ROMA - Più di quattrocento
euro al mese per mangiare. Poi affitto, condominio, trasporti, assicurazione e
cure mediche. Le famiglie spendono tanto. Troppo. E per questo sono costrette a
tagliare i fondi per il tempo libero e le attività culturali, a risparmiare
sull'abbigliamento e l'arredamento. Cresce quindi la spesa delle famiglie in
Italia, secondo i dati dell'indagine annuale dell'Istat. Nel 2003 la spesa media
mensile ha raggiunto i 2.313 euro, 119 euro in più rispetto all'anno
precedente, segnando un'incremento del 5,4%. A pesare su tale variazione,
soprattutto l'inflazione che nel corso dell'anno passato è aumentata del 2,7%.
Alimentari. Più di quattrocento euro al mese per
imbandire la tavola, sulla quale la carne continua a fare la parte del leone.
Nel 2003 ogni famiglia ha speso in media 451 euro al mese nell'acquisto di cibi
e bevande, ben 26 euro in più rispetto allo scorso anno. I soldi destinati al
cibo rappresentano, cioè, 19,5% della spesa totale, con la carne che da sola
assorbe il 4,4% del budget complessivo.
Casa. La casa rappresenta una delle voci più pesanti nel bilancio mensile delle
famiglie italiane. L'affitto, il condominio, la manutenzione ordinaria e
straordinaria assorbono nel complesso quasi un terzo (il 24,9%) della spesa
media mensile, per un importo di 575 euro, 32 euro in più rispetto al 2002.
Continuano a diminuire (dal 18,7% al 18,5%) le famiglie che occupano
un'abitazione in affitto, mentre l'affitto medio, che nel 2002 era pari a 279
euro al mese, aumenta e raggiunge i 288 euro.
Sanità. La voce sanitari e spese per la salute è pari al 3,8% della spesa
totale, per un importo di 87 euro al mese. Non sembra molto, ma i tecnici
dell'Istituto nazionale di statistica sottolineano che, pur rimanendo stabile
rispetto all'anno precedente, la voce sanità mostra un cambiamento delle
abitudini degli italiani, che spendono sempre di più per medicinali, visite
mediche ed esami radiologici.
Cultura e tempo libero. La vita è cara e da qualche parte si dovrà pure
tagliare. Sembra questo il motto delle famiglie italiane che, alle prese con i
rincari, si ritrovano a dover rinunciare ai piaceri. Una parte sempre inferiore
del budget mensile è destinato a tempo libero e cultura: la quota della spesa
media è infatti scesa dal 4,9% del 2002 al 4,8% del 2003. Tagli a spese per il
computer, abbonamenti a manifestazioni sportive, concerti, teatri e spese per
hobby, totocalcio e altre lotterie.
Abbigliamento e comunicazioni. Nel carrello degli italiani ci sono anche meno
scarpe e vestiti. Continua infatti a diminuire la percentuale di spesa per
abbigliamento e calzature (dal 6,8% del 2002 al 6,7% del 2003) mentre rimane
stabile quella per comunicazioni, pari al 2,1% della spesa totale, sebbene tra
le voci di questo capitolo si registri un aumento della spesa mensile per schede
telefoniche, francobolli e altre spese postali.
Trasporti. Confermata la progressiva contrazione, iniziata nel 2000, delle spese
per i trasporti: le famiglie spendono il 14% del loro bilancio mensile, 324 euro
al mese. E diminuiscono anche i soldi destinati all'acquisto di automobili nuove
e usate. Aumentano, invece, le spese destinate alla manutenzione e
all'assicurazione dei veicoli.
Altro. Invariata, invece, lo scorso anno rispetto al 2002 la quota di spesa
mensile destinata ad altri beni e servizi (dall'11,1% all' 11,2% della spesa
totale) nonostante il lieve incremento delle spese per vacanze, articoli
personali e cura della persona, assicurazioni vita e pensioni integrative, pasti
e consumazioni fuori casa.
Differenze geografiche. Restano le differenze nei consumi delle famiglie a
seconda della zona, ma per nessun posto si può parlare comunque di 'isola
felice'. Meglio il sud del nord: nelle regioni del settentrione, la spesa media
mensile risulta superiore di 646 euro rispetto alle famiglie residenti nel
Mezzogiorno e di 72 euro rispetto a quelle del Centro. Nel nord, infatti, la
spesa media mensile si aggira sui 2.538 euro (+5,9% rispetto ai 2.396 euro del
2002). Nelle regioni del Centro, invece, i consumi si attestano intorno ai 2.466
euro (+5% sul 2002), mentre nel Mezzogiorno ci si ferma a 1.892 euro (4,8% in più
rispetto al 2002).
Mutui
con pasticcio
Il governo ammette: «Legge
errata». E la fa votare
Il
senato propone un ordine del giorno per correggere la correzione della manovra
correttiva, il ministro dell'economia annuncia che si rimedierà con una
circolare o la legge finanziaria, «vedremo». Non è uno scherzo, è l'ultima
soluzione «tecnica» escogitata dal governo per mettere l'ennesima toppa
all'ennesimo strappo da esso stesso causato. La questione è quella dell'imposta
sui mutui. La scorsa settimana, con un maxiemendamento che rettificava le poste
di bilancio della manovra correttiva, il governo aveva aumentato le imposte
sulla compravendita delle seconde case e fatto salire anche sensibilmente -
dallo 0,25 al 2% - l'imposta sostitutiva sui mutui accesi per comprare le stesse
case. O meglio, così aveva detto: perché da un'attenta lettura del testo
veniva fuori che in realtà l'aumento dell'imposta sostitutiva riguardava tutti
i mutui, con la sola esclusione di quelli accesi per comprare la prima casa. La
«svista», segnalata dal Sole
24 Ore
e poi ammessa dal governo, estendeva di fatto l'aggravio di imposta a tutti i
finanziamenti a medio e lungo termine, colpendo in particolare le imprese. Di
fronte alle proteste che sono arrivate soprattutto da esponenti confindustriali,
Berlusconi ha ammesso l'errore. Ma il governo ha anche dovuto ammettere di non
poter far niente per rimediare, vista l'urgenza di approvare la conversione in
legge del decreto al senato entro la pausa estiva, nell'identico testo
(sbagliato) già approvato dalla camera. Il voto dovrebbe svolgersi stamattina,
forse con la fiducia. All'aula del senato sul pasticcio-mutui sarà proposto lo
stesso escamotage votato ieri in commissione Bilancio: l'approvazione di un
ordine del giorno che «impegna il governo a interpretare» la norma «nel senso
che l'aumento dell'imposta sostitutiva dallo 0,25 allo 0,50% si applica ai soli
mutui erogati per l'acquisto di case diverse da quelle di prima abitazione». Ma
il marchingegno potrebbe non risolvere il problema di fronte ai notai e agli
operatori chiamati ad applicare la nuova norma. La legge in vigore resta quella
«sbagliata», dunque per ora, checché ne dica l'odg del senato, l'imposta
sostitutiva sui mutui cresce per tutti (tranne che per la prima casa). Tant'è
che ieri Siniscalco ha ipotizzato di intervenire con una circolare o nella
stessa legge finanziaria.
DONNE
PENALIZZATE
Per le donne esiste la
possibilità di continuare, anche dopo il 2008, ad andare in pensione con 57
anni (sempre con 35 di contributi versati). Ma c'è una penalizzazione
importante: in questo caso la pensione sarà calcolata interamente con il metodo
contributivo (cioè la pensione dipende interamente dai contributi versati). Ciò
significa che tutte le donne con uno stipendio medio-basso di fatto non potranno
lasciare il lavoro a 57 anni, salvo avere una pensione da fame Come sottolinea
Betty Leone dello Spi Cgil: «Come si fa a pensare che un'operaia tessile possa
andare in pensione a 57 anni?».
28 luglio
COMMENTO
CON il ventiduesimo voto di fiducia, Berlusconi impone all'assemblea di
Montecitorio la nuova legge sulle pensioni. In soli 3 anni, la Casa delle
Libertà brucia il record che l'Ulivo aveva accumulato in 5 anni: 22 a 20.
Sette voti di fiducia all'anno. E non certo per far approvare riforme radicali
ma per far transitare senza danni provvedimenti nati per tirare a campare. E
ingiunti al potere legislativo non tanto per sanzionare i modesti diritti
dell'opposizione, quanto per blindare i fragili doveri della maggioranza.
Ha mille ragioni il presidente della Camera Casini, a lamentare l'ennesimo
danno inflitto al Parlamento. Ma non è neanche questa, in fondo, la vera
"cifra" politica e finanziaria di questo forzoso via libera al nuovo
regime previdenziale. Questa presunta "riforma" è solo un ponte.
Serve al centrodestra per sopravvivere all'estate, attraversando l'abisso di
una crisi che sembrava potersi aprire addirittura prima delle ferie d'agosto.
La riforma delle pensioni è invece un ponte sospeso nel vuoto della politica.
La Casa delle Libertà, fondata sulla forza originaria e cogente del suo
leader, è ormai poco più che una somma di debolezze. Dal suo letto di
convalescente, Bossi aveva azzardato l'ultima minaccia: se dagli alleati non
arriva il disco verde alla devolution, dalla Lega non arriva nemmeno il disco
verde sulla previdenza.
Ma anche tra le camicie verdi, esattamente come accade in An e nell'Udc, c'è
un'"ala ministeriale" (Maroni e Calderoli) che mal sopporta i
richiami della foresta del proto-leghismo padano. Per questo, alla fine, il
Cavaliere è riuscito a persuadere Bossi a votare la fiducia. In cambio, gli
ha concesso l'impegno a incardinare in aula alla Camera, entro la prossima
settimana, almeno l'avvio del dibattito sul federalismo. Per il voto, tutto è
rinviato a settembre.
Lo stesso orizzonte differito ha prevalso nell'Udc.
Follini ha tirato la corda fino al punto estremo. Non voleva e non poteva
rompere adesso. Rispetto ai rivali nella sua coalizione, benché le abbia
provvisoriamente ripiegate in commissione, congelando i dieci emendamenti al
pacchetto riforme istituzionali, non ha affatto ammainato le sue
"bandiere". Con la ragionevole certezza di dover contrastare un
riassetto costituzionale che se anche passasse all'esame del Parlamento non
passerebbe mai al vaglio popolare di un referendum confermativo, è pronto a
farle sventolare in aula dopo la pausa estiva.
Rispetto ai dissenzienti nel suo partito, non ha rinunciato alla
"conta" nel consiglio nazionale di lunedì. Con l'appoggio di Casini
che non gli è mai mancato in questi mesi e non gli mancherà in futuro, punta
ad uscire da quel test con un chiarimento definitivo, sulla leadership e sulla
linea politica. Gli servirà per affrontare lo scontro frontale sul
federalismo e sul premierato. Di nuovo, tutto è rinviato a settembre.
Fini lascia fare. Lucrata un mese fa la più alta rendita politica e
personale, non è riuscito o non ha saputo fare alcun "uso" della
cacciata di Tremonti. Forse, viste le cifre del disastro della finanza
pubblica che il nuovo ministro del Tesoro ha avuto il merito di portare allo
scoperto, si capisce anche il perché. Ma il vicepremier paga comunque la
mancata assunzione di responsabilità diretta con un inevitabile appannamento
della sua leadership. Che torna gregaria, e appiattita su quella non meno
appannata di Berlusconi. Se il premier resiste, resiste anche il suo vice. Se
precipita, il vice si deve ricollocare. Anche per Fini tutto è rinviato a
settembre.
La riforma delle pensioni è anche e soprattutto un ponte sospeso nel vuoto
dell'economia. È comprensibile il consenso diffuso che sta riscuotendo il
"metodo Siniscalco". Ruota intorno a due perni: trasparenza assoluta
con il ceto politico e l'opinione pubblica sui saldi contabili tendenziali,
confronto tenace con i sindacati e gli imprenditori sulle misure correttive.
Ma il metodo non risolve il merito. E il merito dice prima di tutto che questa
nuova legge sulla previdenza non elimina la gobba della spesa, non cancella le
iniquità intergenerazionali, e produce effetti pratici solo a partire dal
2008.
E in secondo luogo, che l'Italia soffre un pauroso deterioramento dei conti
pubblici, e gli italiani si devono preparare a un autunno di feroci stangate,
come non se ne vedevano dal remoto '92. Il Dpef, di cui il Consiglio dei
ministri dovrebbe varare oggi le linee di fondo, contiene impegni insieme
realistici e proibitivi.
È realistico prevedere un abbattimento del rapporto deficit/Pil dal 4,4%
tendenziale al 2,7% l'anno prossimo. Ma è proibitivo raggiungerlo
accompagnando una manovra secca da 24 miliardi con una riforma fiscale che,
secondo Luigi Spaventa, "costa" non meno d'un punto e mezzo di Pil.
È realistico rimettersi su un sentiero virtuoso d'abbattimento del rapporto
debito/Pil, dall'attuale 106% al 100% nel 2008. Ma è proibitivo raggiungerlo
immaginando privatizzazioni per 25 miliardi d'euro all'anno, a meno che lo
Stato italiano non voglia cedere la totalità delle quote Enel ed Eni in suo
possesso.
"L'Italia che ho in mente", come la chiamava il Cavaliere nel 2001,
non c'è più. Il sogno azzurro s'è trasformato in incubo. Come in un odioso
flashback, torna la povera, mesta Italietta di fine anni '80, quella che
patisce le solite lacrime e il solito sangue. Arriva lo scippetto preagostano
sulle seconde case, che prelude a future batoste anche sulle prime. Si risente
parlare di ticket sanitari a 4 euro a confezione. Si vocifera d'imposte
patrimoniali sulle rendite finanziarie. S'ipotizzano nuovi interventi sulle
quattro finestre delle pensioni d'anzianità, senza aspettare lo
"scalone" del 2008. Il fantasioso ministro Lunardi si spinge a
profilare il pagamento d'un pedaggio automobilistico sui 4.500 chilometri di
strade statali.
È quasi normale, in un quadro emergenziale da Prima Repubblica, che l'euroscettico
Berlusconi adesso abbia in testa una sola via d'uscita: sciogliere i vincoli
del Patto di stabilità. "Un cappio al collo di cui dobbiamo
liberarci", come ha detto ai gruppi parlamentari forzisti, puntando sulla
disponibilità di Francia e Germania, "che stanno esattamente come
noi".
È l'ultima, clamorosa fandonia del Cavaliere: vuole calare il jolly
preelettorale coprendo sgravi e crescita in regime di deficit spending,
sfondando la soglia del 3% insieme a Chirac e Schroeder, ma dimenticando che
questi signori hanno un debito pubblico che è meno della metà del nostro. Ma
è anche l'ultima, disperata illusione del Cavaliere: se anche Parigi e
Berlino gli accordassero la deroga, l'Italia otterrebbe un salvacondotto dalla
nomenklature d'Europa, ma non dai mercati internazionali.
L'indulgenza burocratica non basterebbe a evitare la condanna finanziaria. Il
down-grading del nostro debito sarebbe inevitabile. Il rischio Italia sarebbe
insostenibile, o accettabile solo al "prezzo" d'un fortissimo
aumento degli interessi sui nostri titoli. Torneremmo all'antica, terribile
spirale del "debito che s'autoalimenta".
A Berlusconi importa poco. Si prepara per settembre: la devolution, la
Finanziaria, la crisi, forse le elezioni anticipate. Se le vince, ci alluviona
di nuove promesse. Se le perde, sono affari di chi viene dopo. Lui una
soluzione l'ha già trovata: "Se perdiamo - ha detto due sere fa agli
azzurri - scappiamo in Russia: tanto lì ci sono meno comunisti che in
Italia...". L'ultimo, bugiardo esorcismo, per trasformare una tragedia in
farsa.
21 luglio
MARE NOSTRUM
GUGLIELMO RAGOZZINO
Non
è solo l'articolo 11 della Costituzione italiana a vietare la costruzione di
portaerei. Vi è anche l'articolo 59 del trattato di pace e una legge del 1931,
di gusto prettamente fascista, tuttora in vigore. Nella costituzione è scritto
che «l'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli
altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Se
qualcuno è in grado di spiegare a cosa serva una portaerei, se non come
strumento di offesa per fare la guerra e risolvere così le controversie
internazionali, si faccia avanti. Prima di varare,
come ha fatto ieri il presidente Ciampi, prima di costruire,
come sta facendo la beata Finmeccanica per conto della Marina militare e del
governo Berlusconi o anche prima di progettare
portaerei,
come hanno fatto i governi di centrosinistra, sarebbe stato necessario por mano
alla Costituzione e riformarla, in senso militarista, cancellando lettera e
spirito dell'articolo 11 . Nessuno lo ha fatto, nessuno ha avuto il coraggio di
farlo. L'articolo 59, comma II, del Trattato di pace è di una chiarezza
cristallina: «L'Italia non costruirà, acquisterà, utilizzerà, o sperimenterà
alcuna portaerei». L'impegno che De Gasperi aveva assunto, per conto di tutti
noi italiani, nel 1947 era un impegno di lealtà, da rispettare. E fu rispettato
per una quarantina d'anni, fino ai tempi del falso incrociatore Garibaldi, in
realtà portaelicotteri. Neppure allora ci fu una dichiarazione formale, del
tipo: l'Italia da oggi disattende gli obblighi del Trattato di pace, cui è
stata costretta da forze soverchianti, ecc. ecc. E neppure: a partire da oggi
l'Italia ha deciso di fare la guerra, se le garba, e di bombardare con missili
dal mare e dall'aria, i suoi eventuali nemici. Anche questa dichiarazione non c'è
stata, anzi l'incrociatore Garibaldi aveva un doppio travestimento. Era una portaerei
per l'uso interno e per le commesse dei cantieri nazionali, e una nave multiuso
con solo qualche piccolo
elicottero
nascosto
nella pancia, per gli alleati-rivali della Nato e per l'ormai disattenta Urss.
La
legge del 1931 è un episodio della contesa tra marina e aviazione, tipica degli
anni del fascismo. L'aviazione militare, non solo in Italia, era ostile a una
marina che, contro natura, fosse capace di volare. Negli Stati uniti o in
Giappone prevalsero le marine che ottennero aerei e campi di atterraggio
galleggianti, dando luogo a fantastiche battaglie come quella delle Midway. In
Italia, l'aviazione era la pupilla del regime e ottenne al contrario un successo
completo, sottolineato da una popolare canzonetta «Gira gira l'elica, romba il
motor/ questa è la bella vita, la vita bella dell'aviator». Mussolini dettò
la linea; e fece scrivere sui muri che l'Italia non aveva bisogno di portaerei
essendo essa stessa una portaerei al centro dei mari.
Dopo
settanta e più anni la Marina è riuscita a rovesciare la politica nazionale.
Ha dovuto però accettare una serie di compromessi. Ha sofferto nel prendere il
nome di Cavour, un signore con i piedi ben piantati sulla terra, lasciando il
ben più evocativo Andrea Doria. D'altro canto, dopo Garibaldi, nave con il nome
di sinistra, perché non accettare un nome da nave liberale di centro, cattolica
ma anche certamente laica? Cavour è un grande padre della patria, che ha
portato i bersaglieri in Crimea (modello per il Kosovo di D'Alema) e senza
bisogno di portaerei. In ogni caso non ha detto lui:«libera Nave in libero
Stato»? E così avremo Cavour. Risulta, ancora irrisolta, una sorda disputa tra
chi voleva soprattutto una portaerei, beninteso di pace, capace però di portare
carri armati pesanti e chi preferiva invece mantenersi sul classico: aerei a
decollo verticale, elicotteri quanto
basta.
La nave li avrà entrambi: carriarmati e aerei. Sarà probabilmente la prima
portaerei Ro-ro, cioè concepita come una nave avanti-e-indietro (Fincantieri ha
vinto così fantastiche commesse per modernissimi traghetti) e capace di andare
fino alla riva per scaricare i marines, alla caccia di bin Laden. O di Sandokan,
se necessario.
19 luglio
AFRICA
GLOBALIZZATA
Sudan,
dove nasce la guerra infinita del Darfur
GIAMPAOLO
CALCHI NOVATI
Il
Darfur, collocato geograficamente nella parte occidentale del Sudan, il più
vasto paese africano per la superficie del territorio, è eccentrico rispetto
all'asse del Nilo nel cui bacino si è costituito storicamente il Sudan, come
prosecuzione o espansione verso sud dello stato egiziano, e attorno a cui si è
organizzata la sua vita urbana e produttiva. La regione del Darfur ha gravitato
piuttosto negli imperi e stati dell'Africa centrale, più propriamente sahariani
e imperniati nel bacino del lago Ciad. In questa prospettiva, il Darfur, non
essendo né Nord né Sud, è rimasto estraneo al conflitto che più ha influito
sulla storia recente del Sudan, vale a dire il conflitto fra il Nord dominante,
che ha imposto l'arabo e la legge coranica come connotati essenziali dello
stato, e il Sud abitato da popolazioni nere in parte cristianizzate che ha
subito con disagio e contrastato con le armi quel dominio e quel tipo di
cultura. Fra l'altro, benché etnicamente più affine alle genti stanziate nel
Sud, la popolazione del Darfur è in maggioranza musulmana e se mai la sua
opposizione, anche armata, riflette l'insofferenza tipica delle popolazioni
marginali e nomadi per l'autorità del centro (si pensi al caso dei Tuareg), ma
senza particolari valenze religiose. Questa precisazione può apparire superflua
tanto è scontata. Ma nel coro delle voci che negli ultimi tempi si sono levate
anche in Italia per denunciare un problema reale - la gravissima emergenza
umanitaria che affligge il Darfur - si è fatta molta confusione, un po' per
ignoranza e un po' perché può sempre tornare utile, suggerendo insidiosamente
una certa assonanza con la guerra fra il Nord e il Sud, calcare la mano
sull'Islam oppressivo e violento. Bisogna riconoscere che in tanta
approssimazione si è distinto Sergio Romano, che ha scritto un lungo articolo
sul Corriere
della Sera
molto preciso e argomentato. Quale sia del resto il grado effettivo di «partecipazione»
del nostro mondo politico e della nostra opinione pubblica al dramma del Darfur
e del Sudan in generale è risultato chiaro dalla vergognosa vicenda della nave
tedesca bloccata per giorni e giorni al largo delle coste della Sicilia. Sul Manifesto
ne ha scritto benissimo Alessandro Dal Lago. Da una parte si invoca il solito «intervento»
riparatore dell'Occidente giusto e benevolo per i problemi del Sudan e, magari
esagerando, dell'Africa tutta, e dall'altra si nega non si dice l'asilo, ma,
fino all'ultimo lo sbarco a una manciata di profughi - ai quali ora è già
stato consegnato il decreto d'espulsione e che sono sballottati, illegalmente,
da un Centro di permanenza a un altro. Ci saranno pure problemi giuridici
complessi. Si vorrà pure evitare di creare un precedente. Sarà pure colpa dei
formalismi della burocrazia. Ma se l'Italia come autorità, nazione e popolo,
non è in grado di assistere 37 (trentasette) disgraziati sfuggiti all'inferno
del Darfur di cui si è finto di farci carico, sarebbe più dignitoso lasciar
perdere una volta per tutte i discorsi sul diritto e dovere del mondo civile, il
nostro naturalmente, di portare il progresso, la democrazia e lo sviluppo nel
Terzo mondo.
La
triste realtà è che la crisi del Darfur è un sottoprodotto non della guerra
Nord-Sud (sempre con riferimento al Sudan) ma della pace o mezza pace che il
governo di Khartoum e il principale esercito combattente dei ribelli sudisti, il
Sudan people's liberation army (Spla), hanno abbozzato con la mediazione degli
Stati Uniti. E' come se il governo centrale abbia approfittato dei nuovi assetti
che si stanno delineando fra Nord e Sud per regolare i conti con la turbolenza
nel Darfur. Oppure - viceversa ma non in completa contraddizione con il primo
assunto - le forze anticentraliste del Darfur hanno pensato che fosse venuto il
momento di affondare i colpi per non restar fuori dal riassetto in atto,
sollecitando una forma di autonomia anche per questa regione decentrata e un
accesso più equo alle ricchezze nazionali. Va ricordato che l'accordo fra
Khartoum e Spla prevede un periodo di transizione in cui le istituzioni e le
risorse (in pratica i giacimenti petroliferi, compresi tutti nelle province
meridionali) saranno gestite insieme, addirittura con un governo di unità
nazionale e fondendo gli eserciti, ma stabilisce una specie di diritto di
autodeterminazione per il Sud-Sudan alla fine di tale periodo. E' una soluzione
concettualmente ambigua, perché non sceglie in modo netto fra inclusione o
separazione, e politicamente pericolosa, perché insinua nella politica sudanese
il tarlo del dubbio sulla tenuta della compagine statale, autorizzando per di più
l'idea che il ricorso alla guerra può «pagare».
Per
la sua posizione fra Sahara e Africa nera, il Darfur è per definizione una
regione di transito, instabile ed ecologicamente molto fragile. I traffici
leciti e illeciti sono una sua ragion d'essere. La sopravvivenza fisica della
popolazione è subordinata a un attento dosaggio di amministrazione, attività
economica e insediamenti abitativi. Ogni eccesso, ogni atto che minacci il
precarissimo equilibrio, ogni violenza sugli uomini o sul territorio, rischia di
avere effetti catastrofici. E così è stato. Si può capire perché
l'intensificazione delle operazioni militari abbia provocato migliaia di morti e
centinaia di migliaia o un milione di sfollati, profughi e disadattati. Poco
importa il prima e il dopo, cioè se l'inasprimento della belligeranza sia
avvenuto per iniziativa delle milizie islamiche che sono solite scorrazzare
nella regione depredando e taglieggiando, che nell'occasione potrebbero essere
state armate e politicamente motivate dal governo, o per iniziativa dei due
eserciti, nemmeno alleati e coordinati fra loro, in cui si esprime il ribellismo
delle tribù nere del Darfur. Certo le due violenze si sono provocate e
giustificate a vicenda come azione e reazione moltiplicando le conseguenze di
indigenza e di morte per gli abitanti, che vivono sempre al limite, anche in
condizioni normali.
Le
testimonianze sulle dimensioni della tragedia non mancano ma non è detto che
siano tutte obiettive. Il governo ha smentito i resoconti peggiori e ha cercato
di dividere le responsabilità fra la politica e la natura oltre che fra i
diversi protagonisti della violenza armata. Le pressioni del governo americano,
che ha inviato sul posto un Colin Powell serioso e minacciante, potrebbero
indurre alla ragione il presidente Bashir e le bande ai suoi ordini. La politica
«neo-cons» sull'Africa è un mix
influenzato dai settori della comunità afro-americana più vicini all'establishment,
dai fondamentalisti cristiani e dalle lobbies
ebraiche più anti-arabe. Gli Stati Uniti hanno di regola sostenuto i «ribelli»
del Spla ma ora puntano tutto sulla cessazione delle ostilità e su un'intesa.
Bush si è convinto che è meglio stabilizzare il regime militare di Khartoum
servendosene come un avamposto (del sistema di sicurezza occidentale) dopo
averlo tanto osteggiato in quanto retrovia (del radicalismo islamico). Per
l'America la crisi del Darfur è un incidente fastidioso che va possibilmente
risolto al costo minore, inquadrando il tutto, forse strumentalmente, nelle
prospettive della «guerra infinita» in una zona comunque nevralgica. Anche l'Onu
ha voluto mostrare i muscoli. C'è da sperare che almeno Kofi Annan sia neutrale
e orienti i suoi sforzi per far finire la violenza e assistere al meglio la
popolazione.
ALIMENTI
Il
sapore delle truffe
Torroncini
con i vermi, funghi porcini ammuffiti con larve morte, torte farcite di
scarafaggi, merendine rancide, carni scadute, riso ai parassiti, pane
all'amianto, pop-corn con ratti, casi surreali e frodi sistematiche che mettono
a rischio la nostra salute. È di circa quasi 103 milioni di euro il valore dei
sequestri effettuati dai carabinieri per la Sanità durante le ispezioni nel
settore alimentare, 15 mila le infrazioni accertate, 8.299 le persone segnalate
alle autorità e 47 quelle arrestate, 804 le chiusure ordinate durante le
indagini svolte nei supermercati, nelle mense e negli allevamenti. Sono le cifre
del primo rapporto su frodi e illegalità nelle filiere agroalimentari di
Salute&Gusto, lo sportello del Movimento Difesa del Cittadino, realizzato
con Legambiente.
Sciopero contro Toledo, Perù paralizzato
La
Cgtp convoca il «paro» per protestare contro la politica neo-liberista e i
salari da fame
S.D.Q.
LIMA
Sciopero
generale ieri in Perù contro la politica economica neo-liberista dell'impopolarissimo
presidente Alejandro Toledo e per migliori salari (che sono da fame). A
organizzarlo oltre 150 sindacati di categoria guidati dalla Cgtp, la
Confederacion General de los trabajadores peruanos, che confidava di portare
oltre 300 mila persone in strada solo a Lima, paralizzandola completamente. Il
governo ha risposto mobilitando quasi 100 mila uomini, fra polizia ed esercito.
Ufficialmente per scongiurare la possibili infiltrazione «dei terroristi di Sendero
luminoso»
(che di recente ha ridato segni di vita grazie anche al rapido deteriorarsi
della situazione). In realtà è evidente l'intento di provocare e
criminalizzare l'azione dei sindacati. «Noi rispondiamo delle nostre azioni ma
non possiamo rispondere delle eventuali aggressioni da parte delle forze di
repressione o di qualsiasi infiltrato», ha detto a mo' di sfida José Gorriti
segretario generale della Cgtp.
Nonostante
i suoi sbandierati successi macro-economici - il Perù è stato uno dei paesi
dell'America latina con maggior crescita economica nel 2002 e 2003, col 5 e 4% -
Toledo non ce la fa a tenere le redini. Scandali e corruzione dilaganti, povertà
e disoccupazione che si allargano a ritmo quasi incontrollabile. La sua
popolarità, dal 2001 a oggi, è caduta a livelli talmente bassi - veleggia
intorno a un misero 8% - da far ritenere difficile che possa giungere al termine
del suo mandato nel 2006. I ministri di governo cambiano in continuazione
travolti dagli scandali di corruzione, che non sono affatto diminuiti rispetto
all'infame decennio dell'accoppiata Fujimori-Montesinos (al sicuro in Giappone
il primo, in galera il secondo). Alla fine di gennaio si è dovuto dimettere il
primo vicepresidente, Raul Diez Canseco. Qualche mese prima era stata la volta
dalla premier, Beatriz Merino. Gli unici ministeri che possono cambiare di nome
ma restano sempre uguali come linea sono quelli economici. Sempre nella mani di
tecnocrati legati all'Fmi e agli Usa - come l'attuale titolare dell'economia e
delle finanze, Pedro Pablo Kuczinsky. E come, in definitiva, lo stesso Toledo.
Lo
sciopero di ieri - nella serata italiana erano già segnalati scontri e arresti
- cade in una situazione già resa caotica dall'atterramento improvviso, lunedì,
degli aerei della maggior compagnia peruviana, la Aero
Continente, che conta con il 60% del
mercato interno. L'ordine di fermare la compagnia e i relativi voli è venuto
dal governo dopo che quel giorno erano scadute le assicurazioni della compagnia.
Ma il vero ordine è venuto da Washington, che ha messo il proprietario della Aero
Continente,
Fernando Zavallos, nella lista nera dei narcos, congelandone i beni e i
depositi negli Usa. A quel punto non c'è più nessuna compagnia d'assicurazione
disposta a firmare una polizza con la Aero
Continente.
Sono
così rimasti a piedi i turisti che vanno a visitare le meraviglie Inca e i
tifosi accorsi nelle città peruviane per le finali della Coppa America di
calcio.
14 luglio
Il conflitto d'interessi ora diventa legge
L'aula
di Montecitorio, dopo più di mille giorni, approva definitivamente il ddl
Frattini: il presidente del consiglio potrà restare proprietario delle sue
aziende. Il capogruppo dei Ds Violante: «Ci rivolgeremo all'Europa»
MICAELA BONGI
ROMA
E' bastata un'oretta e ieri,
dopo 1.153 giorni e cinque letture parlamentari, l'aula di Montecitorio ha
approvato definitivamente la legge sul conflitto d'interessi. Il titolare del
conflitto in questione, Silvio Berlusconi, aveva promesso una soluzione al suo
problemino entro i primi 100 giorni di governo. Di giorni ne sono passati un
migliaio in più. E la soluzione, alla quale per giunta si è arrivati solo
perché l'Udc ha puntato i piedi mettendo l'approvazione del testo tra le
condizioni per la sua permanenza al governo, è una foglia di fico. Che spunta
proprio mentre il conflitto del Cavaliere è al suo apice, con l'interim al
ministero dell'economia, e il suo governo sull'orlo del precipizio. Sua
emittenza non potrà gestire direttamente le sue aziende. Ma potrà continuare,
da presidente del consiglio (se lo resterà), a esserne il «mero proprietario».
Perché, dunque, la Casa berlusconiana l'ha tirata tanto per le lunghe e, dall'8
luglio del 2002, del provvedimento ha modificato solo la copertura finanziaria
per portare avanti un estenuante ping-pong tra camera e senato? Perché il testo
affida un compito all'autorità antistrust e a quella delle comunicazioni.
L'antitrust interviene sui casi di incompatibilità e vigila sull'attività di
governo. Nel caso in cui sia avvantaggiata un'impresa di proprietà di un membro
dell'esecutivo (un esempio a caso: la legge Gasparri), l'impresa può andare
incontro a una sanzione. Il garante delle comunicazioni deve accertare che le
imprese editoriali di un esponente di governo non offrano un «sostegno
privilegiato» all'esponente in questione. Anche in questo caso sono previste
sanzioni, fino all'oscuramento dell'emittente colta in fallo. Obiettivo del
Cavaliere, che quando si tratta dei suoi interessi non intende mettere in conto
intoppi di sorta, era quello di arrivare all'approvazione della legge solo dopo
il ricambio ai vertici delle autorità di vigilanza (nel 2005), in particolare
dell'antitrust, presieduto dall'indigesto (per il premier) Giuseppe Tesauro.
Al temporeggiamento ha
dunque messo fine la «verifica» in corso. Quando, giovedì scorso, il voto sul
conflitto d'interessi era nuovamente slittato (prima di questo provvedimento,
all'esame dell'aula era la commissione di inchiesta su Parmalat, ma nessun
esponente del governo si è presentato e dunque i lavori hanno subito uno stop)
il presidente della camera, Pier Ferdinando Casini, si era inalberato: «Basta
con giochi e giochini». Poi al premier, sabato scorso, è arrivata la lettera
del segretario dell'Udc Marco Follini, con le condizioni dei centristi.
Compresa, appunto, l'approvazione della legge. Ma il contenuto del
provvedimento, approvato ieri con 268 sì, 221 no e 2 astensioni, non era in
discussione. Paradossalmente, poi, nei giorni scorsi era stata - più che la
maggioranza - l'opposizione a spingere perché il testo fosse votato.
Al dunque, i deputati
forzisti vengono sollecitati via sms a presentarsi in aula perché approvino il
testo: i centristi - si ragiona - accontentati su questo punto, potrebbero
sempre ammorbidire la loro posizione sui vertici Rai, dei quali chiedono il
ricambio entro il 30 settembre. Al momento delle dichiarazioni di voto (che i
centristi evitano accuratamente, anche se in aula arriva il leader dell'Udc
Marco Follini), il capogruppo dei Ds a Montecitorio, Luciano Violante, assicura:
«Voteremo no a questo testo e quando torneremo al governo del paese faremo una
legge seria che determini con chiarezza i confini tra mercato e politica».
Quella legge che la maggioranza ulivista non ha approvato nella passata
legislatura. Quetsa è invece «una legge che non serve a niente - prosegue
Violante - che noi denunceremo alle autorità europee». Il capogruppo della
Margherita, Pierluigi Castagnetti, dettaglia il conflitto d'interessi del
premier, elencando le società di cui è proprietario: «27 nel campo delle
assicurazioni e dei servizi finanziari e banche; 24 società di cinema, sport e
spettacolo; 15 nell'editoria; 3 nella grande distribuzione; 3 nei new media; 8
nella pubblicità; 32 nei servizi di gruppo; 2 nella telefonia; 15 nel campo
televisivo». E «la legge in discussione - chiosa Castagnetti - è inefficace,
tanto più oggi che Berlusconi ha l'interim dell'economia e ha poteri sul cda
della Rai, sulla nomina del direttore e sulla gestione economica dell'azienda».
«Hanno approvato la
sanatoria del conflitto d'interessi del premier», commenta il presidente dei
Verdi Alfonso Pecoraro Scanio. «Peggio di così non si poteva andare»,
concorda Alfonso Gianni, Prc. E il segretario della Federazione nazionale della
stampa, Paolo Serventi Longhi, definisce il voto di ieri «una solenne presa in
giro. Si potrebbe paradossalmente affermare che la legge sancisce l'inesistenza
del conflitto d'interessi». Il partito di Follini canta vittoria: «E' un voto
importante - afferma il capogruppo Luca Volonté - perché toglie al
centrosinistra un'arma impropria di campagna elettorale». Ai centristi resta
invece da capire quali armi toglierà al premier, che domenica sera aveva
minacciato di scatenare le sue tv proprio contro l'Udc.
Il
paese affonda. Ma il governo sembra l'orchestra del Titanic
Allarme
dopo i dati Istat: primo trimestre nero. Insorgono le parti sociali: esecutivo
colpevole e immobile
FEDERICO SALLUSTI
La
sinfonia continua, per quanto il suono cominci a farsi sempre più grossolano e
le assonanze apparenti lascino spazio a chiare dissonanze. Enrico Letta scomoda
l'orchestra del Titanic per descrivere l'atteggiamento del governo, litigioso e
strafottente nel negare difficoltà ormai evidenti. I conti pubblici franano
come una nave affonda, lentamente, mentre la filodiffusione, che accompagna il
naufragio, non lo rende di certo meno drammatico. Ieri l'Istat ha diffuso i dati
sui conti pubblici riferiti al primo trimestre del 2004. Ebbene, per quanto,
solitamente, le rilevazioni relative ai primi tre mesi non siano particolarmente
indicative - non tengono in considerazione le entrate erariali di giugno e la
crescita del Pil - i dati che emergono dall'analisi sono fortemente
preoccupanti. Ad oggi, infatti, il rapporto deficit/Pil è al 6,1%, valore che,
pur non rappresentando - speriamo - la realtà tendenziale, manifesta comunque
un leggero peggioramento rispetto al 2003 e uno, più marcato, rispetto agli
anni precedenti. A preoccupare, dunque, non è il dato in sé, ma la deriva che
i conti pubblici hanno intrapreso. Al di là del livello del deficit/Pil
riscontrato in questo inizio anno, sono altri i segnali che maggiormente
evidenziano i problemi strutturali dei conti pubblici. Il saldo corrente, che
indica le capacità di risparmio del settore pubblico, segna un passivo di circa
10 miliardi di euro, sostanzialmente in linea con quello dell'anno scorso - che
però fece registrare un risultato inferiore a quello dei periodi precedenti. A
destare particolare timore è invece l'andamento del saldo primario - che indica
l'indebitamento al netto degli interessi - il quale, attestandosi a quasi 4,5
miliardi di euro, è più che triplicato rispetto al 2003, erodendo un punto del
Pil (l'incidenza del saldo primario sul prodotto lordo è passata dallo 0,4%
all'1,4%). Entrando più a fondo nelle voci di bilancio si nota come scenda di
mezzo punto l'incidenza delle entrate sul Pil (da 39,4% a 38,9%): queste
aumentano solo del 2,7%, mentre le uscite crescono al ritmo del 3%.
Significativo è il crollo (-18,1%) della voce «altre uscite in conto capitale».
«Questo dato - spiega l'Istat - risente della riduzione dei contributi alle
imprese»: 700 milioni in meno, alla faccia dello sviluppo.
Nel
mondo politico e delle parti sociali tutti, tranne - per forza di copione - il
responsabile economico di Forza Italia Luigi Casero («non siamo preoccupati»),
mostrano timore. I toni sono più o meno catastrofici, in alcuni casi persino
fantasiosi, ma non per questo meno duri nei confronti dell'immobilismo del
governo. «Fosco» il quadro per Enrico Letta, per il quale la verifica di
governo - peraltro puntata sull'economia - sta assumendo i contorni della «tragicommedia».
Poi scomoda l'orchestra del Titanic, ma di questo si è già detto. Un'«operazione
verità sui conti pubblici» è la richiesta di Savino Pezzotta, segretario
generale della Cisl, che invita il governo ad «assumersi le responsabilità che
la situazione richiede». L'ex ministro Vincenzo Visco sottolinea «l'urgenza di
intervenire su deficit e spesa pubblica palesemente fuori controllo». Il
segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani attacca l'operato
dell'esecutivo denunciando «un affanno grave dei conti pubblici» a conferma
degli errori di previsione e di politica economica di questi ultimi anni. Sulla
stessa linea il presidente degli industriali. Secondo Montezemolo, «il paese è
in affanno e i dati Istat mostrano una situazione già conosciuta, per questo
dobbiamo guardare avanti».
Nel
frattempo, l'orchestra di palazzo Chigi suona una fanfara assordante, fatta di
litigi e piena di note messe a caso su uno spartito cui ormai crede solo il
direttore d'orchestra, preoccupato di raccogliere applausi dalla folla che
fugge. Sappiamo tutti come andò a finire.
13 luglio
La minaccia del Cavaliere
di CURZIO MALTESE
" Se vai avanti, ti scateno contro le mie televisioni". Nella minaccia rivolta l'altra notte dal premier al ribelle Follini c'è tutta la miseria e il senso di pericolo che accompagna l'inesorabile declino di Berlusconi. Neppure il più acceso e caricaturale anti berlusconismo avrebbe potuto figurarsi una versione più penosa e ricattatoria del Cavaliere che, messo alle strette, agita il manganello mediatico contro un alleato davanti al gran consiglio al completo di leader, ministri e faccendieri vari. È chiaro che uno così è capace di qualsiasi cosa pur di rimanere al potere. Più che da basso impero, è una scena da impero basso, infimo e un po' ridicolo.
La minaccia di Berlusconi, che nelle intenzioni sarebbe l'" arma fine di mondo" di uno Stranamore della Brianza, offende in un colpo solo una montagna di persone, cose e istituzioni, come spesso accade all'autore quando non c'è pronto un Letta o un Confalonieri per farlo sembrare civile. È un'offesa anzitutto per chi la pronuncia, nel caso in cui qualcuno credesse ancora alla favola del Berlusconi statista che da tre anni finge di voler regolare il suo conflitto d'interessi. Era un'offesa ai presenti, la trentina o quarantina di illustri convitati ai tre tavoli della trattativa, che per l'occasione si sono ridotti col silenzio al ruolo di falsi spettatori al gioco delle tre tavolette. È o sarebbe anche un'offesa alle migliaia di giornalisti e mezzibusti a libro paga del premier, i quali tuttavia sono di schiena flessibile e modesto orgoglio professionale.
In genere i padroni scatenano i cani e non i giornalisti, anche se in Italia statisticamente è più frequente il contrario e infatti i cani che mordono fanno sempre notizia. L'ultima offesa è all'intelligenza degli italiani, già parecchio vilipesa dal premier.
Perfino il popolo più teledipendente della terra potrebbe avere reazioni imprevedibili, cioè sensate, a una martellante campagna contro il povero Follini. I precedenti non mancano. Bossi e la Lega uscirono dal pestaggio televisivo delle reti berlusconiane, dopo il ribaltone del '94, con il record assoluto di voti, oltre il 10 per cento. Gruber e Santoro, fra i bersagli preferiti della muta giornalistica berlusconiana, sono stati appena eletti a furor di popolo con una milionata o quasi di preferenze personali. Perché dunque porre limiti alla provvidenza e non immaginare un Follini beneficiato dalla persecuzione televisiva, almeno quanto l'ultimo Berlusconi è stato danneggiato dal noioso servilismo dei mezzibusti?
Ma al di là degli effetti concreti che avrà, il prevedibile quanto disperato ricatto ci rivela quanto il grande Berlusconi si senta minacciato dal piccolo Follini. È la prima volta che un altro leader lo sfida su un terreno che per dieci anni era stato il suo, quello del senso comune. Nella nebbia mediatica sparsa ad arte sulle richieste dei centristi, fatti passare per cacciatori di poltrone, al cittadino medio arrivano in ogni caso un paio di messaggi destabilizzanti per la maggioranza.
Il primo messaggio è che Follini chiede cose di semplice buon senso, condivise da buona parte dell'opinione pubblica, perfino oltre l'appartenenza politica. La revisione di una devolution che non piace e non interessa a nessuno, la nomina di un vero ministro dell'Economia in tempi di vera crisi, un minimo di pluralismo in una Rai schifosamente censoria e servile.
Se si tenessero su questi tre temi altrettanti referendum, invece dei tavoli romani, le tesi di Follini vincerebbero a larghissima maggioranza. E forse, di questo passo, vincerà anche la quarta proposta. Il ritorno al proporzionale con lo sbarramento 5 per cento, al posto del pasticcio maggioritario all'italiana, con i suoi venti partitini.
È la nuova capacità dei centristi d'intercettare il senso comune a rendere possibile la sfida di Davide a Golia. Un talento che l'ultimo Berlusconi, perso in un sogno monarchico, non ha più. Prima l'aveva e sapeva combinarla in maniera mirabile con lo strapotere televisivo. Era questo il segreto del carisma di Berlusconi, che non è mai stato un carisma classico, nel senso weberiano, in certo modo da super uomo. Piuttosto il carisma del " mi consenta", ovvero quello permesso all'epoca della massificazione televisiva, che scaturisce dall'identificazione di molti in uno. L'ultimo Berlusconi non permette a nessuno d'identificarsi nel suo delirio egocentrico. Gli è rimasto soltanto lo strapotere televisivo, slegato dal senso comune, usato come puro privilegio. E' soltanto un padrone che urla " lei non sa chi sono io!". Viene voglia di rispondere: " Magari". Tutti siamo costretti da troppo tempo a sapere chi è. Ma la sua onnipresenza è ormai un'arma spuntata come l'eterna minaccia di elezioni anticipate.
Al posto di Follini chiunque non abbia sangue democristiano nelle vene si sarebbe alzato alla minaccia di Berlusconi e se ne sarebbe andato. Lui ha sgranato lo sguardo da Harry Potter sulla piazzata del capo, meravigliato ma calmo.
Avrà magari calcolato la vera convenienza. È il tipo di reazione da scuola politica che un padrone non s'aspetta, quella che lo disarma e lo inchioda al rito doroteo della verifica, giorno dopo giorno, notte dopo notte, in un gioco dove non è più prevista la figura mitica del vincente.
9 luglio
Sul
lato sinistro
IDA
DOMINIJANNI
Come
sempre quando è in difficoltà, Silvio Berlusconi sfodera ottimismo ed
efficientismo e il gioco gli pare fatto. Ma è difficile che la non-stop di
quarantott'ore e tre tavoli allestita per domenica sera possa davvero
ristrutturare la Casa delle libertà e rimettere i suoi abitanti d'amore e
d'accordo cosette da nulla come il federalismo, il fisco, il sistema elettorale.
Berlusconi ha perso a un tempo l'aura del venditore di miracoli, la rendita
dell'imperatore circondato da vassalli obbedienti, la delega dell'azionista di
poteri forti conniventi, Fazio e Montezemolo in primis. In sostanza, la bolla si
è bucata. Ma la bolla-Berlusconi non era solo un equilibrio di governo. Era un
(dis)equilibrio di sistema, l'anomalia impazzita che aveva ricombinato e
incollato i cocci dell'esplosione dei primi anni 90, obbligando il bipolarismo
forzoso all'italiana a funzionare. Il buco della bolla equivale perciò non a
una crisi di governo ma a una crisi di sistema. Follini evidentemente lo sa e
per questo non demorde. Non basta più il collante del governo, se nell'aria si
sente un cambio di stagione che può portare frutti più copiosi. La
ricostituzione del dissolto partito democristiano? Diciamolo con parole di oggi:
il trasferimento dall'anomalia impazzita a un più normale comando centrista dei
voti usurpati dal partito azzurro sul lato destro, e di quelli incastrati
nell'incerto contenitore della Margherita sul lato sinistro. Non sarà la
vecchia Dc ma un nuovo centro. Il centro, magari esile numericamente ma
imprescindibile strutturalmente e rivendicabile storicamente, del sistema. Di un
sistema non a due ma almeno a tre punte.
Fine del bipolarismo? Sarebbe azzardato sostenerlo mentre i
più giurano e spergiurano che il bipolarismo non si tocca. Le incognite sono
troppe per correre con le previsioni: crisi o no, elezioni anticipate o no,
impugnate da chi, con quali argomenti e quali regole. Si vedrà quanto peso avrà
la rivendicazione proporzionalista di Follini nella maratona della Casa delle
libertà; ma più che ai passi tecnici, conviene guardare ai dati politici. I
quali, come s'era capito nell'immediatezza del voto europeo, segnalano una crisi
doppia del bipolarismo: nel centrodestra, e nel centrosinistra.
Solo che le due crisi non sono simmetriche, ed è questo
che rende la partita più complicata e imprevedibile. Anche nell'Ulivo infatti
la posta in gioco principale si chiama centro, ma a differenza che nella Casa
delle libertà questa posta per ora non rafforza una delle sigle in campo, ma ne
indebolisce due, la Margherita e i Ds. E nulla lascia prevedere che l'unico
disegno chiaro in campo - firmato D'Alema e volto a perseverare dal listone al
partito unico sotto comando diessino, con la Margherita disintegrata, Prodi
imbrigliato e l'accordo con Bertinotti a scadenza - proceda liscio come l'olio.
Intanto perché la Margherita magari preferisce farsi
integrare da Follini piuttosto che disintegrare da D'Alema. Ma soprattutto perché
se il centro si ricostituisse autonomamente, rompendo i trattini con la destra e
con la sinistra, la logica di sistema richiederebbe non più di fare due
sinistre, una moderata che governa e l'altra radicale che non nuoce, ma una
sinistra e basta che convince. Tutto un altro gioco (e non chiamiamolo vecchio
Pci neanche per scherzo), del quale non si vedono né i presupposti né i
programmi.
Sarebbe il caso di cominciare a profilarli. Senza
aspettarseli da chi si diverte col triciclo, e senza aspettare il prevedibile
scenario congressuale Ds per recitare ciascuno la propria prevedibile parte.
Nella crisi che espone la maggioranza di governo e logora la maggioranza
dell'opposizione, c'è un silenzio assordante sul versante sinistro che non
porta nulla di buono, né idee né spostamenti, né grandi né piccoli passi.
Dal correntone a Rifondazione riguarda tutti e non ha alibi. Più del 13 per
cento dei consensi sono un lusso che nessun altro paese europeo può vantare e
che non consente a nessuno di acquattarsi nel ruolo di una minoranza senza voce
in capitolo.
8 luglio
I
figli di Berlusconi nell'inchiesta su Mediaset
Marina e Piersilvio indagati a Milano per ricettazione e
riciclaggio nell'ambito della compravendita dei diritti cinematografici
ROMA
Marina e Piersilvio Berlusconi, i figli adulti del capo
del partito azienda, sono rimasti impigliati nell'inchiesta milanese su Mediaset,
che dal 2002 tiene in apprensione il loro papà al punto che il ministro
Castelli l'estate scorsa cercò maldestramente di bloccare le rogatorie
internazionali. La notizia si è diffusa a Milano per via di una proroga delle
indagini richiesta dai pm Fabio De Pasquale e Alfredo Robledo, il che dimostra
che l'iscrizione di Marina e Piersilvio a modello 21 risale per forza di cose ad
almeno qualche mese fa. L'ipotesi di reato a loro carico sarebbe ricettazione e
riciclaggio, nell'ambito delle vicende che sono al centro dei lunghi
accertamenti che, due anni fa, portarono gli inquirenti a far perquisire le sedi
di Mediaset. Secondo i pm milanesi, tra il `90 e il `94, Mediaset ricorreva a un
complesso giro di società off shore come Century One e Universal e «gonfiava»
i prezzi d'acquisto dei diritti cinematografici acquistati all'estero, in
particolare negli Usa, conseguendo così benefici fiscali previsti, tra l'altro,
dalla legge Tremonti. Un ultimo troncone d'inchiesta, venuto alla luce di
recente, riguarda una presunta appropriazione indebita di 103 miliardi di lire
da parte di Silvio Berlusconi, denaro che sarebbe stato prelevato da Angelo Del
Bue, il presidente di Armer Bank coinvolto per frode fiscale nella stessa
indagine, e infine destinato al presidente del consiglio. Per Berlusconi le
altre accuse sono falso in bilancio e frode fiscale. Sul registro degli
indagati, a vario titolo, sono iscritti anche i nomi di Fedele Confalonieri,
presidente di Mediaset, della responsabile Fininvest per la Svizzera Claudia
Camaggi e di Giorgio Vanoni, in passato responsabile del settore estero
Fininvest.
Non è chiaro quale sia il ruolo attribuito ai figli di
Berlusconi, né a quale filone si riferisca tra i tanti che appartengono
all'inchiesta Mediaset. Marina attualmente è presidente della Mondadori, ha 38
anni ed è stata vicepresidente di Fininvest Spa: è entrata in azienda
giovanissima, siede nei consigli di amministrazione di Mediolanum, Medusa e 21
Investimenti e un anno fa ha avuto un figlio dal primo ballerino della Scala di
Milano, Maurizio Vanadia. Il fratello minore Piersilvio, classe `69, è
vicepresidente di Mediaset dopo esser passato per Publitalia, Italia 1 e per la
carica di coordinatore dei palinsesti. Per entrambi ha risposto
l'avvocato-deputato Nicolò Ghedini, che difende brillantemente il premier nei
processi di Milano come nella commissione giustizia di Montecitorio, presieduta
dal suo collega Gaetano Pecorella: la loro iscrizione nel registro degli
indagati, dice Ghedini, è «incomprensibile», anche perché il fascicolo
riguarda il periodo `90-'94 e a quell'epoca, sostiene il legale, «Piersilvio
aveva 22 anni, Marina forse 25, studiavano all'università e non avevano nemmeno
cariche societarie». Risale a quel periodo, o almeno alla sua ultima fase,
l'ingresso dei due rampollinelle società del facoltoso padre.
Ghedini comunque afferma di non aver avuto alcuna
comunicazione giudiziaria a carico dei dei due. E per il resto ricorda di non
essersi opposto alle richieste di proroga per il premier perché «siamo
assolutamente sereni» anche sulla base delle «indagini difensive» svolte, che
dimostrerebbero come «tutte le operazioni in questione si sono svolte nella più
assoluta regolarità». L'avvocato non può fare a meno di sottolineaare che la
notizia del coinvolgimento di Marina e Piersilvio Berlusconi trapela «in un
momento di così forte crisi» per il governo. «Sarà una coincidenza - dice -
L'Italia è piena di coincidenze. Ma è comunque singolare»
Al
via la riforma delle pensioni
Il governo
boccia tutti gli emendamenti. Fiducia più vicina. Domani la manovra
Berlusconi illustrerà i tagli al consiglio dei ministri. Maroni respinge tutte
le proposte di modifica della delega previdenziale. I sindacati: «Uno schiaffo»
P. A.
Pensioni forzate.
Il governo corre a grandi passi verso l'approvazione della delega previdenziale
con la fiducia. Ieri sono stati bocciati tutti gli emendamenti alla delega
previdenziale. Se sarà necessario, il provvedimento sarà varato con la
fiducia, che sarebbe la seconda dopo quella chiesta al senato. La stretta del
governo potrebbe quindi precludere all'approvazione del provvedimento entro il
mese di luglio, così come aveva più volte preannunciato il ministro del
welfare, Roberto Maroni. Nette le reazioni dei sindacati e delle opposizioni: «E'
l'ennesimo schiaffo del governo». Intanto sarà il presidente del consiglio in
persona a presentare la relazione sulla manovra economica al consiglio dei
ministri fissato per domani. Dopo la decisione sull'abbassamento del rating la
manovra correttiva, nonostante le precisazioni di questi giorni, diventa
un'operazione necessaria. Berlusconi, nelle dichiarazioni della vigilia, ha
continuato però a insistere anche sulla necessità di realizzare la riforma
fiscale. L'urgenza e l'emergenza sono legate però al disastro dei conti
pubblici. Mentre infatti le agenzie di rating hanno già dato il loro parere, la
Commissione europea, decidendo di rinviare l'early warning, ha voluto offrire
dieci giorni di tempo per mettere a punto la manovra.
Da quello che si è potuto sapere, Silvio Berlusconi illustrerà lo schema della
manovra che era stato preparato dal ministro dimissionato Giulio Tremonti. La
base preparata dall'ex ministro dell'economia è stata integrata con nuovi
provvedimenti che permettano allo Stato di recuperare risorse. Su questi punti
si è già acceso lo scontro perché le misure coinvolgerebbero vari settori
della società. Sul piede di guerra ci sono per esempio le compagnie di
assicurazione e gli istituti di credito per la ventilata proposta di appesantire
il prelievo fiscale in questo settore.
Dopo la dura presa di posizione degli assicuratori dell'Ania, oggi toccherà
all'Abi, l'associazione nazionale delle banche, prendere posizioni. Ieri ci sono
stati già segnali molto negativi dal mondo del credito. Prese di posizione
molto critiche anche dal mondo delle Fondazioni bancarie. Ieri Giuseppe Guzzetti,
presidente dell'Acri, l'associazione del settore, ha detto che la manovra - se
dovesse essere confermata - costerebbe circa 200 milioni di euro alle
fondazioni.
Berlusconi e il suo governo sono però alla disperata ricerca di soldi e di un
nuovo ministro dell'economia . Domani verranno confermate le linee e le cifre
della manovra. Il grosso dei tagli si concrentra nella riduzione dei
finanziamenti alle imprese (in particolare alle leggi che regolano i flussi
finanziari per il sud) e nei ministeri. Il governo sta cercando di rastrellare
soldi anche dai finanziamenti non spesi. Solo per il ritardo dei bandi della
legge 488 si è potuto recuperare circa un miliardo. La principale legge per il
finanziamento industriale nel Sud sarà ora completamente rivista. In cambio dei
sacrifici richiesti, gli industriali chiedono che si proceda da subito alla
riduzione dell'Irap, la tassa sulle attività produttive.
Secondo il segretario generale della Cgil, Epifani, siamo di fronte a una
manovra che arriva tardi e che tende a colpire una crescita del volume delle
possibilità degli investimenti operando, «come è ovvio quando arrivi tardi,
con un'emergenza alla quale fra fronte».
La mappa dei settori in cui
Berlusconi ha interessi
e che sono influenzati dal ministero dell'Economia
Calcio,
cinema, tasse, pensioni
gli altri "conflitti" dell'interim
L'eventuale riforma fiscale beneficierà anche il premier
A lui saranno comunicati i piani della tv di Stato sua "rivale"
di MARCO TRAVAGLIO
![]() |
Antitrust. Controllando anche
formalmente Mediaset e Rai, Berlusconi cumula sulla sua persona il 90% del
mercato televisivo e il 97 di quello pubblicitario delle tv: troppo persino
per il generosissimo "tetto" del 20% del Sic (il sistema integrato
delle comunicazioni della Gasparri). Il che potrebbe attivare le due Authority
competenti: Antitrust e Telecomunicazioni. "Finora - osserva Zaccaria -
si poteva discutere di controllo "formale" su Mediaset e
"sostanziale" su Rai. Ora siamo alla doppia titolarità anche
formale. E potrebbe scattare l'articolo 15 della Gasparri che vieta, anche con
"controlli e collegamenti", di conseguire ricavi superiori al 20%
del Sic". Altra possibile posizione dominante: quella sui diritti
sportivi. Alla prossima asta davanti al Cio per le Olimpiadi 2008, si
presenteranno per l'Italia due concorrenti controllati dalla stessa persona:
Rai e Mediaset.
Cinema. L'impero berlusconiano comprende Medusa, società di produzione
e distribuzione monopolista sul cinema italiano. E il Tesoro è l'unico
azionista di Cinecittà Holding, l'ente pubblico del cinema.
Pubblicità. Nonostante la crisi del mercato mondiale, la società
pubblicitaria Mediaset, Publitalia, ha guadagnato anche nel 2003: il 6.5% in
più del 2002. Visto l'enorme afflusso di capitali freschi che porta al
Biscione, Publitalia è fra le aziende più interessate alla politica fiscale
del governo, se davvero il neoministro Berlusconi manterrà l'impegno di
"meno tasse per tutti". Senza contare che il Tesoro allarga e chiude
i cordoni della borsa per le "pubblicità istituzionali" che
ministeri ed enti effettuano sulle reti Rai e Mediaset.
Meno tasse. Berlusconi giurò che le sue aziende non avrebbero
utilizzato il condono Tremonti. Poi Mediaset lo utilizzò, risparmiando 162
milioni di euro per un'evasione accertata sull'acquisto di diritti
cinematografici. Ora anche gli eventuali condoni li firmerà direttamente
Berlusconi. E così avverrà per altri sgravi alle imprese: la Tremonti-1 del
'94 fruttò a Mediaset un risparmio di 242 miliardi di lire sulle imposte
dovute per l'acquisto di vecchi film.
Calcio e debiti. Il decreto salva-calcio, varato dal Tesoro, consente
alle società pallonare di spalmare i loro debiti sui bilanci di dieci anni.
Anche il Milan ne ha subito approfittato, con un notevole guadagno. La norma
fece storcere il naso proprio al commissario europeo Mario Monti. Ora quella
patata bollente la gestirà Berlusconi, presidente del Milan.
Assicurazioni. Con Ennio Doris, Berlusconi controlla una
banca-assicurazione, Mediolanum. Come banca è soggetta ai controlli del
Tesoro e molto interessata alla politica creditizia del nuovo ministro. Come
assicurazione, è soggetta ai controlli del Tesoro e molto interessata alle
pensioni integrative legate alla riforma previdenziale. Controllore e
controllato, ancora una volta, sono la stessa persona.
Borse e mercati. Anche qui - osserva l'economista Salvatore Bragantini,
ex membro della Consob - "si crea un impressionante groviglio di
interessi. Il ministro dell'Economia ha poteri diretti d'intervento superiori
a quelli del premier: nell'allocazione dei fondi a questo o quel settore
produttivo; o nella sorveglianza dei mercati regolamentati, insieme alla
Consob". Infine da un lato Berlusconi eredita da Tremonti la delega a
tagliare, discrezionalmente, spese pubbliche per 2 miliardi di euro, anche in
settori "sensibili" come l'editoria e lo spettacolo. Dall'altro è
superazionista di società quotate come Mediaset, Mediolanum e Mondadori. E,
contemporaneamente, diventa il proponente del ddl sul risparmio per un nuovo
sistema di controlli sulle borse dove sono quotati i suoi titoli. Altro che
Toro - Milan 2 a 2. Questo, al confronto, è il campionato del mondo.