana pensa che l'omicidio dello sceicco Yassin sia stato un errore.

Ma c'è una cosa che gli uni e gli altri sanno bene. Sanno che a Gaza decine di giovani bussano ogni settimana alla porta di Hamas, chiedendo che venga loro affidata una spedizione suicida. Quelli che vengono rimandati indietro si rifanno vivi, di nuovo imploranti, dopo pochi giorni, e di nuovo vengono respinti. Ognuno di loro potrà essere richiamato, tuttavia, al momento opportuno. E ormai i tempi tra il reclutamento e l'attentato si sono fatti stretti. Il periodo di preparazione mistico-religiosa, i giorni d'isolamento che il "martire" doveva vivere prima di farsi esplodere in una città israeliana, sono cose dei primordi del terrorismo suicida. Adesso basta un pomeriggio per insegnare allo shaid come s'innesca la cintura esplosiva, e dove dovrà andare a innescarla. Poche, semplici, terribili istruzioni che nei prossimi pomeriggi verranno impartite a una schiera di giovani aspiranti al martirio.

Che cosa potrebbe esserci quindi, nelle strade di Gerusalemme, se non l'ansioso silenzio di stasera? Chi può illudersi che i lunghi tratti del Muro già eretti, i reticolati percorsi dalla corrente elettrica, i posti di blocco dell'esercito, gli elicotteri in ricognizione riescano a fermare gli shaid e il loro carico di odio e dinamite? Gli "omicidi mirati" dei capi delle organizzazioni terroristiche palestinesi vanno avanti ormai da anni, ma non hanno impedito che in questi anni centinaia d'attentati facessero scorrere una quantità di sangue israeliano: 377 morti e più di 2000 feriti tra la sola popolazione civile.

Del resto non erano soltanto l'Unione europea per bocca di Javier Solana, o gli editoriali di Haaretz e della stampa liberal di mezzo mondo, o i pacifisti israeliani, a dire che la politica della pura repressione condotta da Sharon, "omicidi mirati" compresi, non stava servendo a niente. C'erano ben quattro ex capi dello Shin Bet, il famoso servizio segreto - uno dei vanti d'Israele - , che tre mesi fa l'avevano dichiarato in modo esplicito: in assenza di qualsiasi iniziativa politica, la repressione può portare soltanto alla catastrofe. Uno di loro, Ami Ayalin, aveva avvertito: ci sono le prove, i numeri: più s'ammazzano i capi e più aumentano gli attentatori-suicidi. Sinché l'altro giorno, durante la seduta del governo che ha deciso la condanna a morte dello sceicco Yassin, non s'è alzato a parlare l'attuale capo dei servizi, Avi Dichter. Se volete farlo, ha detto Dichter, fatelo. Ma io sono contrario, perché i vantaggi che ne possono venire sono assai inferiori ai guai cui andremo incontro.

Perciò è difficile capire quale calcolo abbia spinto Sharon a volere l'eliminazione del capo di Hamas. Perché Sharon conosce gli arabi, sa sino a che punto si sia andata islamizzando negli ultimi anni Gaza. E non poteva quindi ignorare l'effetto sconvolgente che avrebbe avuto tra i palestinesi di Gaza l'omicidio d'un vecchio paralitico in sedia a rotelle, all'uscita dalla moschea dopo la preghiera del mattino. Non poteva aver trascurato che proprio quei simboli, la vecchiaia, l'invalidità, l'uscita dalla moschea, avrebbero reso la morte dello sceicco Yassin un evento incancellabile, gravido di nuovo e tremendo odio, nella rivolta palestinese contro l'occupazione israeliana.

Certo, Ahmed Yassin era il responsabile della morte di centinaia d'israeliani: nei caffè dove parlavano con gli amici, negli autobus con cui andavano al lavoro, nelle strade mentre facevano la spesa. È stato lui a seminare Gaza e in parte anche la Cisgiordania, di quella cultura della morte da cui sono emersi gli shaid, i terroristi suicidi che con le loro bombe hanno modificato per la prima volta il rapporto di forze tra occupati e occupanti, togliendo a quest'ultimi la totale capacità di sopraffazione che avevano sempre avuto. È stato lui a inserire nell'atto costitutivo di Hamas quella frase impressionante: "Dio è la meta, il Profeta la guida, il Corano la costituzione, la guerra santa indica la strada, e morire per Dio è il più profondo, nobile desiderio".

Ma il punto che più interessa, stasera, non è la malvagità dello sceicco: è quello della valutazione politica con cui è stata decisa la sua morte, l'opportunità della decisione, il fatto di non aver esitato dinanzi alle gravi conseguenze che essa non può non comportare. In due parole, quel che Sharon aveva e ha in mente. Dove pensa di portare Israele, lui che nel gennaio 2001 s'era fatto eleggere promettendo: "Datemi cento giorni, e schiaccerò l'Intifada".

A occhio, Ariel Sharon peserà ormai ben più d'un quintale. Il passo è ancora energico, perché dopo una vita trascorsa più sui trattori della sua fattoria e sui campi di battaglia che non negli uffici ministeriali, la muscolatura dev'essergli rimasta soda. Ma con tutto quel grasso, con lo stomaco che gli si protende enorme dalla cintola, il fiato s'è fatto corto. E non è solo per questo, la condizione fisica d'un vecchio di 76 anni, che Sharon dà un'impressione d'affanno. C'è altro, infatti. Il turbine di due scandali finanziari che investe da mesi lui e i suoi figli, le indagini della magistratura, le richieste di dimissioni che vengono dai partiti della sinistra. E se tutto questo non bastasse, c'è il bilancio di tre anni di governo. Fine d'ogni dialogo con i palestinesi, attentati spaventosi, crisi economica, rovina dell'immagine d'Israele nel mondo.

Sì, questo è il punto. La difficoltà di capire a che cosa miri, cosa intenda fare per tenere il suo paese al riparo d'altre sventure, Sharon. E la difficoltà di capire perché la maggioranza degli israeliani continui a dargli fiducia.

21 marzo

Bandiera mia, facciamo pace
Le bandiere della pace Nuove di bancarella oppure sbiadite e ingrigite, spesso autografate con un pennarello. Simboli personali prima che collettivi, anima di un corteo
ALBERTO PICCININI
ROMA
Esibite su un vecchio autobus, cucite in lunghi stendardi patchwork, roteate in cima alle aste da stadio. Nuove di bancarella ma più spesso sbiadite e sporche, spesso autografate con un pennarello o una biro. Simboli personali prima ancora che collettivi, le bandiere della pace ieri. Uniscono ancora una volta un corteo che è lunghissimo ancor prima di cominciare e sarà impossibile vederlo e sentirlo tutto assieme. All'una a piazza Barberini, da dove tutto avrebbe dovuto avere inizio, gruppi di ragazzi tranquillamente accampati leggono Kurt Vonnegut e Susan Sontag. Cinquecento metri più su, in un piazza Esedra già piena, i camion dei disobbedienti pompano almeno da mezzogiorno buon reggae e un po' di techno, 99 Posse e Sud Sound System. Scopriremo più tardi che gli stessi disobbeddienti e i centri sociali, con le bandiere antiproibizioniste e lo striscione sulla resistenza irakena si terranno per sé l'ultima parte del corteo, sfilando a tutto volume e con indubbio effetto drammatico in via Cavour, quando al Circo Massimo si comincia a sfollare.

Poco spazio per altre contabilità, per teste e code. Alla stazione Termini i treni e il metrò rovesciano dal mattino una folla variopinta che sguscia in via Cavour e nelle vie laterali incrocia la Banda della Maremma, che nel frattempo prova la prima delle sue innumerevoli successive esecuzioni dell'Internazionale. Ma trecento metri più avanti, Santa Maria Maggiore, oltre un cordone di polizia e carabinieri c'è già un concentramento dei Comunisti Italiani, chissà perché. A piazza Venezia, benché innervosita da un fastidioso cordone di poliziotti in assetto antisommossa davanti casa Berlusconi ci si dà volentieri appuntamento. Il primo passo del corteo, mosso verso l'una e mezza, sarà soltanto una goccia nel mare.

Oltretutto, al mattino in tv sono passate già le immagini delle manifestazioni di Tokyo, Seoul, Sidney. Seguendo il fuso orario come i festeggiamenti di capodanno, i cortei si sono rincorsi sotto lo stesso cielo grigio lattiginoso che ieri sembrava avvolgere tutto il pianeta. Buongiorno Berlino, Parigi, Londra, Roma. Il telegiornale inglese Sky news comunica che secondo un sondaggio interattivo il 67% dell'opinione pubblica è a favore della guerra. Schiaccia il bottone rosso del telecomando per votare. Ma il bottone rosso, per via di disfunzioni satellitari probabilmente, non funziona.

Spento il televisore, fuori di casa. Per accorgersi che ci sono finestre e vetrine dalle quali la bandiera della pace non è mai andata via. Spuntò dal nulla sui davanzali. Venne riavvolta e messa in armadio dai più, in buona fede, sopraffatti dall'abitudine oppure momentamente sconfitti dall'orrore quotidiano della guerra. È sbiadita e stropicciata, si è ingrigita come uno straccio vecchio, ma è ancora la cosa meno simile all'abitudine che esista. È il simbolo più forte, così casa-per-casa, che il popolo della pace ha saputo scegliersi e inventare, e sarà anche l'anima di questo corteo.

Pareo per le ragazze e i ragazzi, mantellina per le signore e i signori, sciarpa per i più eleganti, polsino per i più rocchettari. Fascia per i capelli e coperta per il passeggino. Niente di nuovo, a parte la certezza che la storia breve della bandiera della pace è la storia personale di ognuno che la porta addosso. E poi c'è questo bizzarro effetto dixan. Ricordate il carosello? L'abbiamo comprate lo stesso giorno ma una bandiera è rimasta come nuova e l'altra si è sbiadita. Per forza. Sulla sua bandiera una signora ha scritto sopra le date, come si fa in certe t-shirt da concerto rock: «15 febbraio 2003... marcia Perugia-Assisi», oggi. Oggi funziona così. Per ogni cento metri di bandiere e di gente quasi sempre silenziosa, un'improvvisa e fragorosa accensione di suoni. Tamburelli e putipù. Altri cento metri e una banda che suona Addio Lugano Bella. Un'armonica che fa Blowing in the wind. I tamburi della Capoeira davanti allo striscione di Emergency. Un gruppetto che sfanculeggia Berlusconi sul tema brasileiro di Charlie Brown. Un'altra banda che suona Bella ciao seguita, del tutto appropriatamente, dalla sfilata dei gonfaloni dei Comuni.

Molta musica e poche parole, e nemmeno troppi telefonini in funzione se le rete sopporta agevolmente appuntamenti all'ultimo momento, salutini agli amici, ricongiungimenti familiari. Colpiscono allo stesso modo questi silenzi e questi suoni, sono come due facce della stessa medaglia. È il ribollire placido di gente che pace e guerra ( e non solo quello) non vorrebbe delegare a nessuno. E nel caso, non saprebbe bene a chi.

Dietro uno striscione è spuntato Bertinotti. Castagnetti passeggiava da solo fumando il sigaro. Occhetto si è conquistato un corona di telecamere e microfoni, ma con un cordone di disoccupati napoletani che inneggiavano al potere operaio cento metri più avanti e il boom boom della tecno di Wolf Resistanz cento metri indietro, qualunque cosa sia. Lì per lì, del destino di Fassino si è saputo poco e niente. Direbbero i tifosi di calcio: tifiamo solo la maglia. La bandiera.

 

19 marzo

«Una giornata per la pace»
Centinaia di migliaia di persone in arrivo a Roma per la giornata mondiale contro la guerra di domani. Gli organizzatori: «Non avremo nulla a che vedere con la manifestazione bipartisan del Campidoglio, chi non ha votato per il ritiro delle truppe è avvisato». Torna in piazza la «superpotenza» pacifista
ANGELO MASTRANDREA
ROMA
Nulla a che vedere con il flop bipartisan di ieri al Campidoglio. Anche chi non era totalmente contrario alla manifestazione indetta dall'Anci ieri a Roma, è convinto che domani nella capitale andrà in scena un altro spettacolo. «Sarà un grande fiume di popolo», annuncia il comitato Fermiamo la guerra, che non azzarda cifre sulla partecipazione ma racconta di come dopo l'attentato di Madrid le richieste siano addirittura triplicate «e c'è gente che protesta perché è stata lasciata a terra», come racconta Gianfranco Benzi della Cgil. A Bologna, per fare un esempio, il locale social forum è stato costretto a una trattativa urgente con Trenitalia per un secondo treno speciale perché uno non sarebbe bastato a farci entrare tutti. E anche la presenza «istituzionale» sarà di gran lunga superiore a quella di ieri: accanto ai parlamentari del centrosinistra e di Rifondazione che hanno votato contro il rifinanziamento della missione in Iraq, ci saranno ben 150 gonfaloni di comuni, province e regioni di tutta Italia. Accantonate divisioni e beghe interne, la «superpotenza» pacifista si appresta così a tornare in piazza unitariamente per la prima volta dal 12 aprile di un anno fa, a bombardamenti in Iraq ancora in corso. «E' chiaro che si tratta di un corteo più difficile di quella del 15 febbraio di un anno fa», spiega Piero Bernocchi dei Cobas, ma «credo che le cifre siano assolutamente paragonabili ed è sicuro che questa manifestazione andrà in una direzione opposta a quella di ieri in Campidoglio». Al di là delle cifre e della difficile ripetibilità dei tre milioni di persone di un anno fa, per il presidente dell'Arci Tom Benetollo sarà una «rivolta contro la cappa di piombo che ci stanno mettendo sulla testa», mentre per il coordinatore della Tavola della pace Flavio Lotti sarà «una manifestazione di solidarietà, di forte protesta e di proposta». E comunque sarà solo l'inizio di una campagna per il ritiro delle truppe dall'Iraq. «Continueremo fin quando non se ne andranno», continua Bernocchi, che tranquillizza sulle possibili contestazioni ai leader del centrosinistra che sfileranno con i pacifisti: «Nessuno di noi metterà le mani addosso a qualcun altro. Però siamo sbalorditi che esponenti politici di rilievo che ci ritengono irresponsabili vogliano partecipare. Li invitiamo almeno a capire che saranno in una manifestazione che dice cose contrarie alle loro».

Critiche all'atteggiamento del centrosinistra e alla manifestazione bipartisan di ieri anche da Giovanni Berlinguer del correntone Ds: «Ha creato una grande confusione, perché era partita come una manifestazione dei comuni ma si è tentato di trasformarla in una manifestazione di intese tra maggioranza e opposizione» ed è stata strumentalizzata dalla maggioranza contro il corteo pacifista di domani. Nel quale entrerà d'ufficio anche la guerra in Kosovo, dove a distanza di cinque anni dai bombardamenti «umanitari» sono ripresi gli scontri etnici. A dimostrazione, per Alfio Nicotra del Prc, che «non c'è nessuna guerra vinta dall'Occidente in questi dieci anni che abbia portato la pace».

Il corteo, che ufficialmente dovrebbe partire alle 14 da piazza Barberini ma presumibilmente comincerà a espandersi nelle vie e piazze vicine fin dal primo mattino come accade di solito in occasioni del genere, sarà aperto da un grande patchwork delle bandiere arcobaleno firmate nelle varie tappe delle quattro carovane della pace che hanno attraversato in lungo e largo l'Italia negli ultimi venti giorni. «Saranno la testimonianza dell'opposizione popolare alla guerra», dice Fabio Alberti di Un ponte per. Seguiranno i tre striscioni del comitato organizzatore, che sintetizzeranno le parole d'ordine della manifestazione e rimarcheranno la solidarietà con il popolo spagnolo: «Fuori le truppe. L'Iraq agli iracheni», «No ala guerra y al terror» e «Vostre le guerre nostre le vittime da Baghdad a Madrid e nel mondo». A seguire tutto il resto, spezzoni organizzati, Attac e anarchici, disobbedienti e antimperialisti, cattolici di base e pacifisti senza appartenenze, senza se e senza ma, con l'Onu e «senza Onu».

Sul palco del Circo Massimo non ci saranno esponenti di partito, ma interverranno solo rappresentanti della società civile che si oppone alla guerra: Philis Bennis, rappresentante di United for peace and justice, la coalizione statunitense che ha lanciato la mobilitazione mondiale del 20 marzo e che chiede «un sostegno internazionale per sfidare le politiche del governo Bush»; Jari Sheese, dell'associazione Military families speak out, moglie di un militare riservista in Iraq; Milagros Hernandez, portavoce del Forum sociale di Madrid; Bernarda Alima, membro della commissione giustizia e pace del Congo; Muhammed Tanji, segretario del Movimento palestinese per la cultura e lo sviluppo; Anat Matar del Forum dei genitori dei refusenik israeliani. Seguiranno un messaggio del vescovo ausiliare della chiesa cattolica caldea di Baghdad Shelemon Warduni, un ricordo della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e dell'operatore Milan Hrovatin a 10 anni dal loro assassinio. Infine sarà letta una poesia di Rachel Corrie, pacifista americana uccisa un anno fa da militari israeliani mentre tentava di opporsi all'abbattimento di alcune abitazioni nella striscia di Gaza.



 17 marzo 

Pietre e cestini
E'arrivato in elicottero all'ospedale San Matteo di Pavia per posare la prima pietra del nuovo pronto soccorso. Molte pietre seguiranno di qui a giugno, la cazzuola virtuale è uno degli strumenti preferiti da Silvio in campagna elettorale. Ha assicurato che tra tre anni, quando il nuovo pronto soccorso sarà ultimato (??), lui sarà ancora ben saldo al comando. Nell'ora passata a terra si è beccato del «buffone» da due medici «specializzandi». Questa volta ha incassato con fair play. Con gran codazzo di ministri e papaveri locali, la cerimonia si è conclusa con tramezzini e spumantino offerti a 800 avventori nella sala mensa dell'ospedale. 9 mila euro solo per le tovaglie, tutto pagato dalla Fondazione Cariplo e dalla Banca del Monte. Occupata la mensa da Berlusconi, duecento lavoratori del San Matteo sono stati mandati a casa in permesso retribuito (da chi?). Gli altri duemila, per non far torti, godranno in futuro le ore di libertà retribuita. Ieri hanno pranzato con il cestino, come in uno studio Mediaset. L'ufficio stampa del policlinico si è premurato di ricordare un precedente illustre: fu Benito Mussolini a inaugurare il San Matteo. Da un cavaliere all'altro. (m. ca.)

Rai, scontro al vertice su «Ballarò»
Dopo lo stop alla puntata dedicata alle elezioni spagnole, la presidente Annunziata invoca l'autonomia dei direttori di rete e accusa il direttore generale Cattaneo: «Usa due pesi e due misure. Si vuole nascondere la sconfitta di Aznar?»
MICAELA BONGI
ROMA
Un serrato botta e risposta tra la presidente Rai Lucia Annunziata e il direttore generale Flavio Cattaneo, con la prima che accusa il dg di usare «due pesi e due misure» e il secondo ostinato sulla sua posizione. Il comitato di redazione del Tg1 sconforato («è una sconfitta per tutti») e quello del Tg3 «sconcertato». L'opposizione in rivolta e la Casa berlusconiana, come sempre, stretta intorno al dg contro la «presidente di garanzia». La cancellazione della puntata di Ballarò sulle elezioni spagnole imposta dal solerte Cattaneo provoca un nuovo, duro scontro ai piani alti di viale Mazzini. E conferma la blindatura della Rai berlusconiana. La decisione di mandare comunque in onda Ballarò questa sera, nella sua consueta collocazione del martedì, rimandando la puntata di Enigma su Aldo Moro saltata venerdì scorso (per far posto a uno speciale del programma condotto da Giovanni Floris sulle stragi di Madrid), era stata presa domenica sera dal direttore di Raitre Paolo Ruffini. Lunedì la risposta della direzione generale: niente da fare, si è deciso di invertire la programmazione e dunque andrà in onda Enigma, tantopiù che era stato lo stesso Ruffini a proporre che la trasmissione cadesse il 16 marzo, anniversario del rapimento Moro. Il direttore della terze rete fa subito sapere di non essere d'accordo: da venerdì a oggi, argomenta, sono accadute molte cose, è compito del servizio pubblico informare. Ieri è la volta di Floris, il conduttore di Ballarò: «Non capisco perché non si debba andare in onda quando l'attualità chiama in modo evidente la necessità d'informazione». Il giornalista riferisce che era tutto pronto per la puntata, i filmati come gli ospiti: un esponente del Psoe, Bertinotti, Dini e pure Selva, fiero sostenitore della tesi che in Spagna, con la vittoria dei socialisti, bin Laden ha segnato un altro punto, e ieri amareggiato per la cancellazione della puntata. Conclude Floris: «Mi dispiace, ma sono un dipendente Rai e obbedisco alle indicazioni dell'azienda».

La presidente è invece su tutte le furie. Prende carta e penna e scrive a Cattaneo: «Caro direttore, mi è chiara la tua logica impeccabile ma, come sempre, viziata da un formalismo che non fa i conti né con i contenuti né con i doppi standard che sono la regola sotto la tua direzione». Annunziata ricorda il «clamoroso sviluppo delle vicende spagnole imprevisto venerdì»; domanda se l'autonomia dei direttori di rete esista o meno; cita, indirettamente, l'esempio del direttore di Raidue, Marano, che ha mandato in onda Belli per sempre (la risposta a Bisturi) nonostante la contrarietà del dg. Insomma: «Il solito metodo Cattaneo: due pesi e due misure. Al di sotto del quale - conclude Annunziata - c'è un'unica paura: che a Ballarò si celebri forse la caduta di Aznar?».

Poi Annunziata risponde anche al portavoce del premier Paolo Bonaiuti, che lunedì - mentre Berlusconi taceva sulla vittoria di Zapatero - non aveva trovato di meglio da fare che sostenere, sulla base delle ospitate da Vespa, che Rutelli e Fassino occupano la Rai. A Bonaiuti Annunziata risponde con i dati dell'Osservatorio di Pavia che smentiscono le affermazioni del sottosegretario alla presidenza del consiglio. Da viale Mazzini parte subito la nota per dire che i numeri illustrati da Annunziata sono «parziali». E Cattaneo ingaggia un match epistolare con la presidente: ricorda che lunedì le reti Rai si sono occupate della Spagna (basta cosi?), esalta la logica del servizio pubblico alla quale si ascriverebbe la decisione di mandare in onda Enigma nel giorno dell'anniversario del «delitto Moro» (in realtà ieri è stato l'anniversario del rapimento) dubitando del fatto che «il presidente» si fosse «reso conto di questa coincidenza di date». E si prosegue con questo tono, con Annunziata che sottolinea come gli approfondimenti su temi diversi non debbano necessariamente elidersi, ricorda di aver seguito da giornalista «la dolorosa vicenda del sequestro», e Cattaneo che ribatte sì, «lo so perfettamente, lei ha seguito la strage di via Fani e il rapimento come giornalista del manifesto», il che per il dg evidentemente la dice lunga.

Lo scontro va avanti, ma il risultato non cambia. Niente Ballarò, sordina sul voto spagnolo e il ministro Gasparri pronto a esprimere la posizione del governo: «Se una puntata va in onda in un giorno e non in un altro non mi pare un problema».
TELEVISIONE
Spagna, i terroristi della Rai
NORMA RANGERI
Alla Rai di Berlusconi le scelte elettorali degli spagnoli non sono mai piaciute. Quando, lo scorso maggio, il popolare Aznar prese la prima botta dai socialisti (si trattava di un test amministrativo), il Tg1 relegò la notizia all'ultimo posto, dopo una partita di coppa dei campioni. Oggi, davanti al rovesciamento di fronte della politica spagnola, quegli stessi tg (che non possono minimizzare lo storico capovolgimento) sposano la tesi di Gustavo Selva sgolandosi per convincere il pubblico della tv che a Madrid ha vinto bin Laden. E' la tesi che rimbalza, infiocchettata, negli approfondimenti serali. Si va da un tranquillo «stalinisti di ieri e di oggi» a un allusivo «per chi ha votato bin Laden» (Socci, Raidue), e si prosegue con Vespa in un ideale passaggio del testimone. Ammesso (e non concesso) che la decisione del direttore generale, Cattaneo, di sospendere Ballarò, per far posto all'anniversario del rapimento Moro, fosse giustificata, tuttavia di fronte alla serata-bin Laden di lunedì, costruita sull'equivalenza «voto ai socialisti, voto ai terroristi», sarebbe stato doveroso ristabilire la par-condicio lasciando spazio a una serata-Zapatero. Anche per disintossicare il teleutente dai monopolisti delle opinioni, arrivati al punto di rifilarci il direttore del Giornale sia da Socci che da Vespa (non c'è più limite).

Questi sono i giornalisti preferiti dal cavaliere e si danno un gran da fare per dimostrarlo, con scarso successo Socci (lui e la tv sono un ossimoro), con maggiore seguito Vespa. Dalle 21 all'una di notte, i due hanno versato fiumi di propaganda nell'etere pubblico, affidato alla solita compagnia di Arcore. Dal tuttologo Rainvest, Giampiero Mughini, figura tipica dell'intellettuale a gettone, a un giornalista del Foglio, all'obiettivo notista de La Stampa («Aznar ha inviato in Iraq un contingente di pace»), al berlusconiano avvocato Taormina, a uno scrittore russo, fiero anticomunista. La transfuga Mussolini e il sottosegretario Mantovano riequilibravano appena il monocolore di Forza Italia. Dei tre esponenti del centrosinistra (per divertirsi ci vuole sempre un spalla) uno (Di Pietro) lasciava lo studio dopo un quarto d'ora, stanco di quella gazzarra infernale, gli altri due (Intini e Rizzo) rimanevano a fare da alibi alla sceneggiata.

Stabilito che in Spagna ha vinto il terrorismo, ora vogliamo dargliela vinta anche in Iraq ritirando le truppe? Tocca al ministro Martino prendersela con Rutelli («lei racconta balle»), mentre l'esperto Magdi Allam, offre esempi di equidistanza («la sconfitta di Bush è la sconfitta del mondo libero»). Su tutti vigila il conduttore di Porta a Porta, generoso nel dispensare le personali confidenze del presidente del consiglio: «Berlusconi mi ha spiegato, ripetutamente, quanto avesse cercato di convincere Bush a non fare la guerra». Vogliamo dubitare? «Certe cose Berlusconi le raccontava alle mamme», scherza Rutelli. Allora mamma Vespa chiama in soccorso Sergio Romano, ma non basta, bisogna fare di più. Quando il presidente della Margherita auspica il rafforzamento delle misure di sicurezza, anche spendendo di più, il nostro tenta lo sgambetto («tagliando dove?») e cade («per esempio reintroducendo la tassa di successione»).

La presidente della Rai continuerà a scrivere lettere di protesta e i berlusconiani a rifilarci seratine come questa.



16 marzo

Più fiducia
ROSSANA ROSSANDA
Il risultato delle elezioni legislative spagnole ha preso tutti di contropiede. Non parliamo della miserevole Rai, incapace di proporre delle finestre in tempo reale, semplicemente ascoltando le antenne spagnole, per non dare un dispiacere a Berlusconi. Parliamo dello stupore, anche nostro, nel vedere che un paese, colpito orribilmente tre giorni prima, invece che ripiegare in un riflesso d'ordine, ha fatto un secco ragionamento: ci colpiscono perché il governo ci ha cacciato in guerra contro l'Iraq, una guerra che l'85 per cento di noi non voleva, e dopo averci tirato addosso la Jihad, per tre giorni ha cercato di imbrogliarci sugli autori dell'attentato. E questo governo ha spazzato via. Neppure noi pensavamo più che l'opinione, per quanto avvelenata dai governi e dalle tv reagisse con tanta lucidità e decisione. Dobbiamo dare più fiducia alle nostre stesse ragioni. I voti che Aznar ha perduto sono andati al Partito socialista spagnolo, che senza la sua opposizione alla guerra difficilmente li avrebbe presi; la Spagna non aveva perdonato ai socialisti di Gonzales la corruzione, le illegalità, la debolezza, le speranze bruciate. Ma non ha ragionato in termini di politica piccola: primo, non restare nelle mani d'un presidente del consiglio bellicista e imbroglione. Dovrebbero pensarci bene anche gli italiani alle prossime tornate elettorali. Quanto al Psoe, dovrà gestire ora una situazione non facile senza ripetere gli errori del passato. Ma una cosa ha sicuramente capito, ha segnato subito una discontinuità con le scelte di politica estera del governo Aznar.

E' un risultato che scompagina quella che pareva la tendenza europea. A destra era andata la Francia, a destra è andata qualche settimana fa la Grecia, a destra alcune elezioni parziali ma significative in Germania. Ma non è più così certo che andrà così: per quanto infuriati siano i cittadini da politiche economiche miopi e restrittive, che lungi dal sollecitare una ripresa la rendono ancora meno probabile, la scelta fondamentale torna a essere la questione della pace e della guerra. E se si votasse domani nessuno giurerebbe sulla tenuta né di Berlusconi né di Blair. E non ci si dica come già qualcuno tenta: non possiamo permettere che sia il terrorismo a decidere della nostra sorte. La semplice verità è che questo terrorismo islamista non può essere vinto sul piano militare perché è una rete nascosta, sicuramente articolata, potente nei mezzi, e che usa una massa di umiliazioni e sofferenze dell'enorme settore mediorientale. Bush e i suoi torpidi alleati hanno evocato questo fantasma, del quale nulla sapevano e lo hanno moltiplicato. Ed è vero che è un fantasma feroce, lo ammette, si vanta della sua tradizione di morte data e ricevuta, è deciso a vendicarsi. Oggi ancora un ritiro da quell'Iraq bruciante e una soluzione giusta per i palestinesi e Israele potrebbe fermarli, facendogli mancare l'acqua in cui nuota. Domani non è detto che sarà ancora così.

Scegliere la pace è insomma la sola realpolitik. Essa esige non più «intelligence» ma più intelligenza; esige di capire dove si sono messi brutalmente i piedi, di sanare almeno alcune delle più clamorose ferite, di sradicare il terrorismo in senso proprio, separandolo cioè dalle sofferenze che gli permettono di estendersi. Insomma smettere con l'attuale ottusità dell'Occidente sommata alla secolare voglia di rapina che gli è propria. Questo il modesto Psoe lo aveva capito. Non pare che ci arrivino da noi Piero Fassino e la Margherita, che si perdono in gesticolazioni a uso interno - come è stato il balletto del voto non voto alle Camere - e sono tentati di prendere a braccetto Berlusconi per uno show di giovedì a favore dei neoconservatori. Prodi, che dell'Europa capisce probabilmente qualcosa più di loro, dovrebbe suggerirgli di lasciare Berlusconi nella palude in cui è già sprofondato Aznar, e mettercela tutta perché sabato 20 il paese pacifico e ragionante che manifesterà a Roma li senta accanto a sé. Meglio tardi che mai.


11 marzo


E' sciopero generale
I delegati di Cgil, Cisl, Uil decidono la data: 26 marzo. Saranno 4 ore per tutti i settori, ma scuola, università e Poste raddoppiano, 8 ore. Tutta la giornata anche per il Lazio e la Sicilia. Berlusconi: «Pronti a incontrare i sindacati, ma la riforma delle pensioni andrà avanti»
PAOLO ANDRUCCIOLI
Le quattro ore di sciopero generale decise ieri dall'assemblea nazionale dei delegati per il 26 marzo prossimo diventeranno otto per la scuola, per le Poste e per tutti i lavoratori della regione Lazio e della Sicilia. Per gli altri settori saranno le varie strutture territoriali del sindacato a decidere la collocazione oraria delle 4 ore di blocco. Il 26 marzo si fermeranno anche i trasporti aerei, ferroviari e marittimi, compreso il trasporto pubblico; rimarranno fermi quattro ore anche i lavoratori delle attività portuali, delle autostrade e dell'Anas; scioperano anche i lavoratori del credito e della riscossione tributi. La decisione formale dello sciopero è stata presa nel corso di un'assemblea nazionale molto partecipata (erano più di cinquemila i delegati e gli ospiti). Alta anche la tensione per un tipo di assise unitaria che era diventata un'anomalia per le profonde fratture fra i tre sindacati. Per una strana coincidenza, la prima assemblea unitaria dopo il Patto per l'Italia e i tanti accordi separati, si è tenuta proprio all'Eur, dove nel 1978 ci fu la famosa «svolta», che diede avvio alla lunga stagione della moderazione salariale. Una coincidenza ricordata anche ieri dal delegato che ha dato il via all'assemblea. Tutt'altra scena oggi, con il sindacato che tenta di rimettere insieme i cocci dell'unità per fronteggiare un governo liberista che ha sbagliato completamente la sua ricetta e ha anche tradito le promesse. Lo hanno detto con chiarezza ieri, sia il segretario generale della Cisl, Savino Pezzotta, sia quello della Uil, Luigi Angeletti, i due sindacalisti che hanno sottoscritto il Patto per l'Italia. Pezzotta ha parlato di promesse non mantenute e della necessità di rilanciare la politica economica. Secondo Angeletti, quella del governo è una ricetta completamente sbagliata del governo per rilanciare l'economia: i tagli alla spesa sociale e le privatizzazioni.

«Bisogna cambiare l'agenda e le priorità», hanno ribadito tutti e tre i segretari generali. «Abbiamo il dovere - ha detto il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani nella relazione d'apertura - di mettere la nostra forza, la rappresentanza dei nostri interessi, i nostri valori di solidarietà e giustizia sociale, al servizio di una strategia alta e non rinviabile: arrestare il declino del paese». La preoccupazione per ciò che sta succedendo è emersa ieri con nettezza dagli inteventi dei segretari generali, ma anche da quelli dei sei delegati di base che hanno parlato nel corso della mattinata. Dall'Alitalia (ha parlato il delegato Lucio Fiore), al settore tessile (Carminati Simonetta), passando per un'azienda della Parmalat in Sicilia (Caterina Provenza) e per la Montefibre di Acerra (Mimmo Beneduce), per finire poi con una insegnante precaria a Milano da 23 anni (Maria Pia Cardamone) e per una rappresentante dei pensionati romani di Testaccio (Sonia Montanari), è stata ieri scattata in diretta una fotografia dell'Italia delle tante crisi industriali e della precarizzazione delle forme di lavoro in tutti i settori. C'è ormai la prova evidente che il mercato non sa «autoregolarsi» e che le privatizzazioni non sono state affatto il toccasana che in molti in questi anni hanno voluto spacciare per risolutivo. «Ci vuole una svolta radicale di politica economica - ha detto Epifani - l'obiettivo fondamentale deve tornare a essere la crescita degli investimenti, di quelli privati e di quelli pubblici». E' sicuro però che abbiamo più bisogno soprattutto degli investimenti pubblici, come d'altra parte fanno oggi tutti i paesi, sia avanzati, sia in via di sviluppo. Ci vuole insomma - è la conclusione dei discorsi dei tre segretari - non solo una nuova politica keynesiana, «ma qualcosa di diverso e ancora più ambizioso. Ci vuole un intervento paragonabile a quello della ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale.

Su queste basi i sindacati rilanciano dunque la mobilitazione che non si fermerà il 26. Per il 3 aprile è infatti prevista già una grande manifestazione dei pensionati a Roma. Dopo la dichiarazioni di sciopero è stato subito un fiorire di dichiarazioni, da quella del premier a «Porta a Porta», a quelle di Fini e Maroni. In particolare è Fini che cerca di cogliere al volo la frase di Pezzotta: su queste nostre proposte vogliamo riaprire il confronto con il governo. Per accettare il confronto, il governo dovrebbe però buttare alle ortiche tutte le sue politiche, a partire ovviamente dalla delega sulle pensioni. Non sembra questa l'aria.




10 marzo

Chi svuota le culle
IDA DOMINIJANNI
Nel lontano dicembre del 1997 la rivista Via Dogana, bimestrale della Libreria delle donne di Milano, pubblicò un fascicolo dedicato alla diminuzione delle nascite. Si intitolava «Culle semivuote» e nel sottotitolo, con l'onestà talvolta spietata che caratterizza lo stile autocoscienziale, si chiedeva e chiedeva alle lettrici: «Che cosa ci sta capitando?», ovvero: per quali ragioni mettiamo al mondo sempre meno figli? Le risposte spaziavano dall'economia alla psicoanalisi, e ai primi posti non mettevano la mancanza di soldi e servizi bensì la crisi del patto (patriarcale) fra i sessi che per secoli ha sostenuto la riproduzione nelle società occidentali, la libertà guadagnata dalle donne che ne orienta le scelte su strategie di vita diverse da quella della maternità, la crisi del desiderio sessuale intervenuta negli uomini per reazione alla libertà femminile suddetta, la generale crisi di senso che non predispone più le nostre società all'accoglienza della nascita (né all'elaborazione della morte), la trasformazione della famiglia tradizionale in nuclei monoparentali o di single, l'espropriazione dell'autorità materna a opera delle schiere di esperti che infestano quotidianamente tribunali, scuole, convegni e talk show.

Oggi il presidente Ciampi si pone la stessa preoccupata domanda e fornisce un'unica risposta: culle vuote perché mancano gli asili nido, mancano gli orari flessibili, mancano i mariti disposti ad aiutare in casa, manca tutto ciò che potrebbe e dovrebbe aiutare le donne, pardon le mamme, a conciliare famiglia e lavoro. Non che tutto questo non manchi, per carità. Ma «che cosa ci sta capitando», perché dall'alto del Colle e con gran consenso di firme (tutte maschili) sui giornali la festa della donna si trasformi senza parere in festa della mamma, e tutte veniamo precipitate all'improvviso in una rappresentazione della condizione femminile in perfetto stile anni Cinquanta? Con la differenza che negli anni Cinquanta, tempi di baby boom, c'era il miracolo economico, uno stato sociale in costruzione, e a chiedere gli asili nido era l'Unione donne italiane. Adesso invece c'è il declino (che qualcosa con la denatalità c'entrerà pure, ma Ciampi deplora la retorica del declino), uno stato sociale disfatto, gli asili nido continuano a mancare (e non sono mai stati abbondanti), e a chiederli, non si sa a chi se non a se stessi, sono gli stessi uomini politici che hanno fatto l'Italia per decenni, o altri che la fanno oggi in continuità con una genealogia di governo tutta maschile, ma rivolgendosi alle donne perché in qualche modo facciano quadrare il cerchio della vita associata. Chi ha costruito l'Italia com'è? Chi ha costruito, e poi smontato, uno stato sociale che anche nei suoi momenti di gloria ha sempre fatto leva sul doppio e triplo lavoro femminile? Chi ha inventato un sistema della flessibilità misurato sulle esigenze di libertà non delle donne ma delle imprese? Chi consente che si ricominci a licenziare le lavoratrici in gravidanza? Chi ha approvato o lasciato approvare una legge come quella contro la procreazione assistita? E perché oggi toccherebbe di nuovo alle donne far quadrare i conti dell'euro e quelli delle nascite?

Mai si era visto, negli ultimi decenni, un 8 marzo così piatto e omologato, nei contenuti e nelle forme, nelle bandierine di destra e in quelle di sinistra che ci si piantano sopra. Dicono gli studi di mercato che la festa declina (anch'essa), le mimose scarseggiano, gli inviti a cena languono e di regali non se ne parla e meno male: stava diventando una delle tante saghe del consumo che costellano il calendario. In compenso non declina la saga della ripetizione politica e mediatica. Di leader in leader, di giornale in giornale, di televisione in televisione, suona ovunque la stessa musica: le donne sono sempre più protagoniste della vita sociale, studiano più degli uomini (e non è poco, in tempi di analfabetismo di ritorno dell'intero paese), lavorano meglio degli uomini, invadono arti, mestieri e professioni; ma non sfondano nei luoghi della decisione, non sono deputate e non sono senatrici, non siedono nei consigli d'amministrazione, non dirigono i giornali (fatto salvo il manifesto, puntualizziamo con l'Unità di ieri). E giù i rimedi: un bonus a destra un servizio sociale a sinistra, e quote a spiovere, il 30% di candidate alle europee, anzi il 50% nella lista Prodi, e poi si vedrà alle amministrative e alle politiche. In tempi di femminilizzazione della società, l'elettorato femminile va blandito, con ricette spacciate per nuove ma in realtà già sventolate, millantate, promesse e fallite altre volte. Non solo per la malafede o la misoginia maschile. Ma perché non fanno i conti col desiderio femminile, anche quando vengono portate avanti da quel ceto femminile burocratizzato che detta legge nelle commissioni per le pari opportunità. E il desiderio femminile perlopiù non si attacca al potere e non lo considera l'unica misura del mondo. Non ama i santuari della politica, finché sono quello che sono, e preferisce costruire sfera pubblica altrove e altrimenti.

Non è l'unico imbroglio in circolazione. A chi si allarma preoccupato, anche legittimamente preoccupato, per il calo di natalità, bisognerebbe ricordare che nel mondo globale non è su scala nazionale che si misura la crescita futura dell'umanità, e che forse converrebbe guardare con favore ai e alle migranti non solo quando servono a riempire caselle vuote del mercato del lavoro. A chi in occasione dell'8 marzo rispolvera il metro recriminatorio della parità incompiuta, dei servizi inesistenti e del potere insufficiente per leggere i grafici di casa nostra, bisognerebbe ricordare di non ribaltare questo lamento in vanagloria dei diritti occidentali quando tranciano giudizi sul velo o muovono guerra al burqa. A chi, da destra e da sinistra, in prossimità delle elezioni si sporge tanto a parlare di donne, bisognerebbe chiedere di riflettere un poco su di sé. Dice il presidente Ciampi che una società con poche madri e pochi figli è destinata a scomparire, e ha ragione. Ma anche una società popolata di uomini col velo, a copertura del sé pubblico e privato, non è destinata a vivere e a riprodursi felicemente.



9 marzo

I giudici: "Una corruzione devastante per la democrazia
L'azienda di Silvio Berlusconi aveva interesse nell'affare"
Sme, depositate le motivazioni
'Previti corrompeva per Fininvest'
"Squillante pagava gli altri colleghi. Nessuna prova contro Verde"

 MILANO - Quello che è accaduto nella vicenda della vendita della Sme è stato "devastante per il sistema democratico" perché i giudici hanno venduto la loro imparzialità dietro un corrispettivo. E in questo la Fininvest di Silvio Berlusconi aveva interesse. E Cesare Previti, avvocato dell'azienda, era il "corruttore" e il giudice Renato Squillante era "il corrotto messosi a disposizione per favorire l'interesse di una parte, (la Finivest o comunque società collegate o partecipate)".

Inoltre Squillante aveva "lo specifico incarico" di pagare gli altri colleghi giudici, le dichiarazioni di Stefania Ariosto, il teste Omega, erano attendibili perché hanno trovato riscontri e il giudice Filippo Verde non è stato corrotto perché non vi è alcuna prova che dimostri il contrario.

Sono questi i punti principali che tengono in piedi la struttura della sentenza del processo Sme con cui il 22 novembre scorso, i giudici della prima sezione penale del tribunale di Milano hanno, tra l'altro, condannato Cesare Previti a 5 anni di reclusione, Attilio Pacifico a 4 anni, Squillante a 8 anni e hanno assolto Verde. E' quanto si legge nelle motivazioni che sono state depositate stamani. Oltre 200 pagine, redatte dal presidente del collegio Luisa Ponti per spiegare il perché di quelle condanne e di quelle assoluzioni e per bollare quel sistema di corruzione di magistrati come "devastante per il sitema democratico".

I giudici si concentrano sul rapporto tra Previti, Pacifico e Squillante. "E il rapporto sia personale sia soprattutto economico tra questi tre soggetti - si legge - ancora in essere e vivace a fine 1995-primi 1996, compreso l'aspetto del versamento di somme consistenti di denaro, pervenute su uno dei conti esteri di Squillante, è quanto emerso anche da risultanze obiettive".

Squillante. "Se Squillante assolveva in specifico l'incarico di pagatore nei confronti di altri colleghi, non poteva che essere lui stesso il collegamento tra gli erogatori e gli altri magistrati cui proporre - se avessero accettato a loro volta - di farsi comprare; o anche solo nei cui confronti attuare un intervento o comunque una indebita ingerenza". La posizione dell'ex capo dei Gip di Roma è la più grave, si legge nelle motivazioni. Non solo vendeva la sua funzione "dietro corrispettivo", ma era anche il collettore degli altri atti di corruzione. "La dazione di denaro - si legge nelle motivazioni - è l'ulteriore elemento determinante in tale contesto di accordo corruttivo in quanto non ha altro significato in via logica che quello della remunerazione promessa in adempimento dell'accordo corruttivo: e tale valenza esclusiva fa sì che inconsistenti siano i rilievi secondo cui l'accusa non avrebbe adempiuto l'obbligo di provare la correlazione tra patto corruttivo e ricezione o versamento (a seconda che si tratti del corrotto o dei corruttori)".

"Corruzione devastante". Riferendosi alla responsabilità dei tre imputati condannati per corruzione, Luisa Ponti afferma tra l'altro: "La corruzione di un magistrato, che per denaro o per altra utilità sottomette il proprio dovere di imparzialità e terzietà agli interessi di parte che agitano il piano processuale, è devastante (...) per lo stesso sistema democratico stabilito, in cui il valore essenziale della giurisdizione è proprio quello dell'autonomia ed imparzialità del giudice".

La Fininvest. Scrivono i giudici: "Silvio Berlusconi ha anche detto che lui non aveva alcun interesse nella vicenda giudiziaria, dopo aver ottenuto, in sostanza, attraverso l'offerta poi formalizzata Iar, che il ministro delle Partecipazioni statali bloccasse l'esecuzione delle intese intervenute tra De Benedetti e Prodi. Ma sta di fatto che la Iar, di cui era azionista la Fininvest insieme a Barilla, è intervenuta in tutti i gradi del giudizio". "Non si può dire quindi a maggior ragione - è la conclusione - che la Fininvest non avesse interesse alla vicenda giudiziaria originariamente attivata da Buitoni; vicenda di cui ebbe modo di occuparsi certamente Previti (che era il legale di riferimento per tutte le cause Fininvest a Roma)".

Verde. "Non c'è prova, in questo contesto dibattimentale che possa collegare l'asserita ricezione della somma di almeno 200 milioni a un previo accordo di messa a disposizione aprioristica da parte di Verde della propria funzione giudiziaria a favore di Previti che nella specie avrebbe agito per conto della Iar". Così si spiega come alla base della sentenza con cui il giudice Verde diede torto a Carlo De Benedetti nella vicenda del mancato acquisto dall'Iri della Sme, non ci fosse corruzione
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3 Marzo
In vece
Un importante leader politico ha dichiarato ieri di essere anticomunista da sempre e ha proposto una riforma della giustizia che entusiasma la destra. Pensavate fosse Berlusconi, in vece è Rutelli. (jena)

I figli di un allah minore
Il mondo sciita diventa bersaglio di una furia omicida sanguinosa indiscriminata, proprio nel momento in cui sceglie la difesa dell'integrità dell'Iraq e avvia per questo sia una trattativa con gli Usa che una resistenza politica nazionale contro gli occupanti
STEFANO CHIARINI
DI RITORNO DA BAGHDAD
E'un giorno di sangue per gli sciiti impegnati ieri nella loro festa dell'ashura. E vengono in mente le parole e le testimonianze da noi raccolte in questi giorni a Baghdad e poi in Libano che insistono sul ruolo decisivo in tutta l'area di questa cultura sia religiosa che politica. Ora gli sciiti sono diventati un bersaglio, probabilmente di chi gioca al tanto peggio e al tanto meglio. Facile, troppo facile per un nodo sempre più stretto e a volte intricato tra Iraq, realtà libanese e Iran. E per una realtà che, nelle sue espressioni più avanzate vede proprio gli imam sciiti lavorare in Iraq per una resistenza nazionale e politica, contraria ad uno scellerato inizio di guerra civile contro e tra iracheni. «Il popolo iracheno in un momento così tragico deve trovare una base comune per difendere l'unità del paese e in questo processo è molto importante che la grande maggioranza delle forze politiche e la totalità delle comunità religiose, sunniti e sciiti in particolare, siano contrari ai tentativi di divisione dell'Iraq su basi etniche o confessionali. Il progetto di dividere nei fatti l'Iraq, pur lasciando un simulacro di stato unitario, è alla base di molte decisioni prese dalle autorità di occupazione, ma non sarà di facile realizzazione anche perché su questo punto gli interessi americani e quelli israeliani sono in realtà divergenti: se infatti Israele ne trarrebbe indubbi vantaggi, negli Usa molti pensano che una balcanizzazione incontrollata del Medioriente non vada in ultima analisi a loro favore».

Le colline alle spalle di Tiro

Nayef al Mussawi, responsabile dei rapporti esterni della resistenza islamica libanese degli Hezbollah, con queste parole entra subito in quel dibattito sul futuro dell'Iraq che appassiona in questi giorni tutte le comunità di questa corrente minoritaria dell'Islam ed in particolare quella libanese, legata da vincoli fortissimi, familiari, religiosi e politici, ai suoi correligionari iracheni. Se Ahmed Chalabi, leader del Congresso nazionale iracheno ed esponente dell'ala pro-Usa ha sempre avuto rilevanti interessi affaristici a Beirut, se gli uomini di affari sciiti fanno la spola con Baghdad, se il movimento degli Hezbollah libanesi per anni è stato parte dell'organizzazione irachena di Al Dawa, è proprio la storia della rinascita politica sciita dopo tredici secoli di emarginazione a legare tra loro i membri di questa comunità dell'Islam in una sorta di invisibile internazionale con tre centri principali Beirut, Najaf e Tehran. Una storia comune mette in comunicazione le dolci colline alle spalle di Tiro, nel sud del Libano, con le scuole religiose sotterranee di Najaf e con quelle di Qom in Iran, lo stato dove per la prima volta nel 1979, la rivoluzione islamica sciita è arrivata al potere politico. Anzi possiamo dire che la riscossa degli sciiti iniziò proprio dal Jabal Amel, dalle colline della Fenicia, quando nel 1959 vi arrivò da Najaf l'imam Musa al Sadr, l'uomo che li avrebbe fatti uscire da una secolare esclusione. Musa al Sadr amico del futuro leader della rivoluzione iraniana l'ayatollah Khomeini e del presidente siriano Hafez al Assad nel 1974 fondò in Libano il primo «Movimento dei diseredati» diffusosi poi rapidamente nella «cintura delle miseria» attorno alla capitale libanese. Successivamente, nel clima infuocato della guerra civile, Musa al Sadr avrebbe dato vita, con l'aiuto dell'Olp, alla prima milizia armata sciita della nostra epoca, l'organizzazione «Amal», per poi scomparire improvvisamente durante un viaggio a Tripoli di Libia. Se il pensiero e l'azione di Musa al Sadr ispirò non poco, insieme ai massimi esponenti politico-religiosi di Najaf come il grande ayatollah Mohammed Baqir al Sadr, la rivoluzione iraniana, questa a sua volta avrebbe dato idee e uomini alla resistenza sciita libanese e questa avrebbe combattuto a fianco dei suoi correligionari iracheni in un continuo circuito di vasi comunicanti. Non a caso fu proprio dalle scuole di Qom e di Najaf, dove aveva trascorso gran parte del suo esilio l'ayatollah Khomeiny, che giunsero in Libano quegli esponenti politico-religiosi all'origine di una miriade di movimenti di resistenza (sponsorizzati in molti casi dalle guardie della rivoluzione iraniana) contro la presenza militare israeliana (1982-2000) nel sud del paese ma anche contro quella americana e francese. A tale proposito è interessante notare come in realtà, esattamente come in Iraq nel 2003, le popolazioni sciite del Libano del sud in un primo momento non si fossero opposte affatto nel 1982 all'arrivo dell'esercito israeliano, anzi in alcuni casi lo avevano ringraziato di averli liberati da quella presenza palestinese all'origine delle continue rappresaglie contro i loro villaggi di confine. La svolta si ebbe quando gli sciiti si accorsero, come potrebbe avvenire in Iraq con l'esercito Usa, che Israele non aveva alcuna intenzione di andarsene. Tra i protagonisti di questa nuove resistenza vi fu senza dubbio un altro personaggio di Najaf, il padre spirituale del movimento Hezbollah, lo sheik Mohammed Hussein Fadlallah.

L'eterno «ruolo» della Cia

L'esponente sciita - sfuggito miracolosamente ad una attentato della Cia a Beirut a metà degli anni ottanta, che provocò oltre 90 vittime - è una figura centrale del rapporto tra il jabel del sud Libano e i centri iracheni dello sciismo in quanto ha sempre portato avanti, come quest'ultimi, la tradizione «pietista», con sede in Iraq, favorevole alla separazione tra la «Fonte dell'emulazione» a livello religioso (il più saggio e autorevole tra i Marja) indicata a suo tempo nel grande ayatollah Abdol Qassem al Khoei (morto nel 1992), e oggi nell'ayatollah al Sistani (entrambi critici del principio del «governo dei religiosi» il Velayat e Faqih seguito invece in Iran), e la leadership politica in Iran rappresentata dall'ayatollah Khomeiny e dall'attuale guida iraniana Ali Khamenei.

Una differenza non da poco quella tra «pietisti» e «iraniani» che ad esempio oggi in Iraq è alla base dei contrasti tra il Consiglio supremo della rivoluzione islamica legato a Tehran, da una parte, e dall'altra i vari pezzi nei quali si è diviso il partito al Dawa, e le tendenze più radicali facenti capo al giovane leader Moqtada al Sadr, particolarmente popolare tra i sottoproletari delle periferie di Bahgdad (anch'egli parente alla lontana dell'imam Musa al Sadr). Un contrasto assai acceso che ha portato anche a dure accuse di «attendismo» nei confronti dell'occupazione rivolte dallo stesso al Sadr nei confronti del leader religioso degli sciiti iracheni, l'ayatollah Ali al Sistani, e ad un intervento moderatore dello stesso Hussein Fadllah, pronunciatosi più volte contro l'occupazione Usa dell'Iraq «non accettate di sostituire un incubo con un altro , un tiranno con una occupazione straniera ... ». La linea di separazione e di contrasto tra l'ala iracheno-libanese anti-Usa, aperta ad un rapporto con i laici e favorevole ad una separazione tra stato e religione, e quella iraniana facente capo oggi al Consiglio superiore della rivoluzione islamica in Iraq (Sciiri) degli al Hakim, favorevole al «governo dei religiosi» ma pronta a convivere con gli Usa se gli interessi dell'Iran lo richiedano, si può far risalire proprio alle differenze tra il pensiero di Khomeiny e quello del marja Mohammed Baqer al Sadr, giovane e brillante membro di una delle famiglie sciite più importanti dell'Iraq, massimo studioso di legge e di religione, fondatore nel 1959 del movimento al Dawa ( il più antico partito islamista sciita iracheno) e ucciso nel 1980 dal regime laico di Saddam Hussein. In realtà i membri del partito al-Dawa iracheno (con il suo slogan «Kerbala oggi, domani Gerusalemme») decimato nei primi anni Ottanta dalla repressione in Iraq erano anche in gran parte militanti dei gruppi che avrebbero dato vita agli Hezbollah. E spesso operarono insieme in Iraq contro il regime del Baath, in Kuwait per destabilizzare l'emirato degli al Sabah e in Libano contro la presenza israeliana, americana e francese. Successivamente, negli anni novanta, le varie resistenze avrebbero assunto un carattere più «nazionale», in particolare quella libanese, mentre il successo nella lotta contro l'occupazione israeliana, la crescita a livello economico della borghesia sciita e ora il sempre maggior peso in Iraq, hanno portato a profondi cambiamenti sia nei metodi che negli obiettivi di questi stessi movimenti che in Libano e in Iraq sono entrati in gran parte nell'assise politico-parlamentare pur mantenendo il loro carattere militante e profondamente anti-Usa e anti-sionista. Del resto i legami tra le colline di Tiro e le pianure di Najaf non si sono affatto allentati né sono scemate le polemiche tra «iraniani» e «nazionali», con i secondi assai sospettosi del pericolo che lo Sciri potrebbe cedere agli Usa in cambio di un allentamento dell'assedio all'Iran. Polemiche in ogni caso assai discrete e coperte in questi giorni sotto la comune affermazione di fedeltà al marja Ali Sistani e alle sue proposte di elezioni dirette. Del resto, come ci dice Nawaf al Mussawi, «tutti gli iracheni sono contro l'occupazione straniera del loro paese e vogliono un vero passaggio dei poteri che per essere tale deve avvenire con un governo eletto espressione della volontà popolare. Altrimenti si tratterà solo di un mascheramento dell'occupazione». Pieno il sostegno da parte degli Hezbollah e degli sciiti libanesi al principio della resistenza contro le truppe Usa ma altrettanto ferma è la condanna degli attentati che hanno come obiettivo i civili.

La disponibilità di Al Sistani

La scelta sembra quindi per una via mediana, in Iraq come in Libano, a patto che gli Usa si decidano a lasciare il paese. In fondo al Sistani sta dando agli Usa l'ultima possibilità per andarsene dall'Iraq salvando la faccia e, in parte, i loro stessi interessi. Ma da questo punto di vista l'atteggiamento Usa è piuttosto schizofrenico: in Iraq i membri di al Dawa sarebbero «combattenti per la libertà» tanto da essere stati invitati nel Consiglio di governo provvisorio mentre invece in Libano, per aver lottato contro la presenza israeliana si tratterebbe di «terroristi» (definizione respinta invece fino ad oggi alla Ue). Non solo. Nelle ultime settimane si sono fatte più insistenti le voci secondo le quali Donald Rumsfeld starebbe valutando l'ipotesi di allargare la «lotta al terrorismo» alle basi degli Hezbollah nella valle della Beqaa e coinvolgendo così in essa anche la Siria. In realtà, secondo Mussawi, le minacce Usa sarebbero legate sia alle posizioni prese dagli Hezbollah contro l'occupazione dell'Iraq sia al sostegno alla resistenza palestinese in un momento nel quale Israele «cerca di spezzare la volontà palestinese di lottare per i propri diritti - ci dice l'esponente degli Hezbollah - ma come in Iraq non è affatto detto che ci riescano. Tre anni fa Sharon gridava «Netzarim è come Tel Aviv». Ora non più. Una vicenda che dimostra come la resistensa in Palestina, in Libano o in Iraq per quanto difficile e lunga è in realtà l'unica strada che rimane ai popoli per difendere i loro diritti». E oggi sotto il fuoco incrociato sembrano proprio gli sciiti

 

1^ Marzo

Il grande orecchio
GIULIETTO CHIESA


Taci. L'amico ti ascolta! Il governo di quel tale che avrebbe dovuto guidare il centro-sinistra mondiale, è di nuovo nei guai per l'Iraq. Il suo ex ministro Claire Short gli ha messo tra le gambe la notizia che i servizi segreti britannici e americani avevano riempito di «pulci» nientemeno che il segretario generale dell'Onu, Kofi Annan. Tony non smentisce e non conferma, perché - dice - non può. Ma non può nemmeno chiamare in giudizio la signora Short. Troppo rischioso, mica è la Bbc. E poi il suo governo poche ore prima aveva lasciato cadere l'accusa contro miss Khatarine Gun. La quale aveva rivelato, via fax al The London Observer, che i servizi segreti statunitensi ordinarono a quelli britannici di spiare, per conto loro, un certo numero di diplomatici stranieri delle Nazioni unite. Perché? Per Kofi Annan come per la storia rivelata da miss Gun, si trattava semplicemente di raccogliere quello che i russi chiamano «kompromat», materiali compromettenti. Si voleva sapere, probabilmente tutto della loro vita, anche privata, in modo tale da poter influenzare i loro comportamenti nel consiglio di sicurezza sulla faccenda della guerra irachena.

Per la precisione, oltre al segretario generale, gli oggetti di tante cure erano i diplomatici dei «paesi di mezzo» del consiglio di sicurezza - Angola, Bulgaria, Camerun, Cile, Guinea, Pakistan - quelli che sarebbero stati decisivi per raggiungere la maggioranza dei voti, e così costringere la Francia e la Russia a cedere, o a usare il diritto di veto, o a rimanere isolati.

Scopriamo così che Blair e Bush stavano compromettendo l'intero processo democratico delle Nazioni unite, torcevano il braccio a paesi sovrani, agivano al di fuori delle leggi internazionali per preparare un atto a sua volta illegale. E forse è solo un piccolo spaccato di un agire gangsteristico che pare essere diventato la norma.

Che quella guerra fosse, sotto ogni profilo, illegale. Che si trattasse di aggressione premeditata senza motivi, o per futili motivi, come la pretesa di esportare laggiù la democrazia americana lo sappiamo da tempo. Adesso sappiamo di più: che quei lestofanti non solo hanno massacrato migliaia di civili e qualche decina di migliaia di militari (che sono persone anche loro) iracheni, ma hanno attentato e stanno attentando alle nostre libertà democratiche. Perché sarebbe da ingenui pensare che i vari Echelon in funzione da tempo si occupino soltanto di diplomatici del Camerun, una tantum. Se sono andati così in alto da toccare Kofi Annan, chi altri potrebbero risparmiare?

Si occupano, evidentemente, di tutti i politici che possono prendere decisioni che riguardano, direttamente o indirettamente, «gli interessi nazionali degli Stati uniti d'America».

Quindi è d'obbligo un avvertimento a tutti. Usate poco le comunicazioni elettroniche e fate come si faceva a Mosca ai bei tempi del socialismo reale sovietico. Cioè, se dovete dire qualche cosa a qualcuno/a, invitatela/o a fare una passeggiata nella via più rumorosa della città.

Così vorrei chiedere a quelli che non hanno votato per il ritiro dei nostri da Nassiriya, ma come si fa a stare laggiù in quella compagnia? Non vi accorgete che in questo modo, dimostrate - tra l'altro - un solenne disprezzo per l'intelligenza degli iracheni? Non vi passa per l'anticamera del cervello che loro ci percepiscono laggiù esattamente per quello che Berlusconi e Bush hanno voluto che fossimo? Cioè degli aggressori?

Non vi viene voglia, una volta ogni tanto, di fare qualche cosa neanche «di sinistra» (perché quelli che vi chiedono di votare no sono molti di più di quelli «di sinistra»), ma semplicemente qualche cosa che indichi che siete attenti ai sentimenti di una parte preponderante del vostro stesso elettorato?