Archivio Febbraio 2004

 

Bugiardi
ROSSANA ROSSANDA
Ammirevole la tranquillità con la quale Bush ammette che poteva essere non vero quel che egli stesso, Colin Powell e Condoleeza Rice hanno giurato fino a ieri sulla presenza di armi di sterminio in Iraq. E' in base a questa modesta inesattezza che hanno bombardato e invaso l'Iraq, dichiarato praticamente estinte le Nazioni Unite, vituperato la vecchia Europa che non aveva voluto seguirli. Ancora più corrusca la faccia di bronzo di Tony Blair, che si era opposto a ogni commissione parlamentare d'inchiesta e, appena Bush fa la sua, di colpo vi acconsente. Nessuno dei due è sfiorato dall'idea che l'aver mandato in guerra il proprio paese, con relativi morti ammazzati, sulla base di una tesi che risulta inattendibile esigerebbe di dimettersi sul colpo. Scaricano la responsabilità sui servizi di sicurezza che avrebbero dato informazioni sbagliate, ed è certo che quello americano e quello inglese se la rimpalleranno. Un responsabile statunitense David Kay s'era del resto già dimesso. Ma chi crederà che i due leader sono stati imbrogliati dai servizi, e il dubbio gli viene soltanto ora? Perché non gli era venuto quando i due ispettori dell'Onu, Blix e El Baradey avevano assicurato che di armi di sterminio in Iraq non ce n'erano e avevano chiesto di fermare l'assalto?

La verità è che gli Stati Uniti lo preparavano da due anni, e Blair ne ha seguito le scelte e i tempi. L'attacco alle due torri è stato il sanguinoso pretesto che ci voleva. Ma il fine era altro, politico ed economico: politico, metter le mani nel Medioriente, porta strategica sull'Asia e terreno di troppo incerte alleanze; economico, metter le mani sulla più grande riserva mondiale di petrolio. Si aggiunga che una guerra distrugge e le commesse per la ricostruzione rappresentano un bel bottino.

Bush nominerà una commissione bipartisan per proteggersi dall'accusa di manipolazione dei democratici: gli va bene comunque, perché essa renderà noti i risultati non prima delle elezioni presidenziali di novembre. E per allora, come sospetta perfino Madeleine Albright, chissà che Bush non sventoli qualche Osama Bin Laden, come già l'irsuto Saddam davanti al suo popolo fedele.

Più in difficoltà Tony Blair. E' appena uscito da un'inchiesta che lo ha discolpato non dall'aver mentito sulle armi in Iraq, né di aver contribuito con l'interrogatorio muscoloso della sua commissione esteri a indurre il professor Kelly al suicidio, bensì dal «aver reso più sexy la notizia» sul pericolo costituito dalle famose armi. Il giudice Hutton ci ha assicurato che Blair non rende più attraenti le sue bugie, le serve nude e crude. Ma gli inglesi non lo dimenticheranno. E chissà se potranno far finta di niente i nostri colleghi un po' sicofanti che sono sguazzati felici nell'umiliazione della Bbc, fastidiosissimo esempio di informazione non servile.

Il movimento per la pace risulta il solo umanamente alto e perdipiù il solo politicamente attendibile. Diceva che ogni guerra è ingiusta, ma questa in particolare era basata su un pretesto? Oggi si sa che è stato proprio così. Che avrebbe aumentato il nazionalismo fondamentalista? Infatti lo ha aumentato. Che non avrebbe colpito il terrorismo, anzi? E' così. Che avrebbe inquinato diritti e garanzie in occidente? E' già successo negli Usa e il britannico Blumkett lo annuncia in Gran Bretagna. E in Italia? Già si parla di eque condanne per «schiacciante probabilità», concetto che minaccia di avere un bel futuro nel codice penale.

3 febbraio

Avanti tutta contro le toghe
Riforma alla camera, la separazione tra giudici e pm sarà rafforzata
A. MAN.
La legge del ministro Castelli non basta più. La verifica di governo rimane aperta sulla politica economica ma sulla giustizia le destre hanno deciso. Andranno avanti come rulli compressori, vogliono la separazione netta tra giudici e pm, se non altro la più netta possibile con legge ordinaria. E per questo presenteranno fin da oggi emendamenti alla proposta di riforma dell'ordinamento giudiziario, in discussione in commissione giustizia alla camera dopo il primo «sì» del senato (che quindi dovrà ridiscuterla). Ma non solo. A quanto dice il documento di fine verifica sottoscritto dai partiti di maggioranza, anticipato ieri dal Corriere senza smentite, la Casa delle libertà mantiene anche una serie di obiettivi che sono raggiungibili solo con i tempi più lunghi delle riforme costituzionali: lo «sdoppiamento» dell'attuale Csm in due organismi che rappresentino, separatamente, i magistrati inquirenti e giudicanti; il ripristino dell'immunità parlamentare nella forma «estesa» abolita durante Mani Pulite; la reintroduzione di uno «scudo» giudiziario per il premier privo dei vizi che hanno portato la Corte costituzionale a bocciare il famigerato «lodo Schifani». Insomma Berlusconi vuole tutto. La conferma dal fido Giuseppe Gargani. «Non c'è nessuna novità», ha spiegato ieri il responsabile giustizia di Forza Italia, rappresentante del partito-azienda al tavolo dei quattro saggi che discussero per mesi di giustizia (gli altri erano La Russa per An, il sottosegretario Vietti dell'Udc e il ministro leghista Castelli). «Quelle della separazione delle carriere e del doppio Csm sono proposte che illustrammo in una conferenza stampa nel gennaio 2002», ha ricordato Gargani a chi gli chiedeva conto del testo pubblicato dal Corriere.

Ulteriori conferme arrivano dagli altri partiti della maggioranza, sia pure con i loro distinguo e una tendenza generale a contenere gli emendamenti per evitare un iter troppo lungo tra la camera e il nuovo passaggio al senato, che tutti danno per scontato. La Lega vorrebbe fin da subito anche la separazione delle carriere e i due Csm con legge costitizionale, perfino Alleanza nazionale si è convinta di questa soluzione, mentre all'Udc la riforma basta e avanza così com'è stata approvata dal senato. Che comunque non è poca cosa.

La legge Castelli, nella versione attuale, prevede un'ampia delega al governo per istituire una sorta di super-Cassazione dotata di un «Consiglio direttivo» e una Scuola superiore della magistratura (che i giudici vorrebbero presso il Csm e il governo presso la Cassazione); per «riorganizzare l'ufficio del pubblico ministero» con prevalenza dei criterio gerarchico e per riformare gli illeciti disciplinari e le relative sanzioni. La progressione in carriera dei magistrati avverrebbe d'ora in poi solo attraverso concorsi per titoli ed esami: è la novità principale, in realtà un ritorno al passato, e di fatto può nascondere l'introduzione di forme di controllo sulla magistratura. Infine, Pm e giudici sarebbero collocati su due binari diversi fin dall'accesso alla professione: concorso unico ma con prove distinte e commissioni distinte; possibilità di passaggio dall'una all'altra funzione solo dopo cinque anni, comunque cambiando distretto, e solo dopo aver frequentato la Scuola e aver superato il relativo concorso.

Si può definire distinzione «hard» delle funzioni o separazione «soft» delle carriere. In ogni caso è quasi il massimo che si può fare con legge ordinaria, anche se non basta ai più decisi sostenitori della divisione tra giudici e pm - che sono gli avvocati penalisti ben rappresentati nella maggioranza. Al contrario, gran parte della magistratura associata è dichiaratamente contraria a questa formulazione: l'Anm che riunisce il suo congresso alla fine della settimana sta minaccia anzi un nuovo sciopero delle toghe. E anche il Consiglio superiore, che pure si era pronunciato su una prima versione più morbida della proposta di legge, ha già dato parere negativo (ad eccezione dei consiglieri laici eletti dalla Casa delle libertà), «salvando» solo il principio della temporaneità degli incarichi direttivi. Ora le teste d'uovo delle destre proveranno a fare di meglio con gli emendamenti, sotto la guida di un magistrato targato Forza Italia come Francesco Nitto Palma, nominato relatore in commissione giustizia anche se fa parte della commissione affari costituzionali
.



DROGHE
An contro Toscana e Fuoriluogo
«Il comune di Firenze e la regione Toscana fanno propaganda all'uso di sostanze stupefacenti». Questa l'incredibile accusa del consigliere regionale di An Achille Totaro e di Azione giovani, che hanno messo all'indice i siti delle due istituzioni, che inciterebbero all'uso dell'ecstasy e della marijuana, in quanto vengono spiegati gli effetti del primo e segnalate le «feste del raccolto» della seconda. Peccato che le accuse si riferiscano a un link al sito di Fuoriluogo, inserto mensile sulle droghe del manifesto.

 

10 febbraio

«Picconano la sanità»
Cozza, Cgil: il governo sta abbattendo il servizio nazionale
ANTONIO SCIOTTO
«Lo sciopero è andato bene, oltre ogni aspettativa, perché il personale è esasperato: picconata dopo picconata, il governo sta abbattendo il servizio sanitario nazionale». Commenta così la straordinaria protesta dei medici il segretario nazionale della Fp Cgil Massimo Cozza: per la prima volta in Italia hanno partecipato tutte le 42 sigle del settore, da destra a sinistra, con adesioni che hanno superato il 90%. Non una semplice agitazione sindacale, ma una battaglia civile fatta propria da 150 mila medici, tecnici, veterinari, specializzandi, dirigenti: no ai tagli alla sanità; no alla devolution, che sostituisce l'egoismo all'unità nazionale; nuove risorse per rinnovare i contratti, in ritardo già da due anni.

Partiamo dal primo punto, dai tagli in finanziaria.

Il buco che si è creato a causa delle risorse negate dal ministro Tremonti è già di 13 miliardi di euro. Nell'agosto del 2001 il governo e le Regioni avevano concordato la copertura dei servizi essenziali, ma ad ogni finanziaria i soldi stanziati sono stati sempre insufficienti: il documento redatto a fine 2002 era sotto di 7 miliardi, mentre l'ultimo, quello appena approvato, aggiunge altri 6 miliardi di mancate coperture.

E così abbiamo fatto 13. Voi siete anche contrari alla devolution.

Sì, perché introdurrebbe 21 sanità regionali diverse, con il rischio maggiore per i sistemi del sud e delle isole. Un sistema universale di garanzie si basa necessariamente sulle perequazioni tra le diverse realtà, in modo che tutti i cittadini siano coperti. Basta pensare che in Basilicata la Regione riesce a coprire soltanto il 7% delle spese, mentre il 93% proviene dai fondi nazionali; in Lombardia, il 70% è coperto dalle risorse regionali. I redditi pro-capite sono diversi, ma le esigenze essenziali sono uguali. Se poi le regioni più ricche vogliono avere più servizi, ben vengano, ma l'assistenza di base deve essere assicurata a tutti.

Da tutti questi problemi nasce la vostra esasperazione.

I nostri sono problemi reali, che si vivono giorno per giorno nelle corsie. Mancano i farmaci e le strumentazioni, gli ospedali sono fatiscenti, l'igiene è insufficiente: è un vero e proprio stillicidio quotidiano. I medici e gli altri operatori, in questo contesto, non sono altro che delle pedine, dato che tutte le decisioni importanti vengono prese dagli assessori regionali alla sanità e dal loro braccio esecutivo, i direttori generali delle aziende sanitarie locali.

La nostra salute in mano ai manager.

Purtroppo, con l'aziendalizzazione estrema a cui si è giunti oggi, il fine unico dei dirigenti Asl è quello di economizzare, senza guardare alle reali esigenze dei pazienti. Noi riteniamo invece che a gestire le unità locali dovrebbero concorrere anche i medici, tutti gli altri operatori, e gli stessi cittadini. Solo così le professionalità non verranno mortificate.

Ci sono infine tutti i problemi legati al contratto non ancora rinnovato, al personale precario.

Sì, è bene ribadire che lo sciopero ha avuto soprattutto una valenza generale, di difesa della sanità come diritto garantito a tutti dalla Costituzione, però certamente un punto forte riguarda anche le condizioni del lavoro. Il governo non ha stanziato i soldi per i recuperi dell'inflazione del 2002-2003, né per il biennio successivo. Inoltre ci opponiamo ad alcune riforme volute dalle regioni: diciamo no all'orario illimitato e alla soppressione delle ore di aggiornamento. Vogliamo che venga conservato il comitato dei garanti, un organo speciale che tutela dai licenziamenti indiscriminati. Per finire, c'è la questione dei tanti precari nel settore medico, assunti per anni a tempo determinato. E dei 25 mila specializzandi che hanno scioperato con noi, unici in Europa senza un contratto. Chiediamo garanzie anche per i nuovi lavoratori.



 
LA DEVOLUTION
La sanità egoista del governo: ogni regione pensa per sé
No alla devolution, un altro punto fermo dello sciopero dei medici. «Ciascuno si curi come e se può»: sembra essere questo lo slogan che sintetizza la nuova sanità egoista voluta dal governo Berlusconi. Spinto dai leghisti e da Tremonti, l'esecutivo punta a realizzare la cosiddetta «devolution sanitaria»: ogni regione si cura secondo il proprio budget, senza poter chiedere fondi allo Stato e dunque alla cassa comune alimentata da tutte le altre regioni. Un sistema che affosserebbe definitivamente i già precari sistemi sanitari del sud e delle isole, dove il reddito pro-capite dei cittadini è molto più basso e i servizi si reggono principalmente sui trasferimenti statali. I medici e il personale sanitario, scioperando ieri, hanno voluto difendere un servizio universale uguale per tutti i cittadini: il diritto alla salute è garantito dalla Costituzione e a tutti devono essere assicurati i cosiddetti «livelli essenziali».
 

LAVORO POLITICO
Cgil contro devolution
CARLA CASALINI
Il documento è netto fin dal suo titolo - «La riforma costituzionale. La posizione della Cgil» - e Guglielmo Epifani lo ha presentato ieri insieme al segretario confederale Paolo Nerozzi, al giuslavorista Luigi Mariucci, sottolineando le implicazioni pratiche di questa «posizione» che boccia recisamente il progetto del governo di centrodestra: «Faremo valere il nostro dissenso in tutte le forme adeguate, e chiediamo a Cisl e Uil di lavorare insieme a un punto di vista unitario». La Cgil, per parte sua, in caso di referendum «darà un'indicazione di voto per respingere le proposte del governo - anticipa Epifani, dicendosi «certo che la maggioranza degli italiani le respingerà». In premessa il testo della Cgil si richiama al giudizio, ugualmente negativo, espresso in un altro documento, nel febbraio del 2001, rispetto alla riforma del Titolo V della Costituzione allora proposta dal centrosinistra che la votò a colpi di maggioranza agli sgoccioli della legislatura. Anche allora si denunciavano le negatività: a partire dalla «legislazione concorrente» attribuita alle Regioni sul lavoro, che poteva «aprire varchi a possibili differenziazioni territoriali» nelle condizioni della prestazione e nei diritti; e si indicava una serie di altri «varchi» spalancati da quella «riforma» sul futuro.

Eloquente l'esortazione rivolta al tempo al centrosinistra: «a questa commedia degli equivoci si deve porre fine: è necessario quindi individuare con nettezza i principi costitutivi e gli assi strategici di una seria e solida riforma federale della repubblica». Il giudizio rimase negletto, il messaggio inascoltato - pur se va ricordato che allora la Cgil non fece del suo testo uno strumento di larga battaglia politica contro le scelte del centrosinistra.

Oggi si riprendono le mosse da quella premessa: «purtroppo il metodo, che già allora criticavamo, si ripresenta ora in forma aggravata». Il disegno di riforma costituzionale del centrodestra «non ha alcuna coerenza interna ma risponde a un pasticciato assemblaggio di soluzioni utili solo a trovare, tatticamente, una impossibile convivenza in termini di visione istituzionale tra le diverse componenti della coalizione di governo in carica». E la Cgil rivolge un «appello» alle forze politiche e sociali, al mondo delle associazioni e a «tutti i cittadini consapevoli»: dal luogo da cui parla un «sindacato confederale» è chiaro che questa riforma costituzionale «riguarda direttamente le condizioni concrete dei lavoratori», ma indebolisce per tutti l'«universalità delle tutele e dei diritti».

Il documento segnala che dietro le «soluzioni» istituzionali in discussione «serpeggia un'idea», relativa ai rapporti tra federalismo e interessi sociali, «che riguarda direttamente anche il sistema delle relazioni contrattuali». Una de-strutturazione delle relazioni che sostituirebbe l'attuale contrattazione decentrata, sottraendole precisamente la base egualitaria oggi sancita a monte dal contratto nazionale: per chi lavori al nord o al sud, in imprese grandi o piccole. Guglielmo Epifani ieri ha ricordato, al proposito, la vicenda dei tranvieri e il tentativo della destra, e non solo, di praticare l'obiettivo cancellando quel contratto nazionale.

Ma la disarticolazione tentata da questa «riforma» intacca la più generale coesione sociale. E il documento della Cgil ne sottolinea tutti i passaggi. Alla improvvida azione del centrosinistra che attribuì la potestà di legislazione «concorrente» sul lavoro alle Regioni, la destra oggi aggiunge la competenza legislativa «esclusiva» attribuita loro sulla salute, la scuola, la polizia locale. Non c'è dubbio che questa svolta, e ben più gravemente che nel 2001, confligge senza soluzione con il «federalismo solidale» i cui «principi fondamentali» il testo presentato ieri in corso Italia riarticola nella sua pars construens.

Ma il disegno di fondo della destra, che tende a comporre una disarticolazione sociale e istituzionale con la scelta plebiscitaria del potere forte centrale, non sfugge all'analisi della Cgil, che affronta anche la concentrazione dei poteri in capo al premier, il senato federale così come si sta formulando, la polverizzazione di regioni, comuni e province in violazione dell'art.132 della Costituzione, e la «dittatura della maggioranza» con la privazione di garanzie per l'opposizione di turno.

 

12 febbraio 

Berlusconi: siamo più ricchi
«Basta parlare di crisi, il ceto medio consuma più di prima». Il premier a ruota libera in tv. «Casalinghe, imparate da mia madre». Ricerca: le famiglie spendono il 2,8% in meno
Casalinghe, imparate dalla madre del presidente del consiglio. «La mamma percorreva tutto il lato destro delle bancarelle, poi il lato sinistro informandosi sulle offerte che le apparivano migliori per qualità e prezzi. Questo s'ha da fare». La lezione arriva dalla confortevole tribuna televisiva di Porta a Porta. Non c'è inflazione che tenga, la colpa resta delle «massaie». Senza contraddittorio il presidente del consiglio dà lezioni di economia. E conclude: «C'è stato un arricchimento generale del paese». La crisi? Bugie della sinistra che usa «il metodo stalinista della calunnia e della menzogna quotidiana su tutto». «Menzogne» anche i dati dell'Eurispes. Per Berlusconi «Il ceto medio consuma come prima, l'incremento degli stipendi e dei consumi è stato superiore all'inflazione». Naturalmente il premier ne ha anche per i sindacati: «Ci sono stai molti scioperi che hanno ragioni politiche e non attinenti al motivo di lavoro. La situazione è stata fatta esplodere da sindacati come la Cgil».

Berlusconi ha poi ridotto a uno scambio di opinioni la tesissima verifica di maggioranza - «è andata avanti con cordialità e amicizia... purtroppo sui giornali è stata dipinta come una lite» - e ha concluso attaccando i magistrati «Lo sciopero è una cosa grave, ai limiti dell'eversione. Ma questo governo non si farà intimidire, andremo avanti con la riforma».

Poche ore prima dello show a Porta a Porta, con un po' meno spettatori ma molti più dati i ricercatori dell'Icu - Istituto consumatori e utenti - avevano reso noti i risultati di un'analisi sull'impatto dell'inflazione sui redditi negli ultimi tre anni. La perdita di potere d'acquisto per i redditi sotto i 10.000 euro (annui) è stimata nell'ordine del 14%. Non solo: l'aumento dei prezzi è stato più sensibile per le spese che incidono di più sui panieri dei ceti «bassi» e sui beni che si acquistano di frequente. Nel solo 2002 - dice la ricerca citando gli ultimi dati dell'Istat - la spesa media reale per famiglia è diminuita del 2,8%. Ma forse queste famiglie vivono in un'altra Italia, non quella che - come ha detto Berlusconi - «è sempre più ricca».

 

Viaggio nelle realtà italiane del Gruppo

Un'azienda che deve continuare a produrre

di Mayda Guerzoni

Un vero piano industriale e non solo un piano di salvataggio per il gruppo Parmalat: è di questo che vogliono discutere con il commissario straordinario Bondi i sindacati di categoria nazionali e delle realtà produttive interessate, dall’Emilia Romagna alla Sicilia, dalla Lombardia alla Basilicata e ancora Piemonte, Friuli, Veneto, Campania, Lazio, Liguria, Basilicata. In tutto venti stabilimenti in dieci regioni e 4.000 dipendenti, sui quali la gigantesca truffa di Tanzi e company è arrivata come un uragano che spazza con violenza il paesaggio e non lascia niente come prima. Superato lo shock iniziale, la sorpresa e lo sgomento si sono trasformati in attivismo nervoso ma lucido. Una caterva le cose da fare per gestire l’emergenza e guardare avanti: assemblee con i lavoratori, strategie da mettere in campo per il gruppo e le singole aziende, rapporti con le istituzioni, reti da tessere con le altre categorie coinvolte, ponti da costruire con le realtà produttive sparse per il mondo, quei 126 siti di cinque continenti con circa 37.000 occupati che rischiano di lasciarci le penne.


Settimane di fuoco a Parma e Collecchio
A Parma e Collecchio – fulcro oggettivo di tutta la vicenda perché è lì il cervello dell’azienda insieme al grosso del gruppo – il sindacato e i lavoratori si sono fatti carico di tamponare le falle che ostacolavano l’attività produttiva di tutti i giorni per garantirne la continuità, facendo pressione perfino nei confronti degli allevatori e delle banche, assumendo ruoli che sono andati ben oltre il senso di responsabilità e l’interesse particolare. Il tutto sotto una esposizione mediatica fortissima e l’affanno di un distillato quotidiano di notizie sempre più incredibili di voragini finanziarie senza fondo, che chiamano in causa, insieme alla proprietà e al management, gli organi di controllo e il sistema bancario italiano e internazionale, lasciando trapelare un intreccio di interessi e di comportamenti collusivi che lascia allibiti. .

Ma limitiamoci agli aspetti industriali e del lavoro, mentre sul fronte giudiziario la magistratura ha il suo bel da fare e Fai, Flai, Uila annunciano la costituzione parte civile nel processo. “Sono state settimane di fuoco – racconta Antonio Mattioli, segretario generale Flai Parma – e siamo esausti, ma il clima in fabbrica è migliorato: siamo passati da uno stato di fibrillazione, amarezza e senso di impotenza, a una maggiore fiducia, tutti uniti attorno agli stessi obiettivi. Il sindacato ha detto le cose come stanno, con trasparenza e crudezza, consapevole della gravità della situazione. Quando contestammo l’emissione di bond a Tonna e Parmalat, nel 2001 e 2002, fummo considerati una voce fuori dal coro, un elemento di disturbo. Ci guardava male anche una parte degli stessi lavoratori, in particolare gli impiegati, che oggi non perdono un’assemblea e stanno compatti con noi”.

“La nostra forza– continua Mattioli – è sapere che l’azienda è sana, in un sistema industriale vivo e solido, capace di autofinanziarsi. Su questa base è realistico porsi l’obiettivo di garantire la continuità del sistema produttivo, il consolidamento del core business  e dell’occupazione, unica risorsa da cui partire per dare risposta in positivo all’intera filiera, dagli allevatori alla distribuzione, comprese le aziende dell’indotto e dei servizi”.

Questo significa scommettere su un rapporto positivo con il territorio, tanto più se si chiama Parma, distretto di eccellenza dell’agroalimentare e sede della neonata Authority alimentare e tanto più dopo lo scotto dell’affare Cirio. La Regione Emilia-Romagna conforta e sostiene le posizioni sindacali, come ribadito nell’ultima seduta del Consiglio Regionale e negli incontri con il presidente Errani. A sua volta il presidente di Confindustria regionale Massimo Bucci si è differenziato palesemente dai presidenti nazionale e parmense, rimarcando gli aspetti etici e il clima di sfiducia che derivano dalla vicenda, sollecitando gli imprenditori all’autocritica.


Prodotti da forno: l’anello debole
In giro per l’Italia sono tutti convinti che non ci siano alternative all’obiettivo di mantenere l’integrità del gruppo nazionale e internazionale. Dalla ricognizione delle realtà regionali emerge che tra le varie attività di Parmalat, ovvero latte, yogurt, succhi, conserve vegetali, prodotti da forno, quest’ultimo rappresenta l’anello più debole.

Lo confermano i timori per lo stabilimento di Atella di Potenza, che secondo il segretario generale della Flai territoriale Antonio Di Bari è uno dei primi che rischia di essere tagliato fuori. “I prodotti da forno perdono terreno da tempo sul mercato e lo stabilimento è in pericolo, anche se è nuovo e solido, con tecnologie avanzate e dipendenti giovani. E se perdi il posto di lavoro in Basilicata non hai molte altre occasioni”.

Risalendo al Nord, anche lo stabilimento di Lurate (sempre prodotti da forno) corre rischi analoghi. “Ma siamo in tensione anche per Eurolat di Lodi – denuncia Giovanni Sartini, segretario generale della Flai Lombardia – già depotenziato da Parmalat che l’ha acquisito nel 2001 cedendo però a Newlat marchi importanti per aggirare l’antitrust. Siamo nettamente contrari all’abbandono della fabbrica: quei cinquanta lavoratori in mobilità devono rientrare, l’azienda deve essere salvata e rilanciata”.


In Sicilia duemila famiglie a rischio
Dalla Sicilia la voce di Salvatore Lo Balbo, della segreteria regionale Flai, tradisce una forte apprensione. “La crisi Parmalat nella nostra regione mette in gioco la vita di almeno duemila famiglie tra dipendenti, indotto, conferenti di latte e agrumi. In questi dodici anni la presenza del gruppo ha innescato un circuito virtuoso, rilanciando il settore agrumicolo, che oggi costituisce un pezzo importante dell’economia regionale. La Sicilia non può fare a meno della Parmalat e del lavoro che ruota attorno al gruppo, sarebbe un danno enorme. Stiamo premendo sulla Regione perché si faccia carico del problema e nel contempo vigiliamo contro eventuali giochi politico-affaristici, che già si profilano nelle indiscrezioni su acquirenti possibili di questo o quel pezzo produttivo, creando solo danni”.

Lo Balbo segnala che oltre ai tre stabilimenti di Catania, Ragusa e Termini Imerese, targati Parmalat, anche la Cosal-ex Ciappazzi (acque minerali, 47 dipendenti ) deve rientrare nel conto delle aziende siciliane del gruppo e nel piano industriale di Bondi. Paradossale la vicenda di questa società, che fa capo alla famiglia Tanzi ed è salita agli onori delle cronache quando lo stesso Tanzi ha dichiarato di averla acquisita da Ciarrapico per fare un piacere a Geronzi. Peccato però che sia mancata la concessione necessaria per produrre acque minerali, cosa che ha impedito di riprendere l’attività. Così da un anno i dipendenti vanno in una fabbrica ferma e sono in lotta per avere il lavoro. In dicembre è arrivata la concessione ma pare che il destino di Cosal sia la vendita, mentre il sindacato sollecita innanzitutto la ripresa della produzione.


Gioco al ribasso sulla Centrale del latte di Roma
Il tema delle manovre di pura speculazione finanziaria ricorre anche a Roma, come spiega Luigi Cocumazzo, della segreteria Flai Roma-Lazio. “Circolano voci di interessamento alla Centrale del Latte, che è florida, ha un buon marchio ed è appetibile sul mercato. Voci che potrebbero puntare al ribasso del valore dell’azienda e che vanno stoppate subito perché non c’entrano niente col processo industriale”

Per concludere, il commento di Giancarlo Battistelli della segreteria nazionale Flai. “La Parmalat non è solo una montagna di debiti, non ci sono solo imbroglioni, ci sono soprattutto migliaia di lavoratori, di tecnici, che hanno costruito con il loro lavoro realtà produttive di qualità: questa è oggi l’unica certezza, il punto vero da cui partire, senza retorica, anche se è difficile immaginare il futuro possibile. È indispensabile definire una politica industriale che favorisca e sostenga correttamente la crescita di imprese nazionali a dimensione mondiale, perché limitarsi alle nicchie produttive non offre prospettive alla capacità di competizione. Prima di parlare di spezzatino, per Parmalat bisogna parlare di questo”.  

13 febbraio

DISPREZZO DEI DIRITTI UMANI
Nel buco nero di Guantanamo

Prevedibile, la cattura di Saddam Hussein non risolve il rebus iracheno. Finalmente liberi dall'ex dittatore, gli iracheni continuano a mostrarsi avversi, in maggioranza, all'occupazione straniera. Ogni giorno si rinnovano le ostilità nei confronti dell'esercito americano. La prospettiva di un trasferimento di sovranità alle autorità locali riaccende la sfida tra comunità (sciita, sunnita, kurda). Si percepisce la minaccia di una sorta di «libanizzazione». La pace non è a portata di mano. Proprio come in Afghanistan, dove sono tornati i talebani. La gestione fallimentare del dopo guerra rende ancora più assurda la sorte di coloro che sono stati catturati durante la guerra contro i talebani nel 2001, e poi parcheggiati nel bagno penale di Guantanamo, nell'isola di Cuba. In spregio ai diritti umani e alle stesse leggi degli Stati uniti.

Augusta Conchiglia
Da quasi due anni, circa 660 «nemici combattenti» catturati in Afghanistan, in Pakistan o consegnati da paesi terzi, sono detenuti in regime di isolamento nella base americana di Guantanamo (Cuba), a dispetto di tutte le leggi internazionali. La detenzione si basa esclusivamente su alcuni decreti emanati dal presidente degli Stati uniti, in nome dello «stato di guerra contro il terrorismo». Fino a oggi, nessuna imputazione è stata formulata ufficialmente contro i detenuti, e le commissioni militari ad hoc, annunciate nel 2001, non sono state ancora costituite.
Malgrado una permanenza di vari giorni nella base di Guantanamo, non siamo riusciti ad entrare in contatto con nessuno dei prigionieri.
Li sorvegliano gli uomini del generale Geoffrey Miller, comandante del campo e capo della Joint Task Force (Jtf), che prende ordini direttamente dal Pentagono. I giornalisti che visitano le installazioni sono tenuti lontani dai blocchi di massima sicurezza e possono intravedere soltanto i prigionieri del Campo 4, dove vivono coloro che si mostrano «cooperativi». È vietato loro parlare con i giornalisti o rispondere alle domande.
La base di Guantanamo era avviata verso un netto declino quando, alla fine del 2001 e con la guerra in Afghanistan, ha ripreso ad ampliarsi. La sua popolazione militare e civile è triplicata e ormai supera le 6.000 persone. Le unità della Jtf e la prigione si sono insediate in una zona incolta. Le carte della base non riportano in alcun modo l'esistenza del centro di detenzione, né dei numerosi edifici di servizi che lo circondano.
In prossimità della zona di massima sicurezza, delle barriere arancione costringono l'auto del visitatore ad avanzare a zigzag, facilitando il compito delle sentinelle che verificano ogni veicolo. Da quando il cappellano mussulmano del campo e due traduttori sono stati arrestati con l'accusa - dimostratasi falsa - di spionaggio , le misure di sicurezza sono raddoppiate.
Il campo Delta, suddiviso in quattro quartieri, può accogliere 1.000 persone; al nostro arrivo contava 660 detenuti di 42 nazionalità diverse. È circondato da vari reticolati metallici, ricoperti di nylon verde, su cui corre del filo spinato collegato all'alta tensione.
I prigionieri, le cui celle restano illuminate tutta la notte, sono sottoposti alla sorveglianza permanente delle guardie che fanno la ronda o controllano dalle torrette.
Le condizioni di detenzione sono tali che il campo ha registrato 32 tentativi di suicidio (da parte di 21 detenuti). Secondo il capitano John Edmondson, il chirurgo che dirige l'ospedale, 110 detenuti - uno su sei - sono in cura per turbe psicologiche, in genere comparse a seguito di depressioni. Venticinque di questi detenuti ricevono trattamenti psichiatrici. Al momento della nostra visita, era ricoverato e alimentato per via endovenosa un detenuto che da un anno attua in modo intermittente lo sciopero della fame.
In almeno tre dei quattro campi le condizioni di detenzione sono terribili. I blocchi sono costituiti da quarantotto celle, poste su due file da ventiquattro, ciascuna con una superficie di appena due metri per due e mezzo. Le pareti e le porte, in rete metallica, impediscono qualsiasi intimità. La routine è rotta soltanto da una passeggiata solitaria di venti minuti in una grande gabbia posta sul cemento, con l'aggiunta, tre volte a settimana, di una doccia di cinque minuti - e, ad ogni trasferimento, la bardatura regolamentare: manette e fermi ai piedi collegati da catene.
Nel campo 4, il gruppo che riusciamo a intravedere sembra composto da coetanei, sotto la trentina; uomini dalle barbe folte e col fez in testa. I 129 detenuti vivono in piccoli gruppi, le loro celle, meno strette, contengono fino a dieci letti. Mangiano insieme e possono uscire diverse volte al giorno negli spazi adiacenti il carcere, dove sono incollati alcuni manifesti sull'opera di ricostruzione in Afghanistan.
La giustizia secondo Wolfowitz Al contrario dei prigionieri degli altri tre campi, che portano una divisa arancione, quelli del campo 4 sono vestiti di bianco, «il colore della purezza nell'islam», spiega con fierezza una delle guardie.
Ci fa notare che questi prigionieri hanno ricevuto dei tappeti veri per la preghiera, oltre al corano, distribuito a tutti i detenuti dopo uno sciopero della fame che aveva segnato le prime settimane del loro arrivo .
È evidente che il Pentagono permette le visite della stampa nel desiderio di migliorare l'immagine estremamente negativa dei primi mesi. Ci mostrano quindi il «Campo Iguana», una casetta situata su una scogliera a picco sul mare, circondata da una rete metallica di sicurezza.
È lì che sono rinchiusi da più di un anno tre «nemici combattenti» minorenni, di età compresa tra i 13 e i 15 anni. Ci viene detto che seguono corsi d'inglese, giocano un po' a calcio e hanno diritto a qualche videocassetta. Tuttavia è impossibile vederli e non possiamo conoscere neppure la loro nazionalità.
Il programma prevede anche una deviazione attraverso il «Campo X Ray». All'inizio, i prigionieri transitavano per questo campo e il mondo intero ha potuto vedere le insopportabili immagini di deportati costretti in ginocchio, nelle loro divise arancione, immobili sotto la minaccia delle armi dei loro carcerieri, incatenati e tenuti in un totale isolamento, incappucciati e con i paraorecchie.
Costruito in origine per rinchiudere i boat people haitiani più turbolenti, oppure quelli colpiti da aids, X Ray, ormai invaso da una folta vegetazione, è stato definitivamente abbandonato. La stessa cosa succederà al Campo Delta. È infatti in costruzione un Campo 5, la cui prima fase terminerà nel luglio 2004. Carcere duro, costruito per circa un centinaio di prigionieri, riservato ai detenuti che saranno definitivamente condannati dalle commissioni militari, questo campo ospiterà anche una camera della morte per le esecuzioni capitali...
Il 13 novembre 2001, giorno in cui l'Alleanza del nord ha assunto il controllo di Kabul, è anche il giorno in cui è stato pubblicato l'ordine presidenziale che ha permesso la creazione del centro di detenzione di Guantanamo. Bisognava ricorrere a un trucco per sistemare coloro che il presidente americano avrebbe definito «nemici combattenti», inaugurando un concetto nuovo, estraneo al diritto americano e internazionale .
«L'amministrazione Bush rifiuta di considerare i "nemici combattenti" come prigionieri di guerra, mentre nega loro il diritto di essere deferiti davanti a un tribunale competente per determinare il loro status giuridico, come invece è previsto dalla terza Convenzione di Ginevra, ratificata dagli Stati uniti - afferma Wendy Patten, direttrice della sezione giustizia di Human Rights Watch . Le commissioni militari, che non prevedono la possibilità di appellarsi ad una corte indipendente, non garantiscono un equo processo.» L'amministrazione, dal canto suo, sostiene che la scelta delle commissioni militari serve ad impedire che siano divulgate informazioni riservate.
Assolutamente contrario a questa posizione è Eugène Fidell, ex avvocato militare e presidente dell'Istituto nazionale di giustizia militare: «C'erano almeno due opzioni: le corti penali, che in passato hanno giudicato casi di terrorismo, come quello contro il World Trade Center nel 1993, e le corti marziali, come quella che ha giudicato il presidente di Panama, Manuel Noriega .
Un solo uomo sarà al centro delle commissioni militari: il vice ministro della difesa Paul Wolfowitz. Sarà lui a scegliere giudici e procuratore e a decidere i capi d'accusa. Ancora spetterà a lui il compito di nominare i tre membri della commissione cui potranno appellarsi i condannati. E infine sarà sempre lui ad esaminare le loro conclusioni e a decidere.
«I militari funzioneranno da inquisitori, procuratori, consiglieri della difesa, giudici e, nel caso venissero pronunciate pene di morte, anche da boia», «risponderanno solo al presidente Bush», ha dichiarato il magistrato britannico Lord Johan Steyn, nel corso di una vigorosa requisitoria contro quello che ha definito: «il buco nero giuridico di Guantanamo .
La situazione è però mutata improvvisamente venti mesi dopo la creazione del bagno penale di Guantanamo, quando ancora l'amministrazione americana rifiutava di prendere in considerazione gli appelli di avvocati e governi occidentali - tra cui quello francese - con propri cittadini residenti all'estero tra i prigionieri.
C'è stata, prima di tutto, l'inattesa decisione della Corte suprema di esaminare i ricorsi presentati dalle famiglie di sedici detenuti (dodici kuwaitiani, due britannici e due australiani). Il 10 novembre 2003, la più alta istanza giurisdizionale degli Stati uniti ha infatti accettato di valutare se la giustizia americana sia o meno competente «sulla legalità della detenzione di stranieri, catturati all'estero in connessione con le ostilità, che sono detenuti nella base navale di Guantanamo». Eppure, pochi giorni prima, David Cole, professore di diritto a Georgetown (Washington) e autore di molte opere sulle derive autoritarie del dopo 11 settembre , ci aveva confidato il suo scetticismo: «Soltanto il 2% dei ricorsi presentati alla Corte suprema sono accolti, e in genere questa esamina solo i casi in cui i pareri delle corti di grado inferiore, che si sono pronunciate sulla questione, divergono». Fino a quel momento, però, le due corti di grado inferiore avevano sostenuto la posizione del governo. In seguito, il 18 dicembre, una corte d'appello di San Francisco ha espresso il parere che i detenuti di Guantanamo abbiano diritto ad un avvocato e che siano di competenza della giustizia americana.
Il 9 novembre, rompendo il lungo silenzio dei principali dirigenti democratici, Albert Gore, nel corso di una conferenza tenuta al Centro dei diritti costituzionali di Washington, ha dichiarato: «La questione dei prigionieri di Guantanamo ha fortemente danneggiato l'immagine dell'America nel mondo, anche presso i suoi alleati (..). Gli stranieri detenuti a Guantanamo devono essere ascoltati dalla giustizia, affinché si possa definire il loro status giuridico, come previsto dalla Convenzione di Ginevra (...). Il modo in cui il segretario Rumsfeld ha gestito la questione dei detenuti equivale più o meno al modo in cui ha gestito il dopoguerra in Iraq...».
«Il periodo più nero dopo il maccartismo» Certo, prima di lui, altri senatori democratici, come Patrick Leahy , avevano interpellato l'esecutivo circa le accuse di torture ai prigionieri - comprese le estradizioni senza procedura di detenuti di Guantanamo verso paesi del Medio oriente dove la tortura viene praticata normalmente - , circa la morte sospetta di due afgani detenuti nella base di Bagram in Afghanistan, o l'utilizzo di pesanti tecniche d'interrogatorio definite, in linguaggio militare, «stress and duress» (pressione e costrizione) . Leahy ci ha dichiarato senza esitazione che «i detenuti di Guantanamo devono essere considerati prigionieri di guerra» e «trattati in modo umano, conformemente alle direttive della Convenzione dei diritti dell'uomo». Ma per molto tempo la sua determinazione è stata una posizione isolata all'interno della classe politica americana.
Anche gli avvocati delle famiglie dei detenuti non si sono risparmiati.
Tom Wilner, membro di un prestigioso studio legale di Washington, Shearman & Sterling, difensore delle famiglie dei kuwaitiani, ha tenuto viva l'attenzione dei media e sensibilizzato quante più personalità politiche possibile.
William Rogers, uno dei due ex vicesegretari di stato che hanno inviato un ricorso «riservato» alla Corte suprema, durante un incontro a Washington, all'inizio di novembre, ci ha confidato la sua preoccupazione per «la scarsa consapevolezza della società americana sulla gravità di questi fatti. Non ci si può far beffe del diritto costituzionale con il pretesto che siamo in guerra contro il terrorismo. Al contrario, dobbiamo difendere i princìpi, di fronte a queste derive dobbiamo incarnare il diritto internazionale».
Rogers, il cui ultimo incarico risale alla presidenza di Gerald Ford, non trova parole abbastanza dure per condannare i metodi dell'attuale amministrazione: «è uno dei periodi più neri della nostra storia, dopo il maccartismo. Oggi si fa ricorso agli stessi metodi arbitrari e repressivi». Cofirmatario del ricorso, il contrammiraglio Donald Guter, che lo scorso anno è andato in pensione lasciando l'incarico di capo della giustizia militare della marina. A questo titolo, aveva partecipato alla decisione di utilizzare la base di Guantanamo per interrogarvi i detenuti. «Portare i prigionieri a Guantanamo aveva un senso per superiori necessità di sicurezza, ma ora rischiamo di assistere a una condanna a vita per alcuni di loro, senza che ci sia stato un giusto processo», ha dichiarato il 9 ottobre 2003.
Anche vari ex giudici e procuratori hanno tenuto a ricordare alla Corte suprema che i termini della Convenzione di Ginevra sono compresi nel regolamento dell'esercito americano e che è illegale ignorarli.
Va segnalata anche l'iniziativa di un americano di origine giapponese, Fred Korematsu, che nel 1944, durante la seconda guerra mondiale, aveva contestato la costituzionalità del decreto che autorizzava l'internamento di 120.000 cittadini di origine giapponese. Korematsu ha presentato un ricorso perché, ha dichiarato, si sente impegnato a fare in modo che gli americani non dimentichino un periodo oscuro della propria storia.
C'è da considerare poi, che nell'argomentazione alla Corte presentata dal procuratore generale Theodore Olson, il governo aveva sostenuto, con una notevole mancanza di tatto, che i ricorsi andavano semplicemente rigettati, perché «in tempo di guerra, la giustizia abitualmente non interferisce nelle decisioni dell'esecutivo...». Senza pregiudizio sulla «sentenza» finale, che sarà resa nel giugno 2004, la Corte ha voluto riaffermare che spetta a lei sola, e non all'amministrazione, il compito di «dettare legge».
Da novembre, la questione Guantanamo comincia ad uscire dal silenzio.
Del resto, anche negli Stati uniti, l'opinione pubblica era rimasta colpita dallo «sfogo» del Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) che, uscendo dal suo abituale dovere di riservatezza, aveva denunciato la disperazione indotta nei detenuti dalla totale assenza di prospettive.
L'amministrazione non poteva rimanere indifferente di fronte al dilagare delle critiche. A fine novembre, il Pentagono ha annunciato che presto avrebbe liberato dai 100 ai 140 detenuti - che stiamo ancora aspettando - e ha nominato un militare come avvocato d'ufficio per la difesa del detenuto australiano David Hicks. Quest'ultimo, sottoposto a un trattamento durissimo, aveva iniziato uno sciopero della fame richiamando l'attenzione dei media. Contrariamente a quanto disposto inizialmente per le commissioni militari, il Pentagono lo ha allora autorizzato a farsi assistere da un avvocato civile di sua scelta e ha garantito la riservatezza dei loro futuri colloqui. E questo, grazie ad un accordo tra Stati uniti e Australia, simile a quello firmato alcuni mesi prima con il Regno unito, che esclude, in particolare, la condanna a morte dei loro cittadini residenti all'estero. Gli avvocati di quattro dei sei detenuti francesi, uno dei quali è Paul-Albert Iweins, presidente del tribunale di Parigi, avevano sperato che la Francia ottenesse «almeno» garanzie simili. Invano, malgrado l'interessamento del Quai d'Orsay.
Quando i «nemici combattenti» sono americani Dopo Hicks, è stato un cittadino americano, Yaser Hamdi, ad essere autorizzato a contattare un avvocato. Arrestato in Afghanistan, Hamdi in un primo momento era stato portato a Guantanamo e lì era rimasto fino a quando i militari non si erano convinti che era americano.
Nell'aprile 2002 era stato allora trasferito nel carcere della base navale di Norfolk, in Virginia, dove si trova ancora oggi in isolamento.
A questo punto il governo, che per decreto aveva riservato le commissioni militari esclusivamente agli stranieri, ha immediatamente «esteso il concetto di giustizia militare a cittadini americani unilateralmente designati "nemici combattenti" ; in questo modo si è arrogato il diritto di detenerli indefinitamente nelle carceri militari, privandoli di qualsiasi contatto con l'esterno.
Eppure, Walker Lindh, il «talebano americano» catturato in Afghanistan nello stesso periodo di Hamdi, è stato giudicato dalla corte penale di Alessandria (Virginia) e ha goduto di tutte le prerogative che la Costituzione accorda alla difesa.
Hamdi è riuscito ad ottenere il diritto ad un consulente legale, un giorno prima dell'ultima data utile per la consegna alla Corte suprema degli ultimi ricorsi relativi per l'appunto ai suoi diritti...
È vero che la sua detenzione in isolamento e quella di un altro cittadino americano, José Padilla , imbarazzano lo stesso entourage del ministro della giustizia John Ashcroft. Uno dei suoi ex assistenti, il professore Viet Dinh, che ha avuto un ruolo preponderante nella redazione della legislazione antiterroristica, ha manifestato il suo disaccordo nei confronti del trattamento riservato ai cittadini americani e si è felicitato del cambiamento. In compenso, Dennis Archer, presidente dell'Associazione americana degli avvocati di tribunale, che conta 400.000 membri, si è rammaricato del fatto che il Pentagono non abbia voluto farne un principio generale.
«In questo caso l'amministrazione ha esercitato un potere discrezionale, spiega Wendy Patten di Humans Right Watch. Il Pentagono, infatti, continua ad affermare che i "nemici combattenti" detenuti negli Stati uniti non hanno alcun diritto legale di contattare un avvocato. E nel caso specifico, la concessione è stata possibile solo perché gli interrogatori del prigioniero erano finiti. Insomma, ci si rifiuta ancora di riconoscere che il diritto alla difesa è imprescindibile e non può dipendere dalla buona volontà dell'amministrazione.» Anche se la Casa bianca sembra in difficoltà nei confronti della stampa americana, tuttavia essa conta su alcuni sostenitori incondizionati, come il Wall Street Journal. Rispondendo alle critiche del Cicr, il quotidiano finanziario gli ha rimproverato «di aver ignorato il dovere di riservatezza e di essersi deliberatamente impegnato sul terreno politico » Ritiene che i «nemici combattenti» «debbano essere detenuti fino alla fine della guerra contro il terrorismo».
E aggiunge: «qui non si tratta di una lotta senza fine, paragonabile alla guerra contro il crimine o la povertà. È un conflitto tra Stati uniti e al Qaeda, i gruppi affiliati e gli stati che hanno scelto di proteggerli. Il conflitto finirà quando al Qaeda sarà stato schiacciato e non sarà più in grado di lanciare attacchi contro bersagli americani...» Completamente diversa l'opinione della delegata generale del Cicr per l'Europa e le Americhe, Béatrice Mégevand-Roggo. Per lei, nella «guerra» tra Stati uniti e Al Qaida, solo in Afghanistan si può parlare di un vero conflitto armato internazionale: «Questo conflitto, regolato dalla terza Convenzione di Ginevra, è finito il 19 giugno 2002, con l'Assemblea della Loya Jirga che ha legittimato il governo del presidente Karsai. Il diritto internazionale umanitario  prevede tuttavia la possibilità che si continuino a detenere dei prigionieri, a condizione che siano accusati di fatti precisi e sottoposti a una procedura giudiziaria le cui garanzie minimali sono previste dalla terza Convenzione.
Per tutti coloro che sono stati arrestati dopo il 19 giugno 2002, nel quadro del conflitto interno che continua ad imperversare in Afghanistan, esistono delle disposizioni del diritto internazionale umanitario ed alcune garanzie fondamentali che si adattano perfettamente al caso dei detenuti di Guantanamo. In conclusione, se non c'è l'obbligo di liberare tutti i detenuti di Guantanamo, c'è in compenso un obbligo molto chiaro di sottoporli ad una procedura giudiziaria regolata da norme di diritto, internazionale o interno. Oggi, queste persone sono tenute da mesi, se non da anni, in un totale vuoto giuridico: è proprio questo che consideriamo inaccettabile. Affermarlo non ha niente di politico, ma rientra pienamente nel nostro ruolo umanitario.» Sia pure timidamente, l'opposizione degli americani alle leggi eccezionali comincia a farsi sentire e l'amministrazione Bush si trova sotto il fuoco incrociato di una parte crescente dell'establishment giudiziario, delle organizzazioni umanitarie e dei media che denunciano il rifiuto di rendere giustizia ai detenuti di Guantanamo. Non dovrà allora, a un anno dalle elezioni, farli uscire dal «buco nero» in cui li ha imprigionati e tornare alle regole del diritto internazionale?

16 febbraio

MOBBING
Botte e insulti nell'ambasciata greca
Una lavoratrice italiana minacciata per mesi, il capo la schiaffeggia e poi la licenzia
ANTONIO SCIOTTO
ROMA
Insultata e vessata per mesi, presa a schiaffi dal capo, che l'ha mandata al pronto soccorso, licenziata senza troppi complimenti. Tanto era precaria. E' successo a una lavoratrice italiana, redattrice della rivista «Foro ellenico», che ha tenuto un contratto di collaborazione per due anni nell'ambasciata greca: omettiamo il nome per tutelarla, per facilità la chiameremo Anna. Si recava quotidianamente a lavorare all'interno della sede diplomatica di Roma, e proprio qui Anna ha dovuto subire una serie infinita di prepotenze da parte del suo diretto superiore, responsabile dell'ufficio stampa, che dopo lo «scandalo» (la notizia è uscita su alcuni giornali greci) è stato in fretta e furia rimosso e inviato a ricoprire lo stesso incarico all'ambasciata di Bucarest. Il contratto di Anna è iniziato nel febbraio del 2002: avendo appena terminato un dottorato in letteratura bizantina, e conoscendo approfonditamente il neogreco, la giovane redattrice è stata adibita al coordinamento e alla scrittura della rivista «Foro ellenico». Il giornale si occupa di riferire gli avvenimenti relativi alla cultura e alla società greca, è scritto in italiano, ha cadenza bimestrale e viene diffuso sia nel nostro paese che in Grecia. Nessun rapporto di subordinazione, ma un contratto di collaborazione di due anni, più altri eventuali 12 mesi.

All'interno delle ambasciate vigono in genere i contratti dei paesi di riferimento, anche per i dipendenti italiani. Anna, come abbiamo detto, è stata inquadrata come semplice collaboratrice, ma nel suo contratto non erano scritti né orari né mansioni precise. All'atto dell'assunzione ha dovuto concordare oralmente i compiti che avrebbe svolto e, nonostante le sue successive insistenze, non è mai riuscita a ottenerli per iscritto. Il capo che aveva all'inizio le aveva detto che si sarebbe occupata di scrivere gli articoli, tenere i contatti con i collaboratori e tradurre gli articoli, aggiornare il sito Internet. Pur non essendo vincolata a nessun orario, Anna faceva otto ore al giorno, e dopo la stampa del giornale, insieme ad altri quattro dipendenti si occupava delle spedizioni. I pacchi con le riviste venivano infine affidati a un autista che li portava alle Poste.

Il «Foro ellenico», dopo l'arrivo della nuova redattrice, ha avuto un buon successo; le cose sono andate bene finché nell'agosto 2002 al primo capo non ne è succeduto uno nuovo, proprio quello degli abusi. Questo ha subito preteso che Anna si occupasse di tutto, con il solo aiuto di un'altra persona: ovvero, doveva seguire le spedizioni, portare alle Poste i pacchi - una decina, ciascuno di dieci chili - con una macchina privata e non dell'ambasciata. Inoltre, la ragazza avrebbe dovuto ridisegnare la grafica del sito Internet nonostante non sappia nulla di web design, mentre con il carico raddoppiato l'uscita della rivista ha cominciato a subire notevoli ritardi.

Il tutto veniva richiesto con urla, sbattendo le porte, minacciando continuamente Anna, fatta bersaglio di un fuoco di fila insostenibile. Ogni qualvolta si trovasse al telefono, il capo le chiedeva con chi parlasse, le sfilava di mano il mouse per curiosare nel computer, la controllava in maniera ossessiva. Tanti mesi passati così, senza che gli altri dipendenti la difendessero: dopo poco tempo sono arrivati gli attacchi di tachicardia, e una crisi fisica e psicologica di cui ancora oggi subisce gli effetti. L'11 dicembre dell'anno scorso il capo le si avvicina, aggredendola verbalmente. Anna lo allontana, lui risponde con un forte schiaffo. La ragazza va al pronto soccorso, ha una contusione sul viso, alla mandibola.

Quando è troppo è troppo. Anna chiede al ministero della stampa e dei mass media, da cui dipende, di inviare un'ispezione. L'ispettore va a visitarla a casa dopo qualche giorno, accompagnato in macchina dal solito capo (procedura non proprio ortodossa). Dopo Natale la notizia esce su due giornali greci, Topondiki e Eleftheros Typos. Il ministero rimuove il capo e lo manda a Bucarest, ma senza degradarlo. Ad Anna, alla quale l'8 febbraio è scaduto il contratto, non viene fatto il rinnovo, senza un perché e senza il necessario preavviso di due mesi. Al suo posto è diventata redattrice la dipendente di un'azienda aerea greca: avrà le sue stesse competenze culturali?


 GUERRA ALL'IRAQ
Reclutatori nelle scuole Usa
Arrivano nei college e nelle università, a «convincere» gli studenti. Professori e rettori consenzienti
PATRICIA LOMBROSO
NEW YORK
Si presentano in uniforme della U.S. Army ed in borghese quotidianamente nei «campus» delle università pubbliche. Si appostano in ordine sparso davanti alle classi o stazionano nella «cafeteria» dove gli studenti si riuniscono. Si mescolano indisturbati fra gli studenti latino-ispanici, afroamericani e gli immigrati. Si avvicinano suadenti con un biglietto da visita con la scritta di una ditta: «Marines». La scritta in rosso con il nome del sergente presenta questo corollario: onore, coraggio, valore e orgoglio nazionale. Sono gli addetti del Pentagono, «i recruiters» il cui compito è quello di convincere gli studenti più poveri, e dargli la garanzia che, una volta reclutati nell'esercito potranno pagarsi gli studi della retta universitaria aumentata quest'anno di altri 1000 dollari l'anno e di girare il mondo, persino in Iraq! Distribuiscono indisturbati dagli insegnanti e dai rettori dell'università, pamphlet illustrativi, colorati come per un avventuroso viaggio turistico: «Siete pronti a diventare l'orgoglio nazionale? Vi garantiamo che nella carriera militare sarete in grado di pagarvi gli studi ed arrivare alle vette sognate della vostra vita: «Mediante la U.S. Army sarete eligibili per borse di studio di 20.000 dollari sino anche 50.000 dollari. Viaggerete in tutto il mondo». Per ogni studente che viene arruolato nella carriera militare, il recruiter percepisce 1000 dollari, oltre allo stipendio. L'operazione «recruiters» del Pentagono fra i college pubblici si è intensificata ultimamente. Il Pentagono ha deciso che per «poteri di emergenza», altre 30.000 unità militari nelle file della Guardia Nazionale e dei riservisti verrà inviata in Iraq con uno stazionamento di 4 anni. Cresce il malcontento delle famiglie dei militari Usa che ha visto il numero dei morti salire. Il numero ufficiale di attentati suicidi dei soldati arruolati è salito a più di 20. Malgrado il lavoro assicurato, anche chi, riluttante, sceglieva di arruolarsi nella Guardia Nazionale, ora declina la morte sicura in Iraq. Gli studenti delle classi di afroamericani, latinoispani, immigrati costituiscono ora l'ultima sponda. Al Bronx Community College, dell'università della città di New York (Cuny), il 95% degli studenti dai 17 ai 24 è portoricana, dominicana, afroamericana e nuovi immigrati.

L'università pubblica riceve il 60% dei sussidi dal governo federale, il 40% dallo stato e dalla città di New York. E' qui che nel «campus» universitario che è iniziata una mobilitazione di protesta: «Stop and out the recruiters dal campus». Scritte sul giornale universitario titolano: «Bloody conquest of Iraq, racist attack on Cuny». «Nei campus di Cuny frequentata da minoranze etniche della classe più povera come il Bronx Community College, recruiters military chiamano gli studenti a casa, presentano i vantaggi di arruolarsi nell'esercito con promesse di sussidi per l'istruzione. Esigiamo di sapere chi dell'amministrazione fornisce loro i nomi. Né è nostro interesse essere mandati a uccidere i nostri fratelli e sorelle nel resto del mondo».

Quando al rettore del Bronx Community college, Bernard Gant, abbiamo chiesto perché il campus universitario ha l'apparenza più di una base militare che universitaria e perché viene accettata questa interferenza, così ha risposto a il Manifesto: «Noi siamo formalmente obbligati a fornire ogni semestre al Recruiting Center tutta la lista degli iscritti per i corsi universitari. E' una condizione necessaria per poter ricevere i sussidi federali. In base alla legge, varata dal Congresso, la Salomon Law del 1996, è obbligatorio per le amministrazioni universitarie ... aiutare l'esercito a reclutare un numero di studenti adeguato per soddisfare la richiesta».

E le promesse di borse di studio per andare in guerra in Iraq? incalziamo. «Ora - risponde - la pressione dell'amministrazione Bush aumenterà. Deve capire che io rappresento l'istituzione. Spetta agli studenti organizzare una protesta in tutte le università». E ora rischia di diventare impossibile rifiutare il reclutamento, nonostante che, formalmente, la leva non sia più obblicatoria: «Si figuri - risponde il rettore Gant - che ora i recruiters possono anche chiamare a casa studenti al di sotto dei 17 anni, l'età minima per essere adatti al reclutamento. Con il progetto "B-No Child left Behind", ribadito da Bush durante il discorso sullo stato dell'Unione è diventato obbligatorio per i presidi delle High School reclutare studenti che sono in procinto di terminare la scuola media superiore. I Recruiters possono quindi entrare in classe quando vogliono».

17 febbraio

Epifani rilancia la politica dei redditi. E lo sciopero
Il direttivo Cgil discute di potere d'acquisto e di riforma delle pensioni. Maroni: giovedì chiudiamo
PAOLO ANDRUCCIOLI
Cgil a una prova difficile. Il sindacato di corso d'Italia deve fare un bilancio delle sue scelte e degli equilibri politici interni e deve mettere a punto una linea chiara per affrontare i prossimi appuntamenti di cui il primo è la convocazione a palazzo Chigi (formalizzata solo ieri) di tutte le parti sociali sulle pensioni. La riunione - confermata appunto ieri dal ministro Maroni che l'aveva annunciata già dalla scorsa settimana - si terrà nel pomeriggio di giovedì e il governo, oltre la Cgil, ha convocato 37 sigle. Ieri lo stesso ministro del welfare ha voluto lanciare un messaggio distensivo nei confronti dei sindacati, sostenendo che il governo si è convinto ad accettare il silenzio-assenso per il passaggio del Tfr ai fondi pensione. Cade così l'obbligatorietà che sarebbe stata tra l'altro oggetto di possibile incostituzionalità. Ma nelle intenzioni del governo rimangono gli obiettivi di fondo che hanno caratterizzato sin dall'inizio la delega: lancio della previdenza complementare, taglio della spesa previdenziale dello 0,7% rispetto al Pil, ridiscussione del sistema di finanziamento della previdenza pubblica. La Cgil deve perciò mettere a punto con attenzione le sue prossime mosse, pensando anche alle reali possibilità di unità sindacale con Cisl e Uil. Sulle pensioni, nonostante le tante manovre diplomatiche che sono state realizzate nell'ultimo periodo, quello che si profila non sembra però un accordo, ma una nuova probabile rottura con il governo. Se il governo confermasse tutte le sue intenzioni sulla riforma (seppure emendata), la Cgil si dichiara già pronta a un nuovo sciopero generale. Giovedì si chiarirà definitivamente il quadro e si chiariranno anche le posizioni di Cisl e Uil. Ieri Maroni ha parlato di giovedì come dell'appuntamento finale.

La Cgil non discute però ovviamente solo di pensioni. Troppi sono infatti i nodi che si devono chiarire e tante le questioni che rischiano di creare tensioni interne. Ieri, dopo la riunione della segreteria nazionale, il dirittivo si è aperto con la relazione del segretario generale, Guglielmo Epifani, che ha esordito ricordando che proprio un anno fa la Cgil organizzava uno sciopero generale da sola. Quello sciopero - che nonostante le critiche, ebbe un grande successo - era dedicato a un tema particolare: il declino industriale del paese. Per prima, da sola, attaccata o inascoltata, la Cgil lanciava il tema del declino industriale del paese e della mancanza assoluta di una politica di sviluppo da parted el governo. Un tema che poi nel corso dei mesi è diventato perfino una moda.

La situazione reale ci ha dato purtroppo ragione, ha ricordato ieri Epifani parlando delle tante crisi industriali che si sono susseguite in un anno. Oggi la crisi industriale è generalizzata e la stessa forza dell'euro diventa paradossalmente un problema per un industria così fragile.

Stesso discorso sul fronte dei salari e della poltica dei redditi. Crolla il Pil e crollano di coseguenza tutti i redditi da lavoro. Come se ne esce? Si chiede Epifani. «Ci vuole una nuova politica dei redditi?». E quale modello di relazioni industriali è possibile rilanciare con un governo che ha perso l'abitudine della concertazione. Il problema vero, per il segretario generale, è che cosa chiedere alla politica dei redditi. Quattro i punti indicati ieri: tenere sotto controllo l'inflazione e farla scendere; innalzare la quota di reddito prodotto verso i redditi da lavoro; orientare scelte fiscali e contributive per sostenere i redditi da lavoro, le pensioni e i lavoro «poveri»; una politica sociale (casa, scuola, sanità, assistenza) che sia coerente con il segno di euità che si chiede alla politica dei redditi.

Il quadro che emerge dalla relazione di Epifani è insomma un quadro di rilancio della politica dei redditi,che è stata praticamente abbandonata negli anni di governo della destra. Un nodo politico vero da sogliere riguarda però anche il contesto in cui si collocherebbe questa nuova politica dei redditi. Epifani pensa alla concertazione stile anni `90? Ma come si concilia quel modello con un governo che non ama neppure «il dialogo sociale»? Un'altra posizione presente nel dibattito della Cgil è il rilancio del conflitto salariale. E' la posizione per esempio della Fiom, ma non solo. Nel direttivo le due posizioni si confronteranno, facendo i conti anche con la legge 30 e con i relativi accordi che la Cgil ha la tentazione di firmare.


Metà uomini e metà donne, in maggioranza impiegati
Da una ricerca Bocconi la prima radiografia delle vittime
Mobbing, i perseguitati
della scrivania accanto
Più casi nel pubblico che nel privato
Ma denunciare fa paura
di ANDREA MONTANARI

MILANO - Il mobbing può colpire chiunque, ma sembra saper scegliere con precisione: in Italia vibra le sue coltellate sempre più nel settore pubblico, fa soffrire gli uomini quanto le donne - 51 per cento contro 49 - e si aggira come un fantasma dell'invidia soprattutto fra gli impiegati e fra chi ha almeno il titolo di studio di scuola superiore. È sempre più diffuso in Europa, in particolare in Gran Bretagna. In Italia, dove si manifesta soprattutto con il pettegolezzo e la maldicenza, è in crescita anche se nella nostra cultura manca ancora il coraggio della denuncia. Ma se chi lo ha subìto impara a parlarne, riuscirà a sconfiggerlo.

Sono questi i risultati di una ricerca sul tema realizzata da Paola Caiozzo dell'Area Organizzazione & Personale della Sda, la Scuola di direzione aziendale dell'università Bocconi di Milano. La studiosa ha per la prima volta analizzato un campione di mille persone, tra le tremila che dal 1996 a oggi si sono rivolte alla Clinica del Lavoro di Milano, l'unico istituto in Europa che possiede dati strutturati sul fenomeno. A un terzo di loro è stata fatta una diagnosi di questo tipo. "Le vittime del mobbing - spiega Paola Caiozzo - sono di tutte le età. In Italia non c'è differenza di posizione gerarchica, mentre nel resto d'Europa le vittime sono soprattutto donne".

Nel settore privato, la causa principale è la competitività sempre più forte dettata dalla globalizzazione. In questo caso, il mobbing si manifesta con continue vessazioni sul dipendente, o aumenti del carico di lavoro, per indurlo a gettare la spugna. Ma il fenomeno è in aumento anche nel settore pubblico, dove si manifesta diversamente: intromissione nella vita privata, pettegolezzi o leggende sulla vita del lavoratore per metterlo in uno stato soggezione psicologica.

Sono i superiori e non i colleghi i mobber più accaniti. I manager attaccano di preferenza la situazione lavorativa della vittima, mentre i colleghi colpiscono più la sfera relazionale. Il mobbing è più diffuso nella grande impresa e difficilmente di manifesta con la violenza fisica o la molestia sessuale. L'attacco è rivolto contro la persona, la sua situazione lavorativa, o con azioni punitive. Si tratta di provocazioni per far perdere alla vittima il controllo, ma anche di un forzato isolamento fisico del lavoratore, della sua esclusione dalle attività sociali, o del rifiuto dei colleghi di collaborare con lui. Il mobbing, in alcuni casi, raggiunge una tale intensità che la vittima perde lucidità e finisce per sentirsi accerchiata. "Accade spesso - sottolinea ancora la dottoressa Caiozzo - che la vittima si riduca a una larva e per i primi mesi si convinca che la colpa di quello che le sta accadendo sia sua. Pensa di aver fatto qualcosa di male. Invece, il mobbing va smascherato subito. Più la vittima ne parla e più riuscirà a sconfiggerlo".

Il mobbing nel settore privato può essere strategico e relazionale. Nel primo caso, si manifesta con azioni che mirano a ridicolizzare, umiliare, offendere la vittima. Critiche continue, sovraccarico di lavoro, o negazione di diritti o ferie. Nel secondo, con il rifiuto dei colleghi di parlarsi, o peggio con comportamenti volti a istigare l'ambiente di lavoro contro la vittima.

Nel settore pubblico, una peculiarità tutta italiana è l'arma della maldicenza. Si fa un controllo eccessivo delle comunicazioni del lavoratore, gli si affianca un collaboratore senza motivo, o, ad esempio, si fa girare la voce che porti jella.

Secondo l'European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions, le vittime del mobbing sono soprattutto in Gran Bretagna (16,3 per cento). Segue la Svezia, (10,2 per cento), la Francia (9,9), l'Irlanda (9,4), la Germania (7,3) e ultima l'Italia (4,2). Ma questi dati non devono ingannare. Nel nostro paese è emersa solo la punta di un iceberg. In Francia, dal 2002, il mobbing è un reato, sia penale che civile. In Germania, invece, le aziende hanno iniziato a fare corsi ai dipendenti per metterli in guardia. "Anche da noi le aziende si stanno muovendo. Hanno capito che il mobbing produce costi organizzativi altissimi, fa calare la produttività e aumenta l'astensionismo".

 

Il dato è superiore alle rilevazioni delle città campione (2,3%)
In aumento i trasporti, gli ortaggi e i tabacchi
Inflazione in crescita
A febbraio al 2,4%

ROMA - Si riaccendono i prezzi a febbraio: secondo le stime provvisorie dell'Istat l'inflazione è salita al 2,4% dal 2,2% di gennaio con un aumento mensile dei prezzi dello 0,3%. Il dato è superiore alle rilevazioni delle città campione, che ieri indicavano un'inflazione di febbraio al 2,3%. I tecnici dell' istituto di statistica spiegano che ci sono vari elementi da tenere in considerazione per spiegare l' aumento dei prezzi di questo mese: innanzitutto un effetto stagionale tradizionalmente positivo di febbraio perché in questo mese vengono rilevati una serie di prezzi di beni e servizi. E' da tenere poi presente che il confronto con lo stesso mese dello scorso anno è sfavorevole perchè a febbraio 2003 ci fu una variazione molto contenuta dell'indice. In base alla stima provvisoria, l'indice armonizzato (che viene calcolato anche considerando sconti, saldi e vendite promozionali) dei prezzi al consumo è sceso dello 0,3% rispetto a gennaio con una variazione del +2,3% rispetto a febbraio 2003.

Per quanto riguarda i diversi capitoli di spesa, gli aumenti mensili più consistenti si sono avuti per i trasporti (+0,7%), causati soprattutto dalla ripresa del prezzo della benzina (carburanti e lubrificanti, che pesano per il 2,2% sull'intero indice, sono infatti saliti dell' 1,2%), per i mobili, articoli e servizi per la casa (+0,5%) e per i servizi sanitari e spese per la salute (+0,4%). L'unica variazione nulla si è registrata nel capitolo bevande alcoliche e tabacchi, mentre in riduzione sono le comunicazioni (-0,5%) e la ricreazione, spettacolo e cultura (-0,3%). A livello tendenziale si sono stati due capitoli che hanno mostrato un incremento del tasso rispetto a gennaio: i servizi sanitari e spese per la salute (passati dal +0,3% di dicembre al +0,6% a gennaio e all' 1,9% a febbraio) e gli alberghi, ristoranti e pubblici esercizi (dal +3,4% di gennaio al +3,5% di febbraio). Gli aumenti tendenziali più elevati si sono comunque avuti nei capitoli bevande alcoliche e tabacchi (+7,8%) e negli alimentari e bevande analcoliche (+4%). L'unico calo si è registrato invece nel capitolo comunicazioni (-4,8%).

Gli analisti dell' Istat fanno notare inoltre che nel mese in corso si conferma un'inflazione piuttosto forte per gli ortaggi (+0,6% mensile, +10,5% tendenziale) in un contesto di inflazione alimentare piuttosto moderata. E' infine da notare una forte variabilità, oltre che a livello merceologico, anche a livello territoriale, che configura un quadro poco omogeneo con fenomeni diversi a livello locale.

19 febbraio

L'orgia del capo
ANDREA COLOMBO
Finalmente è ufficiale. Il 12 e 13 giugno gli italiani avranno il privilegio di apporre la loro crocetta vicino al nome di Silvio Berlusconi. Non per inviarlo al parlamento europeo: quella è una barzelletta che nessuno finge di prendere sul serio. Appena eletto, il capo della destra rinuncerà al seggio, preferendo conservare il suo posto nel parlamento nazionale. La truffa non desta scandalo, soprattutto perché la stessa cosa faranno tutti o quasi i leader dell'opposizione. Nel trasformare il voto di giugno in un mega-sondaggio sulla popolarità del premier e del governo l'intesa bi-partisan è perfetta. Il responso delle urne avrà numerose conseguenze, tra le quali la composizione dell'europarlamento figura all'ultimo posto. È da ieri ufficiale anche l'accorpamento tra europee e amministrative, altrimenti detto election day: un'innovazione alla quale il cavaliere teneva particolarmente.

Nella migliore delle ipotesi la sua onnipresenza nella campagna per le europee tirerà la volata alla destra anche sul fronte delle amministrative, tradizionalmente debole per Forza Italia. Nella peggiore, l'eventuale risultato negativo nel voto locale sarà quasi cancellato da quello dell'eurosondaggione.

In ogni caso, ogni competizione sarà fagocitata dalla richiesta di pronunciamento plebiscitario sulla persona del capo del governo. Per il premier è una sfida disperata, troppo importante per poterla combattere cavallerescamente, ad armi quasi pari. Se riuscirà a piegare i molesti centristi, Berlusconi eliminerà di netto l'ancor più molesta par condicio. In caso contrario si limiterà a praticare l'obiettivo ignorando la vessatoria legge. Non è difficile quando si può contare su clienti fedeli. Proprio ieri il direttore generale della Rai Cattaneo, ineffabile, ha diramato una «raccomandazione» ai direttori delle reti e dei tg, intimando di destinare un terzo dello spazio d'informazione politica al governo, un terzo alla maggioranza, e quel che resta all'opposizione.

Non è l'unico trucco che grava sulle urne di giugno. Il capolista di Forza Italia informa che considererà un eventuale successo come «voto di fiducia e di apprezzamento». La sconfitta invece non suonerà affatto come prova di sfiducia e scarso gradimento, tutt'alpiù un secondario incidente di percorso. Anche in quella «ipotesi impossibile» Silvio Berlusconi fa sapere che resterebbe a palazzo Chigi. Non c'erano dubbi, come non ce n'erano, nonostante le voci fatte filtrare ad arte per costruire un po' di suspence, sulla sua candidatura o sulla decisione di ignorare la par condicio.

La probabile sfiducia degli elettori non spingerà Berlusconi alle dimissioni (salvo possibili cospirazioni dei suoi alleati) e neppure gli suggerirà, più modestamente, di modificare le sue politiche. Al contrario, lo convincerà a scelte sempre più estreme e sempre più disperate. Tra voto di fiducia sul decreto salva Fede, colpo di mano contro la par condicio, inaudito attacco alla Corte costituzionale, quella di ieri è stata una vera orgia. Promette tuttavia di inaugurare un nuovo corso. Un Silvio Berlusconi con le spalle al muro potrebbe far apparire i primi tre anni del suo governo come un modello di correttezza istituzionale. Lo sta già facendo.

COMMENTO
Droghe a sinistra
VITTORIO AGNOLETTO
E'triste ammetterlo, ma è merito della proposta indecente avanzata da Fini se anche a sinistra è ripartito un dibattito sulle droghe. Sarebbe bene quindi che questo confronto non si limitasse semplicemente al rifiuto della legge. Provvedimento destinato probabilmente a rimanere per ora un manifesto ideologico finalizzato a rassicurare lo zoccolo duro, tradizionalista e oscurantista di An, mentre il leader, attraverso la proposta di legge sul voto agli immigrati, anch'essa destinata principalmente a rimanere poco più che un boatos, cerca di rafforzare la capacità d'attrazione del partito ex missino sull'elettorato centrista cattolico. Un dibattito invece necessario in tutta l'opposizione ove, tra inni nazionali e dispute sui simboli, ben pochi iscrivono nel proprio programma politico la centralità delle politiche sociali. Dimenticandosi, o peggio ancora fingendo di dimenticarsi, come proprio su questi temi si sia consumata, nel recente passato, una profonda lacerazione tra le politiche del centrosinistra e un'ampia fetta del suo stesso elettorato. Il dibattito sulle droghe rappresenta da sempre uno dei principali paradigmi attraverso i quali si definiscono i riferimenti culturali ai quali si riferisce un progetto politico. Pochi, ma irrinunciabili, sono i principi ai quali dovrebbe ispirarsi un intervento legislativo in questo campo: il rispetto della libertà individuale, con l'unico limite che questa non sia causa della limitazione della libertà altrui; la piena disponibilità della propria persona da parte di ciascuno; il dovere dello Stato di rendere disponibile tutti i possibili strumenti per guarire, curare o prendersi cura di ogni essere umano vivente sul proprio territorio, così come previsto dall'ancora valido giuramento d'Ippocrate; l'obbligo morale per il legislatore di conoscere e tenere in considerazione i risultati della ricerca scientifica. Ne consegue che le convinzioni ideologiche individuali o di gruppo dovrebbero restare totalmente estranee al dibattito legislativo. L'idea di punire i consumatori è in pieno conflitto con qualunque principio di autodeterminazione individuale; l'annunciata riduzione del personale dei Sert, la pretesa di limitare l'uso di un farmaco qual è il metadone, la proposta di delegare a istituzioni private la diagnosi e la scelta della cura alla quale sottoporre chi fa uso di sostanze sono tutti provvedimenti in contrasto con i doveri di una comunità statuale; l'idea di assimilare sostanze fra loro totalmente differenti come la cannabis e l'eroina evidenzia un'inaccettabile ignoranza di ogni evidenza scientifica.

Ma queste pur importanti considerazioni sono, da sole, insufficienti sia per costruire la manifestazione di sabato, sia per giustificare una mobilitazione capace di proseguire nei prossimi mesi. Dobbiamo avere la capacità di andare oltre la semplice opposizione alla proposta Fini ed è necessario rifiutare che l'intervento sulle tossicodipendenze diventi, come già accadde durante i governi dell'Ulivo, un terreno di mediazioni ideologiche segnato da un sostanziale immobilismo. Poche, ma sufficientemente precise, dovrebbero essere le proposte capaci di rendere evidente un approccio coerente con i principi prima ricordati: la legalizzazione delle droghe leggere così come previsto da iniziative di legge da tempo presentate in Parlamento; la somministrazione controllata di eroina a tossicodipendenti che già hanno sperimentato, senza successo, altri approcci terapeutici, così come realizzato con successo in Svizzera; il rafforzamento dei servizi pubblici; la libertà terapeutica, ove sia supportata da incontestabili evidenze scientifiche; il potenziamento delle politiche di riduzione del danno, anche ad esempio attraverso la possibilità di avviare in tempi reali, nelle discoteche piuttosto che nei rave, l'analisi delle sostanze. Ho l'impressione che questi saranno comunque i contenuti nel cuore e nella mente dei tanti giovani, e non solo, che riempiranno le strade di Roma; sarebbe bene che questi fossero anche i contenuti presenti nel programma e negli impegni comuni dell'opposizione che si candida a cacciare Berlusconi e ad assumersi eventuali responsabilità di governo.



La sinistra e la cultura
Manuel Vázquez Montalbán
Come patrimonio, la cultura è quel lungo fiume che porta a una generazione determinata di esseri umani, che trasmette loro valori morali ed estetici, le ideologie, la storia, i codici e i simboli. In altre parole, tutto un ricco patrimonio elaborato dagli avi, patrimonio che le nuove generazioni ricevono allorché esiste un punto di incontro possibile tra questo apporto e chi riceve tale formidabile offerta.
I rivoluzionari hanno sempre rimesso in discussione il passato e preso le distanze nei confronti di questo patrimonio, considerandolo il prodotto delle vecchie classi dominanti sconfitte nella lotta per il potere, - di quelle classi che avevano detenuto il controllo della storia.
Tale fu l'atteggiamento della rivoluzione francese e della rivoluzione d'ottobre: mettere in quarantena il retaggio culturale, accusandolo di essere feudale, di appartenere alla classe spodestata. Ai tempi della rivoluzione sovietica, probabilmente la più radicale che ci sia mai stata, iniziò la famosa polemica tra «cultura proletaria» e «cultura di classe». Alcuni teorici della rivoluzione propugnavano la tesi della politica della tabula rasa, per sradicare completamente il retaggio degli antichi e sostituirvi la cultura della nuova classe proletaria. Contro questa posizione, con la feroce volontà di salvaguardare il patrimonio culturale, si mosse Leon Trotzkij in persona. Egli proclamò che la cultura, per effetto appunto del mutamento politico, aveva cessato di essere una «cultura borghese» per divenire una «cultura umana». Di conseguenza, la rivoluzione doveva fare in modo che i suoi valori fossero assimilati da tutto il popolo, al fine di inaugurare una nuova era storica.
Troviamo qui un inizio di soluzione del problema. A dare un carattere regressivo al patrimonio culturale non è il patrimonio di per sé, bensì la strumentalizzazione che ne fanno le forze regressive, escludendone la maggior parte della società. Tuttavia è possibile arrivare ad una soluzione servendosi di strumenti semplici, come l'estensione della lettura grazie alla presenza capillare delle biblioteche; una volontà di divulgazione delle arti favorendone la pratica e la diffusione; una politica che ribalti le barriere di una concezione mercantile della cultura, impedendo che un settore sociale determinato ne abbia il godimento esclusivo.
Poi viene la cultura come coscienza, la sua forma più onnipresente.
A partire dal momento in cui sono coscienti della loro situazione e delle relazioni con i loro simili e la natura, tutti gli esseri umani hanno una cultura. Da questa constatazione emana una serie di concezioni culturali. Tutto quel che è coscienza dell'essere, dell'esistenza, dei rapporti col mondo e con gli altri. Per questo, chi si permette di operare una distinzione tra chi ha e chi non ha cultura, dimostra una arbitrarietà e un analfabetismo avvilente.
Chiunque sia capace di avere coscienza di quel che è e di quel che fa e, soprattutto, del ruolo che ha nelle relazioni con gli altri, possiede una cultura. Nessuno può essere escluso dal regno della cultura.
Di fronte a queste due concezioni - cultura come patrimonio e cultura come coscienza - si sono attuate tradizionalmente due politiche, due tentativi di manipolazione politica.
Da una parte, la politica culturale della reazione che consiste nell'accaparrarsi la cultura-patrimonio e la cultura-coscienza per incorporarle in un complesso di verità approvate, usando l'accesso alla cultura come modi di integrarsi in un meccanismo di comunione con l'ordine costituito.
Questa politica, nel migliore dei casi, ha inteso la cultura come mezzo di integrazione, ma mirava anche alla sua mutilazione, al suo controllo dittatoriale, se non addirittura a distruggerla, a falsificarla o a mistificarla - come è caratteristico delle epoche fasciste.
In generale, le forze progressiste partono invece da una presa di coscienza e quindi da una posizione critica che rimette in discussione l'ordine costituito e si prefigge di modificarlo. Questo discorso vale per la cultura intesa come coscienza. Per contro, per quanto riguarda la «cultura-patrimonio», la sinistra ha evitato di impossessarsene per tentare di farla collimare con le proprie motivazioni.
Qualsiasi politica culturale della sinistra dovrebbe innanzitutto passare attraverso l'assimilazione senza riserve della cultura come patrimonio. Successivamente dovrebbe procedere a rafforzare il ruolo modificatore della coscienza critica. E infine, all'analisi del modo in cui una politica culturale di progresso deve considerare l'elaborazione di una coscienza di classe come una forma superiore di cultura.
Avere coscienza che una politica culturale deve tener conto del grado di sviluppo della dinamica storica all'interno di una concezione globale del progresso, obbliga la sinistra ad impegnarsi in una impresa titanica: rimettere in discussione il significato stesso del progresso.
Cornelius Castoriadis affermava che la grande dicotomia della nostra epoca era «socialismo o barbarie». Imponendo tale scelta, metteva in relazione fra loro due culture differenti, due concezioni opposte della relazione storica che inglobavano i sistemi di organizzazione della vita, della produzione, delle relazioni umane. L'una basata sul profitto, il successo materiale per le minoranze dirigenti e i settori dominanti. L'altra fondata sul socialismo inteso come razionalizzazione di fronte a tale barbarie, che crea nuove relazioni umane, una nuova cultura, la possibilità di una nuova autonomia dell'uomo nella realtà.
Il socialismo si presenta come un vero e proprio crocevia su cui convergono tutti gli elementi chiave che danno un senso alla circolazione della cultura.
T. S. Eliot, grande poeta di destra, ha descritto il significato di ogni situazione culturale. Per l'uomo contemporaneo, comprendere che il fatto culturale nasce e si perpetua a partire da un rapporto dialettico tra tradizione e rivoluzione, costituisce l'essenza stessa della cultura. Ad ogni epoca corrisponde una tradizione culturale che si scontra con la coscienza critica del momento; e da tale scontro tra il patrimonio culturale di cui tutti noi siamo gli eredi e la coscienza critica, emana la possibilità di una continuità. Eliot ha identificato questo meccanismo di comprensione della cultura, e gli dobbiamo la nostra riconoscenza.
Impegnandosi per una cultura di progresso (che non è assolutamente esclusiva della sinistra), le forze progressiste in generale assumono la tradizione e, così facendo, il patrimonio culturale; e puntando sulla rivoluzione aggiungono a quel patrimonio culturale una coscienza critica. Ma per arrivarci, devono offrire al mondo una visione fondata su una idea fondamentale, correlata alla scelta «socialismo o barbarie»: la necessità di sopravvivere di fronte alle tendenze distruttrici.
Una volta vinta la lotta per la sopravvivenza - primo obiettivo - il secondo obiettivo è una cultura egualitaria, che non punti ad uniformare, bensì ad assicurare la soddisfazione dei bisogni, anche quelli culturali, di tutti gli esseri umani.
Terzo obiettivo: una cultura di liberazione, di lotta contro l'alienazione; non nel senso marxista (secondo cui l'uomo privo di mezzi di produzione non possiede quel che fabbrica, e si allontana dal prodotto che egli stesso ha elaborato), bensì nell'accezione più ampia del termine: la liberazione dalle tendenze alle religiosità negative, alle comunioni oscurantiste che annientano qualsiasi capacità critica. La «disalienazione» nel senso della libertà dei comportamenti sia collettivi che individuali nella sfera politica, morale o sessuale.
Il quarto obiettivo è la rivendicazione della pace in quanto valore culturale supremo. È indispensabile denunciare la guerra come valore ideologico di contro-rivoluzione. La minaccia di guerra mira ad imporre una cultura di paura che paralizza le coscienze, le rende più conservatrici.
All'opposto, la rivendicazione della pace è rivoluzionaria proprio perché punta tutto sul cambiamento. La pace scommette sulle energie creative dell'uomo, sulla sua libertà di espressione, di realizzazione, di trasformazione. Le forze del progresso sono la maggioranza, e quando ne avranno coscienza, riusciranno ad isolare i fautori di un ordine arcaico.
La sinistra deve battersi su due fronti. Difendere la propria coscienza e lottare contro questa paura che cercano di imporci come valore culturale supremo. Affinché i patrimoni culturali rimangano alla portata dell'immensa maggioranza...
(Traduzione di R. I.)

24 febbraio  

Le esternazioni del Cavaliere
e l'effetto boomerang
di MICHELE SERRA

L'ALTRA sera, mentre la telecamera passava in rassegna i volti costernati del conduttore, degli ospiti e del pubblico della Domenica sportiva, subissati dalla interminabile e incredibile telefonata autocongratulatoria del multipresidente Silvio Berlusconi, per un attimo si è avuta la sensazione (ottima) di un colmo raggiunto. Le facce e gli sguardi esprimevano (non tutte, ma in larga prevalenza) un concetto molto semplice, molto umano, molto popolare: che due palle! Se l'indignazione politica, molto praticata a sinistra, è un atteggiamento nobile ma elitario, e richiede il supporto di una cognizione istituzionale non sempre reperibile nei mercati rionali, il "che due palle" ha invece l'invincibile volgarità, e vitalità, dei sentimenti di maggioranza.

Se a recalcitrare sotto i bastoni e le carote del premier non sono più solo gli intellettuali antipatici, ma i simpatici esperti di moviola, e il pubblico casuale e apolitico di uno studio televisivo milanese (che ha salutato l'intervento riparatorio di Lucia Annunziata con uno scrosciante applauso di liberazione), allora significa che, appunto, forse il colmo è davvero raggiunto.

Mentre Berlusconi diceva io qui, io là, io su, io giù, schierava formazioni, indicava tattiche, vantava vittorie, mulinava il libretto degli assegni (un vero signore), evocava valorose gesta giovanili, ventilava nuovi trionfi, il televisore effondeva la sensazione di un delirio finalmente percepibile anche dal famoso "ventre" del Paese al quale, dicono, Berlusconi intende rivolgersi nel tentativo di rovesciare, antipoliticamente, una partita politica ormai quasi perduta.

Siano davvero i famosi e spettrali "focus" reclutati tra la "gente comune" a orientare le parole del premier, o sia solamente il suo abnorme ego, la sortita domenicale odorava tremendamente di collasso tecnico-tattico. Non tutti, davanti al televisore, erano tenuti a sapere che parte degli ospiti non osava contraddire Berlusconi perché è alle sue dirette dipendenze (anche a queste assurdità conduce il forsennato conflitto di interessi: la chiacchiera calcistica porta la mordacchia tanto quanto quella politica).

Non tutti erano tenuti a conoscere l'atmosfera di cupo controllo che regna in Rai, e certo non facilita la spontaneità e la saldezza di conduttori e programmisti. Non tutti, facendo due più due più due, potevano calcolare sul momento da quale pazzesco cumulo di poteri (istituzionale, politico, mediatico, economico, calcistico) risuonava quella voce minacciosamente cordiale. Tutti, però, potevano benissimo percepire l'ingombro esagerato di quella presenza sussiegosa, di quella orgogliosa petulanza (interrompeva tutti, correggeva tutti), soprattutto di quella incredibile raffica di "io" che costituisce il traliccio attorno alla quale il premier appende ogni sua bandiera.

C'è uno zoccolo duro di fedelissimi che avrà sicuramente apprezzato la dottrina calcistica del presidente del Milan, e altrettanto sicuramente non avrà colto la malacreanza di un cazziatone rivolto in pubblico al suo dipendente Ancelotti (uno dei tanti, spiace dirlo, che tiene le spalle curve quando parla il principale). Ma attorno a quello zoccolo incoercibile si avverte l'erosione da sfinimento che l'assalto mediatico del premier rischia di provocare, o sta già provocando, proprio in quella "gente comune" che della propaganda berlusconiana è il target più appetito, ma anche il più volubile.

Sbucare da ogni cantone, da ogni video vantandosi di essere Berlusconi alla lunga suscita, anche nei passanti più distratti, un senso di indifferenza prima, di saturazione poi, infine di esasperazione. E tra gli ingredienti più importanti dell'umor popolare c'è quella variante primaria del buon senso che è il senso del limite. Anche il più potente dei Grandi Fratelli ci mette un attimo a diventare solo un anziano zio invadente. E tra un po', quando ci ripeterà per la miliardesima volta che lui ha vinto la Champion's League per via delle due punte, nei tinelli italiani saranno in molti a cambiare canale per via delle due palle. 

STRETTAMENTE PERSONALE
 Se la memoria è troppo lunga
Biagi Enzo

C' è addirittura un proverbio: «Piove, governo ladro». Per l' onorevole Berlusconi, come al solito, quei cretini dei giornalisti (categoria a cui sono contento di appartenere, tenuto conto che anche Gesù Cristo, pure non avendo tutele sindacali, ne sbagliò due su dodici, che è pure una notevole percentuale) lo hanno ancora una volta frainteso. Infatti specifica: «Le accuse ai politici? Mi riferivo agli ex comunisti». Ma come? Proprio lui che abbraccia e ospita nelle sue ville sarde nientemeno che il «compagno Putin», già responsabile del Kgb, istituzione che non va confusa con l' Opera di San Vincenzo. Scusi, onorevole Berlusconi: quei diavoli dell' ex Pci che cosa Le hanno fatto? In quale Paese del mondo uno possiede tre reti televisive, pari con quelle di Stato? E quali ostacoli le hanno impedito la folgorante carriera in un periodo difficile? Ricorda quali provvedimenti ha preso non appena ha traslocato a Palazzo Chigi? E poi, ha mai sentito parlare della Resistenza? Io la scrivo con la maiuscola, perché fu anche, e soprattutto, un esame di coscienza collettivo: ci fece capire che prezzo ha la libertà. In quella ribellione ci furono anche degli impiccati ai cancelli dei parchi cittadini. Il dottor Ferruccio Terzi, già Guf Bologna, poi medico, che non aveva abbandonato dei partigiani feriti, ad esempio. Non sono, e non sono mai stato comunista: ma li rispetto, anche per le loro illusioni. Conosco la Russia e la amo, per Cecov, per Tolstoi, per Dostoevskij, e per Stalingrado, per Anna Karenina e il generale Kutuzov, per il suo umanissimo popolo. Ne debbo testimonianza a una persona non sospetta, don Franzoni, medaglia d' oro, cappellano degli alpini nella guerra all' Urss. Ha ragione Casini: basta demagogia.

 

 26 febbraio

La riguerra di George
STEFANO BENNI
Popolo americano e popoli sudditi, ho una grande notizia per voi. Abbiamo vinto la guerra in Afghanistan e in Iraq con poche perdite. Abbiamo portato la pace in quei paesi e da allora ci muoiono decine di marines e civili ogni giorno. Questa è la prova che la guerra è meglio che la pace. Perciò ho una buona notizia: una nuova grande guerra sta per iniziare. Contro un nemico ancora più subdolo e pericoloso di Osama e di Saddam.

Questo nemico è il CLIMA.

Questa sigla significa in realtà Complotto Leninista Internazionale per Massacrare l'America. Ma il Pentagono li ha scoperti, e niente li salverà dalla nostra ira. Essi vogliono attaccare le nostre coste con iceberg e tornadi, invaderci con bufere di pioggia e neve, inaridire i nostri fiumi e destabilizzare il quadro internazionale: ma non cederemo alla loro basse pressioni e alle loro funebri isobare.

Non ci lasceremo intimidire!

In Africa il CLIMA ha un piano per desertificare il continente, di modo che i Bongo Bongo chiedano acqua al posto delle nostre armi, e magari si ribellino attaccando i nostri bananeti e pretendano di abbeverarsi al nostro glorioso Mississipi...

Ma ciò non accadrà: abbiamo già spedito sul posto un milione di distributori di Coca-Cola, ognuno guardato a vista da un marines anti-scasso. Così il problema della sete è risolto.

Inoltre abbiamo mandato latte in polvere tossico e medicinali da esperimento. I morti, generalmente, non bevono.

In quanto all'inquinamento e al buco dell'ozono, qualcuno ha osato incolpare le nostre aziende petrolifere, le nostre auto, i nostri utili disboscamenti. Accuse da comunisti obsoleti, pagati dalle lobby dei camini e delle biciclette.

Non ho firmato il protocollo di Kyoto perché dopo Pearl Harbour non mi fido dei giapponesi, e poi non so cosa vuol dire protocollo. Ma so benissimo cosa vogliono dire Effetto Serra e Buco dell'Ozono: sono subdole armi di sterminio di massa in possesso del CLIMA, specialmente del suo braccio armato chiamato Anidride Carbonica, nome in codice Co2, un gruppo terrorista che negli ultimi anni ha visto moltiplicare i suoi adepti nell'atmosfera.

Abbiamo già un piano per chiudere gli aeroporti americani a ogni volo che possa trasportare anidride carbonica. Ogni molecola in transito verso gli Usa dovrà fornire le impronte digitali. Sappiamo che tra gli iscritti alla Co2, ogni atomo di carbonio usa accoppiarsi in modo orgiastico e amorale con due atomi di ossigeno. Da ora in poi ogni reazione chimica di questo tipo verrà considerata associazione a delinquere. Non ci lasceremo certo intimidire da un biossido bisessuale.

Inoltre da oggi ogni iceberg che si staccherà dalla banchisa polare verrà bombardato. Anzi, bombarderemo la banchisa preventivamente.

Per evitare gli incendi nell'Amazzonia, la disboscheremo tutta. Questo l'ho già detto anni fa e lo ripeto.

Il governatore della California Schwarzenegger ha ordine di arrestare ogni onda anomala superiore ai quindici metri.

Ogni temperatura sopra i quaranta gradi verrà considerata propaganda antiamericana. Ogni campo da golf sarà dotato di irrigatori supplementari.

Non tollereremo parimenti che CLIMA attacchi le nostre città con piovaschi e grandinate. Tutte le nuvole di forma sospetta verranno bombardate.

In quanto alla desertificazione, abbiamo pronti dieci milioni di oasi gonfiabili.

Il progresso americano basato sul petrolio, sul golf e sul surf non teme nessuno.

Ma sappiamo che questo CLIMA ha un capo subdolo. Un signore che dopo avere creato il mondo non sa più gestirlo, un pessimo manager andato in crisi per qualche gas di scarico e qualche molecola sballata. Ebbene se questo signore, sostenuto da meteorologi terroristi e cirrocumuli bolscevichi , vuole dichiaraci guerra, troverà pane per i suoi denti.

Le chiese integraliste americane hanno un giro di introiti e proprietà che le ha fatte inserire tra le prime multinazionali del mondo. Se uniamo i soldi delle chiese e dei petrolieri possiamo non solo andare su Marte, ma molto più su, e bombardare molto molto in alto.

Non dite che sono un pazzo megalomane, so quello che dico.

Il CLIMA non ci spezzerà. Ed è inutile che Kerry mi attacchi. Lui è un veterano di guerra, io un imboscato, ma l'esercito è con me.

Marines, ognuno di voi da domani stia all'erta: ogni nuvola, ogni iceberg, ogni soffio di vento, può nascondere il complotto. Non respirate ossigeno, potrebbe essere una trappola del nemico! Saddam è nelle nostri mani, Osama sta per caderci e il CLIMA sta per conoscere la nostra vendetta.

God blast America.

Dio spazzi via l'America.

E noi spazzeremo via lui.


Inchiesta dell'associazione indipendente su 346 prodotti
Spagna e Germania sono diventate più economiche
Altroconsumo boccia l'Italia
"Paese più caro di Eurolandia"

Sorpresa: la moneta unica rende Londra conveniente


ROMA - E' il paese più caro tra quelli che hanno adottato l'euro. L'Italia guadagna la medaglia del disonore sul fronte prezzi. Stavolta è un'inchiesta-guida di Altroconsumo a rivelare come alcuni paesi prima più cari dell'Italia, ora sono più competitivi per acquistare un paniere di 346 prodotti tra abbigliamento, cd e dvd, cura del corpo, video, foto, informatica e altri. In Germania, ad esempio, tre anni fa la spesa per acquistare tale paniere era uguale a quella italiana: ora, invece, si spende il 3,8% in meno che in Italia.

Per Altroconsumo, gli ultimi due anni trascorsi all'insegna dell'euro hanno tolto all'Italia il primato della convenienza in Europa emerso dall'inchiesta prezzi del 2001, sempre condotta da Altroconsumo.

Per l'associazione indipendente di consumatori le cause non sono da ricercarsi nell'introduzione della moneta unica, che, come ha mostrato l'indagine, non ha prodotto simili effetti in Germania, per esempio, dove oggi il tasso d'inflazione è circa un terzo di quello italiano. Gli imputati per l'impennata dei prezzi in Italia dal 2001 a oggi sono per Altroconsumo la "mancanza di trasparenza nel mercato, la debolezza dei controlli fiscali sugli aumenti dei prezzi, insomma la politica di controllo e monitoraggio dei prezzi, sia nella fase di passaggio alla nuova moneta, che successivamente".

Tra le otto maggiori città italiane coinvolte nell'indagine, la palma dello shopping più conveniente va a Genova.

A livello europeo, la regina del risparmio è Aquisgrana, la città tedesca che già nel 2001 aveva ottenuto il primo posto nella classifica delle città con i prezzi più competitivi rispetto ai paesi dell'area euro.

Ma tra le 11 capitali europee coinvolte nell'inchiesta, un dato è sorprendente: a Londra, città-simbolo fino a qualche tempo fa di prezzi vertiginosi, è possibile fare ottimi affari sugli articoli compresi nel paniere. Merito dell'euro che dal 2001 a oggi ha visto la moneta europea crescere del 17% sulla sterlina.

28 febbraio  

Il gioco populista
del premier in difficoltà

di MASSIMO GIANNINI
 da "La Repubblica" 28.2.2004

Sono passati appena una decina di giorni dall'inizio della campagna "presidenziale" di Berlusconi, in vista delle europee e delle amministrative di giugno, e l'impetuosa marcia del premier ha già lasciato sul campo una cospicua quantità di macerie. La forza devastante della sua comunicazione politica cresce in misura inversamente proporzionale alla debolezza deprimente della sua azione di governo. Per recuperare consensi, non può rivolgersi alla testa degli elettori delusi, che non ci cascherebbero: gli aveva promesso meno tasse e più ricchezza, gli ha portato l'aumento dei tributi locali e la recessione.

Così, Berlusconi riprova a parlare direttamente alla pancia della gente arrabbiata, che potrebbe ricascarci: da leader di un "partito materiale" non può offrirgli una visione identitaria comune che in questi anni non è mai stata elaborata, ma può tornare a promettergli l'unico e originario riferimento condiviso: lui stesso.

L'uomo solo al comando, in lotta contro il resto del mondo. Al decennale di Forza Italia il Cavaliere aveva lasciato capire quali sarebbero stati i nemici da colpire: i soliti comunisti, gli "appositi" magistrati. La settimana scorsa ha allargato il tiro ai "politici di professione", per i quali ha ideato un "sillogismo" degno di Aristotele: hanno la casa al mare, alcuni hanno pure la barca, quindi sicuramente rubano.

Per giustificare l'ingiustificabile (il voto di fiducia sul decreto salva-Rete4) già che c'era ha menato un fendente anche al Parlamento, e alle sue "eccessive lungaggini".


Ma ieri ha fatto un passo ancora più avanti, nella sua personalissima rivisitazione pseudo-maccartista della storia italiana: "Non immaginavo che la Prima Repubblica mantenesse una presenza così forte e radicata in tutte le istituzioni, e questo rende tutto più difficile". A scanso di equivoci, ha ripetuto due volte quel "tutte". Casomai qualcuno pensasse che fuori dall'esecrabile "lista di proscrizione" dei sopravvissuti del Vecchio Regime ancora annidati nelle istituzioni potessero restare magari la presidenza della Repubblica o la Consulta, l'Istat o la Corte dei conti. È solo una variante del "non mi lasciano lavorare", che lo rese celebre nel '94, al primo fallimento da capo del governo. Ma oggi rischia di essere, allo stesso tempo, più grottesca e più pericolosa. Grottesca, perché la Casa delle Libertà ha la maggioranza numericamente più forte che sia mai uscita dalle urne dal 1948 ad oggi. Pericolosa, perché con questo alibi, e tra conflitti sempre più laceranti al tessuto connettivo della politica e della società italiana, il Cavaliere continuerà a "regnare" sulla nazione fino alla fine della legislatura, ma senza più governarla.

Il "gioco" di Berlusconi è fin troppo smaccato. Come gli ha ricordato proprio il Capo dello Stato nel suo discorso a Sassari del mese scorso, lo aspettano tre anni di consultazioni elettorali, prima del voto politico del 2006. Uno stillicidio. Non avendo risultati concreti da smerciare sul mercato dei consensi, il Cavaliere aggiorna e rilancia il marketing politico della famosa "discesa in campo". Prova a reinventarsi e a riproporsi, un'altra volta, come l'Uomo Nuovo. L'Uomo dell'antipolitica. L'Uomo del Fare che, mentre i praticoni dell'Ancien Regime bivaccavano flaccidi e inefficienti sui banchi del Parlamento, lavorava venti ore al giorno per costruire un impero e per far divertire e far "progredire" gli italiani. Con il telecomando e con le polizze assicurative. Con gli appartamenti residenziali di Milano due e con le vittorie internazionali del Milan.

È perfino stucchevole dover ripetere, per la milionesima volta, quale gigantesca manipolazione storica si nasconda dietro questa leggenda. È quasi noioso, ormai, dover ricordare quanto proprio il Cavaliere, per i suoi legami con Craxi e per i salvacondotti televisivi che il Psi e la Dc gli assicurarono a colpi di decreto legge agli inizi degli anni '80, sia una figura "consustanziale" alle vicende della Prima Repubblica, compresa quella non proprio edificante della loggia P2. È quasi inquietante dover rammentare che, oltre a lui stesso, dei 210 parlamentari eletti nelle liste di Forza Italia nel 2001 ben 80 provengano dai partiti "tradizionali", e che su quasi 10 mila amministratori locali del partito azzurro oltre la metà arrivi dalle file della Dc e del Psi. È addirittura imbarazzante dover rimarcare che, nei posti chiave del governo, del partito e della Pubblica Amministrazione, proprio il Cavaliere abbia scelto esponenti della "vecchia politica". Autorevoli ministri come Scajola e Pisanu (ex democristiani). Tenaci uomini di apparato come Fabrizio Cicchitto (ex socialista). Stimati civil servant come Lamberto Cardia (magistrato contabile, controllore di enti delle ex PpSs, capo di gabinetto di svariati ministeri, ora alla Consob).

Tutto questo, per il premier, non conta. È un "tra parentesi", che non compare nel carro allegorico berlusconiano lanciato verso la riconquista degli italiani. "Tra parentesi" (perché contrasterebbe con l'iconografia artificiosamente "nuovista" del personaggio) è la Vecchia Repubblica, dalla quale invece Berlusconi nasce come Minerva dalla testa di Giove. "Tra parentesi" (perché negherebbe la mistica del leader invincibile) è la sconfitta subita da Prodi nel 1996, che la storiografia azzurra ha completamente rimosso come se non fosse mai esistita. "Tra parentesi" (perché "per colpa dei comunisti senza il comunismo c'è sempre un futuro illiberale e autoritario da sventare", come ha detto ieri) sono gli stessi cinque anni di governo ulivista, non certo esaltanti, costellati da errori e indecisioni, ma durante i quali comunque non si sono viste leggi per la scioglimento coatto dei partiti o la chiusura dei giornali, né sono stati segnalati cosacchi ad abbeverare i cavalli a San Pietro.

In questa campagna elettorale, per il premier, conta solo ritrovare una sintonia con il popolo. A costo di qualunque forzatura della verità. Al prezzo di qualsiasi indebolimento delle istituzioni repubblicane. Lui è il presidente del Consiglio. Grazie alle televisioni che controlla (Rai) e a quelle che possiede (Mediaset), può tentare un'operazione di clamorosa rimonta. Nel suo caso (visti i pessimi risultati raggiunti) "l'incumbency", l'essere governante in carica al momento delle elezioni, sarebbe uno svantaggio. Con la potenza di fuoco delle sue reti può cercare di trasformarlo in un vantaggio. Dal '94 il collante mediatico supplisce alla carenza di condivisione sociale e ideologica del berlusconismo. Secondo l'Eurisko il 36% degli elettori di Forza Italia segue la tv per più di 4 ore al giorno. Se ha funzionato nel 2001, perché non dovrebbe funzionare anche nel prossimo giugno, e poi magari nel 2006?

E che importa se, per raggiungere il risultato, l'invincibile armata del premier calpesta Carlo Ciampi e Gustavo Zagrebelsky, Antonio Fazio e Virginio Rognoni, la Commissione Europea e l'Anm? E che importa se, per vellicare il popolo che spende, un presidente del Consiglio insiste a dire che l'inflazione al 2,4% a febbraio "è colpa dell'euro", per nascondere le inefficienze che il suo governo ha palesato nei controlli? E che importa se, per compiacere il popolo che tifa, un presidente del Consiglio evoca "lo stato di polizia" per attaccare una procura che indaga sul buco nero del calcio? Per il padrone del Milan, che si illude di governare l'Italia come una grande Milanello, che detta la formazione a due punte ad Ancelotti e pretende scudetto e Champions League per alimentare il mito del leader trionfatore, non esiste il problema del conflitto di interessi. Esistono solo gli interessi personali da tutelare. Per l'inventore del partito azzurro, che come scrive Ilvo Diamanti evoca non "la nazione", ma "la nazionale", non esiste il problema dei bilanci-colabrodo delle società di serie A, indebitate per 1 miliardo 941 euro nel 2003. Esistono solo i dividendi politici da trarne.

Magari attraverso scandalosi decreti spalma-debiti per le grandi squadre, votati alla faccia del "dio mercato" caro ai liberisti della domenica. Il "tempio" del calcio era sacro, e i "mercanti" in toga l'hanno violato. Tanto basta per gridare allo scandalo, come si farebbe al Bar Sport. Il Cavaliere applica al pallone la stessa mistica populista che sovrintende al suo tribolato rapporto con il potere giudiziario. Se va in tribunale dice: il popolo mi ha eletto capo del governo. Che diritto hanno i magistrati di impedirmelo? Qual è la fonte di legittimazione che li autorizza a tanto? Se va allo stadio dice: il popolo vuole godersi le partite. Che diritto hanno i magistrati di impedirglielo? Quale potere hanno per sottrarre l'oppio calcistico al popolo che vota?

Si aspetta la prossima esternazione. Ma sarà dura arrivare alle elezioni di giugno, in mezzo a tanta macelleria istituzionale.