Archivio Maggio 2004
27 maggio
I
cocci dell'Iraq
ROSSANA ROSSANDA
Che Bush cerchi di uscire dal sanguinoso pantano in Iraq salvando faccia e
petrolio, è evidente. Che punti a una copertura anche retroattiva dell'Onu è
altrettanto chiaro, ma che la bozza presentata all'Onu da Usa e Gran Bretagna
possa essere rimandata ai mittenti senza discuterne, mi pare difficile. E non
solo perché essa ha un suono un po' diverso dal discorso del presidente
americano che l'ha accompagnata, ma perché essa segnala anche difficoltà reali
della situazione in cui è stato cacciato quel disgraziato paese. Si può dire a
Bush: chi rompe paga e i cocci sono suoi? Non tutti i cocci sono permutabili in
denaro e irreparabili, ma soprattutto i cocci dell'Iraq se li terrebbe
volentieri e sarebbe ancora in grado di farlo sia pure rischiando un alto
prezzo, e possono diventare ancora più gravi. Bisogna rifletterci. La mozione a
nostro avviso va discussa a fondo. In primo luogo perché non c'è, né
materialmente né politicamente una forza dell'Onu in grado di intimare agli
Stati uniti e alla Gran Bretagna di ritirarsi subito, sostituendola con una
forza propria di interposizione, della quale non facciano parte gli eserciti
occupanti. Sarebbe in assoluto il meglio, ma non ce ne sono le condizioni. Il
consiglio di sicurezza è in grado invece di trattare con posizioni e comando
delle forze in Iraq, controbattendo la volontà americana di non farsi dirigere
e limitare da nessuno.
In secondo luogo una fase di transizione appare necessaria, perché fra Saddam,
la guerra con l'Iran per conto degli Usa, l'embargo e infine l'aggressione del
2003, quel paese, già diviso fra etnie e confessioni religiose è stato capace
di resistenza ma non ha una piattaforma coesa per il domani. Diciamo
deliberatamente resistenza: piaccia o non piaccia questo è stata la reazione
inattesa al più potente esercito del mondo anche se vi hanno agito molteplici
spinte fra le quali un terrorismo del quale non sappiamo quasi nulla, salvo che
si tratta di un metodo tremendo usato non da un solo soggetto, ma da più d'uno
e con fini e motivazioni.
Si tratta dunque di dar vita a un governo interinario, che non sia la copia del
governo fantoccio già tentato; non è facile per Lakhdar Brahimi indicare chi
può essere accettato da una grande maggioranza del paese come almeno
transitoriamente credibile. E non lo sarà se non avrà il potere di opporsi
alle azioni militari non di interposizione e di fissare una data per il ritiro
degli occupanti.
In terzo luogo si tratta di restituire agli iracheni il petrolio che dalle mani
di Saddam è passato in quelle americane, bottino che da un pezzo è negli
interessi privati di Dick Cheney. Non dubitiamo che sarà uno dei punti più
difficili da ottenere. Ma deve essere condizione sine qua non per una qualsiasi
cauzione delle Nazioni unite. Tutto questo è meno di un ritiro americano
incondizionato come fu quello dal Vietnam. Ma allora le condizioni di forza su
scala mondiale erano diverse, il Vietnam non era l'Iraq e aveva alle spalle l'Urss
e la Cina. E non di meno quella pace è stata vinta meno della guerra. Oggi gli
Stati uniti sono la sola superpotenza nel mondo, in difficoltà all'interno per
le perdite subite e internazionalmente per avere sperimentato come l'unilateralismo
sia più facile da dichiarare che da praticare. Non siamo più nel 2001/2002.
Quando - ha ragione Asor Rosa sull'Unità di martedì - non occorreva essere grandi profeti per capire
quel che si stava preparando. La responsabilità dell'occidente, Europa inclusa,
è di aver finto di ignorare la dottrina della New strategy che dichiarava gli
Stati uniti svincolati da ogni legge e diritto internazionale e di averli
accompagnati con fanfare nell'impresa afghana, non meno ingloriosa e anch'essa
irrisolta. E perciò non riuscendo a impedire quella irachena.
La complicità e le omissioni dell'Occidente sono state grandi. E non soltanto
da ieri. Sarà anche un loro frutto se le elezioni del 2005 porteranno a una
repubblica islamica, prodotto di due tesi delittuosamente stupide, quella di
Huntington sull'inevitabile scontro di civiltà e quella sulle «esportazioni»
della democrazia con le armi. Davanti al Medio oriente non possiamo che coprirci
il volto con vergogna anche per quel che lo abbiamo indotto a diventare. La
sinistra, dal blando Kerry ai nostri riformisti, non ha certo peccato di troppo
coraggio. Cerchi di non perdere anche questa, se non entusiasmante, seria
occasione.
In Sardegna
a un paio di miglia dalla villa La Certosa
l'enorme cantiere. In costruzione anche un tunnel
Quel
finto teatro greco sul mare
l'ultima febbre di Berlusconi
I carabinieri mandano
via chiunque: "Sicurezza nazionale"
di PINO CORRIAS
OLBIA
- Marco è abbronzato, sveglio e scalzo. Salta sul
gommone bianco, accende il motore da 60 cavalli che fa ronzare il mare blu,
dice: "Andiamo?".
Come no. Questa è una gita speciale. Si va a visitare un cantiere che non si può
vedere, non esiste sulla carta, ma già galleggia sul mare. Il mare di Punta
Lada. Ponteggio a ridosso della scogliera: gru, escavatrici, bracci meccanici,
operai in tuta arancio.
È la sola Grande Opera che Silvio Berlusconi non ha mai disegnato con il
pennarello, ma che sta realizzando (direttamente) con il cemento, i martelli
pneumatici, un decreto che nessuno ha ancora visto, il velo impenetrabile della
"sicurezza nazionale", le motovedette dei carabinieri a fronteggiare i
curiosi, dissuadere ambientalisti e scocciatori. Non è un ponte, non è uno
svincolo, non è un raddoppio autostradale. È una grotta. È casa sua.
Casa sua sta a un paio di miglia di mare da qui. Si chiama Villa La Certosa, 50
ettari di mirto, ginestre, ulivi, tutto comprato un po' alla volta. Tutto
cresciuto un po' alla volta. Compreso un agrumeto. Una foresta di ulivi
secolari. La spianata dei cactus. Il lago artificiale. La finta cascata. E
adesso (in un colpo solo) un nuovissimo anfiteatro finto-greco, ma di autentico
granito, che si vede solo dalle alture di Porto Rotondo. E questo benedetto
cantiere a mare che si vede da qualunque punto del Golfo. Il cantiere ha
scatenato un vespaio.
Trattasi, secondo le parole del ministro Giovanardi di "cavità naturale da
ingrandire e consolidare". Un "approdo coperto per piccole
imbarcazioni". Una "via di fuga sicura" per il premier, i
familiari e "le illustri personalità straniere". Roba talmente
segreta che sino a una manciata di giorni fa nessuno ne sapeva niente. Cento
metri quadrati di tubi Innocenti spuntati sul mare, chiatte avanti e indietro
per il Golfo, camion via terra, e il sindaco di Olbia Settimo Nizzi (Forza
Italia) cascava dalle nuvole: "Non ho niente da dire". Buio completo
da carabinieri, polizia, guardia forestale e costiera. La prefettura di Sassari?
Incompetente. Il ministero degli Interni? Nulla da dichiarare. Mistero.
Sabato
scorso Gianni Nieddu, senatore ds, un pugno di ambientalisti e i cronisti della
Nuova Sardegna hanno provato un assalto con i gommoni. Sono arrivate rombando un
paio di vedette dei carabinieri, una lancia costiera e un elicottero:
navigazione interdetta entro i 500 metri dalla costa. Ma come? Un senatore della
Repubblica non può approdare sul terreno demaniale di costa? No. Tutti fermati,
identificati, rispediti a terra. "Sicurezza nazionale".
Dice Marco: "Questa è la rotta dell'altra volta". Dice: "Guardi
laggiù. Dove finiscono quelle case, iniziano i terreni di Berlusconi".
Giusto. A destra dell'ultima speculazione edilizia (vecchio stile, ruggenti Anni
Sessanta) cominciano i boschetti incontaminati di Villa Certosa. Berlusconi
comprò i primi 7 ettari una ventina di anni fa dal suo vecchio amico Flavio
Carboni. Nel 2001 fece le cose in grande: ne aggiunse 40 acquistandoli da Tom
Barrak, il finanziere. L'anno scorso ancora un pezzetto, questa volta dalla
famiglia Dejana.
Da allora, in attesa del passaggio estivo dell'amico Putin, la tenuta è
diventata un cantiere. Dalla diga del Liscia è arrivata l'acqua dolce per il
laghetto artificiale. Dalle cave di San Giacomo (tra Olbia e Arzachena) è
arrivato il granito giallo per i pontili, i finti scogli, le finte barche che
ornano le sue rive. Ogni tanto giganteschi ulivi arrivano sdraiati sulla schiena
di camion speciali. Ogni tanto arrivano scatoloni di legno imballati dall'altra
parte del mondo con cactus rarissimi che si aggiungono ai 2 mila già piantati
nella lunare (e celebre) spianata.
Adesso tocca all'anfiteatro che una tripla squadra di operai sta rivestendo di
granito. Lo scavo è circondato da prati e ulivi. Da cespugli di mirto e vento.
Il teatro è il pallino di Marcello Dell'Utri, che ama Eschilo e la tragedia. Ma
è anche il sogno di Silvio che (invece) adora Apicella.
Navigando con il gommone, il teatro è solo una macchia
polverosa nel verde. Dal verde si vedono spuntare i tetti delle rosate dimore
che fanno da corona a Villa Certosa, grande come una chioccia da 2 mila 500
metri quadri. La residenza. Il villone.
Blocchi rosa quadrati e blocchi circolari. Vetrate. Piscine rettangolari di
acqua di mare. Una discesa scavata nella roccia e nel verde dei prati
all'inglese. Fino al molo. Fino a quei 4 pennoni, altissimi, spuntati anche loro
la scorsa estate, autentici pennoni portabandiera, che fanno un po' Grand Hotel
e un po' Onu. Oppure Camp David.
A proposito. Al porticciolo di Marana qualunque fabbro, qualunque pittore di
scafi e di timoni ti intrattiene sui memorabili passaggi dei grandi della Terra,
sulle guardie del corpo di Putin, sugli assaltatori in mimetica e (naturalmente)
sull'imminente arrivo di George Bush con la sua valigetta nucleare. Arriva, come
no. Secondo tutti il cantiere degli scandali è un bunker che Silvio sta
preparando per lui. Non un approdo coperto, come dice Giovanardi. E neppure
"una normale miglioria di un privato cittadino" come ebbe a dire il
simpatico Paolo Bonaiuti, portavoce del premier, attribuendo le proteste degli
ambientalisti al livore e all'invidia, anzi "ai professionisti
dell'invidia". Come se qui a qualunque "privato cittadino" fosse
possibile spostare un cespuglio, un sasso, senza attendere cento controlli,
cento verifiche e incassare cento divieti.
Eccoci dunque. Il cantiere adesso si vede benissimo alle spalle della
Motovedetta che dondola agganciata a due boe arancioni. Sulla cima del ponteggio
ci sono le macchie gialle dei grossi compressori per i martelli pneumatici. C'è
il braccio bianco della escavatrice che gratta l'arco nero della grotta. Un
mucchio di terra smossa sta a mezza collina, circondata da grandi massi. Dicono
stiano costruendo anche un tunnel. Lo chiamano il tunnel James Bond, avventura
"La spia che mi amò", sequenza del sottomarino che entra nella
"cavità naturale". Piattaforma. Ascensore. Interno villa.
Di fianco al cantiere c'è la sequenza di massi in verticale che, solo d'estate,
diventano il percorso della cascata. Pochissimi l'hanno vista in funzione.
"Putin sicuramente e pure io" dice Marco seguendo gli spigoli
dell'onda che fanno saltellare il gommone. Dice che funziona con una grossa
pompa che aspira acqua da sotto gli scogli, la porta in cima ai massi e la
spinge verso il salto di venti metri. Dice: "Una meraviglia". Dice:
"Anche se non serve a niente".
Ci avviciniamo. La motovedetta dondola. Operai vanno su e giù lungo i fianchi
verdi e neri del cantiere. Non si sente un rumore, a parte il gocciolare del
mare. Un carabiniere si affaccia. Guarda, fa sciò con le mani. Due volte. Non
minaccioso, semmai rallentato. Come è rallentata (in fondo) tutta la scena.
Marco vira e si torna. Al porto ti dicono che Berlusconi pagherà tutto di tasca
propria. Hanno un tono a metà tra l'ammirazione e il fatalismo. Tra
l'ammirazione e la sfida. Non capisci se stanno parlando (solo) di soldi o anche
di voti. Marco sparisce. Bisognerebbe farsi un bagno.
Quelle
antenne ammutolite
La Rai ha
smantellato la sua offerta radiofonica in onde medie. Messo il silenziatore a
Radiodue e Radiotre, ora la scelta si riduce a un unico canale. La motivazione
ufficiale è che quelle emissioni di frequenze mettevano a rischio la salute dei
cittadini e il paesaggio. In realtà, si sono destinati quei fondi al digitale
terrestre
GIOVANNI PILLO
Non possiamo sapere
esattamente quanti sono, ma possiamo immaginare che sono tanti quelli che a
partire dal 15 maggio hanno iniziato a sintonizzare la loro radiolina alla
ricerca degli scomparsi segnali ad onde medie di Radiodue e Radiotre. Questa è
infatti la data scelta dalla Rai per avviare un poco credibile «piano di
razionalizzazione» che ha spento più di cinquanta impianti di trasmissione in
onde medie nel nostro paese, lasciando attive solo una quarantina di antenne che
irradiano i segnali di Radiouno. Le onde medie (banda di frequenza posizionata
tra i 526 khz e 1600 khz) erano un'ottima alternativa all'ascolto in modulazione
di frequenza (fm), soprattutto in quelle zone dove i segnali della Rai non
riuscivano a farsi ascoltare tra i sempre più potenti network nazionali. La
decisione di questo reale abbandono della tecnologia ad onde medie non è nuova.
Infatti leggendo attentamente il contratto di servizio, stipulato tra la Rai e
il Ministero delle comunicazioni (approvato dal consiglio di amministrazione
dell'azienda pubblica il 21 gennaio 2003) scopriamo che l'articolo 18 conteneva
già le indicazioni per la realizzazione di un'unica rete ad onde medie per la
trasmissione dei programmi delle reti radiofoniche nazionali. Il tutto per
tutelare la salvaguardia della salute umana e della tutela del paesaggio.
Secondo il contratto di servizio, quindi, gli impianti sono stati spenti perché
le loro emissioni mettevano a rischio i cittadini italiani ma anche perché gli
alti tralicci di una stazione ad onde medie rappresentavano un danno al nostro
paesaggio. Sembra difficile immaginare che tutti gli impianti spenti
rappresentassero un reale rischio per la popolazione mentre è molto più
immediato pensare ad una nuova destinazione dei fondi utilizzati per le onde
medie verso il progetto del digitale terrestre che tanto spazio trova nei
bilanci della Rai.
La situazione delle frequenze radio nel nostro paese è da sempre drammatica, le
tre emittenti Rai combattono in fm una guerra quotidiana con network ed
emittenti regionali, sempre più potenti che disturbano i canali nazionali
rendendo l'ascolto difficile e di qualità sempre pessima. Nessuna nuova
frequenza è stata acquisita negli ultimi anni per migliorare questa situazione
e con l'abbandono delle onde medie la situazione sembra ancora più tragica. Le
uniche nuove frequenze acquistate dalla Rai sono state utilizzate per il
digitale terrestre che trasmette effettivamente i tre canali radio in qualità
digitale, ma non copre ancora tutto il territorio e necessita comunque di un
decoder apposito per la ricezione.
Lo stato dello sviluppo del dab, lo standard europeo per la radio digitale, da
parte della Rai è sempre stato minimo e gli unici ascoltatori che possono
ascoltare questi segnali di «qualità» sono quelli del Piemonte, Alto Adige e
Val D'Aosta, regioni dove sono installati i soli 20 trasmettitori attivi. La
situazione italiana rimane unica in campo europeo infatti in tutto il continente
gli investimenti sulla radio e sulle tecnologie per ascoltarla meglio sono tanti
e di vari tipo.
Il caso inglese è quello più interessante. La Bbc infatti trasmette in
digitale sul 85% del territorio nazionale utilizzando lo standard europeo dab e
offrendo agli ascoltatori nuovi canali e nuovi contenuti da fruire con la stessa
qualità di un compact disc. Di fianco a questo rinnovamento digitale della
radio coesiste una ottima gestione delle «vecchie» onde medie che vengono
usate per le talk radio e per i progetti di radio comunitarie come la famosa
Radio Spectrum di Londra, vera e propria voce multi etica della capitale
inglese. Sintonizzando le onde medie in Inghilterra è possibile ascoltare anche
piccole stazioni che trasmettono dagli ospedali o dalle scuole utilizzate come
veri e proprio progetti formativi e di terapia di gruppo.
La stessa scelta è stata fatta in Francia, utilizzare le onde medie come
palestra di sperimentazione radiofonica per piccole emittenti e per nuovi
progetti che difficilmente avrebbero trovato spazio nelle caotica banda fm. Dopo
l'abbandono della Rai qualcosa di simile sarebbe possibile anche nel nostro
paese e infatti l'associazione Conna (Coordinamento nazionale nuove antenne) dal
suo sito www.nuoveantenne.it ha lanciato un appello per la creazione di nuove
micro emittenti che sul modello delle telestreet inizino una nuova invasione
delle onde medie utilizzando trasmettitori a bassa potenza.
Nel nostro paese sono tutt'ora attive due emittenti private che spartiscono
insieme alla Rai ed a Radio Vaticana l'ampia gamma delle onde medie, la toscana
Radio Studio X attiva sui 1584 Khz e l'emiliana Radio 106 sui 1404 khz. Speriamo
che nuovi progetti possano prima possibile riattivare e rendere viva la banda
delle onde medie che dopo l'abbandono dei segnali di Radiodue e Radiotre è
silenziosa in ampie zone del nostro paese, non coperte dai segnali dei
trasmettitori lasciati accesi dalla Rai.
Allo stesso modo contiamo nello sviluppo nel nostro paese del dab che ormai è
utilizzato nella maggior parte dei paesi europei e permette di dare alla radio
una qualità e una semplicità di ascolto che gli ascoltatori italiani si
meritano da tempo.
26 maggio
IRAQ
La
diffidenza del presidente
Ciampi
dubita della bozza Bush. Il premier: «L'ho ideata io»
ANDREA COLOMBO
ROMA
Poche parole, ma più che sufficienti. Il presidente della
repubblica italiana Ciampi scrive al collega cinese Hu Jintao e quasi lo invita
a far valere il potere di veto della Cina nel consiglio di sicurezza Onu per
impedire che la risoluzione sull'Iraq sia quella beffa che si sta preparando. «In
qualità di membro del consiglio di sicurezza - dice il capo dello stato - la
Cina può fornire un contributo essenziale a una Risoluzione che definisca un
ruolo decisivo dell'Onu nella transizione irachena e consenta l'insediamento di
un governo realmente autonomo e sovrano». Non c'è bisogno di aggiungere altro
per chiarire che, a Ciampi, non pare affatto soddisfacente il progetto di Bush e
di Blair. Di Bush e di Blair? Ma se lo sanno tutti che quel testo è frutto del
genio diplomatico di Silvio Berlusconi. Qualora il particolare fosse sfuggito,
comunque, ci pensa lo stesso cavaliere a rendere a Silvio quel che è di Silvio.
«La risoluzione - proclama l'onnipotente in una nota ufficiale - riprende le
proposte da me enunciate in parlamento». E attenzione, non si tratta mica di un
testo qualsiasi: «Il progetto risponde alla preoccupazione della comunità
internazionale di assicurare un passaggio di poteri pieno ed effettivo al
governo iracheno, e di attribuire alle Nazioni unite il ruolo guida nella
ricostruzione dell'Iraq». E' appena il caso di notare che, meno di 24 ore
prima, il ministro degli esteri Frattini era stato ben più pruidente, definendo
la proposta Bush-Blair «un buon punto di partenza». Si vede che quel Frattini
proprio non sa cosa vuol dire propaganda. Altro che punto di partenza: qui siamo
al traguardo. parola di Berlusconi.
La linea del comandante coincide con quella della
truppa e di tutti gli ufficiali. Nel centrodestra parlano tutti, ma non si
scostano di un millimetro dal proclama del premier. L'unico a distinguersi è il
segretario dell'Udc Follini, decisamente più cauto degli entusiasti compagni di
coalizione. Si limita a definire la mossa anglo-americana «un passo avanti»,
«la sola scommessa che abbiamo a disposizione», forse «la premessa per una
svolta». Toni decisamente diversi da quelli adoperati dal premier e dai suoi
numerosi corifei.
Follini è anche uno dei pochissimi leader della
destra che non tenti di addebitare a Prodi e alla lista che porta il suo nome
l'accusa di alto tradimento. Ma per una volta il listone regge perfettamente
all'impatto degli avversari. Non arretra di un centimetro. Dice la verità sulla
risoluzione-truffa e la dice ad alta voce, senza gli abituali distinguo. Già il
presidente della Ue, da Bruxelles, era stato in mattinata inequivocabile. «Per
combattere il terrorismo - aveva detto Prodi - ci vuole fermezza, ma ci vogliono
anche comportamenti esemplari e coerenti con i valori che intendiamo difendere.
Ogni giorno assistiamo a a sviluppi tragici che ci dimostrano come ogni
tentativo di affermare i valori comuni con la forza delle armi è inutile e vano».
In Italia i leader dell'opposizione concordano,
rincarano, rilanciano. Il verdetto dell'ala sinistra sul progetto di George W.
è netto e drastico. «Il piano è da buttare insieme a Bush», va giù laconico
Bertinotti. Sia pur con parole diverse, il giudizio dei verdi, del Pdci, della
lista Occhetto- Di pietro, del correntone è identico. Ma questo era scontato.
Dubbi potevano invece soregere sulla valutazione dei Ds e della Margherita. Li
dissipa Rutelli: «La bozza è assolutamente insufficiente: non c'è niente di
nuovo sotto il sole. Per risolvere la situazione ci vuole ben altro». Conferma,
da Gorizia, Fassino: «Nella bozza non appare alcuna significativa novità. Da
parte americana non c'è nessun passo indietro e da parte nostra non c'è alcun
imbarazzo. Basta leggere il commento del New York Times per vedere che le nostre posizioni sono giuste e
ragionevoli». La segreteria del suo partito, infine, definisce la proposta «inadeguata
e deludente».
Possibile che nel triciclo non ci sia nessuno che
mette un po' le mani avanti. C'è. Massimo D'Alema che, da Porta a Porta, limita di parecchio le critiche. Sperra che «la
discussione possa portare a un'effettiva svolta e a un passo indietro degli Usa».
E' molto preoccupato e non lo nasconde. Teme che abbia successo il gioco delle
parti tentato da Berlusconi: «Non vorrei assistere a uno scambio delle parti.
Non vorrei che chi da un anno rivendica la responsabilità dell'Onu fosse
indicato come nemico dell'Onu e viceversa». Non ha torto l'ex premier. Che
proprio questo sia il trucco del prestigiatore di Arcore è evidente. Però sono
proprio preoccupazioni di questo genere che hanno portato il triciclo a esitare
troppo a lungo, quasi oltre tempo massimo, prima di chiedere il ritiro delle
truppe.
Fuori
legge
ANDREA FABOZZI
Se c'è una cosa che al governo Berlusconi riesce bene sono gli scioperi.
Gli scioperi contro, si capisce. Medici, insegnanti, dipendenti pubblici,
autoferrotranvieri, metalmeccanici; ma anche lavoratori delle pulizie,
ministeriali e termalisti, allevatori e pescatori, guardie carcerarie,
controllori di volo e magistrati. Ieri i magistrati per la seconda volta in due
anni (evento raro: per trovare un altro sciopero bisogna tornare alla
"prima repubblica", 1991). E come gli altri questo sciopero è stato
un successo: otto toghe su dieci sono rimaste negli armadi. A cominciare da
quelle più autorevoli: capi degli uffici e giudici di Cassazione. Non è una
notizia irrilevante. Perché la riforma che il ministro Castelli sostiene e la
magistratura associata respinge ha il suo centro nella visione gerarchica del
«servizio giustizia». La dialettica interna agli uffici giudiziari secondo il
ministro e i suoi autori dev'essere risolta aumentando i poteri del procuratore
capo, che potrà così facilmente richiamare le inchieste assegnate ai
sostituti. La costituzionale uguaglianza dei magistrati va invece corretta da un
lato con una sostanziale separazione delle carriere (o con una distinzione delle
funzioni ultra rigida, il che è lo stesso), dall'altro con l'attribuzione di un
ruolo preponderante ai magistrati di Cassazione. Il mestiere di giudice diventa
così una carriera. Dove si possono bruciare le tappe in base all'abilità nel
superare i concorsi, una abilità che molto spesso non ha nessuna relazione con
la capacità di lavorare molto e bene, o se ce l'ha è una relazione inversa:
chi si dedica di più ad accumulare titoli si dedica di meno alle udienze. E non
fa male, anzi il ministro lo premia con un aumento di stipendio.
«E' una protesta corporativa», ha ripetuto il ministro come un disco rotto
davanti ai numeri «bulgari» delle astensioni. Ma è vero il contrario: chi
più avrebbe da guadagnare dalla sua riforma, cioè i capi degli uffici e i
magistrati di Cassazione, ha scioperato come e più degli altri.
Dovrebbero riflettere, Castelli e i suoi mandanti forzisti che invece ieri
proclamavano di voler andare avanti come se lo sciopero non ci fosse stato.
Soprattutto dovrebbero smettere di contrapporre l'indipendenza e l'autonomia
della magistratura all'efficienza della giustizia. Perché la loro riforma fa
tutto il contrario di quello che serve: non riduce, ma allunga i tempi dei
processi. Se tutta l'attenzione è posta al vertice della categoria, non c'è da
stupirsi se le funzioni di primo grado - cioè i tribunali dove va ad arenarsi
il destino del cittadino comune - risulteranno svalutate. Il risultato è
prevedibile e in gran parte già davanti ai nostri occhi: una giustizia doppia,
rapida per chi dispone di buoni avvocati, spietata per i poveri cristi. Una Dike
senza benda ma attenta al portafoglio. Del resto il modello è autorevole e
siede a palazzo Chigi.
C'è però un altro particolare di rilievo nella giornata di ieri. Davanti allo
sciopero il ministro leghista ha lanciato un ultimatum, ma non ai suoi
oppositori, bensì alla sua maggioranza. Vuole che la sua legge venga approvata
presto e senza modifiche. E' nervoso, perché non è riuscito a chiudere prima
delle elezione europee. Giustamente teme che il suo disegno possa finire
travolto, se il voto dovesse andare male per il centrodestra. Non è lo sciopero
l'unica arma per fermare questa pessima riforma.
24 maggio
Un
mattone sopra l'11 settembre
Le Torri gemelle, da tragedia a
mega-speculazione. Il Washington Post denuncia : gli 8 miliardi di
dollari destinati dal Congresso alla ricostruzione di Ground Zero sono finiti
nelle mani dei ricchi palazzinari e dei banchieri di New York
FRANCO PANTARELLI
NEW YORK
Da tragedia
nazionale a opportunità speculativa. Da aiuto per ricostruire con equità a
sussidio pressoché indiscriminato ai ricchi palazzinari di New York. Ecco cosa
ne è stato degli otto miliardi di dollari che il Congresso degli Stati Uniti
accordò a New York dopo l'attacco terroristico dell'11 settembre 2001: lo
denuncia ora il Washington Post, con in mano i documenti di bilancio
della città di New York. L'aiuto concesso a New York violentata e ferita fu
inferiore alla richiesta. Nei giorni immediatamente successivi alla tragedia si
era parlato di 20 miliardi di dollari e i due rappresentanti di New York al
Senato federale, Hillary Clinton e Charles Schumer, avevano addirittura perorato
l'estensione a 40 miliardi. L'amministrazione Bush, convinta che qualcosa
bisognasse fare ma anche conscia della difficoltà che lo Stato di New York
potesse mai diventare elettoralmente «suo», concesse un contributo di 3
miliardi e mezzo di dollari, presi da un fondo destinato allo sviluppo economico
delle aree depresse, e fece capire che non non sarebbe andata oltre. Quei primi
soldi furono ultilizzati dalle autorità di New York per «convincere» le
imprese - in gran parte intenzionate a «fuggire» dalla bassa Manhattan - a
restare dov'erano. Dei beneficiari di quel programma se ne conoscono solo
alcuni: la Deloitte & Touche, una compagnia di auditing, ebbe 17
milioni; la Bank of Nova Scotia ne ebbe tre; 40 milioni andarono alla Banca of
New York e 25 milioni all'American Express, malgrado i suoi dirigenti non
avessero espresso nessuna intenzione di andarsene. Ma l'intera bassa Manhattan
era devastata e le cose da fare erano molte: ripulire gli edifici che erano
sopravvissuti ma erano contaminati; ripristinare le attività economiche; ridare
ordine al mercato edilizio stravolto, e qui subentrò il Congresso che ai soldi
stanziati dall'amministrazione aggiunse - pescando in svariate voci di bilancio
- gli otto ulteriori miliardi di dollari di cui si diceva, dispensati in forma
di Liberty Bonds. Ma lo fece «incautamente», cioè senza stabilire
troppe norme su come quel denaro doveva essere utilizzato. Quelli erano giorni
di grande emozione, i nevrastenici newyorkesi si aggiravano sotto shock per la
città con una gran voglia di aiutarsi l'un l'altro; il sindaco Rudolph
Giuliani, decisamente poco amato per le sue iniziative da ducetto, diventò «il
sindaco d'America»; perfino gli Yankees, la squadra di baseball di New
York che i tifosi del resto dell'America odiano perché vince troppo, furono
osannati dappertutto quando vinsero il «World Series». Così, spiega al Washington
Post Carolyn Maloney, una deputata di New York, «decidemmo di non perdere
tempo a porre troppi lacci». Un paio di cose di base, comunque, le avevano
stabilite. Una era che i costruttori beneficiari dei sussidi dovevano riservare
almeno il 20% dei loro alloggi a coloro che non potevano permettersi gli alti
affitti di quella zona (e non si parla propriamente di «poveri»: lì un
bisognoso di «affitto moderato» è uno che guadagna 80.000 dollari l'anno) per
conservare una presenza «mista»; un'altra, decisamente ovvia, era che i
palazzi da costruire dovevano essere «dentro» l'area di bassa Manhattan.
Né l'una né l'altra sono state rispettate, illustra con dovizia di numeri il Washington
Post. Alcuni esempi? La Bank of America ha avuto 650 milioni per costruire
il suo nuovo edificio vicino a Times Square, lontano alcuni chilometri dalla
zona interessata; la Bank of New York ne ha avuti 113 per costruire un palazzo
addirittura a Brooklyn, separato dalla bassa Manhattan non solo dai chilometri
ma anche dal mare. Fra i vari esempi, l'unico con un minimo di decenza è dato
dai 39 milioni ricevuti da Robert De Niro per costruire un albergo a TriBeCa,
che almeno si trova abbastanza vicino.
E i costruttori che hanno edificato nel posto giusto? Loro si sono concentrati
sullo stravolgimento dell'altra norma: quella del 20% degli appartamenti «alla
portata dei meno abbienti», che nei casi migliori è stata ridotta al 5%. Il
principale beneficiario dei sussidi (ne ha incamerato il 30%, secondo alcuni
calcoli) è un costruttore di nome Leonard Litwin che è anche uno dei maggiori
contribuenti delle campagne elettorali di George Pataki, il governatore di New
York. Ma non c'entra nulla, sostengono i suoi uomini. «Lui aveva dei progetti
pronti e noi avevamo fretta perché il mercato stava crollando». Ma non è
vero. Il mercato andò giù per un breve periodo, poi ricominciò a salire e non
si è mai fermato. Attualmente, l'affitto di un appartamento di tre stanze a
Ground Zero è sui 6.500 dollari al mese e il prezzo d'acquisto è oltre il
milione.
20 maggio
Motivazioni
Ma
il soldato Sivits è stato degradato, radiato e condannato perché ha fatto le
torture o perché le ha fotografate? (jena)
Appello
di 1400 insegnanti: "Una scelta opposta a quella
del resto d'Europa, che penalizza il futuro dei giovani"
"Salviamo
l'inglese a scuola"
Rivolta dei prof contro i tagli
È partita la mobilitazione per bloccare il
ridimensionamento
delle ore d'insegnamento della lingua straniera più diffusa
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L'aula di una scuola elementare |
17 maggio
L'EDITORIALE
Lo
scudetto nella bara
di
VITTORIO ZUCCONI
Negli anni più torvi della guerra fredda e di quella ossessione ideologica che
stregò brevemente la democrazia americana con il volto di un senatore chiamato
McCarthy, l'edificio di oscenità e di menzogne creato dalla caccia alla streghe
crollò simbolicamente e definitivamente quando l'avvocato difensore di uno
degli accusati chiese, in diretta televisiva, al senatore: "Ma lei non ha
più alcun senso di dignità e di pudore?".
Ci sarà qualcuno che avrà il coraggio di ripetere quella domanda, nell'Italia
della televisione addomesticata e anestetizzata, al capo dell'esecutivo
italiano, al nostro Presidente del Consiglio che festeggiava la propria
miserabile gloriuzza in uno (scandaloso) torneo di pallone mentre i suoi
soldati, i suoi fratelli d'Italia, si battevano per lui, per la stoltezza delle
sue decisioni di stratega dilettante?
Esiste ancora qualche decenza, qualche comune senso del pudore e del rispetto
umano, nel leader politico nazionale che preferisce dedicare un pomeriggio al
Milan piuttosto che restare in quello studio a Palazzo Chigi dove noi cittadini
lo abbiamo cortesemente inviato a spese e per conto nostro, per mostrare, per
almeno creare l'impressione che le gambe di soldati italiani impegnati in
battaglia siano più importanti delle gambe dei calciatori miliardari che hanno
preso a pedate un pallone per lui?
Sapevamo tutti, domenica pomeriggio che lo scontro di Nassiriya non era un
incidente qualsiasi nè una "operazione di pace" andata storta, come
la grottesca finzione ufficiale ancora pretende di definire la situazione dei
nostri reparti combattenti nel sud dell'Iraq. Eppure la voglia propagandistica
di sfruttare ancora una volta le paillettes di un successo sportivo, la
vanagloria del tifoso e padrone che vuole apparire il condottiero trionfante di
una infantile guerra sportiva vinta mentre è in corso la disfatta nella guerra
reale è stata irresistibile. Non basta certamente per salvarsi la coscienza
essere informati "minuto per minuto" come se la cronaca di una
battaglia fosse l'equivalente di un radiocronaca calcistica e la vita di soldati
spediti con l'inganno fosse assimilabile a un rigore o a un gol.
Se a chi ci governa fosse rimasto un briciolo di quel pudore e di quella dignità
che l'avvocato difensore delle vittime dell'inquisizione maccarthysta non trovò
in quell'America tanto lontana e purtroppo tanto vicina, il solo atteggiamento
dignitoso e realmente patri
ottico, anche se ormai inutile, sarebbe stato almeno evitare la festa
dell'idiozia pallonara e rinchiudersi nel riserbo del padre che trema per la
vita dei propri figli. George Bush, che pure del nostro Presidente sarebbe il
maestro di pensiero e il protettore internazionale, ha rinunciato in questi
giorni addirittura a partecipare alla cerimonia della laurea delle figlie, uno
dei momenti di maggiore e giusto orgoglio per un padre, per non creare
l'impressione di rallegrarsi per successi privati mentre la famiglia americana
subiva i traumi delle torture, dei rovesci militari e delle morti atroci degli
ostaggi. Il nostro Presidente non ha rinunciato alla festa del Milan.
I soldati italiani che combattono e muoiono in Iraq sotto la bandiera di una
menzogna sfacciata portano cucito sulla manica uno scudetto tricolore, come la
squadra che vince il campionato, ma per 18 di loro non ci saranno feste né
premi partita, né sorrisi compiaciuti e servili di dirigenti tronfi e
ciambellani e giullari convocati alla corte del signore. Per loro, soltanto le
bare, fasciate nel patriottismo falso di chi li ha mandati a morire, ma, mentre
morivano, preferiva "esultare".
La sola coppa possibile, per quelli che restano ancora, sarebbe il ritorno a
casa, da una missione falsa, non sconfitti dal nemico, ma da chi li ha adoperati
come giocatori di quarta serie, come carne da cannone, senza decenza, senza
dignità, senza verità. E ora dovranno subire anche l'ultima umiliazione della
retorica patriottarda e impudente di chi accoglierà la bara, tra lacrime di
coccodrillo e alè olè alè.
12
maggio
Torture
a Bolzaneto «In 47 a giudizio»
Sotto
accusa poliziotti, carabinieri, infermieri e medici della caserma in cui furono
portati i fermati del G8. In mancanza del reato di tortura in Italia i
magistrati ricorrono alla convenzione europea sui diritti dell'uomo
AUGUSTO BOSCHI
GENOVA
Costretti a rimanere in piedi,
per ore, con le mani alzate; ragazze obbligate a spogliarsi davanti a personale
maschile per la visita medica con sottofondo di commenti da caserma; e poi
pestaggi gratuiti e umiliazioni in un repertorio di violenza senza
giustificazione perché inflitta a chi non può nuocere, a chi è prigioniero.
Sembrano scene da un carcere iracheno, e invece sono solo alcuni frammenti di
quanto avvenne a Bolzaneto, nella caserma adattata a centro di prima detenzione
per i manifestanti che, nel luglio del G8 di Genova, venivano fermati dalle
forze dell'ordine. Le denunce su quanto era avvenuto nella caserma sede del
reparto mobile di Genova costituirono il «la» per un'inchiesta che i
magistrati del pool genovese hanno sigillato ieri con la richiesta di rinvio a
giudizio per 47 funzionari e dirigenti delle forze dell'ordine. Le accuse sono,
a vario titolo, di abuso d'ufficio, minacce, violenza, percosse, omessa
denuncia, falso ideologico, abuso di autorità contro detenuti. Ma i magistrati
vanno oltre e citano l'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali che parla di tortura e dice
espressamente che «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o
trattamenti inumani o degradanti». Gli accusati sono un'armata dalle mille
divise: polizia penitenziaria, polizia di Stato, carabinieri, infermieri e
cinque medici. Tra questi ultimi il medico del carcere di Marassi, Giacomo
Toccafondi, accusato tra le altre cose di avere permesso che i giovani che
venivano portati per la prima visita medica venissero trattati in modo inumano e
umiliante, anche sotto il profilo sanitario. Toccafondi si è sempre difeso
dicendo di non aver mai notato nulla di strano, a Bolzaneto: «Lo constatò
anche il ministro della giustizia Roberto Castelli quando venne a visitare il
centro». Non mancano gli indagati eccellenti, ovvero i funzionari che
dividevano le responsabilità del funzionamento della caserma di Bolzaneto. Il
primo è il vice questore Alessandro Perugini; l'ex numero due della Digos
genovese finito su tutti i notiziari televisivi per il calcio in faccia sferrato
a un 16 enne proprio davanti alla questura di Genova era il funzionario di
polizia con il grado più alto nella caserma di Bolzaneto e aveva l'incarico di
gestire la struttura. Il responsabile della sicurezza del centro di detenzione
provvisorio costituito a Bolzaneto era invece l'ispettore di polizia
penitenziaria Biagio Antonio Gugliotta, mentre il generale Oronzo Doria, stretto
collaboratore del magistrato Alfonso Sabella quando era capo del Dipartimento
amministrazione carceraria, fu il più alto in grado a fermarsi per qualche
tempo nella caserma. Il generale è accusato di non avere impedito, pur
potendolo fare, la condotta dei suoi sottoposti. Eppure lo avevano avvertito che
qualcosa non andava: urla, insulti, quelli del Gom, il Gruppo operativo speciale
della polizia penitenziaria, che gridavano contro i manifestanti fermati.
Resta fuori dalla mischia, invece, Alfonso Sabella. La
posizione del magistrato fiorentino, iscritto nel registro degli indagati ma
come atto «tecnico» - è stata stralciata dal fascicolo principale e i
magistrati genovesi ne chiederanno l'archiviazione. Di fatto, secondo i pm.
Sabella si trattenne a Bolzaneto per un periodo troppo breve per capire quello
che stava succedendo.
La richiesta di rinvio dovrebbe essere inviata all'ufficio
del gip già oggi. Quindi si tratterà di vedere quando verrà fissata l'udienza
preliminare di un procedimento in cui le parti lese sono almeno 150. Ma quanto
rischiano i poliziotti che andranno a giudizio? «Il reato più grave è l'abuso
d'ufficio - è l'amaro commento di un magistrato - che prevede una condanna da 6
mesi a tre anni di reclusione». Per cui, visti i tempi della giustizia, quando
la condanna sarà definitiva, il reato potrebbe già essere prescritto. «Il
nostro lavoro non dico che è vanificato dai tre gradi di giudizio - conclude il
magistrato - ma certamente pochi imputati sconteranno la pena, che sarà a quel
punto solo simbolica».
10 maggio
IL COMMENTO
Il
fusibile salva democrazia
di VITTORIO
ZUCCONI
Nel fetido pozzo settico
scoperchiato dal caso delle torture, nel quale sta inabissandosi quel poco di
credibilità che ancora la "guerra del Bene contro il Male"
conservava, c'è un elemento trascurato che l'opinione pubblica italiana
dovrebbe osservare con spasmodica attenzione.
Non è vero che lo scoppio dello scandalo e le misure punitive, e vili, adottate
finora contro un gruppo di soldatini di infimo rango, le comode "mele
marce" accusate di essere marce dai padroni del frutteto che le hanno
coltivate, siano la prova luminosa della salute democratica di questa America
2004. Al contrario, se fosse dipeso soltanto da Bush, tenuto serenamente
all'oscuro di tutto come il nonno un po' cagionevole e rimabambito al quale non
bisogna far salire la pressione arteriosa con brutte notizie, dallo spudorato
Rumsfeld, dallo stato maggiore militare, dalla inspiegabilmente esaltata
Condoleeza Rice, dal timido e ossequiente Powell non sapremmo nulla,
assolutamente nulla di quanto avveniva in quella villa triste di tormenti e di
idiozie.
Se abbiamo visto, se siamo qui a parlarne, se vediamo finalmente muoversi la
ruotina della pseudo giustizia e delle scuse a buoi scappati, è perché ha
funzionato non la democrazia istituzionale, ma l'ultimo fusibile della
democrazia reale. Ha funzionato la libera informazione televisiva.
Non sono stati la magistratura ordinaria o militare, il Parlamento, le
commissioni d'inchiesta segrete a scoperchiare la fossa settica di Abu Grahib.
E' stata una trasmissione televisiva di vero approfondimento, non di basso
servizio al governo in carica, il magazine "60 Minutes II" della Cbs,
a mettere in onda le prime fotografie, scattate con una macchinetta digitale da
uno dei carcerieri nauseato che le aveva passate sperando che qualcuno avrebbe
avuto il coraggio di diffonderle.
Addirittura il capo di stato
maggiore della difesa, generale Myers, la massima autorità militare della
nazione, aveva chiesto di persona, implorato, quasi comandato, il giornalista
Dan Rather e i produttori di "60 minutes II" a lasciar perdere, a
rinviare, promettendo che il Pentagono avrebbe rivelato tutto di propria
iniziativa. Quando, per due settimane, Rather e i suoi non hanno visto né
saputo nulla, sono andati in onda e il fetore si è sprigionato. La macchina
arrugginita della democrazia istituzionale ha cominciato, lentamente, cigolando,
barcollando, a muoversi, spinta dalla democrazia reale della informazione
autonoma e perciò, implicitamente, critica.
Ora provate a trasportare il caso nella Italia del "conflitto
d'interesse", pudica e noiosa espressione che nasconde il controllo ormai
canceroso dello stesso uomo su tutti i gangli fondamentali dell'informazione
televisiva nazionale. Immaginate Rai e Mediaset, le reti private del governo e
quelle pubbliche, i conduttori "amici" e fiancheggiatori
sistematicamente piazzati sulle poltrone che contano, sbattere la porta a porta
in faccia al governo, ai ministri, agli alti comandi, ai funzionari di partito,
ai portaborse che telefonano concitati da Roma per zittire e mandarli, come ha
fatto la Cbs che non è un'organizzazione pacifista né antiamericana ma
appartiene a un colosso aziendale attento ai profitti chiamato Viacom,
cortesemente a farsi benedire.
In una democrazia perfetta, popolata da cittadini esemplari, da "angeli e
arcangeli" come avrebbe detto Schumpeter, le torture non avverrebbero, le
Guantanamo e le ville tristi non ci sarebbero, i presidenti, i ministri, i
parlamentari, non avrebbero mai bisogno di chiedere scusa e non ci sarebbe
nessun pozzo nero da scoperchiare. In una democrazia reale e profondamente
imperfetta perché umana, la stessa Cbs, con Walter Cronkite, inchioda nel 1968
un presidente democratico, Johnson, alla sua sconfitta in Vietnam. Un
settimanale come Newsweek, "sospettato" di sinistrismo, investiga nel
1998 il caso Lewinski, scippato da un sito Internet dopo che i giornalisti del
settimanale avevano pronto il dossier, e inguaia un presidente ideologicamente
"amico", facendo il gioco non della destra o della sinistra, ma
dell'informazione. E ora è di nuovo la Cbs fare quello che il Parlamento
imbelle, e il governo americano, non avevano osato fare, costringere l'America
della sbornia patriottarda e dopo il trauma di Manhattan a guardarsi allo
specchio.
Il fusibile della libertà di stampa, e soprattutto della cruciale televisione,
è scattato, forse in extremis, per impedire il corto circuito della democrazia.
Per questo, negli Stati Uniti d'America, anche in uno dei momento più amari
della loro storia, c'è ancora speranza. E per noi, sempre meno.
L' indifferenza di Caino |
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STRETTAMENTE
PERSONALE |
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Biagi
Enzo |
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Tema di questi giorni: la tortura. Protagonisti: gli Usa. Vittime della crudeltà: i prigionieri iracheni. Certe storie si ripetono. Trent' anni fa, a Parigi, andai a trovare Henri Alleg, alla redazione dell' Humanité. Lo avevano arrestato ad Algeri durante l' estate 1957. Fu preso dai paracadutisti di Massu, lo portarono a El Biar, che era un posto di raccolta per quelli del Fronte di liberazione. Alleg, piccolo, un po' rotondo, sorridente, mi raccontò: «I fatti? Venivamo denudati, legati a un' asse marcia per i vomiti di quelli che c' erano passati prima, e poi lasciati così per ore, con certi tipi attorno che ci incitavano a parlare. Speravano bastasse la paura. Niente? E allora si passava agli esercizi, all' elettricità. Appendevano il prigioniero per i piedi, lo bruciavano con torce di carta: lo hanno fatto anche con me. Quando si sono contemplate delle cose orribili, quando le hai guardate, vissute su di te, si spera soprattutto che ciò non debba mai accadere ai tuoi figli, a nessuno su questa terra». Ne parlai con Pierre Vidal Marquet: insegnava storia romana all' università e aveva pubblicato un saggio sul problema. «Sono le ideologie stesse che prendono un aspetto totalitario. Si può torturare quando si crede di avere ragione, e sono molti quelli che credono di essere possessori della verità. E, quando si è tutori di una certezza, si ha la tendenza a imporla a chi non la riconosce». La sociologia, la psicologia, la scienza spiegano quasi tutto, anche l' indifferenza e lo spirito di legittimità di cui è pervaso Caino che in qualche modo si presenta addirittura nelle vesti del salvatore e sempre dell' idealista. Si è inventato anche un linguaggio: in gergo militare si dice «assumere informazioni», in quello giuridico e poliziesco «porre domande»; «torturare» è un verbo che si coniuga soltanto riferito ad altri.