Archivio Luglio 2004

 

 

 

 

 30 luglio

Cresce la spesa delle famiglie
non bastano 2.000 euro al mese

ROMA - Più di quattrocento euro al mese per mangiare. Poi affitto, condominio, trasporti, assicurazione e cure mediche. Le famiglie spendono tanto. Troppo. E per questo sono costrette a tagliare i fondi per il tempo libero e le attività culturali, a risparmiare sull'abbigliamento e l'arredamento. Cresce quindi la spesa delle famiglie in Italia, secondo i dati dell'indagine annuale dell'Istat. Nel 2003 la spesa media mensile ha raggiunto i 2.313 euro, 119 euro in più rispetto all'anno precedente, segnando un'incremento del 5,4%. A pesare su tale variazione, soprattutto l'inflazione che nel corso dell'anno passato è aumentata del 2,7%.

Alimentari. Più di quattrocento euro al mese per
imbandire la tavola, sulla quale la carne continua a fare la parte del leone. Nel 2003 ogni famiglia ha speso in media 451 euro al mese nell'acquisto di cibi e bevande, ben 26 euro in più rispetto allo scorso anno. I soldi destinati al cibo rappresentano, cioè, 19,5% della spesa totale, con la carne che da sola assorbe il 4,4% del budget complessivo.

Casa. La casa rappresenta una delle voci più pesanti nel bilancio mensile delle famiglie italiane. L'affitto, il condominio, la manutenzione ordinaria e straordinaria assorbono nel complesso quasi un terzo (il 24,9%) della spesa media mensile, per un importo di 575 euro, 32 euro in più rispetto al 2002. Continuano a diminuire (dal 18,7% al 18,5%) le famiglie che occupano un'abitazione in affitto, mentre l'affitto medio, che nel 2002 era pari a 279 euro al mese, aumenta e raggiunge i 288 euro.

Sanità. La voce sanitari e spese per la salute è pari al 3,8% della spesa totale, per un importo di 87 euro al mese. Non sembra molto, ma i tecnici dell'Istituto nazionale di statistica sottolineano che, pur rimanendo stabile rispetto all'anno precedente, la voce sanità mostra un cambiamento delle abitudini degli italiani, che spendono sempre di più per medicinali, visite mediche ed esami radiologici.

Cultura e tempo libero. La vita è cara e da qualche parte si dovrà pure tagliare. Sembra questo il motto delle famiglie italiane che, alle prese con i rincari, si ritrovano a dover rinunciare ai piaceri. Una parte sempre inferiore del budget mensile è destinato a tempo libero e cultura: la quota della spesa media è infatti scesa dal 4,9% del 2002 al 4,8% del 2003. Tagli a spese per il computer, abbonamenti a manifestazioni sportive, concerti, teatri e spese per hobby, totocalcio e altre lotterie.

Abbigliamento e comunicazioni. Nel carrello degli italiani ci sono anche meno scarpe e vestiti. Continua infatti a diminuire la percentuale di spesa per abbigliamento e calzature (dal 6,8% del 2002 al 6,7% del 2003) mentre rimane stabile quella per comunicazioni, pari al 2,1% della spesa totale, sebbene tra le voci di questo capitolo si registri un aumento della spesa mensile per schede telefoniche, francobolli e altre spese postali.

Trasporti. Confermata la progressiva contrazione, iniziata nel 2000, delle spese per i trasporti: le famiglie spendono il 14% del loro bilancio mensile, 324 euro al mese. E diminuiscono anche i soldi destinati all'acquisto di automobili nuove e usate. Aumentano, invece, le spese destinate alla manutenzione e all'assicurazione dei veicoli.

Altro. Invariata, invece, lo scorso anno rispetto al 2002 la quota di spesa mensile destinata ad altri beni e servizi (dall'11,1% all' 11,2% della spesa totale) nonostante il lieve incremento delle spese per vacanze, articoli personali e cura della persona, assicurazioni vita e pensioni integrative, pasti e consumazioni fuori casa.

Differenze geografiche. Restano le differenze nei consumi delle famiglie a seconda della zona, ma per nessun posto si può parlare comunque di 'isola felice'. Meglio il sud del nord: nelle regioni del settentrione, la spesa media mensile risulta superiore di 646 euro rispetto alle famiglie residenti nel Mezzogiorno e di 72 euro rispetto a quelle del Centro. Nel nord, infatti, la spesa media mensile si aggira sui 2.538 euro (+5,9% rispetto ai 2.396 euro del 2002). Nelle regioni del Centro, invece, i consumi si attestano intorno ai 2.466 euro (+5% sul 2002), mentre nel Mezzogiorno ci si ferma a 1.892 euro (4,8% in più rispetto al 2002).

Mutui con pasticcio
Il governo ammette: «Legge errata». E la fa votare
Il senato propone un ordine del giorno per correggere la correzione della manovra correttiva, il ministro dell'economia annuncia che si rimedierà con una circolare o la legge finanziaria, «vedremo». Non è uno scherzo, è l'ultima soluzione «tecnica» escogitata dal governo per mettere l'ennesima toppa all'ennesimo strappo da esso stesso causato. La questione è quella dell'imposta sui mutui. La scorsa settimana, con un maxiemendamento che rettificava le poste di bilancio della manovra correttiva, il governo aveva aumentato le imposte sulla compravendita delle seconde case e fatto salire anche sensibilmente - dallo 0,25 al 2% - l'imposta sostitutiva sui mutui accesi per comprare le stesse case. O meglio, così aveva detto: perché da un'attenta lettura del testo veniva fuori che in realtà l'aumento dell'imposta sostitutiva riguardava tutti i mutui, con la sola esclusione di quelli accesi per comprare la prima casa. La «svista», segnalata dal Sole 24 Ore e poi ammessa dal governo, estendeva di fatto l'aggravio di imposta a tutti i finanziamenti a medio e lungo termine, colpendo in particolare le imprese. Di fronte alle proteste che sono arrivate soprattutto da esponenti confindustriali, Berlusconi ha ammesso l'errore. Ma il governo ha anche dovuto ammettere di non poter far niente per rimediare, vista l'urgenza di approvare la conversione in legge del decreto al senato entro la pausa estiva, nell'identico testo (sbagliato) già approvato dalla camera. Il voto dovrebbe svolgersi stamattina, forse con la fiducia. All'aula del senato sul pasticcio-mutui sarà proposto lo stesso escamotage votato ieri in commissione Bilancio: l'approvazione di un ordine del giorno che «impegna il governo a interpretare» la norma «nel senso che l'aumento dell'imposta sostitutiva dallo 0,25 allo 0,50% si applica ai soli mutui erogati per l'acquisto di case diverse da quelle di prima abitazione». Ma il marchingegno potrebbe non risolvere il problema di fronte ai notai e agli operatori chiamati ad applicare la nuova norma. La legge in vigore resta quella «sbagliata», dunque per ora, checché ne dica l'odg del senato, l'imposta sostitutiva sui mutui cresce per tutti (tranne che per la prima casa). Tant'è che ieri Siniscalco ha ipotizzato di intervenire con una circolare o nella stessa legge finanziaria.


DONNE PENALIZZATE
Per le donne esiste la possibilità di continuare, anche dopo il 2008, ad andare in pensione con 57 anni (sempre con 35 di contributi versati). Ma c'è una penalizzazione importante: in questo caso la pensione sarà calcolata interamente con il metodo contributivo (cioè la pensione dipende interamente dai contributi versati). Ciò significa che tutte le donne con uno stipendio medio-basso di fatto non potranno lasciare il lavoro a 57 anni, salvo avere una pensione da fame Come sottolinea Betty Leone dello Spi Cgil: «Come si fa a pensare che un'operaia tessile possa andare in pensione a 57 anni?».
 
 

28 luglio

COMMENTO
Un ponte nel vuoto
di MASSIMO GIANNINI

CON il ventiduesimo voto di fiducia, Berlusconi impone all'assemblea di Montecitorio la nuova legge sulle pensioni. In soli 3 anni, la Casa delle Libertà brucia il record che l'Ulivo aveva accumulato in 5 anni: 22 a 20. Sette voti di fiducia all'anno. E non certo per far approvare riforme radicali ma per far transitare senza danni provvedimenti nati per tirare a campare. E ingiunti al potere legislativo non tanto per sanzionare i modesti diritti dell'opposizione, quanto per blindare i fragili doveri della maggioranza.

Ha mille ragioni il presidente della Camera Casini, a lamentare l'ennesimo danno inflitto al Parlamento. Ma non è neanche questa, in fondo, la vera "cifra" politica e finanziaria di questo forzoso via libera al nuovo regime previdenziale. Questa presunta "riforma" è solo un ponte. Serve al centrodestra per sopravvivere all'estate, attraversando l'abisso di una crisi che sembrava potersi aprire addirittura prima delle ferie d'agosto.

La riforma delle pensioni è invece un ponte sospeso nel vuoto della politica. La Casa delle Libertà, fondata sulla forza originaria e cogente del suo leader, è ormai poco più che una somma di debolezze. Dal suo letto di convalescente, Bossi aveva azzardato l'ultima minaccia: se dagli alleati non arriva il disco verde alla devolution, dalla Lega non arriva nemmeno il disco verde sulla previdenza.

Ma anche tra le camicie verdi, esattamente come accade in An e nell'Udc, c'è un'"ala ministeriale" (Maroni e Calderoli) che mal sopporta i richiami della foresta del proto-leghismo padano. Per questo, alla fine, il Cavaliere è riuscito a persuadere Bossi a votare la fiducia. In cambio, gli ha concesso l'impegno a incardinare in aula alla Camera, entro la prossima settimana, almeno l'avvio del dibattito sul federalismo. Per il voto, tutto è rinviato a settembre.

Lo stesso orizzonte differito ha prevalso nell'Udc. Follini ha tirato la corda fino al punto estremo. Non voleva e non poteva rompere adesso. Rispetto ai rivali nella sua coalizione, benché le abbia provvisoriamente ripiegate in commissione, congelando i dieci emendamenti al pacchetto riforme istituzionali, non ha affatto ammainato le sue "bandiere". Con la ragionevole certezza di dover contrastare un riassetto costituzionale che se anche passasse all'esame del Parlamento non passerebbe mai al vaglio popolare di un referendum confermativo, è pronto a farle sventolare in aula dopo la pausa estiva.

Rispetto ai dissenzienti nel suo partito, non ha rinunciato alla "conta" nel consiglio nazionale di lunedì. Con l'appoggio di Casini che non gli è mai mancato in questi mesi e non gli mancherà in futuro, punta ad uscire da quel test con un chiarimento definitivo, sulla leadership e sulla linea politica. Gli servirà per affrontare lo scontro frontale sul federalismo e sul premierato. Di nuovo, tutto è rinviato a settembre.

Fini lascia fare. Lucrata un mese fa la più alta rendita politica e personale, non è riuscito o non ha saputo fare alcun "uso" della cacciata di Tremonti. Forse, viste le cifre del disastro della finanza pubblica che il nuovo ministro del Tesoro ha avuto il merito di portare allo scoperto, si capisce anche il perché. Ma il vicepremier paga comunque la mancata assunzione di responsabilità diretta con un inevitabile appannamento della sua leadership. Che torna gregaria, e appiattita su quella non meno appannata di Berlusconi. Se il premier resiste, resiste anche il suo vice. Se precipita, il vice si deve ricollocare. Anche per Fini tutto è rinviato a settembre.

La riforma delle pensioni è anche e soprattutto un ponte sospeso nel vuoto dell'economia. È comprensibile il consenso diffuso che sta riscuotendo il "metodo Siniscalco". Ruota intorno a due perni: trasparenza assoluta con il ceto politico e l'opinione pubblica sui saldi contabili tendenziali, confronto tenace con i sindacati e gli imprenditori sulle misure correttive. Ma il metodo non risolve il merito. E il merito dice prima di tutto che questa nuova legge sulla previdenza non elimina la gobba della spesa, non cancella le iniquità intergenerazionali, e produce effetti pratici solo a partire dal 2008.

E in secondo luogo, che l'Italia soffre un pauroso deterioramento dei conti pubblici, e gli italiani si devono preparare a un autunno di feroci stangate, come non se ne vedevano dal remoto '92. Il Dpef, di cui il Consiglio dei ministri dovrebbe varare oggi le linee di fondo, contiene impegni insieme realistici e proibitivi.

È realistico prevedere un abbattimento del rapporto deficit/Pil dal 4,4% tendenziale al 2,7% l'anno prossimo. Ma è proibitivo raggiungerlo accompagnando una manovra secca da 24 miliardi con una riforma fiscale che, secondo Luigi Spaventa, "costa" non meno d'un punto e mezzo di Pil. È realistico rimettersi su un sentiero virtuoso d'abbattimento del rapporto debito/Pil, dall'attuale 106% al 100% nel 2008. Ma è proibitivo raggiungerlo immaginando privatizzazioni per 25 miliardi d'euro all'anno, a meno che lo Stato italiano non voglia cedere la totalità delle quote Enel ed Eni in suo possesso.

"L'Italia che ho in mente", come la chiamava il Cavaliere nel 2001, non c'è più. Il sogno azzurro s'è trasformato in incubo. Come in un odioso flashback, torna la povera, mesta Italietta di fine anni '80, quella che patisce le solite lacrime e il solito sangue. Arriva lo scippetto preagostano sulle seconde case, che prelude a future batoste anche sulle prime. Si risente parlare di ticket sanitari a 4 euro a confezione. Si vocifera d'imposte patrimoniali sulle rendite finanziarie. S'ipotizzano nuovi interventi sulle quattro finestre delle pensioni d'anzianità, senza aspettare lo "scalone" del 2008. Il fantasioso ministro Lunardi si spinge a profilare il pagamento d'un pedaggio automobilistico sui 4.500 chilometri di strade statali.

È quasi normale, in un quadro emergenziale da Prima Repubblica, che l'euroscettico Berlusconi adesso abbia in testa una sola via d'uscita: sciogliere i vincoli del Patto di stabilità. "Un cappio al collo di cui dobbiamo liberarci", come ha detto ai gruppi parlamentari forzisti, puntando sulla disponibilità di Francia e Germania, "che stanno esattamente come noi".

È l'ultima, clamorosa fandonia del Cavaliere: vuole calare il jolly preelettorale coprendo sgravi e crescita in regime di deficit spending, sfondando la soglia del 3% insieme a Chirac e Schroeder, ma dimenticando che questi signori hanno un debito pubblico che è meno della metà del nostro. Ma è anche l'ultima, disperata illusione del Cavaliere: se anche Parigi e Berlino gli accordassero la deroga, l'Italia otterrebbe un salvacondotto dalla nomenklature d'Europa, ma non dai mercati internazionali.

L'indulgenza burocratica non basterebbe a evitare la condanna finanziaria. Il down-grading del nostro debito sarebbe inevitabile. Il rischio Italia sarebbe insostenibile, o accettabile solo al "prezzo" d'un fortissimo aumento degli interessi sui nostri titoli. Torneremmo all'antica, terribile spirale del "debito che s'autoalimenta".

A Berlusconi importa poco. Si prepara per settembre: la devolution, la Finanziaria, la crisi, forse le elezioni anticipate. Se le vince, ci alluviona di nuove promesse. Se le perde, sono affari di chi viene dopo. Lui una soluzione l'ha già trovata: "Se perdiamo - ha detto due sere fa agli azzurri - scappiamo in Russia: tanto lì ci sono meno comunisti che in Italia...". L'ultimo, bugiardo esorcismo, per trasformare una tragedia in farsa.

 

21 luglio

MARE NOSTRUM

GUGLIELMO RAGOZZINO


Non è solo l'articolo 11 della Costituzione italiana a vietare la costruzione di portaerei. Vi è anche l'articolo 59 del trattato di pace e una legge del 1931, di gusto prettamente fascista, tuttora in vigore. Nella costituzione è scritto che «l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Se qualcuno è in grado di spiegare a cosa serva una portaerei, se non come strumento di offesa per fare la guerra e risolvere così le controversie internazionali, si faccia avanti. Prima di varare, come ha fatto ieri il presidente Ciampi, prima di costruire, come sta facendo la beata Finmeccanica per conto della Marina militare e del governo Berlusconi o anche prima di progettare portaerei, come hanno fatto i governi di centrosinistra, sarebbe stato necessario por mano alla Costituzione e riformarla, in senso militarista, cancellando lettera e spirito dell'articolo 11 . Nessuno lo ha fatto, nessuno ha avuto il coraggio di farlo. L'articolo 59, comma II, del Trattato di pace è di una chiarezza cristallina: «L'Italia non costruirà, acquisterà, utilizzerà, o sperimenterà alcuna portaerei». L'impegno che De Gasperi aveva assunto, per conto di tutti noi italiani, nel 1947 era un impegno di lealtà, da rispettare. E fu rispettato per una quarantina d'anni, fino ai tempi del falso incrociatore Garibaldi, in realtà portaelicotteri. Neppure allora ci fu una dichiarazione formale, del tipo: l'Italia da oggi disattende gli obblighi del Trattato di pace, cui è stata costretta da forze soverchianti, ecc. ecc. E neppure: a partire da oggi l'Italia ha deciso di fare la guerra, se le garba, e di bombardare con missili dal mare e dall'aria, i suoi eventuali nemici. Anche questa dichiarazione non c'è stata, anzi l'incrociatore Garibaldi aveva un doppio travestimento. Era una portaerei per l'uso interno e per le commesse dei cantieri nazionali, e una nave multiuso con solo qualche piccolo elicottero nascosto nella pancia, per gli alleati-rivali della Nato e per l'ormai disattenta Urss.

La legge del 1931 è un episodio della contesa tra marina e aviazione, tipica degli anni del fascismo. L'aviazione militare, non solo in Italia, era ostile a una marina che, contro natura, fosse capace di volare. Negli Stati uniti o in Giappone prevalsero le marine che ottennero aerei e campi di atterraggio galleggianti, dando luogo a fantastiche battaglie come quella delle Midway. In Italia, l'aviazione era la pupilla del regime e ottenne al contrario un successo completo, sottolineato da una popolare canzonetta «Gira gira l'elica, romba il motor/ questa è la bella vita, la vita bella dell'aviator». Mussolini dettò la linea; e fece scrivere sui muri che l'Italia non aveva bisogno di portaerei essendo essa stessa una portaerei al centro dei mari.

Dopo settanta e più anni la Marina è riuscita a rovesciare la politica nazionale. Ha dovuto però accettare una serie di compromessi. Ha sofferto nel prendere il nome di Cavour, un signore con i piedi ben piantati sulla terra, lasciando il ben più evocativo Andrea Doria. D'altro canto, dopo Garibaldi, nave con il nome di sinistra, perché non accettare un nome da nave liberale di centro, cattolica ma anche certamente laica? Cavour è un grande padre della patria, che ha portato i bersaglieri in Crimea (modello per il Kosovo di D'Alema) e senza bisogno di portaerei. In ogni caso non ha detto lui:«libera Nave in libero Stato»? E così avremo Cavour. Risulta, ancora irrisolta, una sorda disputa tra chi voleva soprattutto una portaerei, beninteso di pace, capace però di portare carri armati pesanti e chi preferiva invece mantenersi sul classico: aerei a decollo verticale, elicotteri quanto basta. La nave li avrà entrambi: carriarmati e aerei. Sarà probabilmente la prima portaerei Ro-ro, cioè concepita come una nave avanti-e-indietro (Fincantieri ha vinto così fantastiche commesse per modernissimi traghetti) e capace di andare fino alla riva per scaricare i marines, alla caccia di bin Laden. O di Sandokan, se necessario.

19 luglio

AFRICA GLOBALIZZATA
Sudan, dove nasce la guerra infinita del Darfur
GIAMPAOLO CALCHI NOVATI


Il Darfur, collocato geograficamente nella parte occidentale del Sudan, il più vasto paese africano per la superficie del territorio, è eccentrico rispetto all'asse del Nilo nel cui bacino si è costituito storicamente il Sudan, come prosecuzione o espansione verso sud dello stato egiziano, e attorno a cui si è organizzata la sua vita urbana e produttiva. La regione del Darfur ha gravitato piuttosto negli imperi e stati dell'Africa centrale, più propriamente sahariani e imperniati nel bacino del lago Ciad. In questa prospettiva, il Darfur, non essendo né Nord né Sud, è rimasto estraneo al conflitto che più ha influito sulla storia recente del Sudan, vale a dire il conflitto fra il Nord dominante, che ha imposto l'arabo e la legge coranica come connotati essenziali dello stato, e il Sud abitato da popolazioni nere in parte cristianizzate che ha subito con disagio e contrastato con le armi quel dominio e quel tipo di cultura. Fra l'altro, benché etnicamente più affine alle genti stanziate nel Sud, la popolazione del Darfur è in maggioranza musulmana e se mai la sua opposizione, anche armata, riflette l'insofferenza tipica delle popolazioni marginali e nomadi per l'autorità del centro (si pensi al caso dei Tuareg), ma senza particolari valenze religiose. Questa precisazione può apparire superflua tanto è scontata. Ma nel coro delle voci che negli ultimi tempi si sono levate anche in Italia per denunciare un problema reale - la gravissima emergenza umanitaria che affligge il Darfur - si è fatta molta confusione, un po' per ignoranza e un po' perché può sempre tornare utile, suggerendo insidiosamente una certa assonanza con la guerra fra il Nord e il Sud, calcare la mano sull'Islam oppressivo e violento. Bisogna riconoscere che in tanta approssimazione si è distinto Sergio Romano, che ha scritto un lungo articolo sul Corriere della Sera molto preciso e argomentato. Quale sia del resto il grado effettivo di «partecipazione» del nostro mondo politico e della nostra opinione pubblica al dramma del Darfur e del Sudan in generale è risultato chiaro dalla vergognosa vicenda della nave tedesca bloccata per giorni e giorni al largo delle coste della Sicilia. Sul Manifesto ne ha scritto benissimo Alessandro Dal Lago. Da una parte si invoca il solito «intervento» riparatore dell'Occidente giusto e benevolo per i problemi del Sudan e, magari esagerando, dell'Africa tutta, e dall'altra si nega non si dice l'asilo, ma, fino all'ultimo lo sbarco a una manciata di profughi - ai quali ora è già stato consegnato il decreto d'espulsione e che sono sballottati, illegalmente, da un Centro di permanenza a un altro. Ci saranno pure problemi giuridici complessi. Si vorrà pure evitare di creare un precedente. Sarà pure colpa dei formalismi della burocrazia. Ma se l'Italia come autorità, nazione e popolo, non è in grado di assistere 37 (trentasette) disgraziati sfuggiti all'inferno del Darfur di cui si è finto di farci carico, sarebbe più dignitoso lasciar perdere una volta per tutte i discorsi sul diritto e dovere del mondo civile, il nostro naturalmente, di portare il progresso, la democrazia e lo sviluppo nel Terzo mondo.

La triste realtà è che la crisi del Darfur è un sottoprodotto non della guerra Nord-Sud (sempre con riferimento al Sudan) ma della pace o mezza pace che il governo di Khartoum e il principale esercito combattente dei ribelli sudisti, il Sudan people's liberation army (Spla), hanno abbozzato con la mediazione degli Stati Uniti. E' come se il governo centrale abbia approfittato dei nuovi assetti che si stanno delineando fra Nord e Sud per regolare i conti con la turbolenza nel Darfur. Oppure - viceversa ma non in completa contraddizione con il primo assunto - le forze anticentraliste del Darfur hanno pensato che fosse venuto il momento di affondare i colpi per non restar fuori dal riassetto in atto, sollecitando una forma di autonomia anche per questa regione decentrata e un accesso più equo alle ricchezze nazionali. Va ricordato che l'accordo fra Khartoum e Spla prevede un periodo di transizione in cui le istituzioni e le risorse (in pratica i giacimenti petroliferi, compresi tutti nelle province meridionali) saranno gestite insieme, addirittura con un governo di unità nazionale e fondendo gli eserciti, ma stabilisce una specie di diritto di autodeterminazione per il Sud-Sudan alla fine di tale periodo. E' una soluzione concettualmente ambigua, perché non sceglie in modo netto fra inclusione o separazione, e politicamente pericolosa, perché insinua nella politica sudanese il tarlo del dubbio sulla tenuta della compagine statale, autorizzando per di più l'idea che il ricorso alla guerra può «pagare».

Per la sua posizione fra Sahara e Africa nera, il Darfur è per definizione una regione di transito, instabile ed ecologicamente molto fragile. I traffici leciti e illeciti sono una sua ragion d'essere. La sopravvivenza fisica della popolazione è subordinata a un attento dosaggio di amministrazione, attività economica e insediamenti abitativi. Ogni eccesso, ogni atto che minacci il precarissimo equilibrio, ogni violenza sugli uomini o sul territorio, rischia di avere effetti catastrofici. E così è stato. Si può capire perché l'intensificazione delle operazioni militari abbia provocato migliaia di morti e centinaia di migliaia o un milione di sfollati, profughi e disadattati. Poco importa il prima e il dopo, cioè se l'inasprimento della belligeranza sia avvenuto per iniziativa delle milizie islamiche che sono solite scorrazzare nella regione depredando e taglieggiando, che nell'occasione potrebbero essere state armate e politicamente motivate dal governo, o per iniziativa dei due eserciti, nemmeno alleati e coordinati fra loro, in cui si esprime il ribellismo delle tribù nere del Darfur. Certo le due violenze si sono provocate e giustificate a vicenda come azione e reazione moltiplicando le conseguenze di indigenza e di morte per gli abitanti, che vivono sempre al limite, anche in condizioni normali.

Le testimonianze sulle dimensioni della tragedia non mancano ma non è detto che siano tutte obiettive. Il governo ha smentito i resoconti peggiori e ha cercato di dividere le responsabilità fra la politica e la natura oltre che fra i diversi protagonisti della violenza armata. Le pressioni del governo americano, che ha inviato sul posto un Colin Powell serioso e minacciante, potrebbero indurre alla ragione il presidente Bashir e le bande ai suoi ordini. La politica «neo-cons» sull'Africa è un mix influenzato dai settori della comunità afro-americana più vicini all'establishment, dai fondamentalisti cristiani e dalle lobbies ebraiche più anti-arabe. Gli Stati Uniti hanno di regola sostenuto i «ribelli» del Spla ma ora puntano tutto sulla cessazione delle ostilità e su un'intesa. Bush si è convinto che è meglio stabilizzare il regime militare di Khartoum servendosene come un avamposto (del sistema di sicurezza occidentale) dopo averlo tanto osteggiato in quanto retrovia (del radicalismo islamico). Per l'America la crisi del Darfur è un incidente fastidioso che va possibilmente risolto al costo minore, inquadrando il tutto, forse strumentalmente, nelle prospettive della «guerra infinita» in una zona comunque nevralgica. Anche l'Onu ha voluto mostrare i muscoli. C'è da sperare che almeno Kofi Annan sia neutrale e orienti i suoi sforzi per far finire la violenza e assistere al meglio la popolazione.


ALIMENTI

Il sapore delle truffe

Torroncini con i vermi, funghi porcini ammuffiti con larve morte, torte farcite di scarafaggi, merendine rancide, carni scadute, riso ai parassiti, pane all'amianto, pop-corn con ratti, casi surreali e frodi sistematiche che mettono a rischio la nostra salute. È di circa quasi 103 milioni di euro il valore dei sequestri effettuati dai carabinieri per la Sanità durante le ispezioni nel settore alimentare, 15 mila le infrazioni accertate, 8.299 le persone segnalate alle autorità e 47 quelle arrestate, 804 le chiusure ordinate durante le indagini svolte nei supermercati, nelle mense e negli allevamenti. Sono le cifre del primo rapporto su frodi e illegalità nelle filiere agroalimentari di Salute&Gusto, lo sportello del Movimento Difesa del Cittadino, realizzato con Legambiente.

 

Sciopero contro Toledo, Perù paralizzato


La Cgtp convoca il «paro» per protestare contro la politica neo-liberista e i salari da fame
S.D.Q.
LIMA


Sciopero generale ieri in Perù contro la politica economica neo-liberista dell'impopolarissimo presidente Alejandro Toledo e per migliori salari (che sono da fame). A organizzarlo oltre 150 sindacati di categoria guidati dalla Cgtp, la Confederacion General de los trabajadores peruanos, che confidava di portare oltre 300 mila persone in strada solo a Lima, paralizzandola completamente. Il governo ha risposto mobilitando quasi 100 mila uomini, fra polizia ed esercito. Ufficialmente per scongiurare la possibili infiltrazione «dei terroristi di Sendero luminoso» (che di recente ha ridato segni di vita grazie anche al rapido deteriorarsi della situazione). In realtà è evidente l'intento di provocare e criminalizzare l'azione dei sindacati. «Noi rispondiamo delle nostre azioni ma non possiamo rispondere delle eventuali aggressioni da parte delle forze di repressione o di qualsiasi infiltrato», ha detto a mo' di sfida José Gorriti segretario generale della Cgtp.

Nonostante i suoi sbandierati successi macro-economici - il Perù è stato uno dei paesi dell'America latina con maggior crescita economica nel 2002 e 2003, col 5 e 4% - Toledo non ce la fa a tenere le redini. Scandali e corruzione dilaganti, povertà e disoccupazione che si allargano a ritmo quasi incontrollabile. La sua popolarità, dal 2001 a oggi, è caduta a livelli talmente bassi - veleggia intorno a un misero 8% - da far ritenere difficile che possa giungere al termine del suo mandato nel 2006. I ministri di governo cambiano in continuazione travolti dagli scandali di corruzione, che non sono affatto diminuiti rispetto all'infame decennio dell'accoppiata Fujimori-Montesinos (al sicuro in Giappone il primo, in galera il secondo). Alla fine di gennaio si è dovuto dimettere il primo vicepresidente, Raul Diez Canseco. Qualche mese prima era stata la volta dalla premier, Beatriz Merino. Gli unici ministeri che possono cambiare di nome ma restano sempre uguali come linea sono quelli economici. Sempre nella mani di tecnocrati legati all'Fmi e agli Usa - come l'attuale titolare dell'economia e delle finanze, Pedro Pablo Kuczinsky. E come, in definitiva, lo stesso Toledo.

Lo sciopero di ieri - nella serata italiana erano già segnalati scontri e arresti - cade in una situazione già resa caotica dall'atterramento improvviso, lunedì, degli aerei della maggior compagnia peruviana, la Aero Continente, che conta con il 60% del mercato interno. L'ordine di fermare la compagnia e i relativi voli è venuto dal governo dopo che quel giorno erano scadute le assicurazioni della compagnia. Ma il vero ordine è venuto da Washington, che ha messo il proprietario della Aero Continente, Fernando Zavallos, nella lista nera dei narcos, congelandone i beni e i depositi negli Usa. A quel punto non c'è più nessuna compagnia d'assicurazione disposta a firmare una polizza con la Aero Continente.

Sono così rimasti a piedi i turisti che vanno a visitare le meraviglie Inca e i tifosi accorsi nelle città peruviane per le finali della Coppa America di calcio.

14 luglio

Il conflitto d'interessi ora diventa legge


L'aula di Montecitorio, dopo più di mille giorni, approva definitivamente il ddl Frattini: il presidente del consiglio potrà restare proprietario delle sue aziende. Il capogruppo dei Ds Violante: «Ci rivolgeremo all'Europa»
MICAELA BONGI
ROMA


E' bastata un'oretta e ieri, dopo 1.153 giorni e cinque letture parlamentari, l'aula di Montecitorio ha approvato definitivamente la legge sul conflitto d'interessi. Il titolare del conflitto in questione, Silvio Berlusconi, aveva promesso una soluzione al suo problemino entro i primi 100 giorni di governo. Di giorni ne sono passati un migliaio in più. E la soluzione, alla quale per giunta si è arrivati solo perché l'Udc ha puntato i piedi mettendo l'approvazione del testo tra le condizioni per la sua permanenza al governo, è una foglia di fico. Che spunta proprio mentre il conflitto del Cavaliere è al suo apice, con l'interim al ministero dell'economia, e il suo governo sull'orlo del precipizio. Sua emittenza non potrà gestire direttamente le sue aziende. Ma potrà continuare, da presidente del consiglio (se lo resterà), a esserne il «mero proprietario». Perché, dunque, la Casa berlusconiana l'ha tirata tanto per le lunghe e, dall'8 luglio del 2002, del provvedimento ha modificato solo la copertura finanziaria per portare avanti un estenuante ping-pong tra camera e senato? Perché il testo affida un compito all'autorità antistrust e a quella delle comunicazioni. L'antitrust interviene sui casi di incompatibilità e vigila sull'attività di governo. Nel caso in cui sia avvantaggiata un'impresa di proprietà di un membro dell'esecutivo (un esempio a caso: la legge Gasparri), l'impresa può andare incontro a una sanzione. Il garante delle comunicazioni deve accertare che le imprese editoriali di un esponente di governo non offrano un «sostegno privilegiato» all'esponente in questione. Anche in questo caso sono previste sanzioni, fino all'oscuramento dell'emittente colta in fallo. Obiettivo del Cavaliere, che quando si tratta dei suoi interessi non intende mettere in conto intoppi di sorta, era quello di arrivare all'approvazione della legge solo dopo il ricambio ai vertici delle autorità di vigilanza (nel 2005), in particolare dell'antitrust, presieduto dall'indigesto (per il premier) Giuseppe Tesauro.

Al temporeggiamento ha dunque messo fine la «verifica» in corso. Quando, giovedì scorso, il voto sul conflitto d'interessi era nuovamente slittato (prima di questo provvedimento, all'esame dell'aula era la commissione di inchiesta su Parmalat, ma nessun esponente del governo si è presentato e dunque i lavori hanno subito uno stop) il presidente della camera, Pier Ferdinando Casini, si era inalberato: «Basta con giochi e giochini». Poi al premier, sabato scorso, è arrivata la lettera del segretario dell'Udc Marco Follini, con le condizioni dei centristi. Compresa, appunto, l'approvazione della legge. Ma il contenuto del provvedimento, approvato ieri con 268 sì, 221 no e 2 astensioni, non era in discussione. Paradossalmente, poi, nei giorni scorsi era stata - più che la maggioranza - l'opposizione a spingere perché il testo fosse votato.

Al dunque, i deputati forzisti vengono sollecitati via sms a presentarsi in aula perché approvino il testo: i centristi - si ragiona - accontentati su questo punto, potrebbero sempre ammorbidire la loro posizione sui vertici Rai, dei quali chiedono il ricambio entro il 30 settembre. Al momento delle dichiarazioni di voto (che i centristi evitano accuratamente, anche se in aula arriva il leader dell'Udc Marco Follini), il capogruppo dei Ds a Montecitorio, Luciano Violante, assicura: «Voteremo no a questo testo e quando torneremo al governo del paese faremo una legge seria che determini con chiarezza i confini tra mercato e politica». Quella legge che la maggioranza ulivista non ha approvato nella passata legislatura. Quetsa è invece «una legge che non serve a niente - prosegue Violante - che noi denunceremo alle autorità europee». Il capogruppo della Margherita, Pierluigi Castagnetti, dettaglia il conflitto d'interessi del premier, elencando le società di cui è proprietario: «27 nel campo delle assicurazioni e dei servizi finanziari e banche; 24 società di cinema, sport e spettacolo; 15 nell'editoria; 3 nella grande distribuzione; 3 nei new media; 8 nella pubblicità; 32 nei servizi di gruppo; 2 nella telefonia; 15 nel campo televisivo». E «la legge in discussione - chiosa Castagnetti - è inefficace, tanto più oggi che Berlusconi ha l'interim dell'economia e ha poteri sul cda della Rai, sulla nomina del direttore e sulla gestione economica dell'azienda».

«Hanno approvato la sanatoria del conflitto d'interessi del premier», commenta il presidente dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio. «Peggio di così non si poteva andare», concorda Alfonso Gianni, Prc. E il segretario della Federazione nazionale della stampa, Paolo Serventi Longhi, definisce il voto di ieri «una solenne presa in giro. Si potrebbe paradossalmente affermare che la legge sancisce l'inesistenza del conflitto d'interessi». Il partito di Follini canta vittoria: «E' un voto importante - afferma il capogruppo Luca Volonté - perché toglie al centrosinistra un'arma impropria di campagna elettorale». Ai centristi resta invece da capire quali armi toglierà al premier, che domenica sera aveva minacciato di scatenare le sue tv proprio contro l'Udc.


CONTI PUBBLICI


Il paese affonda. Ma il governo sembra l'orchestra del Titanic
Allarme dopo i dati Istat: primo trimestre nero. Insorgono le parti sociali: esecutivo colpevole e immobile

FEDERICO SALLUSTI


La sinfonia continua, per quanto il suono cominci a farsi sempre più grossolano e le assonanze apparenti lascino spazio a chiare dissonanze. Enrico Letta scomoda l'orchestra del Titanic per descrivere l'atteggiamento del governo, litigioso e strafottente nel negare difficoltà ormai evidenti. I conti pubblici franano come una nave affonda, lentamente, mentre la filodiffusione, che accompagna il naufragio, non lo rende di certo meno drammatico. Ieri l'Istat ha diffuso i dati sui conti pubblici riferiti al primo trimestre del 2004. Ebbene, per quanto, solitamente, le rilevazioni relative ai primi tre mesi non siano particolarmente indicative - non tengono in considerazione le entrate erariali di giugno e la crescita del Pil - i dati che emergono dall'analisi sono fortemente preoccupanti. Ad oggi, infatti, il rapporto deficit/Pil è al 6,1%, valore che, pur non rappresentando - speriamo - la realtà tendenziale, manifesta comunque un leggero peggioramento rispetto al 2003 e uno, più marcato, rispetto agli anni precedenti. A preoccupare, dunque, non è il dato in sé, ma la deriva che i conti pubblici hanno intrapreso. Al di là del livello del deficit/Pil riscontrato in questo inizio anno, sono altri i segnali che maggiormente evidenziano i problemi strutturali dei conti pubblici. Il saldo corrente, che indica le capacità di risparmio del settore pubblico, segna un passivo di circa 10 miliardi di euro, sostanzialmente in linea con quello dell'anno scorso - che però fece registrare un risultato inferiore a quello dei periodi precedenti. A destare particolare timore è invece l'andamento del saldo primario - che indica l'indebitamento al netto degli interessi - il quale, attestandosi a quasi 4,5 miliardi di euro, è più che triplicato rispetto al 2003, erodendo un punto del Pil (l'incidenza del saldo primario sul prodotto lordo è passata dallo 0,4% all'1,4%). Entrando più a fondo nelle voci di bilancio si nota come scenda di mezzo punto l'incidenza delle entrate sul Pil (da 39,4% a 38,9%): queste aumentano solo del 2,7%, mentre le uscite crescono al ritmo del 3%. Significativo è il crollo (-18,1%) della voce «altre uscite in conto capitale». «Questo dato - spiega l'Istat - risente della riduzione dei contributi alle imprese»: 700 milioni in meno, alla faccia dello sviluppo.

Nel mondo politico e delle parti sociali tutti, tranne - per forza di copione - il responsabile economico di Forza Italia Luigi Casero («non siamo preoccupati»), mostrano timore. I toni sono più o meno catastrofici, in alcuni casi persino fantasiosi, ma non per questo meno duri nei confronti dell'immobilismo del governo. «Fosco» il quadro per Enrico Letta, per il quale la verifica di governo - peraltro puntata sull'economia - sta assumendo i contorni della «tragicommedia». Poi scomoda l'orchestra del Titanic, ma di questo si è già detto. Un'«operazione verità sui conti pubblici» è la richiesta di Savino Pezzotta, segretario generale della Cisl, che invita il governo ad «assumersi le responsabilità che la situazione richiede». L'ex ministro Vincenzo Visco sottolinea «l'urgenza di intervenire su deficit e spesa pubblica palesemente fuori controllo». Il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani attacca l'operato dell'esecutivo denunciando «un affanno grave dei conti pubblici» a conferma degli errori di previsione e di politica economica di questi ultimi anni. Sulla stessa linea il presidente degli industriali. Secondo Montezemolo, «il paese è in affanno e i dati Istat mostrano una situazione già conosciuta, per questo dobbiamo guardare avanti».

Nel frattempo, l'orchestra di palazzo Chigi suona una fanfara assordante, fatta di litigi e piena di note messe a caso su uno spartito cui ormai crede solo il direttore d'orchestra, preoccupato di raccogliere applausi dalla folla che fugge. Sappiamo tutti come andò a finire.

13 luglio

La minaccia del Cavaliere

di CURZIO MALTESE

 " Se vai avanti, ti scateno contro le mie televisioni". Nella minaccia rivolta l'altra notte dal premier al ribelle Follini c'è tutta la miseria e il senso di pericolo che accompagna l'inesorabile declino di Berlusconi. Neppure il più acceso e caricaturale anti berlusconismo avrebbe potuto figurarsi una versione più penosa e ricattatoria del Cavaliere che, messo alle strette, agita il manganello mediatico contro un alleato davanti al gran consiglio al completo di leader, ministri e faccendieri vari. È chiaro che uno così è capace di qualsiasi cosa pur di rimanere al potere. Più che da basso impero, è una scena da impero basso, infimo e un po' ridicolo.

 La minaccia di Berlusconi, che nelle intenzioni sarebbe l'" arma fine di mondo" di uno Stranamore della Brianza, offende in un colpo solo una montagna di persone, cose e istituzioni, come spesso accade all'autore quando non c'è pronto un Letta o un Confalonieri per farlo sembrare civile. È un'offesa anzitutto per chi la pronuncia, nel caso in cui qualcuno credesse ancora alla favola del Berlusconi statista che da tre anni finge di voler regolare il suo conflitto d'interessi. Era un'offesa ai presenti, la trentina o quarantina di illustri convitati ai tre tavoli della trattativa, che per l'occasione si sono ridotti col silenzio al ruolo di falsi spettatori al gioco delle tre tavolette. È o sarebbe anche un'offesa alle migliaia di giornalisti e mezzibusti a libro paga del premier, i quali tuttavia sono di schiena flessibile e modesto orgoglio professionale.

 In genere i padroni scatenano i cani e non i giornalisti, anche se in Italia statisticamente è più frequente il contrario e infatti i cani che mordono fanno sempre notizia. L'ultima offesa è all'intelligenza degli italiani, già parecchio vilipesa dal premier.

 Perfino il popolo più teledipendente della terra potrebbe avere reazioni imprevedibili, cioè sensate, a una martellante campagna contro il povero Follini. I precedenti non mancano. Bossi e la Lega uscirono dal pestaggio televisivo delle reti berlusconiane, dopo il ribaltone del '94, con il record assoluto di voti, oltre il 10 per cento. Gruber e Santoro, fra i bersagli preferiti della muta giornalistica berlusconiana, sono stati appena eletti a furor di popolo con una milionata o quasi di preferenze personali. Perché dunque porre limiti alla provvidenza e non immaginare un Follini beneficiato dalla persecuzione televisiva, almeno quanto l'ultimo Berlusconi è stato danneggiato dal noioso servilismo dei mezzibusti?

 Ma al di là degli effetti concreti che avrà, il prevedibile quanto disperato ricatto ci rivela quanto il grande Berlusconi si senta minacciato dal piccolo Follini. È la prima volta che un altro leader lo sfida su un terreno che per dieci anni era stato il suo, quello del senso comune. Nella nebbia mediatica sparsa ad arte sulle richieste dei centristi, fatti passare per cacciatori di poltrone, al cittadino medio arrivano in ogni caso un paio di messaggi destabilizzanti per la maggioranza.

Il primo messaggio è che Follini chiede cose di semplice buon senso, condivise da buona parte dell'opinione pubblica, perfino oltre l'appartenenza politica. La revisione di una devolution che non piace e non interessa a nessuno, la nomina di un vero ministro dell'Economia in tempi di vera crisi, un minimo di pluralismo in una Rai schifosamente censoria e servile.

 Se si tenessero su questi tre temi altrettanti referendum, invece dei tavoli romani, le tesi di Follini vincerebbero a larghissima maggioranza. E forse, di questo passo, vincerà anche la quarta proposta. Il ritorno al proporzionale con lo sbarramento 5 per cento, al posto del pasticcio maggioritario all'italiana, con i suoi venti partitini.

 È la nuova capacità dei centristi d'intercettare il senso comune a rendere possibile la sfida di Davide a Golia. Un talento che l'ultimo Berlusconi, perso in un sogno monarchico, non ha più. Prima l'aveva e sapeva combinarla in maniera mirabile con lo strapotere televisivo. Era questo il segreto del carisma di Berlusconi, che non è mai stato un carisma classico, nel senso weberiano, in certo modo da super uomo. Piuttosto il carisma del " mi consenta", ovvero quello permesso all'epoca della massificazione televisiva, che scaturisce dall'identificazione di molti in uno. L'ultimo Berlusconi non permette a nessuno d'identificarsi nel suo delirio egocentrico. Gli è rimasto soltanto lo strapotere televisivo, slegato dal senso comune, usato come puro privilegio. E' soltanto un padrone che urla " lei non sa chi sono io!". Viene voglia di rispondere: " Magari". Tutti siamo costretti da troppo tempo a sapere chi è. Ma la sua onnipresenza è ormai un'arma spuntata come l'eterna minaccia di elezioni anticipate.

Al posto di Follini chiunque non abbia sangue democristiano nelle vene si sarebbe alzato alla minaccia di Berlusconi e se ne sarebbe andato. Lui ha sgranato lo sguardo da Harry Potter sulla piazzata del capo, meravigliato ma calmo.

 Avrà magari calcolato la vera convenienza. È il tipo di reazione da scuola politica che un padrone non s'aspetta, quella che lo disarma e lo inchioda al rito doroteo della verifica, giorno dopo giorno, notte dopo notte, in un gioco dove non è più prevista la figura mitica del vincente.

 

9 luglio

Sul lato sinistro
IDA DOMINIJANNI
Come sempre quando è in difficoltà, Silvio Berlusconi sfodera ottimismo ed efficientismo e il gioco gli pare fatto. Ma è difficile che la non-stop di quarantott'ore e tre tavoli allestita per domenica sera possa davvero ristrutturare la Casa delle libertà e rimettere i suoi abitanti d'amore e d'accordo cosette da nulla come il federalismo, il fisco, il sistema elettorale. Berlusconi ha perso a un tempo l'aura del venditore di miracoli, la rendita dell'imperatore circondato da vassalli obbedienti, la delega dell'azionista di poteri forti conniventi, Fazio e Montezemolo in primis. In sostanza, la bolla si è bucata. Ma la bolla-Berlusconi non era solo un equilibrio di governo. Era un (dis)equilibrio di sistema, l'anomalia impazzita che aveva ricombinato e incollato i cocci dell'esplosione dei primi anni 90, obbligando il bipolarismo forzoso all'italiana a funzionare. Il buco della bolla equivale perciò non a una crisi di governo ma a una crisi di sistema. Follini evidentemente lo sa e per questo non demorde. Non basta più il collante del governo, se nell'aria si sente un cambio di stagione che può portare frutti più copiosi. La ricostituzione del dissolto partito democristiano? Diciamolo con parole di oggi: il trasferimento dall'anomalia impazzita a un più normale comando centrista dei voti usurpati dal partito azzurro sul lato destro, e di quelli incastrati nell'incerto contenitore della Margherita sul lato sinistro. Non sarà la vecchia Dc ma un nuovo centro. Il centro, magari esile numericamente ma imprescindibile strutturalmente e rivendicabile storicamente, del sistema. Di un sistema non a due ma almeno a tre punte.

Fine del bipolarismo? Sarebbe azzardato sostenerlo mentre i più giurano e spergiurano che il bipolarismo non si tocca. Le incognite sono troppe per correre con le previsioni: crisi o no, elezioni anticipate o no, impugnate da chi, con quali argomenti e quali regole. Si vedrà quanto peso avrà la rivendicazione proporzionalista di Follini nella maratona della Casa delle libertà; ma più che ai passi tecnici, conviene guardare ai dati politici. I quali, come s'era capito nell'immediatezza del voto europeo, segnalano una crisi doppia del bipolarismo: nel centrodestra, e nel centrosinistra.

Solo che le due crisi non sono simmetriche, ed è questo che rende la partita più complicata e imprevedibile. Anche nell'Ulivo infatti la posta in gioco principale si chiama centro, ma a differenza che nella Casa delle libertà questa posta per ora non rafforza una delle sigle in campo, ma ne indebolisce due, la Margherita e i Ds. E nulla lascia prevedere che l'unico disegno chiaro in campo - firmato D'Alema e volto a perseverare dal listone al partito unico sotto comando diessino, con la Margherita disintegrata, Prodi imbrigliato e l'accordo con Bertinotti a scadenza - proceda liscio come l'olio.

Intanto perché la Margherita magari preferisce farsi integrare da Follini piuttosto che disintegrare da D'Alema. Ma soprattutto perché se il centro si ricostituisse autonomamente, rompendo i trattini con la destra e con la sinistra, la logica di sistema richiederebbe non più di fare due sinistre, una moderata che governa e l'altra radicale che non nuoce, ma una sinistra e basta che convince. Tutto un altro gioco (e non chiamiamolo vecchio Pci neanche per scherzo), del quale non si vedono né i presupposti né i programmi.

Sarebbe il caso di cominciare a profilarli. Senza aspettarseli da chi si diverte col triciclo, e senza aspettare il prevedibile scenario congressuale Ds per recitare ciascuno la propria prevedibile parte. Nella crisi che espone la maggioranza di governo e logora la maggioranza dell'opposizione, c'è un silenzio assordante sul versante sinistro che non porta nulla di buono, né idee né spostamenti, né grandi né piccoli passi. Dal correntone a Rifondazione riguarda tutti e non ha alibi. Più del 13 per cento dei consensi sono un lusso che nessun altro paese europeo può vantare e che non consente a nessuno di acquattarsi nel ruolo di una minoranza senza voce in capitolo.


8 luglio

I figli di Berlusconi nell'inchiesta su Mediaset
Marina e Piersilvio indagati a Milano per ricettazione e riciclaggio nell'ambito della compravendita dei diritti cinematografici
ROMA
Marina e Piersilvio Berlusconi, i figli adulti del capo del partito azienda, sono rimasti impigliati nell'inchiesta milanese su Mediaset, che dal 2002 tiene in apprensione il loro papà al punto che il ministro Castelli l'estate scorsa cercò maldestramente di bloccare le rogatorie internazionali. La notizia si è diffusa a Milano per via di una proroga delle indagini richiesta dai pm Fabio De Pasquale e Alfredo Robledo, il che dimostra che l'iscrizione di Marina e Piersilvio a modello 21 risale per forza di cose ad almeno qualche mese fa. L'ipotesi di reato a loro carico sarebbe ricettazione e riciclaggio, nell'ambito delle vicende che sono al centro dei lunghi accertamenti che, due anni fa, portarono gli inquirenti a far perquisire le sedi di Mediaset. Secondo i pm milanesi, tra il `90 e il `94, Mediaset ricorreva a un complesso giro di società off shore come Century One e Universal e «gonfiava» i prezzi d'acquisto dei diritti cinematografici acquistati all'estero, in particolare negli Usa, conseguendo così benefici fiscali previsti, tra l'altro, dalla legge Tremonti. Un ultimo troncone d'inchiesta, venuto alla luce di recente, riguarda una presunta appropriazione indebita di 103 miliardi di lire da parte di Silvio Berlusconi, denaro che sarebbe stato prelevato da Angelo Del Bue, il presidente di Armer Bank coinvolto per frode fiscale nella stessa indagine, e infine destinato al presidente del consiglio. Per Berlusconi le altre accuse sono falso in bilancio e frode fiscale. Sul registro degli indagati, a vario titolo, sono iscritti anche i nomi di Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset, della responsabile Fininvest per la Svizzera Claudia Camaggi e di Giorgio Vanoni, in passato responsabile del settore estero Fininvest.

Non è chiaro quale sia il ruolo attribuito ai figli di Berlusconi, né a quale filone si riferisca tra i tanti che appartengono all'inchiesta Mediaset. Marina attualmente è presidente della Mondadori, ha 38 anni ed è stata vicepresidente di Fininvest Spa: è entrata in azienda giovanissima, siede nei consigli di amministrazione di Mediolanum, Medusa e 21 Investimenti e un anno fa ha avuto un figlio dal primo ballerino della Scala di Milano, Maurizio Vanadia. Il fratello minore Piersilvio, classe `69, è vicepresidente di Mediaset dopo esser passato per Publitalia, Italia 1 e per la carica di coordinatore dei palinsesti. Per entrambi ha risposto l'avvocato-deputato Nicolò Ghedini, che difende brillantemente il premier nei processi di Milano come nella commissione giustizia di Montecitorio, presieduta dal suo collega Gaetano Pecorella: la loro iscrizione nel registro degli indagati, dice Ghedini, è «incomprensibile», anche perché il fascicolo riguarda il periodo `90-'94 e a quell'epoca, sostiene il legale, «Piersilvio aveva 22 anni, Marina forse 25, studiavano all'università e non avevano nemmeno cariche societarie». Risale a quel periodo, o almeno alla sua ultima fase, l'ingresso dei due rampollinelle società del facoltoso padre.

Ghedini comunque afferma di non aver avuto alcuna comunicazione giudiziaria a carico dei dei due. E per il resto ricorda di non essersi opposto alle richieste di proroga per il premier perché «siamo assolutamente sereni» anche sulla base delle «indagini difensive» svolte, che dimostrerebbero come «tutte le operazioni in questione si sono svolte nella più assoluta regolarità». L'avvocato non può fare a meno di sottolineaare che la notizia del coinvolgimento di Marina e Piersilvio Berlusconi trapela «in un momento di così forte crisi» per il governo. «Sarà una coincidenza - dice - L'Italia è piena di coincidenze. Ma è comunque singolare»

 

Al via la riforma delle pensioni
Il governo boccia tutti gli emendamenti. Fiducia più vicina. Domani la manovra
Berlusconi illustrerà i tagli al consiglio dei ministri. Maroni respinge tutte le proposte di modifica della delega previdenziale. I sindacati: «Uno schiaffo»

P. A.

Pensioni forzate. Il governo corre a grandi passi verso l'approvazione della delega previdenziale con la fiducia. Ieri sono stati bocciati tutti gli emendamenti alla delega previdenziale. Se sarà necessario, il provvedimento sarà varato con la fiducia, che sarebbe la seconda dopo quella chiesta al senato. La stretta del governo potrebbe quindi precludere all'approvazione del provvedimento entro il mese di luglio, così come aveva più volte preannunciato il ministro del welfare, Roberto Maroni. Nette le reazioni dei sindacati e delle opposizioni: «E' l'ennesimo schiaffo del governo». Intanto sarà il presidente del consiglio in persona a presentare la relazione sulla manovra economica al consiglio dei ministri fissato per domani. Dopo la decisione sull'abbassamento del rating la manovra correttiva, nonostante le precisazioni di questi giorni, diventa un'operazione necessaria. Berlusconi, nelle dichiarazioni della vigilia, ha continuato però a insistere anche sulla necessità di realizzare la riforma fiscale. L'urgenza e l'emergenza sono legate però al disastro dei conti pubblici. Mentre infatti le agenzie di rating hanno già dato il loro parere, la Commissione europea, decidendo di rinviare l'early warning, ha voluto offrire dieci giorni di tempo per mettere a punto la manovra.

Da quello che si è potuto sapere, Silvio Berlusconi illustrerà lo schema della manovra che era stato preparato dal ministro dimissionato Giulio Tremonti. La base preparata dall'ex ministro dell'economia è stata integrata con nuovi provvedimenti che permettano allo Stato di recuperare risorse. Su questi punti si è già acceso lo scontro perché le misure coinvolgerebbero vari settori della società. Sul piede di guerra ci sono per esempio le compagnie di assicurazione e gli istituti di credito per la ventilata proposta di appesantire il prelievo fiscale in questo settore.

Dopo la dura presa di posizione degli assicuratori dell'Ania, oggi toccherà all'Abi, l'associazione nazionale delle banche, prendere posizioni. Ieri ci sono stati già segnali molto negativi dal mondo del credito. Prese di posizione molto critiche anche dal mondo delle Fondazioni bancarie. Ieri Giuseppe Guzzetti, presidente dell'Acri, l'associazione del settore, ha detto che la manovra - se dovesse essere confermata - costerebbe circa 200 milioni di euro alle fondazioni.

Berlusconi e il suo governo sono però alla disperata ricerca di soldi e di un nuovo ministro dell'economia . Domani verranno confermate le linee e le cifre della manovra. Il grosso dei tagli si concrentra nella riduzione dei finanziamenti alle imprese (in particolare alle leggi che regolano i flussi finanziari per il sud) e nei ministeri. Il governo sta cercando di rastrellare soldi anche dai finanziamenti non spesi. Solo per il ritardo dei bandi della legge 488 si è potuto recuperare circa un miliardo. La principale legge per il finanziamento industriale nel Sud sarà ora completamente rivista. In cambio dei sacrifici richiesti, gli industriali chiedono che si proceda da subito alla riduzione dell'Irap, la tassa sulle attività produttive.

Secondo il segretario generale della Cgil, Epifani, siamo di fronte a una manovra che arriva tardi e che tende a colpire una crescita del volume delle possibilità degli investimenti operando, «come è ovvio quando arrivi tardi, con un'emergenza alla quale fra fronte».


La mappa dei settori in cui Berlusconi ha interessi
e che sono influenzati dal ministero dell'Economia
Calcio, cinema, tasse, pensioni
gli altri "conflitti" dell'interim
L'eventuale riforma fiscale beneficierà anche il premier
A lui saranno comunicati i piani della tv di Stato sua "rivale"
di MARCO TRAVAGLIO

 
ROMA - Il 22 aprile 1992 si gioca Torino-Milan. Finisce 2 a 2. Sembra un pareggio come tanti. Peccato che in quel momento il presidente del Milan Silvio Berlusconi controlli anche il pacchetto azionario del Toro. Lo racconterà l'anno seguente il presidente granata Gianmauro Borsano: nel marzo '92 aveva girato al Milan le quote del Toro a garanzia della cessione di Gianluigi Lentini e di un anticipo immediato di 10 miliardi in nero. Così, per qualche mese, Berlusconi controllò due club di serie A. Poi la giustizia sportiva "punì" Borsano e salvò il Milan. Oggi la storia si ripete. Ma in grande stile: da due giorni il neoministro dell'Economia Berlusconi controlla le azioni della Rai, oltreché di Mediaset. Senza contare la giungla di conflitti d'interessi aggiuntivi che le deleghe sulla politica economica del governo comporta anche formalmente per il proprietario e/o azionista di banche, assicurazioni, società televisive, editoriali e sportive. Prima, per salvare le forme, Berlusconi poteva almeno uscire in corridoio, come fece alla vigilia di Natale, mentre i ministri gli approvavano il decreto salva-Rete4. Ora cade anche l'ultima foglia di fico.

Raiset. Il ministro del Tesoro, in base alla Gasparri, indica il presidente della Rai e un altro dei consiglieri d'amministrazione. Ma nomina (e revoca) anche il direttore generale. "Se almeno fosse stata approvata la pur blandissima legge Frattini sul conflitto d'interessi - spiega il costituzionalista ed ex presidente Rai Roberto Zaccaria - scatterebbero controlli e sanzioni per le operazioni che portano un "vantaggio"". Non basta: "Il ministero dell'Economia, nella convenzione e nel contratto di servizio con la Rai, è responsabile della gestione economica dell'azienda. La Rai deve comunicare al Tesoro, cioè al padrone della concorrenza, tutti i dati economici e i piani industriali. Un groviglio inestricabile".

Antitrust. Controllando anche formalmente Mediaset e Rai, Berlusconi cumula sulla sua persona il 90% del mercato televisivo e il 97 di quello pubblicitario delle tv: troppo persino per il generosissimo "tetto" del 20% del Sic (il sistema integrato delle comunicazioni della Gasparri). Il che potrebbe attivare le due Authority competenti: Antitrust e Telecomunicazioni. "Finora - osserva Zaccaria - si poteva discutere di controllo "formale" su Mediaset e "sostanziale" su Rai. Ora siamo alla doppia titolarità anche formale. E potrebbe scattare l'articolo 15 della Gasparri che vieta, anche con "controlli e collegamenti", di conseguire ricavi superiori al 20% del Sic". Altra possibile posizione dominante: quella sui diritti sportivi. Alla prossima asta davanti al Cio per le Olimpiadi 2008, si presenteranno per l'Italia due concorrenti controllati dalla stessa persona: Rai e Mediaset.

Cinema. L'impero berlusconiano comprende Medusa, società di produzione e distribuzione monopolista sul cinema italiano. E il Tesoro è l'unico azionista di Cinecittà Holding, l'ente pubblico del cinema.

Pubblicità. Nonostante la crisi del mercato mondiale, la società pubblicitaria Mediaset, Publitalia, ha guadagnato anche nel 2003: il 6.5% in più del 2002. Visto l'enorme afflusso di capitali freschi che porta al Biscione, Publitalia è fra le aziende più interessate alla politica fiscale del governo, se davvero il neoministro Berlusconi manterrà l'impegno di "meno tasse per tutti". Senza contare che il Tesoro allarga e chiude i cordoni della borsa per le "pubblicità istituzionali" che ministeri ed enti effettuano sulle reti Rai e Mediaset.

Meno tasse. Berlusconi giurò che le sue aziende non avrebbero utilizzato il condono Tremonti. Poi Mediaset lo utilizzò, risparmiando 162 milioni di euro per un'evasione accertata sull'acquisto di diritti cinematografici. Ora anche gli eventuali condoni li firmerà direttamente Berlusconi. E così avverrà per altri sgravi alle imprese: la Tremonti-1 del '94 fruttò a Mediaset un risparmio di 242 miliardi di lire sulle imposte dovute per l'acquisto di vecchi film.

Calcio e debiti. Il decreto salva-calcio, varato dal Tesoro, consente alle società pallonare di spalmare i loro debiti sui bilanci di dieci anni. Anche il Milan ne ha subito approfittato, con un notevole guadagno. La norma fece storcere il naso proprio al commissario europeo Mario Monti. Ora quella patata bollente la gestirà Berlusconi, presidente del Milan.

Assicurazioni. Con Ennio Doris, Berlusconi controlla una banca-assicurazione, Mediolanum. Come banca è soggetta ai controlli del Tesoro e molto interessata alla politica creditizia del nuovo ministro. Come assicurazione, è soggetta ai controlli del Tesoro e molto interessata alle pensioni integrative legate alla riforma previdenziale. Controllore e controllato, ancora una volta, sono la stessa persona.

Borse e mercati. Anche qui - osserva l'economista Salvatore Bragantini, ex membro della Consob - "si crea un impressionante groviglio di interessi. Il ministro dell'Economia ha poteri diretti d'intervento superiori a quelli del premier: nell'allocazione dei fondi a questo o quel settore produttivo; o nella sorveglianza dei mercati regolamentati, insieme alla Consob". Infine da un lato Berlusconi eredita da Tremonti la delega a tagliare, discrezionalmente, spese pubbliche per 2 miliardi di euro, anche in settori "sensibili" come l'editoria e lo spettacolo. Dall'altro è superazionista di società quotate come Mediaset, Mediolanum e Mondadori. E, contemporaneamente, diventa il proponente del ddl sul risparmio per un nuovo sistema di controlli sulle borse dove sono quotati i suoi titoli. Altro che Toro - Milan 2 a 2. Questo, al confronto, è il campionato del mondo.