Archivio Febbraio 2004
Bugiardi
ROSSANA
ROSSANDA
Ammirevole la tranquillità
con la quale Bush ammette che poteva essere non vero quel che egli stesso, Colin
Powell e Condoleeza Rice hanno giurato fino a ieri sulla presenza di armi di
sterminio in Iraq. E' in base a questa modesta inesattezza che hanno bombardato
e invaso l'Iraq, dichiarato praticamente estinte le Nazioni Unite, vituperato la
vecchia Europa che non aveva voluto seguirli. Ancora più corrusca la faccia di
bronzo di Tony Blair, che si era opposto a ogni commissione parlamentare
d'inchiesta e, appena Bush fa la sua, di colpo vi acconsente. Nessuno dei due è
sfiorato dall'idea che l'aver mandato in guerra il proprio paese, con relativi
morti ammazzati, sulla base di una tesi che risulta inattendibile esigerebbe di
dimettersi sul colpo. Scaricano la responsabilità sui servizi di sicurezza che
avrebbero dato informazioni sbagliate, ed è certo che quello americano e quello
inglese se la rimpalleranno. Un responsabile statunitense David Kay s'era del
resto già dimesso. Ma chi crederà che i due leader sono stati imbrogliati dai
servizi, e il dubbio gli viene soltanto ora? Perché non gli era venuto quando i
due ispettori dell'Onu, Blix e El Baradey avevano assicurato che di armi di
sterminio in Iraq non ce n'erano e avevano chiesto di fermare l'assalto?
La verità è che gli Stati Uniti lo preparavano da due
anni, e Blair ne ha seguito le scelte e i tempi. L'attacco alle due torri è
stato il sanguinoso pretesto che ci voleva. Ma il fine era altro, politico ed
economico: politico, metter le mani nel Medioriente, porta strategica sull'Asia
e terreno di troppo incerte alleanze; economico, metter le mani sulla più
grande riserva mondiale di petrolio. Si aggiunga che una guerra distrugge e le
commesse per la ricostruzione rappresentano un bel bottino.
Bush nominerà una commissione bipartisan per proteggersi
dall'accusa di manipolazione dei democratici: gli va bene comunque, perché essa
renderà noti i risultati non prima delle elezioni presidenziali di novembre. E
per allora, come sospetta perfino Madeleine Albright, chissà che Bush non
sventoli qualche Osama Bin Laden, come già l'irsuto Saddam davanti al suo
popolo fedele.
Più in difficoltà Tony Blair. E' appena uscito da
un'inchiesta che lo ha discolpato non dall'aver mentito sulle armi in Iraq, né
di aver contribuito con l'interrogatorio muscoloso della sua commissione esteri
a indurre il professor Kelly al suicidio, bensì dal «aver reso più sexy la
notizia» sul pericolo costituito dalle famose armi. Il giudice Hutton ci ha
assicurato che Blair non rende più attraenti le sue bugie, le serve nude e
crude. Ma gli inglesi non lo dimenticheranno. E chissà se potranno far finta di
niente i nostri colleghi un po' sicofanti che sono sguazzati felici
nell'umiliazione della Bbc, fastidiosissimo esempio di informazione non servile.
Il movimento per la pace risulta il solo umanamente alto e
perdipiù il solo politicamente attendibile. Diceva che ogni guerra è ingiusta,
ma questa in particolare era basata su un pretesto? Oggi si sa che è stato
proprio così. Che avrebbe aumentato il nazionalismo fondamentalista? Infatti lo
ha aumentato. Che non avrebbe colpito il terrorismo, anzi? E' così. Che avrebbe
inquinato diritti e garanzie in occidente? E' già successo negli Usa e il
britannico Blumkett lo annuncia in Gran Bretagna. E in Italia? Già si parla di
eque condanne per «schiacciante probabilità», concetto che minaccia di avere
un bel futuro nel codice penale.
3 febbraio
Avanti
tutta contro le toghe
Riforma alla camera, la
separazione tra giudici e pm sarà rafforzata
A. MAN.
La legge del ministro Castelli non basta più. La verifica di governo rimane
aperta sulla politica economica ma sulla giustizia le destre hanno deciso.
Andranno avanti come rulli compressori, vogliono la separazione netta tra
giudici e pm, se non altro la più netta possibile con legge ordinaria. E per
questo presenteranno fin da oggi emendamenti alla proposta di riforma
dell'ordinamento giudiziario, in discussione in commissione giustizia alla
camera dopo il primo «sì» del senato (che quindi dovrà ridiscuterla). Ma non
solo. A quanto dice il documento di fine verifica sottoscritto dai partiti di
maggioranza, anticipato ieri dal Corriere
senza smentite, la Casa delle libertà mantiene anche una serie di obiettivi che
sono raggiungibili solo con i tempi più lunghi delle riforme costituzionali: lo
«sdoppiamento» dell'attuale Csm in due organismi che rappresentino,
separatamente, i magistrati inquirenti e giudicanti; il ripristino dell'immunità
parlamentare nella forma «estesa» abolita durante Mani Pulite; la
reintroduzione di uno «scudo» giudiziario per il premier privo dei vizi che
hanno portato la Corte costituzionale a bocciare il famigerato «lodo Schifani».
Insomma Berlusconi vuole tutto. La conferma dal fido Giuseppe Gargani. «Non c'è
nessuna novità», ha spiegato ieri il responsabile giustizia di Forza Italia,
rappresentante del partito-azienda al tavolo dei quattro saggi che discussero
per mesi di giustizia (gli altri erano La Russa per An, il sottosegretario
Vietti dell'Udc e il ministro leghista Castelli). «Quelle della separazione
delle carriere e del doppio Csm sono proposte che illustrammo in una conferenza
stampa nel gennaio 2002», ha ricordato Gargani a chi gli chiedeva conto del
testo pubblicato dal Corriere.
Ulteriori conferme arrivano dagli altri partiti della maggioranza, sia pure con
i loro distinguo e una tendenza generale a contenere gli emendamenti per evitare
un iter troppo lungo tra la camera e il nuovo passaggio al senato, che tutti
danno per scontato. La Lega vorrebbe fin da subito anche la separazione delle
carriere e i due Csm con legge costitizionale, perfino Alleanza nazionale si è
convinta di questa soluzione, mentre all'Udc la riforma basta e avanza così
com'è stata approvata dal senato. Che comunque non è poca cosa.
La legge Castelli, nella versione attuale, prevede un'ampia delega al governo
per istituire una sorta di super-Cassazione dotata di un «Consiglio direttivo»
e una Scuola superiore della magistratura (che i giudici vorrebbero presso il
Csm e il governo presso la Cassazione); per «riorganizzare l'ufficio del
pubblico ministero» con prevalenza dei criterio gerarchico e per riformare gli
illeciti disciplinari e le relative sanzioni. La progressione in carriera dei
magistrati avverrebbe d'ora in poi solo attraverso concorsi per titoli ed esami:
è la novità principale, in realtà un ritorno al passato, e di fatto può
nascondere l'introduzione di forme di controllo sulla magistratura. Infine, Pm e
giudici sarebbero collocati su due binari diversi fin dall'accesso alla
professione: concorso unico ma con prove distinte e commissioni distinte;
possibilità di passaggio dall'una all'altra funzione solo dopo cinque anni,
comunque cambiando distretto, e solo dopo aver frequentato la Scuola e aver
superato il relativo concorso.
Si può definire distinzione «hard» delle funzioni o separazione «soft»
delle carriere. In ogni caso è quasi il massimo che si può fare con legge
ordinaria, anche se non basta ai più decisi sostenitori della divisione tra
giudici e pm - che sono gli avvocati penalisti ben rappresentati nella
maggioranza. Al contrario, gran parte della magistratura associata è
dichiaratamente contraria a questa formulazione: l'Anm che riunisce il suo
congresso alla fine della settimana sta minaccia anzi un nuovo sciopero delle
toghe. E anche il Consiglio superiore, che pure si era pronunciato su una prima
versione più morbida della proposta di legge, ha già dato parere negativo (ad
eccezione dei consiglieri laici eletti dalla Casa delle libertà), «salvando»
solo il principio della temporaneità degli incarichi direttivi. Ora le teste
d'uovo delle destre proveranno a fare di meglio con gli emendamenti, sotto la
guida di un magistrato targato Forza Italia come Francesco Nitto Palma, nominato
relatore in commissione giustizia anche se fa parte della commissione affari
costituzionali.
DROGHE
An contro Toscana
e Fuoriluogo
«Il comune di Firenze e la regione
Toscana fanno propaganda all'uso di sostanze stupefacenti». Questa
l'incredibile accusa del consigliere regionale di An Achille Totaro e di Azione
giovani, che hanno messo all'indice i siti delle due istituzioni, che
inciterebbero all'uso dell'ecstasy e della marijuana, in quanto vengono spiegati
gli effetti del primo e segnalate le «feste del raccolto» della seconda.
Peccato che le accuse si riferiscano a un link al sito di Fuoriluogo, inserto
mensile sulle droghe del manifesto.
10 febbraio
«Picconano
la sanità» Cozza, Cgil: il governo sta abbattendo il servizio nazionale ANTONIO SCIOTTO «Lo sciopero è andato bene, oltre ogni aspettativa, perché il personale è esasperato: picconata dopo picconata, il governo sta abbattendo il servizio sanitario nazionale». Commenta così la straordinaria protesta dei medici il segretario nazionale della Fp Cgil Massimo Cozza: per la prima volta in Italia hanno partecipato tutte le 42 sigle del settore, da destra a sinistra, con adesioni che hanno superato il 90%. Non una semplice agitazione sindacale, ma una battaglia civile fatta propria da 150 mila medici, tecnici, veterinari, specializzandi, dirigenti: no ai tagli alla sanità; no alla devolution, che sostituisce l'egoismo all'unità nazionale; nuove risorse per rinnovare i contratti, in ritardo già da due anni. Partiamo dal primo punto, dai tagli in finanziaria. Il buco che si è creato a causa delle risorse negate dal ministro Tremonti è già di 13 miliardi di euro. Nell'agosto del 2001 il governo e le Regioni avevano concordato la copertura dei servizi essenziali, ma ad ogni finanziaria i soldi stanziati sono stati sempre insufficienti: il documento redatto a fine 2002 era sotto di 7 miliardi, mentre l'ultimo, quello appena approvato, aggiunge altri 6 miliardi di mancate coperture. E così abbiamo fatto 13. Voi siete anche contrari alla devolution. Sì, perché introdurrebbe 21 sanità regionali diverse, con il rischio maggiore per i sistemi del sud e delle isole. Un sistema universale di garanzie si basa necessariamente sulle perequazioni tra le diverse realtà, in modo che tutti i cittadini siano coperti. Basta pensare che in Basilicata la Regione riesce a coprire soltanto il 7% delle spese, mentre il 93% proviene dai fondi nazionali; in Lombardia, il 70% è coperto dalle risorse regionali. I redditi pro-capite sono diversi, ma le esigenze essenziali sono uguali. Se poi le regioni più ricche vogliono avere più servizi, ben vengano, ma l'assistenza di base deve essere assicurata a tutti. Da tutti questi problemi nasce la vostra esasperazione. I nostri sono problemi reali, che si vivono giorno per giorno nelle corsie. Mancano i farmaci e le strumentazioni, gli ospedali sono fatiscenti, l'igiene è insufficiente: è un vero e proprio stillicidio quotidiano. I medici e gli altri operatori, in questo contesto, non sono altro che delle pedine, dato che tutte le decisioni importanti vengono prese dagli assessori regionali alla sanità e dal loro braccio esecutivo, i direttori generali delle aziende sanitarie locali. La nostra salute in mano ai manager. Purtroppo, con l'aziendalizzazione estrema a cui si è giunti oggi, il fine unico dei dirigenti Asl è quello di economizzare, senza guardare alle reali esigenze dei pazienti. Noi riteniamo invece che a gestire le unità locali dovrebbero concorrere anche i medici, tutti gli altri operatori, e gli stessi cittadini. Solo così le professionalità non verranno mortificate. Ci sono infine tutti i problemi legati al contratto non ancora rinnovato, al personale precario. Sì, è bene ribadire che lo sciopero ha avuto soprattutto una valenza generale, di difesa della sanità come diritto garantito a tutti dalla Costituzione, però certamente un punto forte riguarda anche le condizioni del lavoro. Il governo non ha stanziato i soldi per i recuperi dell'inflazione del 2002-2003, né per il biennio successivo. Inoltre ci opponiamo ad alcune riforme volute dalle regioni: diciamo no all'orario illimitato e alla soppressione delle ore di aggiornamento. Vogliamo che venga conservato il comitato dei garanti, un organo speciale che tutela dai licenziamenti indiscriminati. Per finire, c'è la questione dei tanti precari nel settore medico, assunti per anni a tempo determinato. E dei 25 mila specializzandi che hanno scioperato con noi, unici in Europa senza un contratto. Chiediamo garanzie anche per i nuovi lavoratori. |
LA
DEVOLUTION La sanità egoista del governo: ogni regione pensa per sé No alla devolution, un altro punto fermo dello sciopero dei medici. «Ciascuno si curi come e se può»: sembra essere questo lo slogan che sintetizza la nuova sanità egoista voluta dal governo Berlusconi. Spinto dai leghisti e da Tremonti, l'esecutivo punta a realizzare la cosiddetta «devolution sanitaria»: ogni regione si cura secondo il proprio budget, senza poter chiedere fondi allo Stato e dunque alla cassa comune alimentata da tutte le altre regioni. Un sistema che affosserebbe definitivamente i già precari sistemi sanitari del sud e delle isole, dove il reddito pro-capite dei cittadini è molto più basso e i servizi si reggono principalmente sui trasferimenti statali. I medici e il personale sanitario, scioperando ieri, hanno voluto difendere un servizio universale uguale per tutti i cittadini: il diritto alla salute è garantito dalla Costituzione e a tutti devono essere assicurati i cosiddetti «livelli essenziali». LAVORO
POLITICO |
12 febbraio
Berlusconi:
siamo più ricchi
«Basta parlare di
crisi, il ceto medio consuma più di prima». Il premier a ruota libera in tv.
«Casalinghe, imparate da mia madre». Ricerca: le famiglie spendono il 2,8% in
meno
Casalinghe, imparate
dalla madre del presidente del consiglio. «La mamma percorreva tutto il lato
destro delle bancarelle, poi il lato sinistro informandosi sulle offerte che le
apparivano migliori per qualità e prezzi. Questo s'ha da fare». La lezione
arriva dalla confortevole tribuna televisiva di Porta a Porta. Non c'è
inflazione che tenga, la colpa resta delle «massaie». Senza contraddittorio il
presidente del consiglio dà lezioni di economia. E conclude: «C'è stato un
arricchimento generale del paese». La crisi? Bugie della sinistra che usa «il
metodo stalinista della calunnia e della menzogna quotidiana su tutto». «Menzogne»
anche i dati dell'Eurispes. Per Berlusconi «Il ceto medio consuma come prima,
l'incremento degli stipendi e dei consumi è stato superiore all'inflazione».
Naturalmente il premier ne ha anche per i sindacati: «Ci sono stai molti
scioperi che hanno ragioni politiche e non attinenti al motivo di lavoro. La
situazione è stata fatta esplodere da sindacati come la Cgil».
Berlusconi ha poi ridotto a uno scambio di opinioni la tesissima verifica di
maggioranza - «è andata avanti con cordialità e amicizia... purtroppo sui
giornali è stata dipinta come una lite» - e ha concluso attaccando i
magistrati «Lo sciopero è una cosa grave, ai limiti dell'eversione. Ma questo
governo non si farà intimidire, andremo avanti con la riforma».
Poche ore prima dello show a Porta a Porta, con un po' meno spettatori ma molti
più dati i ricercatori dell'Icu - Istituto consumatori e utenti - avevano reso
noti i risultati di un'analisi sull'impatto dell'inflazione sui redditi negli
ultimi tre anni. La perdita di potere d'acquisto per i redditi sotto i 10.000
euro (annui) è stimata nell'ordine del 14%. Non solo: l'aumento dei prezzi è
stato più sensibile per le spese che incidono di più sui panieri dei ceti «bassi»
e sui beni che si acquistano di frequente. Nel solo 2002 - dice la ricerca
citando gli ultimi dati dell'Istat - la spesa media reale per famiglia è
diminuita del 2,8%. Ma forse queste famiglie vivono in un'altra Italia, non
quella che - come ha detto Berlusconi - «è sempre più ricca».
Viaggio nelle realtà italiane del Gruppo |
Un'azienda che deve continuare a produrre |
di Mayda Guerzoni |
Un vero piano
industriale e non solo un piano di salvataggio per il gruppo Parmalat:
è di questo che vogliono discutere con il commissario straordinario
Bondi i sindacati di categoria nazionali e delle realtà produttive
interessate, dall’Emilia Romagna alla Sicilia, dalla Lombardia alla
Basilicata e ancora Piemonte, Friuli, Veneto, Campania, Lazio, Liguria,
Basilicata. In tutto Ma limitiamoci agli
aspetti industriali e del lavoro, mentre sul fronte giudiziario la
magistratura ha il suo bel da fare e Fai, Flai, Uila annunciano la
costituzione parte civile nel processo. “La nostra forza–
continua Mattioli – è sapere che l’azienda è sana, in un sistema
industriale vivo e solido, capace di autofinanziarsi. Su questa base è
realistico porsi l’obiettivo di garantire la continuità del sistema
produttivo, il consolidamento del core business e
dell’occupazione, unica risorsa da cui partire per dare risposta in
positivo all’intera filiera, dagli allevatori alla distribuzione,
comprese le aziende dell’indotto e dei servizi”. Questo significa
scommettere su un rapporto positivo con il territorio, tanto più se si
chiama Parma, distretto di eccellenza dell’agroalimentare e sede della
neonata Authority alimentare e tanto più dopo lo scotto dell’affare
Cirio. La Regione Emilia-Romagna conforta e sostiene le posizioni
sindacali, come ribadito nell’ultima seduta del Consiglio Regionale e
negli incontri con il presidente Errani. A sua volta il presidente di
Confindustria regionale Massimo Bucci si è differenziato palesemente
dai presidenti nazionale e parmense, rimarcando gli aspetti etici e il
clima di sfiducia che derivano dalla vicenda, sollecitando gli
imprenditori all’autocritica. Lo confermano i timori
per lo stabilimento di Atella di Potenza, che secondo il segretario
generale della Flai territoriale Antonio Di Bari è uno dei primi che
rischia di essere tagliato fuori. “I prodotti da forno perdono terreno
da tempo sul mercato e lo stabilimento è in pericolo, anche se è nuovo
e solido, con tecnologie avanzate e dipendenti giovani. E se perdi il
posto di lavoro in Basilicata non hai molte altre occasioni”. Risalendo al Nord,
anche lo stabilimento di Lurate (sempre prodotti da forno) corre rischi
analoghi. “Ma siamo in tensione anche per Eurolat di Lodi – denuncia
Giovanni Sartini, segretario generale della Flai Lombardia – già
depotenziato da Parmalat che l’ha acquisito nel 2001 cedendo però a
Newlat marchi importanti per aggirare l’antitrust. Siamo nettamente
contrari all’abbandono della fabbrica: quei cinquanta lavoratori in
mobilità devono rientrare, l’azienda deve essere salvata e
rilanciata”. Lo Balbo segnala che
oltre ai tre stabilimenti di Catania, Ragusa e Termini Imerese, targati
Parmalat, anche la Cosal-ex Ciappazzi (acque minerali, 47 dipendenti )
deve rientrare nel conto delle aziende siciliane del gruppo e nel piano
industriale di Bondi. Paradossale la vicenda di questa società, che fa
capo alla famiglia Tanzi ed è salita agli onori delle cronache quando
lo stesso Tanzi ha dichiarato di averla acquisita da Ciarrapico per fare
un piacere a Geronzi. Peccato però che sia mancata la concessione
necessaria per produrre acque minerali, cosa che ha impedito di
riprendere l’attività. Così da un anno i dipendenti vanno in una
fabbrica ferma e sono in lotta per avere il lavoro. In dicembre è
arrivata la concessione ma pare che il destino di Cosal sia la vendita,
mentre il sindacato sollecita innanzitutto la ripresa della produzione. Per concludere, il
commento di Giancarlo Battistelli della segreteria nazionale Flai. “La
Parmalat non è solo una montagna di debiti, non ci sono solo
imbroglioni, ci sono soprattutto migliaia di lavoratori, di tecnici, che
hanno costruito con il loro lavoro realtà produttive di qualità:
questa è oggi l’unica certezza, il punto vero da cui partire, senza
retorica, anche se è difficile immaginare il futuro possibile. È
indispensabile definire una politica industriale che favorisca e
sostenga correttamente la crescita di imprese nazionali a dimensione
mondiale, perché limitarsi alle nicchie produttive non offre
prospettive alla capacità di competizione. Prima di parlare di
spezzatino, per Parmalat bisogna parlare di questo”.
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13 febbraio
DISPREZZO DEI DIRITTI UMANI
Nel buco nero di
Guantanamo
Prevedibile, la cattura di Saddam
Hussein non risolve il rebus iracheno. Finalmente liberi dall'ex
dittatore, gli iracheni continuano a mostrarsi avversi, in maggioranza,
all'occupazione straniera. Ogni giorno si rinnovano le ostilità nei
confronti dell'esercito americano. La prospettiva di un trasferimento di
sovranità alle autorità locali riaccende la sfida tra comunità (sciita,
sunnita, kurda). Si percepisce la minaccia di una sorta di «libanizzazione».
La pace non è a portata di mano. Proprio come in Afghanistan, dove sono
tornati i talebani. La gestione fallimentare del dopo guerra rende ancora
più assurda la sorte di coloro che sono stati catturati durante la guerra
contro i talebani nel 2001, e poi parcheggiati nel bagno penale di
Guantanamo, nell'isola di Cuba. In spregio ai diritti umani e alle stesse
leggi degli Stati uniti.
Augusta Conchiglia
Da quasi due anni, circa 660 «nemici
combattenti» catturati in Afghanistan, in Pakistan o consegnati
da paesi terzi, sono detenuti in regime di isolamento nella base americana
di Guantanamo (Cuba), a dispetto di tutte le leggi internazionali. La
detenzione si basa esclusivamente su alcuni decreti emanati dal presidente
degli Stati uniti, in nome dello «stato di guerra contro il terrorismo».
Fino a oggi, nessuna imputazione è stata formulata ufficialmente contro i
detenuti, e le commissioni militari ad hoc, annunciate nel 2001, non sono
state ancora costituite.
Malgrado una permanenza di vari giorni nella base di Guantanamo, non siamo
riusciti ad entrare in contatto con nessuno dei prigionieri.
Li sorvegliano gli uomini del generale Geoffrey Miller, comandante del
campo e capo della Joint Task Force (Jtf), che prende ordini direttamente
dal Pentagono. I giornalisti che visitano le installazioni sono tenuti
lontani dai blocchi di massima sicurezza e possono intravedere soltanto i
prigionieri del Campo 4, dove vivono coloro che si mostrano «cooperativi».
È vietato loro parlare con i giornalisti o rispondere alle domande.
La base di Guantanamo era avviata verso un netto declino quando, alla fine
del 2001 e con la guerra in Afghanistan, ha ripreso ad ampliarsi. La sua
popolazione militare e civile è triplicata e ormai supera le 6.000
persone. Le unità della Jtf e la prigione si sono insediate in una zona
incolta. Le carte della base non riportano in alcun modo l'esistenza del
centro di detenzione, né dei numerosi edifici di servizi che lo
circondano.
In prossimità della zona di massima sicurezza, delle barriere arancione
costringono l'auto del visitatore ad avanzare a zigzag, facilitando il
compito delle sentinelle che verificano ogni veicolo. Da quando il
cappellano mussulmano del campo e due traduttori sono stati arrestati con
l'accusa - dimostratasi falsa - di spionaggio , le misure di sicurezza
sono raddoppiate.
Il campo Delta, suddiviso in quattro quartieri, può accogliere 1.000
persone; al nostro arrivo contava 660 detenuti di 42 nazionalità diverse.
È circondato da vari reticolati metallici, ricoperti di nylon verde, su
cui corre del filo spinato collegato all'alta tensione.
I prigionieri, le cui celle restano illuminate tutta la notte, sono
sottoposti alla sorveglianza permanente delle guardie che fanno la ronda o
controllano dalle torrette.
Le condizioni di detenzione sono tali che il campo ha registrato 32
tentativi di suicidio (da parte di 21 detenuti). Secondo il capitano John
Edmondson, il chirurgo che dirige l'ospedale, 110 detenuti - uno su sei -
sono in cura per turbe psicologiche, in genere comparse a seguito di
depressioni. Venticinque di questi detenuti ricevono trattamenti
psichiatrici. Al momento della nostra visita, era ricoverato e alimentato
per via endovenosa un detenuto che da un anno attua in modo intermittente
lo sciopero della fame.
In almeno tre dei quattro campi le condizioni di detenzione sono
terribili. I blocchi sono costituiti da quarantotto celle, poste su due
file da ventiquattro, ciascuna con una superficie di appena due metri per
due e mezzo. Le pareti e le porte, in rete metallica, impediscono
qualsiasi intimità. La routine è rotta soltanto da una passeggiata
solitaria di venti minuti in una grande gabbia posta sul cemento, con
l'aggiunta, tre volte a settimana, di una doccia di cinque minuti - e, ad
ogni trasferimento, la bardatura regolamentare: manette e fermi ai piedi
collegati da catene.
Nel campo 4, il gruppo che riusciamo a intravedere sembra composto da
coetanei, sotto la trentina; uomini dalle barbe folte e col fez in testa.
I 129 detenuti vivono in piccoli gruppi, le loro celle, meno strette,
contengono fino a dieci letti. Mangiano insieme e possono uscire diverse
volte al giorno negli spazi adiacenti il carcere, dove sono incollati
alcuni manifesti sull'opera di ricostruzione in Afghanistan.
La giustizia secondo Wolfowitz Al contrario dei prigionieri degli altri
tre campi, che portano una divisa arancione, quelli del campo 4 sono
vestiti di bianco, «il colore della purezza nell'islam», spiega con
fierezza una delle guardie.
Ci fa notare che questi prigionieri hanno ricevuto dei tappeti veri per la
preghiera, oltre al corano, distribuito a tutti i detenuti dopo uno
sciopero della fame che aveva segnato le prime settimane del loro arrivo .
È evidente che il Pentagono permette le visite della stampa nel desiderio
di migliorare l'immagine estremamente negativa dei primi mesi. Ci mostrano
quindi il «Campo Iguana», una casetta situata su una scogliera a picco
sul mare, circondata da una rete metallica di sicurezza.
È lì che sono rinchiusi da più di un anno tre «nemici combattenti»
minorenni, di età compresa tra i 13 e i 15 anni. Ci viene detto che
seguono corsi d'inglese, giocano un po' a calcio e hanno diritto a qualche
videocassetta. Tuttavia è impossibile vederli e non possiamo conoscere
neppure la loro nazionalità.
Il programma prevede anche una deviazione attraverso il «Campo X Ray».
All'inizio, i prigionieri transitavano per questo campo e il mondo intero
ha potuto vedere le insopportabili immagini di deportati costretti in
ginocchio, nelle loro divise arancione, immobili sotto la minaccia delle
armi dei loro carcerieri, incatenati e tenuti in un totale isolamento,
incappucciati e con i paraorecchie.
Costruito in origine per rinchiudere i boat people haitiani più
turbolenti, oppure quelli colpiti da aids, X Ray, ormai invaso da una
folta vegetazione, è stato definitivamente abbandonato. La stessa cosa
succederà al Campo Delta. È infatti in costruzione un Campo 5, la cui
prima fase terminerà nel luglio 2004. Carcere duro, costruito per circa
un centinaio di prigionieri, riservato ai detenuti che saranno
definitivamente condannati dalle commissioni militari, questo campo
ospiterà anche una camera della morte per le esecuzioni capitali...
Il 13 novembre 2001, giorno in cui l'Alleanza del nord ha assunto il
controllo di Kabul, è anche il giorno in cui è stato pubblicato l'ordine
presidenziale che ha permesso la creazione del centro di detenzione di
Guantanamo. Bisognava ricorrere a un trucco per sistemare coloro che il
presidente americano avrebbe definito «nemici combattenti», inaugurando
un concetto nuovo, estraneo al diritto americano e internazionale .
«L'amministrazione Bush rifiuta di considerare i "nemici
combattenti" come prigionieri di guerra, mentre nega loro il diritto
di essere deferiti davanti a un tribunale competente per determinare il
loro status giuridico, come invece è previsto dalla terza Convenzione di
Ginevra, ratificata dagli Stati uniti - afferma Wendy Patten, direttrice
della sezione giustizia di Human Rights Watch . Le commissioni militari,
che non prevedono la possibilità di appellarsi ad una corte indipendente,
non garantiscono un equo processo.» L'amministrazione, dal canto suo,
sostiene che la scelta delle commissioni militari serve ad impedire che
siano divulgate informazioni riservate.
Assolutamente contrario a questa posizione è Eugène Fidell, ex avvocato
militare e presidente dell'Istituto nazionale di giustizia militare: «C'erano
almeno due opzioni: le corti penali, che in passato hanno giudicato casi
di terrorismo, come quello contro il World Trade Center nel 1993, e le
corti marziali, come quella che ha giudicato il presidente di Panama,
Manuel Noriega .
Un solo uomo sarà al centro delle commissioni militari: il vice ministro
della difesa Paul Wolfowitz. Sarà lui a scegliere giudici e procuratore e
a decidere i capi d'accusa. Ancora spetterà a lui il compito di nominare
i tre membri della commissione cui potranno appellarsi i condannati. E
infine sarà sempre lui ad esaminare le loro conclusioni e a decidere.
«I militari funzioneranno da inquisitori, procuratori, consiglieri della
difesa, giudici e, nel caso venissero pronunciate pene di morte, anche da
boia», «risponderanno solo al presidente Bush», ha dichiarato il
magistrato britannico Lord Johan Steyn, nel corso di una vigorosa
requisitoria contro quello che ha definito: «il buco nero giuridico di
Guantanamo .
La situazione è però mutata improvvisamente venti mesi dopo la creazione
del bagno penale di Guantanamo, quando ancora l'amministrazione americana
rifiutava di prendere in considerazione gli appelli di avvocati e governi
occidentali - tra cui quello francese - con propri cittadini residenti
all'estero tra i prigionieri.
C'è stata, prima di tutto, l'inattesa decisione della Corte suprema di
esaminare i ricorsi presentati dalle famiglie di sedici detenuti (dodici
kuwaitiani, due britannici e due australiani). Il 10 novembre 2003, la più
alta istanza giurisdizionale degli Stati uniti ha infatti accettato di
valutare se la giustizia americana sia o meno competente «sulla legalità
della detenzione di stranieri, catturati all'estero in connessione con le
ostilità, che sono detenuti nella base navale di Guantanamo». Eppure,
pochi giorni prima, David Cole, professore di diritto a Georgetown
(Washington) e autore di molte opere sulle derive autoritarie del dopo 11
settembre , ci aveva confidato il suo scetticismo: «Soltanto il 2% dei
ricorsi presentati alla Corte suprema sono accolti, e in genere questa
esamina solo i casi in cui i pareri delle corti di grado inferiore, che si
sono pronunciate sulla questione, divergono». Fino a quel momento, però,
le due corti di grado inferiore avevano sostenuto la posizione del
governo. In seguito, il 18 dicembre, una corte d'appello di San Francisco
ha espresso il parere che i detenuti di Guantanamo abbiano diritto ad un
avvocato e che siano di competenza della giustizia americana.
Il 9 novembre, rompendo il lungo silenzio dei principali dirigenti
democratici, Albert Gore, nel corso di una conferenza tenuta al Centro dei
diritti costituzionali di Washington, ha dichiarato: «La questione dei
prigionieri di Guantanamo ha fortemente danneggiato l'immagine
dell'America nel mondo, anche presso i suoi alleati (..). Gli stranieri
detenuti a Guantanamo devono essere ascoltati dalla giustizia, affinché
si possa definire il loro status giuridico, come previsto dalla
Convenzione di Ginevra (...). Il modo in cui il segretario Rumsfeld ha
gestito la questione dei detenuti equivale più o meno al modo in cui ha
gestito il dopoguerra in Iraq...».
«Il periodo più nero dopo il maccartismo» Certo, prima di lui, altri
senatori democratici, come Patrick Leahy , avevano interpellato
l'esecutivo circa le accuse di torture ai prigionieri - comprese le
estradizioni senza procedura di detenuti di Guantanamo verso paesi del
Medio oriente dove la tortura viene praticata normalmente - , circa la
morte sospetta di due afgani detenuti nella base di Bagram in Afghanistan,
o l'utilizzo di pesanti tecniche d'interrogatorio definite, in linguaggio
militare, «stress and duress» (pressione e costrizione) . Leahy ci ha
dichiarato senza esitazione che «i detenuti di Guantanamo devono essere
considerati prigionieri di guerra» e «trattati in modo umano,
conformemente alle direttive della Convenzione dei diritti dell'uomo». Ma
per molto tempo la sua determinazione è stata una posizione isolata
all'interno della classe politica americana.
Anche gli avvocati delle famiglie dei detenuti non si sono risparmiati.
Tom Wilner, membro di un prestigioso studio legale di Washington, Shearman
& Sterling, difensore delle famiglie dei kuwaitiani, ha tenuto viva
l'attenzione dei media e sensibilizzato quante più personalità politiche
possibile.
William Rogers, uno dei due ex vicesegretari di stato che hanno inviato un
ricorso «riservato» alla Corte suprema, durante un incontro a
Washington, all'inizio di novembre, ci ha confidato la sua preoccupazione
per «la scarsa consapevolezza della società americana sulla gravità di
questi fatti. Non ci si può far beffe del diritto costituzionale con il
pretesto che siamo in guerra contro il terrorismo. Al contrario, dobbiamo
difendere i princìpi, di fronte a queste derive dobbiamo incarnare il
diritto internazionale».
Rogers, il cui ultimo incarico risale alla presidenza di Gerald Ford, non
trova parole abbastanza dure per condannare i metodi dell'attuale
amministrazione: «è uno dei periodi più neri della nostra storia, dopo
il maccartismo. Oggi si fa ricorso agli stessi metodi arbitrari e
repressivi». Cofirmatario del ricorso, il contrammiraglio Donald Guter,
che lo scorso anno è andato in pensione lasciando l'incarico di capo
della giustizia militare della marina. A questo titolo, aveva partecipato
alla decisione di utilizzare la base di Guantanamo per interrogarvi i
detenuti. «Portare i prigionieri a Guantanamo aveva un senso per
superiori necessità di sicurezza, ma ora rischiamo di assistere a una
condanna a vita per alcuni di loro, senza che ci sia stato un giusto
processo», ha dichiarato il 9 ottobre 2003.
Anche vari ex giudici e procuratori hanno tenuto a ricordare alla Corte
suprema che i termini della Convenzione di Ginevra sono compresi nel
regolamento dell'esercito americano e che è illegale ignorarli.
Va segnalata anche l'iniziativa di un americano di origine giapponese,
Fred Korematsu, che nel 1944, durante la seconda guerra mondiale, aveva
contestato la costituzionalità del decreto che autorizzava l'internamento
di 120.000 cittadini di origine giapponese. Korematsu ha presentato un
ricorso perché, ha dichiarato, si sente impegnato a fare in modo che gli
americani non dimentichino un periodo oscuro della propria storia.
C'è da considerare poi, che nell'argomentazione alla Corte presentata dal
procuratore generale Theodore Olson, il governo aveva sostenuto, con una
notevole mancanza di tatto, che i ricorsi andavano semplicemente
rigettati, perché «in tempo di guerra, la giustizia abitualmente non
interferisce nelle decisioni dell'esecutivo...». Senza pregiudizio sulla
«sentenza» finale, che sarà resa nel giugno 2004, la Corte ha voluto
riaffermare che spetta a lei sola, e non all'amministrazione, il compito
di «dettare legge».
Da novembre, la questione Guantanamo comincia ad uscire dal silenzio.
Del resto, anche negli Stati uniti, l'opinione pubblica era rimasta
colpita dallo «sfogo» del Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr)
che, uscendo dal suo abituale dovere di riservatezza, aveva denunciato la
disperazione indotta nei detenuti dalla totale assenza di prospettive.
L'amministrazione non poteva rimanere indifferente di fronte al dilagare
delle critiche. A fine novembre, il Pentagono ha annunciato che presto
avrebbe liberato dai 100 ai 140 detenuti - che stiamo ancora aspettando -
e ha nominato un militare come avvocato d'ufficio per la difesa del
detenuto australiano David Hicks. Quest'ultimo, sottoposto a un
trattamento durissimo, aveva iniziato uno sciopero della fame richiamando
l'attenzione dei media. Contrariamente a quanto disposto inizialmente per
le commissioni militari, il Pentagono lo ha allora autorizzato a farsi
assistere da un avvocato civile di sua scelta e ha garantito la
riservatezza dei loro futuri colloqui. E questo, grazie ad un accordo tra
Stati uniti e Australia, simile a quello firmato alcuni mesi prima con il
Regno unito, che esclude, in particolare, la condanna a morte dei loro
cittadini residenti all'estero. Gli avvocati di quattro dei sei detenuti
francesi, uno dei quali è Paul-Albert Iweins, presidente del tribunale di
Parigi, avevano sperato che la Francia ottenesse «almeno» garanzie
simili. Invano, malgrado l'interessamento del Quai d'Orsay.
Quando i «nemici combattenti» sono americani Dopo Hicks, è stato un
cittadino americano, Yaser Hamdi, ad essere autorizzato a contattare un
avvocato. Arrestato in Afghanistan, Hamdi in un primo momento era stato
portato a Guantanamo e lì era rimasto fino a quando i militari non si
erano convinti che era americano.
Nell'aprile 2002 era stato allora trasferito nel carcere della base navale
di Norfolk, in Virginia, dove si trova ancora oggi in isolamento.
A questo punto il governo, che per decreto aveva riservato le commissioni
militari esclusivamente agli stranieri, ha immediatamente «esteso il
concetto di giustizia militare a cittadini americani unilateralmente
designati "nemici combattenti" ; in questo modo si è arrogato
il diritto di detenerli indefinitamente nelle carceri militari, privandoli
di qualsiasi contatto con l'esterno.
Eppure, Walker Lindh, il «talebano americano» catturato in Afghanistan
nello stesso periodo di Hamdi, è stato giudicato dalla corte penale di
Alessandria (Virginia) e ha goduto di tutte le prerogative che la
Costituzione accorda alla difesa.
Hamdi è riuscito ad ottenere il diritto ad un consulente legale, un
giorno prima dell'ultima data utile per la consegna alla Corte suprema
degli ultimi ricorsi relativi per l'appunto ai suoi diritti...
È vero che la sua detenzione in isolamento e quella di un altro cittadino
americano, José Padilla , imbarazzano lo stesso entourage del ministro
della giustizia John Ashcroft. Uno dei suoi ex assistenti, il professore
Viet Dinh, che ha avuto un ruolo preponderante nella redazione della
legislazione antiterroristica, ha manifestato il suo disaccordo nei
confronti del trattamento riservato ai cittadini americani e si è
felicitato del cambiamento. In compenso, Dennis Archer, presidente
dell'Associazione americana degli avvocati di tribunale, che conta 400.000
membri, si è rammaricato del fatto che il Pentagono non abbia voluto
farne un principio generale.
«In questo caso l'amministrazione ha esercitato un potere discrezionale,
spiega Wendy Patten di Humans Right Watch. Il Pentagono, infatti, continua
ad affermare che i "nemici combattenti" detenuti negli Stati
uniti non hanno alcun diritto legale di contattare un avvocato. E nel caso
specifico, la concessione è stata possibile solo perché gli
interrogatori del prigioniero erano finiti. Insomma, ci si rifiuta ancora
di riconoscere che il diritto alla difesa è imprescindibile e non può
dipendere dalla buona volontà dell'amministrazione.» Anche se la Casa
bianca sembra in difficoltà nei confronti della stampa americana,
tuttavia essa conta su alcuni sostenitori incondizionati, come il Wall
Street Journal. Rispondendo alle critiche del Cicr, il quotidiano
finanziario gli ha rimproverato «di aver ignorato il dovere di
riservatezza e di essersi deliberatamente impegnato sul terreno politico
» Ritiene che i «nemici combattenti» «debbano essere detenuti fino
alla fine della guerra contro il terrorismo».
E aggiunge: «qui non si tratta di una lotta senza fine, paragonabile alla
guerra contro il crimine o la povertà. È un conflitto tra Stati uniti e
al Qaeda, i gruppi affiliati e gli stati che hanno scelto di proteggerli.
Il conflitto finirà quando al Qaeda sarà stato schiacciato e non sarà
più in grado di lanciare attacchi contro bersagli americani...»
Completamente diversa l'opinione della delegata generale del Cicr per
l'Europa e le Americhe, Béatrice Mégevand-Roggo. Per lei, nella «guerra»
tra Stati uniti e Al Qaida, solo in Afghanistan si può parlare di un vero
conflitto armato internazionale: «Questo conflitto, regolato dalla terza
Convenzione di Ginevra, è finito il 19 giugno 2002, con l'Assemblea della
Loya Jirga che ha legittimato il governo del presidente Karsai. Il diritto
internazionale umanitario prevede tuttavia la possibilità che si
continuino a detenere dei prigionieri, a condizione che siano accusati di
fatti precisi e sottoposti a una procedura giudiziaria le cui garanzie
minimali sono previste dalla terza Convenzione.
Per tutti coloro che sono stati arrestati dopo il 19 giugno 2002, nel
quadro del conflitto interno che continua ad imperversare in Afghanistan,
esistono delle disposizioni del diritto internazionale umanitario ed
alcune garanzie fondamentali che si adattano perfettamente al caso dei
detenuti di Guantanamo. In conclusione, se non c'è l'obbligo di liberare
tutti i detenuti di Guantanamo, c'è in compenso un obbligo molto chiaro
di sottoporli ad una procedura giudiziaria regolata da norme di diritto,
internazionale o interno. Oggi, queste persone sono tenute da mesi, se non
da anni, in un totale vuoto giuridico: è proprio questo che consideriamo
inaccettabile. Affermarlo non ha niente di politico, ma rientra pienamente
nel nostro ruolo umanitario.» Sia pure timidamente, l'opposizione degli
americani alle leggi eccezionali comincia a farsi sentire e
l'amministrazione Bush si trova sotto il fuoco incrociato di una parte
crescente dell'establishment giudiziario, delle organizzazioni umanitarie
e dei media che denunciano il rifiuto di rendere giustizia ai detenuti di
Guantanamo. Non dovrà allora, a un anno dalle elezioni, farli uscire dal
«buco nero» in cui li ha imprigionati e tornare alle regole del diritto
internazionale?
16 febbraio
Botte
e insulti nell'ambasciata greca
Una
lavoratrice italiana minacciata per mesi, il capo la schiaffeggia e poi la
licenzia
ANTONIO SCIOTTO
ROMA
Insultata e vessata per mesi, presa a schiaffi dal capo,
che l'ha mandata al pronto soccorso, licenziata senza troppi complimenti. Tanto
era precaria. E' successo a una lavoratrice italiana, redattrice della rivista
«Foro ellenico», che ha tenuto un contratto di collaborazione per due anni
nell'ambasciata greca: omettiamo il nome per tutelarla, per facilità la
chiameremo Anna. Si recava quotidianamente a lavorare all'interno della sede
diplomatica di Roma, e proprio qui Anna ha dovuto subire una serie infinita di
prepotenze da parte del suo diretto superiore, responsabile dell'ufficio stampa,
che dopo lo «scandalo» (la notizia è uscita su alcuni giornali greci) è
stato in fretta e furia rimosso e inviato a ricoprire lo stesso incarico
all'ambasciata di Bucarest. Il contratto di Anna è iniziato nel febbraio del
2002: avendo appena terminato un dottorato in letteratura bizantina, e
conoscendo approfonditamente il neogreco, la giovane redattrice è stata adibita
al coordinamento e alla scrittura della rivista «Foro ellenico». Il giornale
si occupa di riferire gli avvenimenti relativi alla cultura e alla società
greca, è scritto in italiano, ha cadenza bimestrale e viene diffuso sia nel
nostro paese che in Grecia. Nessun rapporto di subordinazione, ma un contratto
di collaborazione di due anni, più altri eventuali 12 mesi.
All'interno delle ambasciate vigono in genere i contratti
dei paesi di riferimento, anche per i dipendenti italiani. Anna, come abbiamo
detto, è stata inquadrata come semplice collaboratrice, ma nel suo contratto
non erano scritti né orari né mansioni precise. All'atto dell'assunzione ha
dovuto concordare oralmente i compiti che avrebbe svolto e, nonostante le sue
successive insistenze, non è mai riuscita a ottenerli per iscritto. Il capo che
aveva all'inizio le aveva detto che si sarebbe occupata di scrivere gli
articoli, tenere i contatti con i collaboratori e tradurre gli articoli,
aggiornare il sito Internet. Pur non essendo vincolata a nessun orario, Anna
faceva otto ore al giorno, e dopo la stampa del giornale, insieme ad altri
quattro dipendenti si occupava delle spedizioni. I pacchi con le riviste
venivano infine affidati a un autista che li portava alle Poste.
Il «Foro ellenico», dopo l'arrivo della nuova redattrice,
ha avuto un buon successo; le cose sono andate bene finché nell'agosto 2002 al
primo capo non ne è succeduto uno nuovo, proprio quello degli abusi. Questo ha
subito preteso che Anna si occupasse di tutto, con il solo aiuto di un'altra
persona: ovvero, doveva seguire le spedizioni, portare alle Poste i pacchi - una
decina, ciascuno di dieci chili - con una macchina privata e non
dell'ambasciata. Inoltre, la ragazza avrebbe dovuto ridisegnare la grafica del
sito Internet nonostante non sappia nulla di web design, mentre con il carico
raddoppiato l'uscita della rivista ha cominciato a subire notevoli ritardi.
Il tutto veniva richiesto con urla, sbattendo le porte,
minacciando continuamente Anna, fatta bersaglio di un fuoco di fila
insostenibile. Ogni qualvolta si trovasse al telefono, il capo le chiedeva con
chi parlasse, le sfilava di mano il mouse per curiosare nel computer, la
controllava in maniera ossessiva. Tanti mesi passati così, senza che gli altri
dipendenti la difendessero: dopo poco tempo sono arrivati gli attacchi di
tachicardia, e una crisi fisica e psicologica di cui ancora oggi subisce gli
effetti. L'11 dicembre dell'anno scorso il capo le si avvicina, aggredendola
verbalmente. Anna lo allontana, lui risponde con un forte schiaffo. La ragazza
va al pronto soccorso, ha una contusione sul viso, alla mandibola.
Quando è troppo è troppo. Anna chiede al ministero della
stampa e dei mass media, da cui dipende, di inviare un'ispezione. L'ispettore va
a visitarla a casa dopo qualche giorno, accompagnato in macchina dal solito capo
(procedura non proprio ortodossa). Dopo Natale la notizia esce su due giornali
greci, Topondiki e Eleftheros Typos. Il ministero rimuove il capo
e lo manda a Bucarest, ma senza degradarlo. Ad Anna, alla quale l'8 febbraio è
scaduto il contratto, non viene fatto il rinnovo, senza un perché e senza il
necessario preavviso di due mesi. Al suo posto è diventata redattrice la
dipendente di un'azienda aerea greca: avrà le sue stesse competenze culturali?
GUERRA ALL'IRAQ
Reclutatori nelle scuole Usa
Arrivano nei college e nelle università, a «convincere»
gli studenti. Professori e rettori consenzienti
PATRICIA LOMBROSO
NEW YORK
Si presentano in uniforme della U.S. Army ed in borghese
quotidianamente nei «campus» delle università pubbliche. Si appostano in
ordine sparso davanti alle classi o stazionano nella «cafeteria» dove gli
studenti si riuniscono. Si mescolano indisturbati fra gli studenti
latino-ispanici, afroamericani e gli immigrati. Si avvicinano suadenti con un
biglietto da visita con la scritta di una ditta: «Marines». La scritta in
rosso con il nome del sergente presenta questo corollario: onore, coraggio,
valore e orgoglio nazionale. Sono gli addetti del Pentagono, «i recruiters» il
cui compito è quello di convincere gli studenti più poveri, e dargli la
garanzia che, una volta reclutati nell'esercito potranno pagarsi gli studi della
retta universitaria aumentata quest'anno di altri 1000 dollari l'anno e di
girare il mondo, persino in Iraq! Distribuiscono indisturbati dagli insegnanti e
dai rettori dell'università, pamphlet illustrativi, colorati come per un
avventuroso viaggio turistico: «Siete pronti a diventare l'orgoglio nazionale?
Vi garantiamo che nella carriera militare sarete in grado di pagarvi gli studi
ed arrivare alle vette sognate della vostra vita: «Mediante la U.S. Army sarete
eligibili per borse di studio di 20.000 dollari sino anche 50.000 dollari.
Viaggerete in tutto il mondo». Per ogni studente che viene arruolato nella
carriera militare, il recruiter percepisce 1000 dollari, oltre allo stipendio.
L'operazione «recruiters» del Pentagono fra i college pubblici si è
intensificata ultimamente. Il Pentagono ha deciso che per «poteri di emergenza»,
altre 30.000 unità militari nelle file della Guardia Nazionale e dei riservisti
verrà inviata in Iraq con uno stazionamento di 4 anni. Cresce il malcontento
delle famiglie dei militari Usa che ha visto il numero dei morti salire. Il
numero ufficiale di attentati suicidi dei soldati arruolati è salito a più di
20. Malgrado il lavoro assicurato, anche chi, riluttante, sceglieva di
arruolarsi nella Guardia Nazionale, ora declina la morte sicura in Iraq. Gli
studenti delle classi di afroamericani, latinoispani, immigrati costituiscono
ora l'ultima sponda. Al Bronx Community College, dell'università della città
di New York (Cuny), il 95% degli studenti dai 17 ai 24 è portoricana,
dominicana, afroamericana e nuovi immigrati.
L'università pubblica riceve il 60% dei sussidi dal
governo federale, il 40% dallo stato e dalla città di New York. E' qui che nel
«campus» universitario che è iniziata una mobilitazione di protesta: «Stop
and out the recruiters dal campus». Scritte sul giornale universitario
titolano: «Bloody conquest of Iraq, racist attack on Cuny». «Nei campus di
Cuny frequentata da minoranze etniche della classe più povera come il Bronx
Community College, recruiters military chiamano gli studenti a casa, presentano
i vantaggi di arruolarsi nell'esercito con promesse di sussidi per l'istruzione.
Esigiamo di sapere chi dell'amministrazione fornisce loro i nomi. Né è nostro
interesse essere mandati a uccidere i nostri fratelli e sorelle nel resto del
mondo».
Quando al rettore del Bronx Community college, Bernard Gant,
abbiamo chiesto perché il campus universitario ha l'apparenza più di una base
militare che universitaria e perché viene accettata questa interferenza, così
ha risposto a il Manifesto: «Noi siamo formalmente obbligati a fornire
ogni semestre al Recruiting Center tutta la lista degli iscritti per i corsi
universitari. E' una condizione necessaria per poter ricevere i sussidi
federali. In base alla legge, varata dal Congresso, la Salomon Law del 1996, è
obbligatorio per le amministrazioni universitarie ... aiutare l'esercito a
reclutare un numero di studenti adeguato per soddisfare la richiesta».
E le promesse di borse di studio per andare in guerra in
Iraq? incalziamo. «Ora - risponde - la pressione dell'amministrazione Bush
aumenterà. Deve capire che io rappresento l'istituzione. Spetta agli studenti
organizzare una protesta in tutte le università». E ora rischia di diventare
impossibile rifiutare il reclutamento, nonostante che, formalmente, la leva non
sia più obblicatoria: «Si figuri - risponde il rettore Gant - che ora i
recruiters possono anche chiamare a casa studenti al di sotto dei 17 anni, l'età
minima per essere adatti al reclutamento. Con il progetto "B-No Child left
Behind", ribadito da Bush durante il discorso sullo stato dell'Unione è
diventato obbligatorio per i presidi delle High School reclutare studenti che
sono in procinto di terminare la scuola media superiore. I Recruiters possono
quindi entrare in classe quando vogliono».
17 febbraio
Epifani
rilancia la politica dei redditi. E lo sciopero
Il direttivo Cgil
discute di potere d'acquisto e di riforma delle pensioni. Maroni: giovedì
chiudiamo
PAOLO ANDRUCCIOLI
Cgil a una prova
difficile. Il sindacato di corso d'Italia deve fare un bilancio delle sue scelte
e degli equilibri politici interni e deve mettere a punto una linea chiara per
affrontare i prossimi appuntamenti di cui il primo è la convocazione a palazzo
Chigi (formalizzata solo ieri) di tutte le parti sociali sulle pensioni. La
riunione - confermata appunto ieri dal ministro Maroni che l'aveva annunciata già
dalla scorsa settimana - si terrà nel pomeriggio di giovedì e il governo,
oltre la Cgil, ha convocato 37 sigle. Ieri lo stesso ministro del welfare ha
voluto lanciare un messaggio distensivo nei confronti dei sindacati, sostenendo
che il governo si è convinto ad accettare il silenzio-assenso per il passaggio
del Tfr ai fondi pensione. Cade così l'obbligatorietà che sarebbe stata tra
l'altro oggetto di possibile incostituzionalità. Ma nelle intenzioni del
governo rimangono gli obiettivi di fondo che hanno caratterizzato sin
dall'inizio la delega: lancio della previdenza complementare, taglio della spesa
previdenziale dello 0,7% rispetto al Pil, ridiscussione del sistema di
finanziamento della previdenza pubblica. La Cgil deve perciò mettere a punto
con attenzione le sue prossime mosse, pensando anche alle reali possibilità di
unità sindacale con Cisl e Uil. Sulle pensioni, nonostante le tante manovre
diplomatiche che sono state realizzate nell'ultimo periodo, quello che si
profila non sembra però un accordo, ma una nuova probabile rottura con il
governo. Se il governo confermasse tutte le sue intenzioni sulla riforma
(seppure emendata), la Cgil si dichiara già pronta a un nuovo sciopero
generale. Giovedì si chiarirà definitivamente il quadro e si chiariranno anche
le posizioni di Cisl e Uil. Ieri Maroni ha parlato di giovedì come
dell'appuntamento finale.
La Cgil non discute però ovviamente solo di pensioni. Troppi sono infatti i
nodi che si devono chiarire e tante le questioni che rischiano di creare
tensioni interne. Ieri, dopo la riunione della segreteria nazionale, il
dirittivo si è aperto con la relazione del segretario generale, Guglielmo
Epifani, che ha esordito ricordando che proprio un anno fa la Cgil organizzava
uno sciopero generale da sola. Quello sciopero - che nonostante le critiche,
ebbe un grande successo - era dedicato a un tema particolare: il declino
industriale del paese. Per prima, da sola, attaccata o inascoltata, la Cgil
lanciava il tema del declino industriale del paese e della mancanza assoluta di
una politica di sviluppo da parted el governo. Un tema che poi nel corso dei
mesi è diventato perfino una moda.
La situazione reale ci ha dato purtroppo ragione, ha ricordato ieri Epifani
parlando delle tante crisi industriali che si sono susseguite in un anno. Oggi
la crisi industriale è generalizzata e la stessa forza dell'euro diventa
paradossalmente un problema per un industria così fragile.
Stesso discorso sul fronte dei salari e della poltica dei redditi. Crolla il Pil
e crollano di coseguenza tutti i redditi da lavoro. Come se ne esce? Si chiede
Epifani. «Ci vuole una nuova politica dei redditi?». E quale modello di
relazioni industriali è possibile rilanciare con un governo che ha perso
l'abitudine della concertazione. Il problema vero, per il segretario generale,
è che cosa chiedere alla politica dei redditi. Quattro i punti indicati ieri:
tenere sotto controllo l'inflazione e farla scendere; innalzare la quota di
reddito prodotto verso i redditi da lavoro; orientare scelte fiscali e
contributive per sostenere i redditi da lavoro, le pensioni e i lavoro «poveri»;
una politica sociale (casa, scuola, sanità, assistenza) che sia coerente con il
segno di euità che si chiede alla politica dei redditi.
Il quadro che emerge dalla relazione di Epifani è insomma un quadro di rilancio
della politica dei redditi,che è stata praticamente abbandonata negli anni di
governo della destra. Un nodo politico vero da sogliere riguarda però anche il
contesto in cui si collocherebbe questa nuova politica dei redditi. Epifani
pensa alla concertazione stile anni `90? Ma come si concilia quel modello con un
governo che non ama neppure «il dialogo sociale»? Un'altra posizione presente
nel dibattito della Cgil è il rilancio del conflitto salariale. E' la posizione
per esempio della Fiom, ma non solo. Nel direttivo le due posizioni si
confronteranno, facendo i conti anche con la legge 30 e con i relativi accordi
che la Cgil ha la tentazione di firmare.
Metà uomini e metà donne,
in maggioranza impiegati
Da una ricerca Bocconi la prima radiografia delle vittime
Mobbing,
i perseguitati
della scrivania accanto
Più casi nel pubblico che nel privato
Ma denunciare fa paura
di ANDREA MONTANARI
MILANO
- Il mobbing può colpire chiunque, ma sembra saper scegliere con precisione: in
Italia vibra le sue coltellate sempre più nel settore pubblico, fa soffrire gli
uomini quanto le donne - 51 per cento contro 49 - e si aggira come un fantasma
dell'invidia soprattutto fra gli impiegati e fra chi ha almeno il titolo di
studio di scuola superiore. È sempre più diffuso in Europa, in particolare in
Gran Bretagna. In Italia, dove si manifesta soprattutto con il pettegolezzo e la
maldicenza, è in crescita anche se nella nostra cultura manca ancora il
coraggio della denuncia. Ma se chi lo ha subìto impara a parlarne, riuscirà a
sconfiggerlo.
Sono questi i risultati di una ricerca sul tema realizzata da Paola Caiozzo
dell'Area Organizzazione & Personale della Sda, la Scuola di direzione
aziendale dell'università Bocconi di Milano. La studiosa ha per la prima volta
analizzato un campione di mille persone, tra le tremila che dal 1996 a oggi si
sono rivolte alla Clinica del Lavoro di Milano, l'unico istituto in Europa che
possiede dati strutturati sul fenomeno. A un terzo di loro è stata fatta una
diagnosi di questo tipo. "Le vittime del mobbing - spiega Paola Caiozzo -
sono di tutte le età. In Italia non c'è differenza di posizione gerarchica,
mentre nel resto d'Europa le vittime sono soprattutto donne".
Nel settore privato, la causa principale è la competitività sempre più forte
dettata dalla globalizzazione. In questo caso, il mobbing si manifesta con
continue vessazioni sul dipendente, o aumenti del carico di lavoro, per indurlo
a gettare la spugna. Ma il fenomeno è in aumento anche nel settore pubblico,
dove si manifesta diversamente: intromissione nella vita privata, pettegolezzi o
leggende sulla vita del lavoratore per metterlo in uno stato soggezione
psicologica.
Sono i superiori e non i
colleghi i mobber più accaniti. I manager attaccano di preferenza la situazione
lavorativa della vittima, mentre i colleghi colpiscono più la sfera
relazionale. Il mobbing è più diffuso nella grande impresa e difficilmente di
manifesta con la violenza fisica o la molestia sessuale. L'attacco è rivolto
contro la persona, la sua situazione lavorativa, o con azioni punitive. Si
tratta di provocazioni per far perdere alla vittima il controllo, ma anche di un
forzato isolamento fisico del lavoratore, della sua esclusione dalle attività
sociali, o del rifiuto dei colleghi di collaborare con lui. Il mobbing, in
alcuni casi, raggiunge una tale intensità che la vittima perde lucidità e
finisce per sentirsi accerchiata. "Accade spesso - sottolinea ancora la
dottoressa Caiozzo - che la vittima si riduca a una larva e per i primi mesi si
convinca che la colpa di quello che le sta accadendo sia sua. Pensa di aver
fatto qualcosa di male. Invece, il mobbing va smascherato subito. Più la
vittima ne parla e più riuscirà a sconfiggerlo".
Il mobbing nel settore privato può essere strategico e relazionale. Nel primo
caso, si manifesta con azioni che mirano a ridicolizzare, umiliare, offendere la
vittima. Critiche continue, sovraccarico di lavoro, o negazione di diritti o
ferie. Nel secondo, con il rifiuto dei colleghi di parlarsi, o peggio con
comportamenti volti a istigare l'ambiente di lavoro contro la vittima.
Nel settore pubblico, una peculiarità tutta italiana è l'arma della
maldicenza. Si fa un controllo eccessivo delle comunicazioni del lavoratore, gli
si affianca un collaboratore senza motivo, o, ad esempio, si fa girare la voce
che porti jella.
Secondo l'European Foundation for the Improvement of Living and Working
Conditions, le vittime del mobbing sono soprattutto in Gran Bretagna (16,3 per
cento). Segue la Svezia, (10,2 per cento), la Francia (9,9), l'Irlanda (9,4), la
Germania (7,3) e ultima l'Italia (4,2). Ma questi dati non devono ingannare. Nel
nostro paese è emersa solo la punta di un iceberg. In Francia, dal 2002, il
mobbing è un reato, sia penale che civile. In Germania, invece, le aziende
hanno iniziato a fare corsi ai dipendenti per metterli in guardia. "Anche
da noi le aziende si stanno muovendo. Hanno capito che il mobbing produce costi
organizzativi altissimi, fa calare la produttività e aumenta
l'astensionismo".
Il dato è superiore alle
rilevazioni delle città campione (2,3%)
In aumento i trasporti, gli ortaggi e i tabacchi
Inflazione
in crescita
A febbraio al 2,4%
Gli analisti dell' Istat fanno notare inoltre che nel mese in corso si conferma un'inflazione piuttosto forte per gli ortaggi (+0,6% mensile, +10,5% tendenziale) in un contesto di inflazione alimentare piuttosto moderata. E' infine da notare una forte variabilità, oltre che a livello merceologico, anche a livello territoriale, che configura un quadro poco omogeneo con fenomeni diversi a livello locale.
19
febbraio
L'orgia
del capo
ANDREA COLOMBO
Finalmente è ufficiale. Il 12 e 13 giugno gli italiani
avranno il privilegio di apporre la loro crocetta vicino al nome di Silvio
Berlusconi. Non per inviarlo al parlamento europeo: quella è una barzelletta
che nessuno finge di prendere sul serio. Appena eletto, il capo della destra
rinuncerà al seggio, preferendo conservare il suo posto nel parlamento
nazionale. La truffa non desta scandalo, soprattutto perché la stessa cosa
faranno tutti o quasi i leader dell'opposizione. Nel trasformare il voto di
giugno in un mega-sondaggio sulla popolarità del premier e del governo l'intesa
bi-partisan è perfetta. Il responso delle urne avrà numerose conseguenze, tra
le quali la composizione dell'europarlamento figura all'ultimo posto. È da ieri
ufficiale anche l'accorpamento tra europee e amministrative, altrimenti detto
election day: un'innovazione alla quale il cavaliere teneva particolarmente.
Nella migliore delle ipotesi la sua onnipresenza nella
campagna per le europee tirerà la volata alla destra anche sul fronte delle
amministrative, tradizionalmente debole per Forza Italia. Nella peggiore,
l'eventuale risultato negativo nel voto locale sarà quasi cancellato da quello
dell'eurosondaggione.
In ogni caso, ogni competizione sarà fagocitata dalla
richiesta di pronunciamento plebiscitario sulla persona del capo del governo.
Per il premier è una sfida disperata, troppo importante per poterla combattere
cavallerescamente, ad armi quasi pari. Se riuscirà a piegare i molesti
centristi, Berlusconi eliminerà di netto l'ancor più molesta par condicio. In
caso contrario si limiterà a praticare l'obiettivo ignorando la vessatoria
legge. Non è difficile quando si può contare su clienti fedeli. Proprio ieri
il direttore generale della Rai Cattaneo, ineffabile, ha diramato una «raccomandazione»
ai direttori delle reti e dei tg, intimando di destinare un terzo dello spazio
d'informazione politica al governo, un terzo alla maggioranza, e quel che resta
all'opposizione.
Non è l'unico trucco che grava sulle urne di giugno. Il
capolista di Forza Italia informa che considererà un eventuale successo come «voto
di fiducia e di apprezzamento». La sconfitta invece non suonerà affatto come
prova di sfiducia e scarso gradimento, tutt'alpiù un secondario incidente di
percorso. Anche in quella «ipotesi impossibile» Silvio Berlusconi fa sapere
che resterebbe a palazzo Chigi. Non c'erano dubbi, come non ce n'erano,
nonostante le voci fatte filtrare ad arte per costruire un po' di suspence,
sulla sua candidatura o sulla decisione di ignorare la par condicio.
La probabile sfiducia degli elettori non spingerà
Berlusconi alle dimissioni (salvo possibili cospirazioni dei suoi alleati) e
neppure gli suggerirà, più modestamente, di modificare le sue politiche. Al
contrario, lo convincerà a scelte sempre più estreme e sempre più disperate.
Tra voto di fiducia sul decreto salva Fede, colpo di mano contro la par condicio,
inaudito attacco alla Corte costituzionale, quella di ieri è stata una vera
orgia. Promette tuttavia di inaugurare un nuovo corso. Un Silvio Berlusconi con
le spalle al muro potrebbe far apparire i primi tre anni del suo governo come un
modello di correttezza istituzionale. Lo sta già facendo.
COMMENTO
Droghe
a sinistra
VITTORIO
AGNOLETTO
E'triste ammetterlo, ma è merito della proposta indecente
avanzata da Fini se anche a sinistra è ripartito un dibattito sulle droghe.
Sarebbe bene quindi che questo confronto non si limitasse semplicemente al
rifiuto della legge. Provvedimento destinato probabilmente a rimanere per ora un
manifesto ideologico finalizzato a rassicurare lo zoccolo duro, tradizionalista
e oscurantista di An, mentre il leader, attraverso la proposta di legge sul voto
agli immigrati, anch'essa destinata principalmente a rimanere poco più che un
boatos, cerca di rafforzare la capacità d'attrazione del partito ex missino
sull'elettorato centrista cattolico. Un dibattito invece necessario in tutta
l'opposizione ove, tra inni nazionali e dispute sui simboli, ben pochi iscrivono
nel proprio programma politico la centralità delle politiche sociali.
Dimenticandosi, o peggio ancora fingendo di dimenticarsi, come proprio su questi
temi si sia consumata, nel recente passato, una profonda lacerazione tra le
politiche del centrosinistra e un'ampia fetta del suo stesso elettorato. Il
dibattito sulle droghe rappresenta da sempre uno dei principali paradigmi
attraverso i quali si definiscono i riferimenti culturali ai quali si riferisce
un progetto politico. Pochi, ma irrinunciabili, sono i principi ai quali
dovrebbe ispirarsi un intervento legislativo in questo campo: il rispetto della
libertà individuale, con l'unico limite che questa non sia causa della
limitazione della libertà altrui; la piena disponibilità della propria persona
da parte di ciascuno; il dovere dello Stato di rendere disponibile tutti i
possibili strumenti per guarire, curare o prendersi cura di ogni essere umano
vivente sul proprio territorio, così come previsto dall'ancora valido
giuramento d'Ippocrate; l'obbligo morale per il legislatore di conoscere e
tenere in considerazione i risultati della ricerca scientifica. Ne consegue che
le convinzioni ideologiche individuali o di gruppo dovrebbero restare totalmente
estranee al dibattito legislativo. L'idea di punire i consumatori è in pieno
conflitto con qualunque principio di autodeterminazione individuale;
l'annunciata riduzione del personale dei Sert, la pretesa di limitare l'uso di
un farmaco qual è il metadone, la proposta di delegare a istituzioni private la
diagnosi e la scelta della cura alla quale sottoporre chi fa uso di sostanze
sono tutti provvedimenti in contrasto con i doveri di una comunità statuale;
l'idea di assimilare sostanze fra loro totalmente differenti come la cannabis e
l'eroina evidenzia un'inaccettabile ignoranza di ogni evidenza scientifica.
Ma queste pur importanti considerazioni sono, da sole,
insufficienti sia per costruire la manifestazione di sabato, sia per
giustificare una mobilitazione capace di proseguire nei prossimi mesi. Dobbiamo
avere la capacità di andare oltre la semplice opposizione alla proposta Fini ed
è necessario rifiutare che l'intervento sulle tossicodipendenze diventi, come
già accadde durante i governi dell'Ulivo, un terreno di mediazioni ideologiche
segnato da un sostanziale immobilismo. Poche, ma sufficientemente precise,
dovrebbero essere le proposte capaci di rendere evidente un approccio coerente
con i principi prima ricordati: la legalizzazione delle droghe leggere così
come previsto da iniziative di legge da tempo presentate in Parlamento; la
somministrazione controllata di eroina a tossicodipendenti che già hanno
sperimentato, senza successo, altri approcci terapeutici, così come realizzato
con successo in Svizzera; il rafforzamento dei servizi pubblici; la libertà
terapeutica, ove sia supportata da incontestabili evidenze scientifiche; il
potenziamento delle politiche di riduzione del danno, anche ad esempio
attraverso la possibilità di avviare in tempi reali, nelle discoteche piuttosto
che nei rave, l'analisi delle sostanze. Ho l'impressione che questi
saranno comunque i contenuti nel cuore e nella mente dei tanti giovani, e non
solo, che riempiranno le strade di Roma; sarebbe bene che questi fossero anche i
contenuti presenti nel programma e negli impegni comuni dell'opposizione che si
candida a cacciare Berlusconi e ad assumersi eventuali responsabilità di
governo.
La
sinistra e la cultura
Manuel Vázquez Montalbán
Come patrimonio, la cultura è quel
lungo fiume che porta a una generazione determinata di esseri umani, che
trasmette loro valori morali ed estetici, le ideologie, la storia, i codici e i
simboli. In altre parole, tutto un ricco patrimonio elaborato dagli avi,
patrimonio che le nuove generazioni ricevono allorché esiste un punto di
incontro possibile tra questo apporto e chi riceve tale formidabile offerta.
I rivoluzionari hanno sempre rimesso in discussione il passato e preso le
distanze nei confronti di questo patrimonio, considerandolo il prodotto delle
vecchie classi dominanti sconfitte nella lotta per il potere, - di quelle classi
che avevano detenuto il controllo della storia.
Tale fu l'atteggiamento della rivoluzione francese e della rivoluzione
d'ottobre: mettere in quarantena il retaggio culturale, accusandolo di essere
feudale, di appartenere alla classe spodestata. Ai tempi della rivoluzione
sovietica, probabilmente la più radicale che ci sia mai stata, iniziò la
famosa polemica tra «cultura proletaria» e «cultura di classe». Alcuni
teorici della rivoluzione propugnavano la tesi della politica della tabula rasa,
per sradicare completamente il retaggio degli antichi e sostituirvi la cultura
della nuova classe proletaria. Contro questa posizione, con la feroce volontà
di salvaguardare il patrimonio culturale, si mosse Leon Trotzkij in persona.
Egli proclamò che la cultura, per effetto appunto del mutamento politico, aveva
cessato di essere una «cultura borghese» per divenire una «cultura umana».
Di conseguenza, la rivoluzione doveva fare in modo che i suoi valori fossero
assimilati da tutto il popolo, al fine di inaugurare una nuova era storica.
Troviamo qui un inizio di soluzione del problema. A dare un carattere regressivo
al patrimonio culturale non è il patrimonio di per sé, bensì la
strumentalizzazione che ne fanno le forze regressive, escludendone la maggior
parte della società. Tuttavia è possibile arrivare ad una soluzione servendosi
di strumenti semplici, come l'estensione della lettura grazie alla presenza
capillare delle biblioteche; una volontà di divulgazione delle arti favorendone
la pratica e la diffusione; una politica che ribalti le barriere di una
concezione mercantile della cultura, impedendo che un settore sociale
determinato ne abbia il godimento esclusivo.
Poi viene la cultura come coscienza, la sua forma più onnipresente.
A partire dal momento in cui sono coscienti della loro situazione e delle
relazioni con i loro simili e la natura, tutti gli esseri umani hanno una
cultura. Da questa constatazione emana una serie di concezioni culturali. Tutto
quel che è coscienza dell'essere, dell'esistenza, dei rapporti col mondo e con
gli altri. Per questo, chi si permette di operare una distinzione tra chi ha e
chi non ha cultura, dimostra una arbitrarietà e un analfabetismo avvilente.
Chiunque sia capace di avere coscienza di quel che è e di quel che fa e,
soprattutto, del ruolo che ha nelle relazioni con gli altri, possiede una
cultura. Nessuno può essere escluso dal regno della cultura.
Di fronte a queste due concezioni - cultura come patrimonio e cultura come
coscienza - si sono attuate tradizionalmente due politiche, due tentativi di
manipolazione politica.
Da una parte, la politica culturale della reazione che consiste
nell'accaparrarsi la cultura-patrimonio e la cultura-coscienza per incorporarle
in un complesso di verità approvate, usando l'accesso alla cultura come modi di
integrarsi in un meccanismo di comunione con l'ordine costituito.
Questa politica, nel migliore dei casi, ha inteso la cultura come mezzo di
integrazione, ma mirava anche alla sua mutilazione, al suo controllo
dittatoriale, se non addirittura a distruggerla, a falsificarla o a mistificarla
- come è caratteristico delle epoche fasciste.
In generale, le forze progressiste partono invece da una presa di coscienza e
quindi da una posizione critica che rimette in discussione l'ordine costituito e
si prefigge di modificarlo. Questo discorso vale per la cultura intesa come
coscienza. Per contro, per quanto riguarda la «cultura-patrimonio», la
sinistra ha evitato di impossessarsene per tentare di farla collimare con le
proprie motivazioni.
Qualsiasi politica culturale della sinistra dovrebbe innanzitutto passare
attraverso l'assimilazione senza riserve della cultura come patrimonio.
Successivamente dovrebbe procedere a rafforzare il ruolo modificatore della
coscienza critica. E infine, all'analisi del modo in cui una politica culturale
di progresso deve considerare l'elaborazione di una coscienza di classe come una
forma superiore di cultura.
Avere coscienza che una politica culturale deve tener conto del grado di
sviluppo della dinamica storica all'interno di una concezione globale del
progresso, obbliga la sinistra ad impegnarsi in una impresa titanica: rimettere
in discussione il significato stesso del progresso.
Cornelius Castoriadis affermava che la grande dicotomia della nostra epoca era
«socialismo o barbarie». Imponendo tale scelta, metteva in relazione fra loro
due culture differenti, due concezioni opposte della relazione storica che
inglobavano i sistemi di organizzazione della vita, della produzione, delle
relazioni umane. L'una basata sul profitto, il successo materiale per le
minoranze dirigenti e i settori dominanti. L'altra fondata sul socialismo inteso
come razionalizzazione di fronte a tale barbarie, che crea nuove relazioni
umane, una nuova cultura, la possibilità di una nuova autonomia dell'uomo nella
realtà.
Il socialismo si presenta come un vero e proprio crocevia su cui convergono
tutti gli elementi chiave che danno un senso alla circolazione della cultura.
T. S. Eliot, grande poeta di destra, ha descritto il significato di ogni
situazione culturale. Per l'uomo contemporaneo, comprendere che il fatto
culturale nasce e si perpetua a partire da un rapporto dialettico tra tradizione
e rivoluzione, costituisce l'essenza stessa della cultura. Ad ogni epoca
corrisponde una tradizione culturale che si scontra con la coscienza critica del
momento; e da tale scontro tra il patrimonio culturale di cui tutti noi siamo
gli eredi e la coscienza critica, emana la possibilità di una continuità.
Eliot ha identificato questo meccanismo di comprensione della cultura, e gli
dobbiamo la nostra riconoscenza.
Impegnandosi per una cultura di progresso (che non è assolutamente esclusiva
della sinistra), le forze progressiste in generale assumono la tradizione e, così
facendo, il patrimonio culturale; e puntando sulla rivoluzione aggiungono a quel
patrimonio culturale una coscienza critica. Ma per arrivarci, devono offrire al
mondo una visione fondata su una idea fondamentale, correlata alla scelta «socialismo
o barbarie»: la necessità di sopravvivere di fronte alle tendenze
distruttrici.
Una volta vinta la lotta per la sopravvivenza - primo obiettivo - il secondo
obiettivo è una cultura egualitaria, che non punti ad uniformare, bensì ad
assicurare la soddisfazione dei bisogni, anche quelli culturali, di tutti gli
esseri umani.
Terzo obiettivo: una cultura di liberazione, di lotta contro l'alienazione; non
nel senso marxista (secondo cui l'uomo privo di mezzi di produzione non possiede
quel che fabbrica, e si allontana dal prodotto che egli stesso ha elaborato),
bensì nell'accezione più ampia del termine: la liberazione dalle tendenze alle
religiosità negative, alle comunioni oscurantiste che annientano qualsiasi
capacità critica. La «disalienazione» nel senso della libertà dei
comportamenti sia collettivi che individuali nella sfera politica, morale o
sessuale.
Il quarto obiettivo è la rivendicazione della pace in quanto valore culturale
supremo. È indispensabile denunciare la guerra come valore ideologico di
contro-rivoluzione. La minaccia di guerra mira ad imporre una cultura di paura
che paralizza le coscienze, le rende più conservatrici.
All'opposto, la rivendicazione della pace è rivoluzionaria proprio perché
punta tutto sul cambiamento. La pace scommette sulle energie creative dell'uomo,
sulla sua libertà di espressione, di realizzazione, di trasformazione. Le forze
del progresso sono la maggioranza, e quando ne avranno coscienza, riusciranno ad
isolare i fautori di un ordine arcaico.
La sinistra deve battersi su due fronti. Difendere la propria coscienza e
lottare contro questa paura che cercano di imporci come valore culturale
supremo. Affinché i patrimoni culturali rimangano alla portata dell'immensa
maggioranza...
(Traduzione di R. I.)
24 febbraio
Le
esternazioni del Cavaliere
e l'effetto boomerang
di
MICHELE SERRA
L'ALTRA
sera, mentre la telecamera passava in rassegna i volti costernati del
conduttore, degli ospiti e del pubblico della Domenica
sportiva, subissati dalla interminabile e incredibile telefonata
autocongratulatoria del multipresidente Silvio Berlusconi, per un attimo si è
avuta la sensazione (ottima) di un colmo raggiunto. Le facce e gli sguardi
esprimevano (non tutte, ma in larga prevalenza) un concetto molto semplice,
molto umano, molto popolare: che due palle! Se l'indignazione politica, molto
praticata a sinistra, è un atteggiamento nobile ma elitario, e richiede il
supporto di una cognizione istituzionale non sempre reperibile nei mercati
rionali, il "che due palle" ha invece l'invincibile volgarità, e
vitalità, dei sentimenti di maggioranza.
Se a recalcitrare sotto i bastoni e le carote del premier non sono più solo gli
intellettuali antipatici, ma i simpatici esperti di moviola, e il pubblico
casuale e apolitico di uno studio televisivo milanese (che ha salutato
l'intervento riparatorio di Lucia Annunziata con uno scrosciante applauso di
liberazione), allora significa che, appunto, forse il colmo è davvero
raggiunto.
Mentre Berlusconi diceva io qui, io là, io su, io giù, schierava formazioni,
indicava tattiche, vantava vittorie, mulinava il libretto degli assegni (un vero
signore), evocava valorose gesta giovanili, ventilava nuovi trionfi, il
televisore effondeva la sensazione di un delirio finalmente percepibile anche
dal famoso "ventre" del Paese al quale, dicono, Berlusconi intende
rivolgersi nel tentativo di rovesciare, antipoliticamente, una partita politica
ormai quasi perduta.
Siano
davvero i famosi e spettrali "focus" reclutati tra la "gente
comune" a orientare le parole del premier, o sia solamente il suo abnorme
ego, la sortita domenicale odorava tremendamente di collasso tecnico-tattico.
Non tutti, davanti al televisore, erano tenuti a sapere che parte degli ospiti
non osava contraddire Berlusconi perché è alle sue dirette dipendenze (anche a
queste assurdità conduce il forsennato conflitto di interessi: la chiacchiera
calcistica porta la mordacchia tanto quanto quella politica).
Non tutti erano tenuti a conoscere l'atmosfera di cupo controllo che regna in
Rai, e certo non facilita la spontaneità e la saldezza di conduttori e
programmisti. Non tutti, facendo due più due più due, potevano calcolare sul
momento da quale pazzesco cumulo di poteri (istituzionale, politico, mediatico,
economico, calcistico) risuonava quella voce minacciosamente cordiale. Tutti,
però, potevano benissimo percepire l'ingombro esagerato di quella presenza
sussiegosa, di quella orgogliosa petulanza (interrompeva tutti, correggeva
tutti), soprattutto di quella incredibile raffica di "io" che
costituisce il traliccio attorno alla quale il premier appende ogni sua
bandiera.
C'è uno zoccolo duro di fedelissimi che avrà sicuramente apprezzato la
dottrina calcistica del presidente del Milan, e altrettanto sicuramente non avrà
colto la malacreanza di un cazziatone rivolto in pubblico al suo dipendente
Ancelotti (uno dei tanti, spiace dirlo, che tiene le spalle curve quando parla
il principale). Ma attorno a quello zoccolo incoercibile si avverte l'erosione
da sfinimento che l'assalto mediatico del premier rischia di provocare, o sta già
provocando, proprio in quella "gente comune" che della propaganda
berlusconiana è il target più appetito, ma anche il più volubile.
Sbucare da ogni cantone, da ogni video vantandosi di essere Berlusconi alla
lunga suscita, anche nei passanti più distratti, un senso di indifferenza
prima, di saturazione poi, infine di esasperazione. E tra gli ingredienti più
importanti dell'umor popolare c'è quella variante primaria del buon senso che
è il senso del limite. Anche il più potente dei Grandi Fratelli ci mette un
attimo a diventare solo un anziano zio invadente. E tra un po', quando ci
ripeterà per la miliardesima volta che lui ha vinto la Champion's League per
via delle due punte, nei tinelli italiani saranno in molti a cambiare canale per
via delle due palle.
STRETTAMENTE
PERSONALE
Se la memoria è troppo lunga
Biagi
Enzo
C' è addirittura un proverbio: «Piove, governo ladro». Per l' onorevole Berlusconi, come al solito, quei cretini dei giornalisti (categoria a cui sono contento di appartenere, tenuto conto che anche Gesù Cristo, pure non avendo tutele sindacali, ne sbagliò due su dodici, che è pure una notevole percentuale) lo hanno ancora una volta frainteso. Infatti specifica: «Le accuse ai politici? Mi riferivo agli ex comunisti». Ma come? Proprio lui che abbraccia e ospita nelle sue ville sarde nientemeno che il «compagno Putin», già responsabile del Kgb, istituzione che non va confusa con l' Opera di San Vincenzo. Scusi, onorevole Berlusconi: quei diavoli dell' ex Pci che cosa Le hanno fatto? In quale Paese del mondo uno possiede tre reti televisive, pari con quelle di Stato? E quali ostacoli le hanno impedito la folgorante carriera in un periodo difficile? Ricorda quali provvedimenti ha preso non appena ha traslocato a Palazzo Chigi? E poi, ha mai sentito parlare della Resistenza? Io la scrivo con la maiuscola, perché fu anche, e soprattutto, un esame di coscienza collettivo: ci fece capire che prezzo ha la libertà. In quella ribellione ci furono anche degli impiccati ai cancelli dei parchi cittadini. Il dottor Ferruccio Terzi, già Guf Bologna, poi medico, che non aveva abbandonato dei partigiani feriti, ad esempio. Non sono, e non sono mai stato comunista: ma li rispetto, anche per le loro illusioni. Conosco la Russia e la amo, per Cecov, per Tolstoi, per Dostoevskij, e per Stalingrado, per Anna Karenina e il generale Kutuzov, per il suo umanissimo popolo. Ne debbo testimonianza a una persona non sospetta, don Franzoni, medaglia d' oro, cappellano degli alpini nella guerra all' Urss. Ha ragione Casini: basta demagogia.
26
febbraio
La
riguerra di George
STEFANO
BENNI
Popolo americano e
popoli sudditi, ho una grande notizia per voi. Abbiamo vinto la guerra in
Afghanistan e in Iraq con poche perdite. Abbiamo portato la pace in quei paesi e
da allora ci muoiono decine di marines e civili ogni giorno. Questa è la prova
che la guerra è meglio che la pace. Perciò ho una buona notizia: una nuova
grande guerra sta per iniziare. Contro un nemico ancora più subdolo e
pericoloso di Osama e di Saddam.
Questo nemico è il CLIMA.
Questa sigla significa in realtà Complotto Leninista
Internazionale per Massacrare l'America. Ma il Pentagono li ha scoperti, e
niente li salverà dalla nostra ira. Essi vogliono attaccare le nostre coste con
iceberg e tornadi, invaderci con bufere di pioggia e neve, inaridire i nostri
fiumi e destabilizzare il quadro internazionale: ma non cederemo alla loro basse
pressioni e alle loro funebri isobare.
Non ci lasceremo intimidire!
In Africa il CLIMA ha un piano per desertificare il
continente, di modo che i Bongo Bongo chiedano acqua al posto delle nostre armi,
e magari si ribellino attaccando i nostri bananeti e pretendano di abbeverarsi
al nostro glorioso Mississipi...
Ma ciò non accadrà: abbiamo già spedito sul posto un
milione di distributori di Coca-Cola, ognuno guardato a vista da un marines
anti-scasso. Così il problema della sete è risolto.
Inoltre abbiamo mandato latte in polvere tossico e
medicinali da esperimento. I morti, generalmente, non bevono.
In quanto all'inquinamento e al buco dell'ozono, qualcuno
ha osato incolpare le nostre aziende petrolifere, le nostre auto, i nostri utili
disboscamenti. Accuse da comunisti obsoleti, pagati dalle lobby dei camini e
delle biciclette.
Non
ho firmato il protocollo di Kyoto perché dopo Pearl Harbour non mi fido dei
giapponesi, e poi non so cosa vuol dire protocollo. Ma so benissimo cosa
vogliono dire Effetto Serra e Buco dell'Ozono: sono subdole armi di sterminio di
massa in possesso del CLIMA, specialmente del suo braccio armato chiamato
Anidride Carbonica, nome in codice Co2, un gruppo terrorista che negli ultimi
anni ha visto moltiplicare i suoi adepti nell'atmosfera.
Abbiamo già un piano per chiudere gli aeroporti americani
a ogni volo che possa trasportare anidride carbonica. Ogni molecola in transito
verso gli Usa dovrà fornire le impronte digitali. Sappiamo che tra gli iscritti
alla Co2, ogni atomo di carbonio usa accoppiarsi in modo orgiastico e amorale
con due atomi di ossigeno. Da ora in poi ogni reazione chimica di questo tipo
verrà considerata associazione a delinquere. Non ci lasceremo certo intimidire
da un biossido bisessuale.
Inoltre da oggi ogni iceberg che si staccherà dalla
banchisa polare verrà bombardato. Anzi, bombarderemo la banchisa
preventivamente.
Per evitare gli incendi nell'Amazzonia, la disboscheremo
tutta. Questo l'ho già detto anni fa e lo ripeto.
Il governatore della California Schwarzenegger ha ordine di
arrestare ogni onda anomala superiore ai quindici metri.
Ogni temperatura sopra i quaranta gradi verrà considerata
propaganda antiamericana. Ogni campo da golf sarà dotato di irrigatori
supplementari.
Non tollereremo parimenti che CLIMA attacchi le nostre città
con piovaschi e grandinate. Tutte le nuvole di forma sospetta verranno
bombardate.
In quanto alla desertificazione, abbiamo pronti dieci
milioni di oasi gonfiabili.
Il progresso americano basato sul petrolio, sul golf e sul
surf non teme nessuno.
Ma sappiamo che questo CLIMA ha un capo subdolo. Un signore
che dopo avere creato il mondo non sa più gestirlo, un pessimo manager andato
in crisi per qualche gas di scarico e qualche molecola sballata. Ebbene se
questo signore, sostenuto da meteorologi terroristi e cirrocumuli bolscevichi ,
vuole dichiaraci guerra, troverà pane per i suoi denti.
Le chiese integraliste americane hanno un giro di introiti
e proprietà che le ha fatte inserire tra le prime multinazionali del mondo. Se
uniamo i soldi delle chiese e dei petrolieri possiamo non solo andare su Marte,
ma molto più su, e bombardare molto molto in alto.
Non dite che sono un pazzo megalomane, so quello che dico.
Il CLIMA non ci spezzerà. Ed è inutile che Kerry mi
attacchi. Lui è un veterano di guerra, io un imboscato, ma l'esercito è con
me.
Marines, ognuno di voi da domani stia all'erta: ogni
nuvola, ogni iceberg, ogni soffio di vento, può nascondere il complotto. Non
respirate ossigeno, potrebbe essere una trappola del nemico! Saddam è nelle
nostri mani, Osama sta per caderci e il CLIMA sta per conoscere la nostra
vendetta.
God
blast America.
Dio spazzi via
l'America.
E noi spazzeremo via lui.
Inchiesta
dell'associazione indipendente su 346 prodotti
Spagna e Germania sono diventate più economiche
Altroconsumo
boccia l'Italia
"Paese più caro di Eurolandia"
Sorpresa: la moneta unica rende Londra
conveniente
28
febbraio
Il gioco
populista
del premier in difficoltà
di MASSIMO GIANNINI
da "La Repubblica" 28.2.2004
Sono passati appena una decina di giorni dall'inizio della
campagna "presidenziale" di Berlusconi, in vista delle europee e
delle amministrative di giugno, e l'impetuosa marcia del premier ha già
lasciato sul campo una cospicua quantità di macerie. La forza devastante
della sua comunicazione politica cresce in misura inversamente proporzionale
alla debolezza deprimente della sua azione di governo. Per recuperare
consensi, non può rivolgersi alla testa degli elettori delusi, che non ci
cascherebbero: gli aveva promesso meno tasse e più ricchezza, gli ha portato
l'aumento dei tributi locali e la recessione.
Così, Berlusconi riprova a parlare direttamente alla pancia della gente
arrabbiata, che potrebbe ricascarci: da leader di un "partito
materiale" non può offrirgli una visione identitaria comune che in
questi anni non è mai stata elaborata, ma può tornare a promettergli l'unico
e originario riferimento condiviso: lui stesso.
L'uomo solo al comando, in lotta contro il resto del mondo. Al decennale di
Forza Italia il Cavaliere aveva lasciato capire quali sarebbero stati i nemici
da colpire: i soliti comunisti, gli "appositi" magistrati. La
settimana scorsa ha allargato il tiro ai "politici di professione",
per i quali ha ideato un "sillogismo" degno di Aristotele: hanno la
casa al mare, alcuni hanno pure la barca, quindi sicuramente rubano.
Per giustificare l'ingiustificabile (il voto di fiducia sul decreto
salva-Rete4) già che c'era ha menato un fendente anche al Parlamento, e alle
sue "eccessive lungaggini".
Ma ieri ha fatto un passo ancora più avanti, nella sua
personalissima rivisitazione pseudo-maccartista della storia italiana:
"Non immaginavo che la Prima Repubblica mantenesse una presenza così
forte e radicata in tutte le istituzioni, e questo rende tutto più
difficile". A scanso di equivoci, ha ripetuto due volte quel
"tutte". Casomai qualcuno pensasse che fuori dall'esecrabile
"lista di proscrizione" dei sopravvissuti del Vecchio Regime ancora
annidati nelle istituzioni potessero restare magari la presidenza della
Repubblica o la Consulta, l'Istat o la Corte dei conti. È solo una variante
del "non mi lasciano lavorare", che lo rese celebre nel '94, al
primo fallimento da capo del governo. Ma oggi rischia di essere, allo stesso
tempo, più grottesca e più pericolosa. Grottesca, perché la Casa delle
Libertà ha la maggioranza numericamente più forte che sia mai uscita dalle
urne dal 1948 ad oggi. Pericolosa, perché con questo alibi, e tra conflitti
sempre più laceranti al tessuto connettivo della politica e della società
italiana, il Cavaliere continuerà a "regnare" sulla nazione fino
alla fine della legislatura, ma senza più governarla.
Il "gioco" di Berlusconi è fin troppo smaccato. Come gli ha
ricordato proprio il Capo dello Stato nel suo discorso a Sassari del mese
scorso, lo aspettano tre anni di consultazioni elettorali, prima del voto
politico del 2006. Uno stillicidio. Non avendo risultati concreti da smerciare
sul mercato dei consensi, il Cavaliere aggiorna e rilancia il marketing
politico della famosa "discesa in campo". Prova a reinventarsi e a
riproporsi, un'altra volta, come l'Uomo Nuovo. L'Uomo dell'antipolitica.
L'Uomo del Fare che, mentre i praticoni dell'Ancien Regime bivaccavano
flaccidi e inefficienti sui banchi del Parlamento, lavorava venti ore al
giorno per costruire un impero e per far divertire e far
"progredire" gli italiani. Con il telecomando e con le polizze
assicurative. Con gli appartamenti residenziali di Milano due e con le
vittorie internazionali del Milan.
È perfino stucchevole dover ripetere, per la milionesima volta, quale
gigantesca manipolazione storica si nasconda dietro questa leggenda. È quasi
noioso, ormai, dover ricordare quanto proprio il Cavaliere, per i suoi legami
con Craxi e per i salvacondotti televisivi che il Psi e la Dc gli assicurarono
a colpi di decreto legge agli inizi degli anni '80, sia una figura
"consustanziale" alle vicende della Prima Repubblica, compresa
quella non proprio edificante della loggia P2. È quasi inquietante dover
rammentare che, oltre a lui stesso, dei 210 parlamentari eletti nelle liste di
Forza Italia nel 2001 ben 80 provengano dai partiti "tradizionali",
e che su quasi 10 mila amministratori locali del partito azzurro oltre la metà
arrivi dalle file della Dc e del Psi. È addirittura imbarazzante dover
rimarcare che, nei posti chiave del governo, del partito e della Pubblica
Amministrazione, proprio il Cavaliere abbia scelto esponenti della
"vecchia politica". Autorevoli ministri come Scajola e Pisanu (ex
democristiani). Tenaci uomini di apparato come Fabrizio Cicchitto (ex
socialista). Stimati civil servant come Lamberto Cardia (magistrato contabile,
controllore di enti delle ex PpSs, capo di gabinetto di svariati ministeri,
ora alla Consob).
Tutto questo, per il premier, non conta. È un "tra parentesi", che
non compare nel carro allegorico berlusconiano lanciato verso la riconquista
degli italiani. "Tra parentesi" (perché contrasterebbe con
l'iconografia artificiosamente "nuovista" del personaggio) è la
Vecchia Repubblica, dalla quale invece Berlusconi nasce come Minerva dalla
testa di Giove. "Tra parentesi" (perché negherebbe la mistica del
leader invincibile) è la sconfitta subita da Prodi nel 1996, che la
storiografia azzurra ha completamente rimosso come se non fosse mai esistita.
"Tra parentesi" (perché "per colpa dei comunisti senza il
comunismo c'è sempre un futuro illiberale e autoritario da sventare",
come ha detto ieri) sono gli stessi cinque anni di governo ulivista, non certo
esaltanti, costellati da errori e indecisioni, ma durante i quali comunque non
si sono viste leggi per la scioglimento coatto dei partiti o la chiusura dei
giornali, né sono stati segnalati cosacchi ad abbeverare i cavalli a San
Pietro.
In questa campagna elettorale, per il premier, conta solo ritrovare una
sintonia con il popolo. A costo di qualunque forzatura della verità. Al
prezzo di qualsiasi indebolimento delle istituzioni repubblicane. Lui è il
presidente del Consiglio. Grazie alle televisioni che controlla (Rai) e a
quelle che possiede (Mediaset), può tentare un'operazione di clamorosa
rimonta. Nel suo caso (visti i pessimi risultati raggiunti) "l'incumbency",
l'essere governante in carica al momento delle elezioni, sarebbe uno
svantaggio. Con la potenza di fuoco delle sue reti può cercare di
trasformarlo in un vantaggio. Dal '94 il collante mediatico supplisce alla
carenza di condivisione sociale e ideologica del berlusconismo. Secondo l'Eurisko
il 36% degli elettori di Forza Italia segue la tv per più di 4 ore al giorno.
Se ha funzionato nel 2001, perché non dovrebbe funzionare anche nel prossimo
giugno, e poi magari nel 2006?
E che importa se, per raggiungere il risultato, l'invincibile armata del
premier calpesta Carlo Ciampi e Gustavo Zagrebelsky, Antonio Fazio e Virginio
Rognoni, la Commissione Europea e l'Anm? E che importa se, per vellicare il
popolo che spende, un presidente del Consiglio insiste a dire che l'inflazione
al 2,4% a febbraio "è colpa dell'euro", per nascondere le
inefficienze che il suo governo ha palesato nei controlli? E che importa se,
per compiacere il popolo che tifa, un presidente del Consiglio evoca "lo
stato di polizia" per attaccare una procura che indaga sul buco nero del
calcio? Per il padrone del Milan, che si illude di governare l'Italia come una
grande Milanello, che detta la formazione a due punte ad Ancelotti e pretende
scudetto e Champions League per alimentare il mito del leader trionfatore, non
esiste il problema del conflitto di interessi. Esistono solo gli interessi
personali da tutelare. Per l'inventore del partito azzurro, che come scrive
Ilvo Diamanti evoca non "la nazione", ma "la nazionale",
non esiste il problema dei bilanci-colabrodo delle società di serie A,
indebitate per 1 miliardo 941 euro nel 2003. Esistono solo i dividendi
politici da trarne.
Magari attraverso scandalosi decreti spalma-debiti per le grandi squadre,
votati alla faccia del "dio mercato" caro ai liberisti della
domenica. Il "tempio" del calcio era sacro, e i "mercanti"
in toga l'hanno violato. Tanto basta per gridare allo scandalo, come si
farebbe al Bar Sport. Il Cavaliere applica al pallone la stessa mistica
populista che sovrintende al suo tribolato rapporto con il potere giudiziario.
Se va in tribunale dice: il popolo mi ha eletto capo del governo. Che diritto
hanno i magistrati di impedirmelo? Qual è la fonte di legittimazione che li
autorizza a tanto? Se va allo stadio dice: il popolo vuole godersi le partite.
Che diritto hanno i magistrati di impedirglielo? Quale potere hanno per
sottrarre l'oppio calcistico al popolo che vota?
Si aspetta la prossima esternazione. Ma sarà dura arrivare alle elezioni di
giugno, in mezzo a tanta macelleria istituzionale.