Archivio Maggio 2004

 

 

27 maggio

I cocci dell'Iraq
ROSSANA ROSSANDA
Che Bush cerchi di uscire dal sanguinoso pantano in Iraq salvando faccia e petrolio, è evidente. Che punti a una copertura anche retroattiva dell'Onu è altrettanto chiaro, ma che la bozza presentata all'Onu da Usa e Gran Bretagna possa essere rimandata ai mittenti senza discuterne, mi pare difficile. E non solo perché essa ha un suono un po' diverso dal discorso del presidente americano che l'ha accompagnata, ma perché essa segnala anche difficoltà reali della situazione in cui è stato cacciato quel disgraziato paese. Si può dire a Bush: chi rompe paga e i cocci sono suoi? Non tutti i cocci sono permutabili in denaro e irreparabili, ma soprattutto i cocci dell'Iraq se li terrebbe volentieri e sarebbe ancora in grado di farlo sia pure rischiando un alto prezzo, e possono diventare ancora più gravi. Bisogna rifletterci. La mozione a nostro avviso va discussa a fondo. In primo luogo perché non c'è, né materialmente né politicamente una forza dell'Onu in grado di intimare agli Stati uniti e alla Gran Bretagna di ritirarsi subito, sostituendola con una forza propria di interposizione, della quale non facciano parte gli eserciti occupanti. Sarebbe in assoluto il meglio, ma non ce ne sono le condizioni. Il consiglio di sicurezza è in grado invece di trattare con posizioni e comando delle forze in Iraq, controbattendo la volontà americana di non farsi dirigere e limitare da nessuno.
In secondo luogo una fase di transizione appare necessaria, perché fra Saddam, la guerra con l'Iran per conto degli Usa, l'embargo e infine l'aggressione del 2003, quel paese, già diviso fra etnie e confessioni religiose è stato capace di resistenza ma non ha una piattaforma coesa per il domani. Diciamo deliberatamente resistenza: piaccia o non piaccia questo è stata la reazione inattesa al più potente esercito del mondo anche se vi hanno agito molteplici spinte fra le quali un terrorismo del quale non sappiamo quasi nulla, salvo che si tratta di un metodo tremendo usato non da un solo soggetto, ma da più d'uno e con fini e motivazioni.
Si tratta dunque di dar vita a un governo interinario, che non sia la copia del governo fantoccio già tentato; non è facile per Lakhdar Brahimi indicare chi può essere accettato da una grande maggioranza del paese come almeno transitoriamente credibile. E non lo sarà se non avrà il potere di opporsi alle azioni militari non di interposizione e di fissare una data per il ritiro degli occupanti.
In terzo luogo si tratta di restituire agli iracheni il petrolio che dalle mani di Saddam è passato in quelle americane, bottino che da un pezzo è negli interessi privati di Dick Cheney. Non dubitiamo che sarà uno dei punti più difficili da ottenere. Ma deve essere condizione sine qua non per una qualsiasi cauzione delle Nazioni unite. Tutto questo è meno di un ritiro americano incondizionato come fu quello dal Vietnam. Ma allora le condizioni di forza su scala mondiale erano diverse, il Vietnam non era l'Iraq e aveva alle spalle l'Urss e la Cina. E non di meno quella pace è stata vinta meno della guerra. Oggi gli Stati uniti sono la sola superpotenza nel mondo, in difficoltà all'interno per le perdite subite e internazionalmente per avere sperimentato come l'unilateralismo sia più facile da dichiarare che da praticare. Non siamo più nel 2001/2002. Quando - ha ragione Asor Rosa sull'Unità di martedì - non occorreva essere grandi profeti per capire quel che si stava preparando. La responsabilità dell'occidente, Europa inclusa, è di aver finto di ignorare la dottrina della New strategy che dichiarava gli Stati uniti svincolati da ogni legge e diritto internazionale e di averli accompagnati con fanfare nell'impresa afghana, non meno ingloriosa e anch'essa irrisolta. E perciò non riuscendo a impedire quella irachena.

La complicità e le omissioni dell'Occidente sono state grandi. E non soltanto da ieri. Sarà anche un loro frutto se le elezioni del 2005 porteranno a una repubblica islamica, prodotto di due tesi delittuosamente stupide, quella di Huntington sull'inevitabile scontro di civiltà e quella sulle «esportazioni» della democrazia con le armi. Davanti al Medio oriente non possiamo che coprirci il volto con vergogna anche per quel che lo abbiamo indotto a diventare. La sinistra, dal blando Kerry ai nostri riformisti, non ha certo peccato di troppo coraggio. Cerchi di non perdere anche questa, se non entusiasmante, seria occasione.

 

In Sardegna a un paio di miglia dalla villa La Certosa
l'enorme cantiere. In costruzione anche un tunnel
Quel finto teatro greco sul mare
l'ultima febbre di Berlusconi
I carabinieri mandano via chiunque: "Sicurezza nazionale"
di PINO CORRIAS

OLBIA - Marco è abbronzato, sveglio e scalzo. Salta sul gommone bianco, accende il motore da 60 cavalli che fa ronzare il mare blu, dice: "Andiamo?".
Come no. Questa è una gita speciale. Si va a visitare un cantiere che non si può vedere, non esiste sulla carta, ma già galleggia sul mare. Il mare di Punta Lada. Ponteggio a ridosso della scogliera: gru, escavatrici, bracci meccanici, operai in tuta arancio.

È la sola Grande Opera che Silvio Berlusconi non ha mai disegnato con il pennarello, ma che sta realizzando (direttamente) con il cemento, i martelli pneumatici, un decreto che nessuno ha ancora visto, il velo impenetrabile della "sicurezza nazionale", le motovedette dei carabinieri a fronteggiare i curiosi, dissuadere ambientalisti e scocciatori. Non è un ponte, non è uno svincolo, non è un raddoppio autostradale. È una grotta. È casa sua.

Casa sua sta a un paio di miglia di mare da qui. Si chiama Villa La Certosa, 50 ettari di mirto, ginestre, ulivi, tutto comprato un po' alla volta. Tutto cresciuto un po' alla volta. Compreso un agrumeto. Una foresta di ulivi secolari. La spianata dei cactus. Il lago artificiale. La finta cascata. E adesso (in un colpo solo) un nuovissimo anfiteatro finto-greco, ma di autentico granito, che si vede solo dalle alture di Porto Rotondo. E questo benedetto cantiere a mare che si vede da qualunque punto del Golfo. Il cantiere ha scatenato un vespaio.

Trattasi, secondo le parole del ministro Giovanardi di "cavità naturale da ingrandire e consolidare". Un "approdo coperto per piccole imbarcazioni". Una "via di fuga sicura" per il premier, i familiari e "le illustri personalità straniere". Roba talmente segreta che sino a una manciata di giorni fa nessuno ne sapeva niente. Cento metri quadrati di tubi Innocenti spuntati sul mare, chiatte avanti e indietro per il Golfo, camion via terra, e il sindaco di Olbia Settimo Nizzi (Forza Italia) cascava dalle nuvole: "Non ho niente da dire". Buio completo da carabinieri, polizia, guardia forestale e costiera. La prefettura di Sassari? Incompetente. Il ministero degli Interni? Nulla da dichiarare. Mistero.

Sabato scorso Gianni Nieddu, senatore ds, un pugno di ambientalisti e i cronisti della Nuova Sardegna hanno provato un assalto con i gommoni. Sono arrivate rombando un paio di vedette dei carabinieri, una lancia costiera e un elicottero: navigazione interdetta entro i 500 metri dalla costa. Ma come? Un senatore della Repubblica non può approdare sul terreno demaniale di costa? No. Tutti fermati, identificati, rispediti a terra. "Sicurezza nazionale".

Dice Marco: "Questa è la rotta dell'altra volta". Dice: "Guardi laggiù. Dove finiscono quelle case, iniziano i terreni di Berlusconi". Giusto. A destra dell'ultima speculazione edilizia (vecchio stile, ruggenti Anni Sessanta) cominciano i boschetti incontaminati di Villa Certosa. Berlusconi comprò i primi 7 ettari una ventina di anni fa dal suo vecchio amico Flavio Carboni. Nel 2001 fece le cose in grande: ne aggiunse 40 acquistandoli da Tom Barrak, il finanziere. L'anno scorso ancora un pezzetto, questa volta dalla famiglia Dejana.

Da allora, in attesa del passaggio estivo dell'amico Putin, la tenuta è diventata un cantiere. Dalla diga del Liscia è arrivata l'acqua dolce per il laghetto artificiale. Dalle cave di San Giacomo (tra Olbia e Arzachena) è arrivato il granito giallo per i pontili, i finti scogli, le finte barche che ornano le sue rive. Ogni tanto giganteschi ulivi arrivano sdraiati sulla schiena di camion speciali. Ogni tanto arrivano scatoloni di legno imballati dall'altra parte del mondo con cactus rarissimi che si aggiungono ai 2 mila già piantati nella lunare (e celebre) spianata.

Adesso tocca all'anfiteatro che una tripla squadra di operai sta rivestendo di granito. Lo scavo è circondato da prati e ulivi. Da cespugli di mirto e vento. Il teatro è il pallino di Marcello Dell'Utri, che ama Eschilo e la tragedia. Ma è anche il sogno di Silvio che (invece) adora Apicella.

Navigando con il gommone, il teatro è solo una macchia polverosa nel verde. Dal verde si vedono spuntare i tetti delle rosate dimore che fanno da corona a Villa Certosa, grande come una chioccia da 2 mila 500 metri quadri. La residenza. Il villone.
Blocchi rosa quadrati e blocchi circolari. Vetrate. Piscine rettangolari di acqua di mare. Una discesa scavata nella roccia e nel verde dei prati all'inglese. Fino al molo. Fino a quei 4 pennoni, altissimi, spuntati anche loro la scorsa estate, autentici pennoni portabandiera, che fanno un po' Grand Hotel e un po' Onu. Oppure Camp David.

A proposito. Al porticciolo di Marana qualunque fabbro, qualunque pittore di scafi e di timoni ti intrattiene sui memorabili passaggi dei grandi della Terra, sulle guardie del corpo di Putin, sugli assaltatori in mimetica e (naturalmente) sull'imminente arrivo di George Bush con la sua valigetta nucleare. Arriva, come no. Secondo tutti il cantiere degli scandali è un bunker che Silvio sta preparando per lui. Non un approdo coperto, come dice Giovanardi. E neppure "una normale miglioria di un privato cittadino" come ebbe a dire il simpatico Paolo Bonaiuti, portavoce del premier, attribuendo le proteste degli ambientalisti al livore e all'invidia, anzi "ai professionisti dell'invidia". Come se qui a qualunque "privato cittadino" fosse possibile spostare un cespuglio, un sasso, senza attendere cento controlli, cento verifiche e incassare cento divieti.
Eccoci dunque. Il cantiere adesso si vede benissimo alle spalle della Motovedetta che dondola agganciata a due boe arancioni. Sulla cima del ponteggio ci sono le macchie gialle dei grossi compressori per i martelli pneumatici. C'è il braccio bianco della escavatrice che gratta l'arco nero della grotta. Un mucchio di terra smossa sta a mezza collina, circondata da grandi massi. Dicono stiano costruendo anche un tunnel. Lo chiamano il tunnel James Bond, avventura "La spia che mi amò", sequenza del sottomarino che entra nella "cavità naturale". Piattaforma. Ascensore. Interno villa.

Di fianco al cantiere c'è la sequenza di massi in verticale che, solo d'estate, diventano il percorso della cascata. Pochissimi l'hanno vista in funzione. "Putin sicuramente e pure io" dice Marco seguendo gli spigoli dell'onda che fanno saltellare il gommone. Dice che funziona con una grossa pompa che aspira acqua da sotto gli scogli, la porta in cima ai massi e la spinge verso il salto di venti metri. Dice: "Una meraviglia". Dice: "Anche se non serve a niente".

Ci avviciniamo. La motovedetta dondola. Operai vanno su e giù lungo i fianchi verdi e neri del cantiere. Non si sente un rumore, a parte il gocciolare del mare. Un carabiniere si affaccia. Guarda, fa sciò con le mani. Due volte. Non minaccioso, semmai rallentato. Come è rallentata (in fondo) tutta la scena. Marco vira e si torna. Al porto ti dicono che Berlusconi pagherà tutto di tasca propria. Hanno un tono a metà tra l'ammirazione e il fatalismo. Tra l'ammirazione e la sfida. Non capisci se stanno parlando (solo) di soldi o anche di voti. Marco sparisce. Bisognerebbe farsi un bagno.

  Quelle antenne ammutolite
La Rai ha smantellato la sua offerta radiofonica in onde medie. Messo il silenziatore a Radiodue e Radiotre, ora la scelta si riduce a un unico canale. La motivazione ufficiale è che quelle emissioni di frequenze mettevano a rischio la salute dei cittadini e il paesaggio. In realtà, si sono destinati quei fondi al digitale terrestre
GIOVANNI PILLO
Non possiamo sapere esattamente quanti sono, ma possiamo immaginare che sono tanti quelli che a partire dal 15 maggio hanno iniziato a sintonizzare la loro radiolina alla ricerca degli scomparsi segnali ad onde medie di Radiodue e Radiotre. Questa è infatti la data scelta dalla Rai per avviare un poco credibile «piano di razionalizzazione» che ha spento più di cinquanta impianti di trasmissione in onde medie nel nostro paese, lasciando attive solo una quarantina di antenne che irradiano i segnali di Radiouno. Le onde medie (banda di frequenza posizionata tra i 526 khz e 1600 khz) erano un'ottima alternativa all'ascolto in modulazione di frequenza (fm), soprattutto in quelle zone dove i segnali della Rai non riuscivano a farsi ascoltare tra i sempre più potenti network nazionali. La decisione di questo reale abbandono della tecnologia ad onde medie non è nuova. Infatti leggendo attentamente il contratto di servizio, stipulato tra la Rai e il Ministero delle comunicazioni (approvato dal consiglio di amministrazione dell'azienda pubblica il 21 gennaio 2003) scopriamo che l'articolo 18 conteneva già le indicazioni per la realizzazione di un'unica rete ad onde medie per la trasmissione dei programmi delle reti radiofoniche nazionali. Il tutto per tutelare la salvaguardia della salute umana e della tutela del paesaggio.

Secondo il contratto di servizio, quindi, gli impianti sono stati spenti perché le loro emissioni mettevano a rischio i cittadini italiani ma anche perché gli alti tralicci di una stazione ad onde medie rappresentavano un danno al nostro paesaggio. Sembra difficile immaginare che tutti gli impianti spenti rappresentassero un reale rischio per la popolazione mentre è molto più immediato pensare ad una nuova destinazione dei fondi utilizzati per le onde medie verso il progetto del digitale terrestre che tanto spazio trova nei bilanci della Rai.

La situazione delle frequenze radio nel nostro paese è da sempre drammatica, le tre emittenti Rai combattono in fm una guerra quotidiana con network ed emittenti regionali, sempre più potenti che disturbano i canali nazionali rendendo l'ascolto difficile e di qualità sempre pessima. Nessuna nuova frequenza è stata acquisita negli ultimi anni per migliorare questa situazione e con l'abbandono delle onde medie la situazione sembra ancora più tragica. Le uniche nuove frequenze acquistate dalla Rai sono state utilizzate per il digitale terrestre che trasmette effettivamente i tre canali radio in qualità digitale, ma non copre ancora tutto il territorio e necessita comunque di un decoder apposito per la ricezione.

Lo stato dello sviluppo del dab, lo standard europeo per la radio digitale, da parte della Rai è sempre stato minimo e gli unici ascoltatori che possono ascoltare questi segnali di «qualità» sono quelli del Piemonte, Alto Adige e Val D'Aosta, regioni dove sono installati i soli 20 trasmettitori attivi. La situazione italiana rimane unica in campo europeo infatti in tutto il continente gli investimenti sulla radio e sulle tecnologie per ascoltarla meglio sono tanti e di vari tipo.

Il caso inglese è quello più interessante. La Bbc infatti trasmette in digitale sul 85% del territorio nazionale utilizzando lo standard europeo dab e offrendo agli ascoltatori nuovi canali e nuovi contenuti da fruire con la stessa qualità di un compact disc. Di fianco a questo rinnovamento digitale della radio coesiste una ottima gestione delle «vecchie» onde medie che vengono usate per le talk radio e per i progetti di radio comunitarie come la famosa Radio Spectrum di Londra, vera e propria voce multi etica della capitale inglese. Sintonizzando le onde medie in Inghilterra è possibile ascoltare anche piccole stazioni che trasmettono dagli ospedali o dalle scuole utilizzate come veri e proprio progetti formativi e di terapia di gruppo.

La stessa scelta è stata fatta in Francia, utilizzare le onde medie come palestra di sperimentazione radiofonica per piccole emittenti e per nuovi progetti che difficilmente avrebbero trovato spazio nelle caotica banda fm. Dopo l'abbandono della Rai qualcosa di simile sarebbe possibile anche nel nostro paese e infatti l'associazione Conna (Coordinamento nazionale nuove antenne) dal suo sito www.nuoveantenne.it ha lanciato un appello per la creazione di nuove micro emittenti che sul modello delle telestreet inizino una nuova invasione delle onde medie utilizzando trasmettitori a bassa potenza.

Nel nostro paese sono tutt'ora attive due emittenti private che spartiscono insieme alla Rai ed a Radio Vaticana l'ampia gamma delle onde medie, la toscana Radio Studio X attiva sui 1584 Khz e l'emiliana Radio 106 sui 1404 khz. Speriamo che nuovi progetti possano prima possibile riattivare e rendere viva la banda delle onde medie che dopo l'abbandono dei segnali di Radiodue e Radiotre è silenziosa in ampie zone del nostro paese, non coperte dai segnali dei trasmettitori lasciati accesi dalla Rai.

Allo stesso modo contiamo nello sviluppo nel nostro paese del dab che ormai è utilizzato nella maggior parte dei paesi europei e permette di dare alla radio una qualità e una semplicità di ascolto che gli ascoltatori italiani si meritano da tempo.

26 maggio

 IRAQ
La diffidenza del presidente
Ciampi dubita della bozza Bush. Il premier: «L'ho ideata io»
ANDREA COLOMBO
ROMA
Poche parole, ma più che sufficienti. Il presidente della repubblica italiana Ciampi scrive al collega cinese Hu Jintao e quasi lo invita a far valere il potere di veto della Cina nel consiglio di sicurezza Onu per impedire che la risoluzione sull'Iraq sia quella beffa che si sta preparando. «In qualità di membro del consiglio di sicurezza - dice il capo dello stato - la Cina può fornire un contributo essenziale a una Risoluzione che definisca un ruolo decisivo dell'Onu nella transizione irachena e consenta l'insediamento di un governo realmente autonomo e sovrano». Non c'è bisogno di aggiungere altro per chiarire che, a Ciampi, non pare affatto soddisfacente il progetto di Bush e di Blair. Di Bush e di Blair? Ma se lo sanno tutti che quel testo è frutto del genio diplomatico di Silvio Berlusconi. Qualora il particolare fosse sfuggito, comunque, ci pensa lo stesso cavaliere a rendere a Silvio quel che è di Silvio. «La risoluzione - proclama l'onnipotente in una nota ufficiale - riprende le proposte da me enunciate in parlamento». E attenzione, non si tratta mica di un testo qualsiasi: «Il progetto risponde alla preoccupazione della comunità internazionale di assicurare un passaggio di poteri pieno ed effettivo al governo iracheno, e di attribuire alle Nazioni unite il ruolo guida nella ricostruzione dell'Iraq». E' appena il caso di notare che, meno di 24 ore prima, il ministro degli esteri Frattini era stato ben più pruidente, definendo la proposta Bush-Blair «un buon punto di partenza». Si vede che quel Frattini proprio non sa cosa vuol dire propaganda. Altro che punto di partenza: qui siamo al traguardo. parola di Berlusconi.

La linea del comandante coincide con quella della truppa e di tutti gli ufficiali. Nel centrodestra parlano tutti, ma non si scostano di un millimetro dal proclama del premier. L'unico a distinguersi è il segretario dell'Udc Follini, decisamente più cauto degli entusiasti compagni di coalizione. Si limita a definire la mossa anglo-americana «un passo avanti», «la sola scommessa che abbiamo a disposizione», forse «la premessa per una svolta». Toni decisamente diversi da quelli adoperati dal premier e dai suoi numerosi corifei.

Follini è anche uno dei pochissimi leader della destra che non tenti di addebitare a Prodi e alla lista che porta il suo nome l'accusa di alto tradimento. Ma per una volta il listone regge perfettamente all'impatto degli avversari. Non arretra di un centimetro. Dice la verità sulla risoluzione-truffa e la dice ad alta voce, senza gli abituali distinguo. Già il presidente della Ue, da Bruxelles, era stato in mattinata inequivocabile. «Per combattere il terrorismo - aveva detto Prodi - ci vuole fermezza, ma ci vogliono anche comportamenti esemplari e coerenti con i valori che intendiamo difendere. Ogni giorno assistiamo a a sviluppi tragici che ci dimostrano come ogni tentativo di affermare i valori comuni con la forza delle armi è inutile e vano».

In Italia i leader dell'opposizione concordano, rincarano, rilanciano. Il verdetto dell'ala sinistra sul progetto di George W. è netto e drastico. «Il piano è da buttare insieme a Bush», va giù laconico Bertinotti. Sia pur con parole diverse, il giudizio dei verdi, del Pdci, della lista Occhetto- Di pietro, del correntone è identico. Ma questo era scontato. Dubbi potevano invece soregere sulla valutazione dei Ds e della Margherita. Li dissipa Rutelli: «La bozza è assolutamente insufficiente: non c'è niente di nuovo sotto il sole. Per risolvere la situazione ci vuole ben altro». Conferma, da Gorizia, Fassino: «Nella bozza non appare alcuna significativa novità. Da parte americana non c'è nessun passo indietro e da parte nostra non c'è alcun imbarazzo. Basta leggere il commento del New York Times per vedere che le nostre posizioni sono giuste e ragionevoli». La segreteria del suo partito, infine, definisce la proposta «inadeguata e deludente».

Possibile che nel triciclo non ci sia nessuno che mette un po' le mani avanti. C'è. Massimo D'Alema che, da Porta a Porta, limita di parecchio le critiche. Sperra che «la discussione possa portare a un'effettiva svolta e a un passo indietro degli Usa». E' molto preoccupato e non lo nasconde. Teme che abbia successo il gioco delle parti tentato da Berlusconi: «Non vorrei assistere a uno scambio delle parti. Non vorrei che chi da un anno rivendica la responsabilità dell'Onu fosse indicato come nemico dell'Onu e viceversa». Non ha torto l'ex premier. Che proprio questo sia il trucco del prestigiatore di Arcore è evidente. Però sono proprio preoccupazioni di questo genere che hanno portato il triciclo a esitare troppo a lungo, quasi oltre tempo massimo, prima di chiedere il ritiro delle truppe.

 

Fuori legge
ANDREA FABOZZI
Se c'è una cosa che al governo Berlusconi riesce bene sono gli scioperi. Gli scioperi contro, si capisce. Medici, insegnanti, dipendenti pubblici, autoferrotranvieri, metalmeccanici; ma anche lavoratori delle pulizie, ministeriali e termalisti, allevatori e pescatori, guardie carcerarie, controllori di volo e magistrati. Ieri i magistrati per la seconda volta in due anni (evento raro: per trovare un altro sciopero bisogna tornare alla "prima repubblica", 1991). E come gli altri questo sciopero è stato un successo: otto toghe su dieci sono rimaste negli armadi. A cominciare da quelle più autorevoli: capi degli uffici e giudici di Cassazione. Non è una notizia irrilevante. Perché la riforma che il ministro Castelli sostiene e la magistratura associata respinge ha il suo centro nella visione gerarchica del «servizio giustizia». La dialettica interna agli uffici giudiziari secondo il ministro e i suoi autori dev'essere risolta aumentando i poteri del procuratore capo, che potrà così facilmente richiamare le inchieste assegnate ai sostituti. La costituzionale uguaglianza dei magistrati va invece corretta da un lato con una sostanziale separazione delle carriere (o con una distinzione delle funzioni ultra rigida, il che è lo stesso), dall'altro con l'attribuzione di un ruolo preponderante ai magistrati di Cassazione. Il mestiere di giudice diventa così una carriera. Dove si possono bruciare le tappe in base all'abilità nel superare i concorsi, una abilità che molto spesso non ha nessuna relazione con la capacità di lavorare molto e bene, o se ce l'ha è una relazione inversa: chi si dedica di più ad accumulare titoli si dedica di meno alle udienze. E non fa male, anzi il ministro lo premia con un aumento di stipendio.

«E' una protesta corporativa», ha ripetuto il ministro come un disco rotto davanti ai numeri «bulgari» delle astensioni. Ma è vero il contrario: chi più avrebbe da guadagnare dalla sua riforma, cioè i capi degli uffici e i magistrati di Cassazione, ha scioperato come e più degli altri.

Dovrebbero riflettere, Castelli e i suoi mandanti forzisti che invece ieri proclamavano di voler andare avanti come se lo sciopero non ci fosse stato. Soprattutto dovrebbero smettere di contrapporre l'indipendenza e l'autonomia della magistratura all'efficienza della giustizia. Perché la loro riforma fa tutto il contrario di quello che serve: non riduce, ma allunga i tempi dei processi. Se tutta l'attenzione è posta al vertice della categoria, non c'è da stupirsi se le funzioni di primo grado - cioè i tribunali dove va ad arenarsi il destino del cittadino comune - risulteranno svalutate. Il risultato è prevedibile e in gran parte già davanti ai nostri occhi: una giustizia doppia, rapida per chi dispone di buoni avvocati, spietata per i poveri cristi. Una Dike senza benda ma attenta al portafoglio. Del resto il modello è autorevole e siede a palazzo Chigi.

C'è però un altro particolare di rilievo nella giornata di ieri. Davanti allo sciopero il ministro leghista ha lanciato un ultimatum, ma non ai suoi oppositori, bensì alla sua maggioranza. Vuole che la sua legge venga approvata presto e senza modifiche. E' nervoso, perché non è riuscito a chiudere prima delle elezione europee. Giustamente teme che il suo disegno possa finire travolto, se il voto dovesse andare male per il centrodestra. Non è lo sciopero l'unica arma per fermare questa pessima riforma.



 
24 maggio

Un mattone sopra l'11 settembre
Le Torri gemelle, da tragedia a mega-speculazione. Il Washington Post denuncia : gli 8 miliardi di dollari destinati dal Congresso alla ricostruzione di Ground Zero sono finiti nelle mani dei ricchi palazzinari e dei banchieri di New York
FRANCO PANTARELLI
NEW YORK
Da tragedia nazionale a opportunità speculativa. Da aiuto per ricostruire con equità a sussidio pressoché indiscriminato ai ricchi palazzinari di New York. Ecco cosa ne è stato degli otto miliardi di dollari che il Congresso degli Stati Uniti accordò a New York dopo l'attacco terroristico dell'11 settembre 2001: lo denuncia ora il Washington Post, con in mano i documenti di bilancio della città di New York. L'aiuto concesso a New York violentata e ferita fu inferiore alla richiesta. Nei giorni immediatamente successivi alla tragedia si era parlato di 20 miliardi di dollari e i due rappresentanti di New York al Senato federale, Hillary Clinton e Charles Schumer, avevano addirittura perorato l'estensione a 40 miliardi. L'amministrazione Bush, convinta che qualcosa bisognasse fare ma anche conscia della difficoltà che lo Stato di New York potesse mai diventare elettoralmente «suo», concesse un contributo di 3 miliardi e mezzo di dollari, presi da un fondo destinato allo sviluppo economico delle aree depresse, e fece capire che non non sarebbe andata oltre. Quei primi soldi furono ultilizzati dalle autorità di New York per «convincere» le imprese - in gran parte intenzionate a «fuggire» dalla bassa Manhattan - a restare dov'erano. Dei beneficiari di quel programma se ne conoscono solo alcuni: la Deloitte & Touche, una compagnia di auditing, ebbe 17 milioni; la Bank of Nova Scotia ne ebbe tre; 40 milioni andarono alla Banca of New York e 25 milioni all'American Express, malgrado i suoi dirigenti non avessero espresso nessuna intenzione di andarsene. Ma l'intera bassa Manhattan era devastata e le cose da fare erano molte: ripulire gli edifici che erano sopravvissuti ma erano contaminati; ripristinare le attività economiche; ridare ordine al mercato edilizio stravolto, e qui subentrò il Congresso che ai soldi stanziati dall'amministrazione aggiunse - pescando in svariate voci di bilancio - gli otto ulteriori miliardi di dollari di cui si diceva, dispensati in forma di Liberty Bonds. Ma lo fece «incautamente», cioè senza stabilire troppe norme su come quel denaro doveva essere utilizzato. Quelli erano giorni di grande emozione, i nevrastenici newyorkesi si aggiravano sotto shock per la città con una gran voglia di aiutarsi l'un l'altro; il sindaco Rudolph Giuliani, decisamente poco amato per le sue iniziative da ducetto, diventò «il sindaco d'America»; perfino gli Yankees, la squadra di baseball di New York che i tifosi del resto dell'America odiano perché vince troppo, furono osannati dappertutto quando vinsero il «World Series». Così, spiega al Washington Post Carolyn Maloney, una deputata di New York, «decidemmo di non perdere tempo a porre troppi lacci». Un paio di cose di base, comunque, le avevano stabilite. Una era che i costruttori beneficiari dei sussidi dovevano riservare almeno il 20% dei loro alloggi a coloro che non potevano permettersi gli alti affitti di quella zona (e non si parla propriamente di «poveri»: lì un bisognoso di «affitto moderato» è uno che guadagna 80.000 dollari l'anno) per conservare una presenza «mista»; un'altra, decisamente ovvia, era che i palazzi da costruire dovevano essere «dentro» l'area di bassa Manhattan.

Né l'una né l'altra sono state rispettate, illustra con dovizia di numeri il Washington Post. Alcuni esempi? La Bank of America ha avuto 650 milioni per costruire il suo nuovo edificio vicino a Times Square, lontano alcuni chilometri dalla zona interessata; la Bank of New York ne ha avuti 113 per costruire un palazzo addirittura a Brooklyn, separato dalla bassa Manhattan non solo dai chilometri ma anche dal mare. Fra i vari esempi, l'unico con un minimo di decenza è dato dai 39 milioni ricevuti da Robert De Niro per costruire un albergo a TriBeCa, che almeno si trova abbastanza vicino.

E i costruttori che hanno edificato nel posto giusto? Loro si sono concentrati sullo stravolgimento dell'altra norma: quella del 20% degli appartamenti «alla portata dei meno abbienti», che nei casi migliori è stata ridotta al 5%. Il principale beneficiario dei sussidi (ne ha incamerato il 30%, secondo alcuni calcoli) è un costruttore di nome Leonard Litwin che è anche uno dei maggiori contribuenti delle campagne elettorali di George Pataki, il governatore di New York. Ma non c'entra nulla, sostengono i suoi uomini. «Lui aveva dei progetti pronti e noi avevamo fretta perché il mercato stava crollando». Ma non è vero. Il mercato andò giù per un breve periodo, poi ricominciò a salire e non si è mai fermato. Attualmente, l'affitto di un appartamento di tre stanze a Ground Zero è sui 6.500 dollari al mese e il prezzo d'acquisto è oltre il milione.




20 maggio

Motivazioni
Ma il soldato Sivits è stato degradato, radiato e condannato perché ha fatto le torture o perché le ha fotografate? (jena)

Appello di 1400 insegnanti: "Una scelta opposta a quella
del resto d'Europa, che penalizza il futuro dei giovani"
"Salviamo l'inglese a scuola"
Rivolta dei prof contro i tagli
È partita la mobilitazione per bloccare il ridimensionamento
delle ore d'insegnamento della lingua straniera più diffusa

L'aula di una scuola elementare
di MARIO REGGIO
ROMA - "Salviamo l'inglese dalla scure della Moratti". È partita la mobilitazione per bloccare il taglio delle ore d'insegnamento della lingua straniera più diffusa alle elementari e alle medie. L'appello è stato lanciato da centinaia di professori d'inglese e dai gruppi Lingua e Nuova didattica di Bergamo, Udine, Padova, Verona, Torino e Milano. La mobilitazione è sostenuta dal Coordinamento Genitori Democratici, dal Comitato fiorentino "Fermiamo la Moratti" e da Meridiano scuola (www. meridianoscuola. it). Le firme raccolte hanno superato quota 1400.

Come è noto, il decreto di riforma che riguarda i cinque anni delle elementari e i tre delle medie inferiori prevede un drastico taglio delle ore d'insegnamento della lingua inglese. Nelle medie, per chi ha scelto il tempo prolungato, le ore d'insegnamento scendono da 132 a 54 l'anno. Chi invece sceglie il tempo normale, 30 ore a settimana adesso e 27 a partire dal prossimo anno scolastico, l'orario diminuisce da 99 a 54 l'anno. Viene introdotta la seconda lingua straniera, per due ore a settimana, troppo poco secondo gli esperti per assicurare un livello d'apprendimento accettabile. E tutto in barba allo slogan martellante della riforma Moratti: più inglese, internet e impresa.

"Siamo consapevoli, come docenti genitori e cittadini, che la questione dell'inglese, così come quella di Darwin, sia solo uno degli aspetti problematici più appariscenti della riforma Moratti - si legge nell'appello - noi guardiamo con rammarico e un po' d'invidia ad altri Paesi, come la Francia, in cui si sta preparando una riforma della scuola tramite un "grand débat" che coinvolge l'intera nazione. In Italia, invece, la riforma ci è stata imposta dall'alto con una serie di slogan e spot televisivi tanto lontani dalla realtà da essere stati denunciati come "pubblicità ingannevole"".
Dure critiche anche dalla professoressa Maria Teresa Calzetti, segretaria nazionale dell'Associazione Lingua e nuova didattica, una delle associazioni professionali della scuola più rappresentative. "L'insegnamento della prima lingua straniera non solo non viene incentivata nelle elementari, dove le attuali 297 ore negli ultimi tre anni, vengono spalmate in cinque anni, ma si riduce drasticamente nelle medie" commenta. "Le scelte del ministero vanno in direzione opposta alle raccomandazioni del Consiglio d'Europa. É un grave errore che mortifica i docenti e demotiva i giovani, una decisione presa senza neanche consultarci".

E a proposito di come è stata preparata la riforma, nel corso del Forum che si è svolto la scorsa settimana a Repubblica, la Moratti ha sostenuto: "Abbiamo consultato le 65 associazioni disciplinari della scuola".
Che cosa rispondono le associazioni? "Sarebbe interessante sapere da dove spuntano le altre 50, visto che le associazioni sono in tutto 15. A parte questo, siamo stati interpellati a cose fatte, con una lettera datata 4 aprile 2003, arrivata dopo molti giorni, che per la formulazione di un parere dava il termine del 30 aprile. Malgrado i tempi molto stretti formulammo i nostri pareri, ma di essi non si tenne nessun conto. È poi falso che "sull'evoluzionismo non era stato mosso alcun rilievo", come afferma la Moratti. Nel parere inviato dall'Associazione insegnanti di Scienze naturali si legge appunto un richiamo all'assenza di questo tema".


17 maggio

L'EDITORIALE
Lo scudetto nella bara

di VITTORIO ZUCCONI
Negli anni più torvi della guerra fredda e di quella ossessione ideologica che stregò brevemente la democrazia americana con il volto di un senatore chiamato McCarthy, l'edificio di oscenità e di menzogne creato dalla caccia alla streghe crollò simbolicamente e definitivamente quando l'avvocato difensore di uno degli accusati chiese, in diretta televisiva, al senatore: "Ma lei non ha più alcun senso di dignità e di pudore?".

Ci sarà qualcuno che avrà il coraggio di ripetere quella domanda, nell'Italia della televisione addomesticata e anestetizzata, al capo dell'esecutivo italiano, al nostro Presidente del Consiglio che festeggiava la propria miserabile gloriuzza in uno (scandaloso) torneo di pallone mentre i suoi soldati, i suoi fratelli d'Italia, si battevano per lui, per la stoltezza delle sue decisioni di stratega dilettante?

Esiste ancora qualche decenza, qualche comune senso del pudore e del rispetto umano, nel leader politico nazionale che preferisce dedicare un pomeriggio al Milan piuttosto che restare in quello studio a Palazzo Chigi dove noi cittadini lo abbiamo cortesemente inviato a spese e per conto nostro, per mostrare, per almeno creare l'impressione che le gambe di soldati italiani impegnati in battaglia siano più importanti delle gambe dei calciatori miliardari che hanno preso a pedate un pallone per lui?

Sapevamo tutti, domenica pomeriggio che lo scontro di Nassiriya non era un incidente qualsiasi nè una "operazione di pace" andata storta, come la grottesca finzione ufficiale ancora pretende di definire la situazione dei nostri reparti combattenti nel sud dell'Iraq. Eppure la voglia propagandistica di sfruttare ancora una volta le paillettes di un successo sportivo, la vanagloria del tifoso e padrone che vuole apparire il condottiero trionfante di una infantile guerra sportiva vinta mentre è in corso la disfatta nella guerra reale è stata irresistibile. Non basta certamente per salvarsi la coscienza essere informati "minuto per minuto" come se la cronaca di una battaglia fosse l'equivalente di un radiocronaca calcistica e la vita di soldati spediti con l'inganno fosse assimilabile a un rigore o a un gol.


Se a chi ci governa fosse rimasto un briciolo di quel pudore e di quella dignità che l'avvocato difensore delle vittime dell'inquisizione maccarthysta non trovò in quell'America tanto lontana e purtroppo tanto vicina, il solo atteggiamento dignitoso e realmente patri
ottico, anche se ormai inutile, sarebbe stato almeno evitare la festa dell'idiozia pallonara e rinchiudersi nel riserbo del padre che trema per la vita dei propri figli. George Bush, che pure del nostro Presidente sarebbe il maestro di pensiero e il protettore internazionale, ha rinunciato in questi giorni addirittura a partecipare alla cerimonia della laurea delle figlie, uno dei momenti di maggiore e giusto orgoglio per un padre, per non creare l'impressione di rallegrarsi per successi privati mentre la famiglia americana subiva i traumi delle torture, dei rovesci militari e delle morti atroci degli ostaggi. Il nostro Presidente non ha rinunciato alla festa del Milan.

I soldati italiani che combattono e muoiono in Iraq sotto la bandiera di una menzogna sfacciata portano cucito sulla manica uno scudetto tricolore, come la squadra che vince il campionato, ma per 18 di loro non ci saranno feste né premi partita, né sorrisi compiaciuti e servili di dirigenti tronfi e ciambellani e giullari convocati alla corte del signore. Per loro, soltanto le bare, fasciate nel patriottismo falso di chi li ha mandati a morire, ma, mentre morivano, preferiva "esultare".

La sola coppa possibile, per quelli che restano ancora, sarebbe il ritorno a casa, da una missione falsa, non sconfitti dal nemico, ma da chi li ha adoperati come giocatori di quarta serie, come carne da cannone, senza decenza, senza dignità, senza verità. E ora dovranno subire anche l'ultima umiliazione della retorica patriottarda e impudente di chi accoglierà la bara, tra lacrime di coccodrillo e alè olè alè.

 

12 maggio

Torture a Bolzaneto «In 47 a giudizio»
Sotto accusa poliziotti, carabinieri, infermieri e medici della caserma in cui furono portati i fermati del G8. In mancanza del reato di tortura in Italia i magistrati ricorrono alla convenzione europea sui diritti dell'uomo
AUGUSTO BOSCHI
GENOVA
Costretti a rimanere in piedi, per ore, con le mani alzate; ragazze obbligate a spogliarsi davanti a personale maschile per la visita medica con sottofondo di commenti da caserma; e poi pestaggi gratuiti e umiliazioni in un repertorio di violenza senza giustificazione perché inflitta a chi non può nuocere, a chi è prigioniero. Sembrano scene da un carcere iracheno, e invece sono solo alcuni frammenti di quanto avvenne a Bolzaneto, nella caserma adattata a centro di prima detenzione per i manifestanti che, nel luglio del G8 di Genova, venivano fermati dalle forze dell'ordine. Le denunce su quanto era avvenuto nella caserma sede del reparto mobile di Genova costituirono il «la» per un'inchiesta che i magistrati del pool genovese hanno sigillato ieri con la richiesta di rinvio a giudizio per 47 funzionari e dirigenti delle forze dell'ordine. Le accuse sono, a vario titolo, di abuso d'ufficio, minacce, violenza, percosse, omessa denuncia, falso ideologico, abuso di autorità contro detenuti. Ma i magistrati vanno oltre e citano l'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali che parla di tortura e dice espressamente che «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti». Gli accusati sono un'armata dalle mille divise: polizia penitenziaria, polizia di Stato, carabinieri, infermieri e cinque medici. Tra questi ultimi il medico del carcere di Marassi, Giacomo Toccafondi, accusato tra le altre cose di avere permesso che i giovani che venivano portati per la prima visita medica venissero trattati in modo inumano e umiliante, anche sotto il profilo sanitario. Toccafondi si è sempre difeso dicendo di non aver mai notato nulla di strano, a Bolzaneto: «Lo constatò anche il ministro della giustizia Roberto Castelli quando venne a visitare il centro». Non mancano gli indagati eccellenti, ovvero i funzionari che dividevano le responsabilità del funzionamento della caserma di Bolzaneto. Il primo è il vice questore Alessandro Perugini; l'ex numero due della Digos genovese finito su tutti i notiziari televisivi per il calcio in faccia sferrato a un 16 enne proprio davanti alla questura di Genova era il funzionario di polizia con il grado più alto nella caserma di Bolzaneto e aveva l'incarico di gestire la struttura. Il responsabile della sicurezza del centro di detenzione provvisorio costituito a Bolzaneto era invece l'ispettore di polizia penitenziaria Biagio Antonio Gugliotta, mentre il generale Oronzo Doria, stretto collaboratore del magistrato Alfonso Sabella quando era capo del Dipartimento amministrazione carceraria, fu il più alto in grado a fermarsi per qualche tempo nella caserma. Il generale è accusato di non avere impedito, pur potendolo fare, la condotta dei suoi sottoposti. Eppure lo avevano avvertito che qualcosa non andava: urla, insulti, quelli del Gom, il Gruppo operativo speciale della polizia penitenziaria, che gridavano contro i manifestanti fermati.

Resta fuori dalla mischia, invece, Alfonso Sabella. La posizione del magistrato fiorentino, iscritto nel registro degli indagati ma come atto «tecnico» - è stata stralciata dal fascicolo principale e i magistrati genovesi ne chiederanno l'archiviazione. Di fatto, secondo i pm. Sabella si trattenne a Bolzaneto per un periodo troppo breve per capire quello che stava succedendo.

La richiesta di rinvio dovrebbe essere inviata all'ufficio del gip già oggi. Quindi si tratterà di vedere quando verrà fissata l'udienza preliminare di un procedimento in cui le parti lese sono almeno 150. Ma quanto rischiano i poliziotti che andranno a giudizio? «Il reato più grave è l'abuso d'ufficio - è l'amaro commento di un magistrato - che prevede una condanna da 6 mesi a tre anni di reclusione». Per cui, visti i tempi della giustizia, quando la condanna sarà definitiva, il reato potrebbe già essere prescritto. «Il nostro lavoro non dico che è vanificato dai tre gradi di giudizio - conclude il magistrato - ma certamente pochi imputati sconteranno la pena, che sarà a quel punto solo simbolica».


10 maggio

IL COMMENTO
Il fusibile salva democrazia
di VITTORIO ZUCCONI

Nel fetido pozzo settico scoperchiato dal caso delle torture, nel quale sta inabissandosi quel poco di credibilità che ancora la "guerra del Bene contro il Male" conservava, c'è un elemento trascurato che l'opinione pubblica italiana dovrebbe osservare con spasmodica attenzione.

Non è vero che lo scoppio dello scandalo e le misure punitive, e vili, adottate finora contro un gruppo di soldatini di infimo rango, le comode "mele marce" accusate di essere marce dai padroni del frutteto che le hanno coltivate, siano la prova luminosa della salute democratica di questa America 2004. Al contrario, se fosse dipeso soltanto da Bush, tenuto serenamente all'oscuro di tutto come il nonno un po' cagionevole e rimabambito al quale non bisogna far salire la pressione arteriosa con brutte notizie, dallo spudorato Rumsfeld, dallo stato maggiore militare, dalla inspiegabilmente esaltata Condoleeza Rice, dal timido e ossequiente Powell non sapremmo nulla, assolutamente nulla di quanto avveniva in quella villa triste di tormenti e di idiozie.

Se abbiamo visto, se siamo qui a parlarne, se vediamo finalmente muoversi la ruotina della pseudo giustizia e delle scuse a buoi scappati, è perché ha funzionato non la democrazia istituzionale, ma l'ultimo fusibile della democrazia reale. Ha funzionato la libera informazione televisiva.

Non sono stati la magistratura ordinaria o militare, il Parlamento, le commissioni d'inchiesta segrete a scoperchiare la fossa settica di Abu Grahib. E' stata una trasmissione televisiva di vero approfondimento, non di basso servizio al governo in carica, il magazine "60 Minutes II" della Cbs, a mettere in onda le prime fotografie, scattate con una macchinetta digitale da uno dei carcerieri nauseato che le aveva passate sperando che qualcuno avrebbe avuto il coraggio di diffonderle.

Addirittura il capo di stato maggiore della difesa, generale Myers, la massima autorità militare della nazione, aveva chiesto di persona, implorato, quasi comandato, il giornalista Dan Rather e i produttori di "60 minutes II" a lasciar perdere, a rinviare, promettendo che il Pentagono avrebbe rivelato tutto di propria iniziativa. Quando, per due settimane, Rather e i suoi non hanno visto né saputo nulla, sono andati in onda e il fetore si è sprigionato. La macchina arrugginita della democrazia istituzionale ha cominciato, lentamente, cigolando, barcollando, a muoversi, spinta dalla democrazia reale della informazione autonoma e perciò, implicitamente, critica.

Ora provate a trasportare il caso nella Italia del "conflitto d'interesse", pudica e noiosa espressione che nasconde il controllo ormai canceroso dello stesso uomo su tutti i gangli fondamentali dell'informazione televisiva nazionale. Immaginate Rai e Mediaset, le reti private del governo e quelle pubbliche, i conduttori "amici" e fiancheggiatori sistematicamente piazzati sulle poltrone che contano, sbattere la porta a porta in faccia al governo, ai ministri, agli alti comandi, ai funzionari di partito, ai portaborse che telefonano concitati da Roma per zittire e mandarli, come ha fatto la Cbs che non è un'organizzazione pacifista né antiamericana ma appartiene a un colosso aziendale attento ai profitti chiamato Viacom, cortesemente a farsi benedire.

In una democrazia perfetta, popolata da cittadini esemplari, da "angeli e arcangeli" come avrebbe detto Schumpeter, le torture non avverrebbero, le Guantanamo e le ville tristi non ci sarebbero, i presidenti, i ministri, i parlamentari, non avrebbero mai bisogno di chiedere scusa e non ci sarebbe nessun pozzo nero da scoperchiare. In una democrazia reale e profondamente imperfetta perché umana, la stessa Cbs, con Walter Cronkite, inchioda nel 1968 un presidente democratico, Johnson, alla sua sconfitta in Vietnam. Un settimanale come Newsweek, "sospettato" di sinistrismo, investiga nel 1998 il caso Lewinski, scippato da un sito Internet dopo che i giornalisti del settimanale avevano pronto il dossier, e inguaia un presidente ideologicamente "amico", facendo il gioco non della destra o della sinistra, ma dell'informazione. E ora è di nuovo la Cbs fare quello che il Parlamento imbelle, e il governo americano, non avevano osato fare, costringere l'America della sbornia patriottarda e dopo il trauma di Manhattan a guardarsi allo specchio.

Il fusibile della libertà di stampa, e soprattutto della cruciale televisione, è scattato, forse in extremis, per impedire il corto circuito della democrazia. Per questo, negli Stati Uniti d'America, anche in uno dei momento più amari della loro storia, c'è ancora speranza. E per noi, sempre meno.

L' indifferenza di Caino

STRETTAMENTE PERSONALE

 

Biagi Enzo

 

Tema di questi giorni: la tortura. Protagonisti: gli Usa. Vittime della crudeltà: i prigionieri iracheni. Certe storie si ripetono. Trent' anni fa, a Parigi, andai a trovare Henri Alleg, alla redazione dell' Humanité. Lo avevano arrestato ad Algeri durante l' estate 1957. Fu preso dai paracadutisti di Massu, lo portarono a El Biar, che era un posto di raccolta per quelli del Fronte di liberazione. Alleg, piccolo, un po' rotondo, sorridente, mi raccontò: «I fatti? Venivamo denudati, legati a un' asse marcia per i vomiti di quelli che c' erano passati prima, e poi lasciati così per ore, con certi tipi attorno che ci incitavano a parlare. Speravano bastasse la paura. Niente? E allora si passava agli esercizi, all' elettricità. Appendevano il prigioniero per i piedi, lo bruciavano con torce di carta: lo hanno fatto anche con me. Quando si sono contemplate delle cose orribili, quando le hai guardate, vissute su di te, si spera soprattutto che ciò non debba mai accadere ai tuoi figli, a nessuno su questa terra». Ne parlai con Pierre Vidal Marquet: insegnava storia romana all' università e aveva pubblicato un saggio sul problema. «Sono le ideologie stesse che prendono un aspetto totalitario. Si può torturare quando si crede di avere ragione, e sono molti quelli che credono di essere possessori della verità. E, quando si è tutori di una certezza, si ha la tendenza a imporla a chi non la riconosce». La sociologia, la psicologia, la scienza spiegano quasi tutto, anche l' indifferenza e lo spirito di legittimità di cui è pervaso Caino che in qualche modo si presenta addirittura nelle vesti del salvatore e sempre dell' idealista. Si è inventato anche un linguaggio: in gergo militare si dice «assumere informazioni», in quello giuridico e poliziesco «porre domande»; «torturare» è un verbo che si coniuga soltanto riferito ad altri.