Archivio Aprile 2004

 

30 aprile

IL COMMENTO
Il mondo parallelo della Casa Bianca
di VITTORIO ZUCCONI
George W. Bush
IN uno di quei giorni surreali che ormai sono diventati la realtà quotidiana della guerra in Iraq, George Bush riceve la commissione d'inchiesta sull'11 settembre nello Studio ovale per una tazza di caffè e due chiacchiere cordiali, mentre uno dei suoi generali è rimosso da Bagdad perché torturava prigionieri nella stessa prigione degli orrori saddamiti e altri dieci marines saltano in aria. Questi mondi paralleli, di fantapolitica e di guerra reale, di propaganda ottimista e di notiziari terrificanti, continuano a viaggiare senza incrociarsi più da tempo, nell'universo immaginario di Bush.

Ma non c'è nulla di immaginario, purtroppo, nel piccolo mondo di orrore carcerario che uno dei suoi generali, anzi, una generalessa, aveva creato proprio nel ventre più truce dell'Iraq di Saddam, il carcere di Abu Grahib, dove i prigionieri degli americani erano, secondo l'inchiesta dell'avvocatura generale dell'esercito, torturati. Non sevizie psicologiche, o semplici maltrattamenti o detenzioni illegittime come a Guantanamo, ma proprio classiche, inconfondibili torture. Prigionieri ammucchiati come tronchi in fascina, per soffocarsi reciprocamente. Scritte e tatuaggi infamanti sui loro corpi. "Atti indecenti", sodomizzazioni forzate e pubbliche, di fronte agli occhi dei poliziotti militari e gli immancabili classici della tortura, già applicati con passione dai parà francesi nella loro guerra contro gli insorti musulmani algerini, gli elettrodi ai testicoli. Il vortice delle operazioni antiguerriglia, sempre, conduce a My Lai, all'Algeria, alla Somalia, all'odio.

Se oggi, 14 mesi dopo la "liberazione" questo segreto vergognoso è venuto a galla, lo dobbiamo a un sergente sconvolto da quel che vedeva, che ha contrabbandato fuori dal Abu Grahib foto proibite e dalla pronta inchiesta degli uffici legali della Us Army che hanno ottenuto la rimozione della generalessa comandante, Janice e la cacciata di cinque suoi subordinati, nella dimostrazione che i meccanismi dell'informazione e della legalità ancora reggono, nonostante gli sforzi del potere per piegarli alla proprio volontà.

Ma le torture nella vecchia "Villa Triste" di Saddam, proprio quelle azioni che l'invasione avrebbe dovuto cancellare, dimostrano un'altra, ancora più acida verità. Che in ogni guerra senza quartiere come questa, in ogni scontro che assuma il sapore dello"scontro di civiltà" sempre le truppe occupanti sono esposte al rischio della rabbia e della vendetta più feroce. m scatenata dalla frustrazione dall'impotenza. "Non posso credere che i miei soldati abbiano fatto questa cose" ha mormorato il generale Kimmit vedendo le foto che gli mostrava il giornalista Dan Rather. Ora ci crede.

Di questi inevitabili orrori, nulla è arrivato a Washington, in quella Casa Bianca dove la grottesca rappresentazione dell'interrogatorio che non era un interrogatorio si svolgeva ieri mattina, sul palcoscenico del teatro dell'assurdo bushiano. Per rispondere alla blanda fatica della commissione, Bush si era fatto affiancare, come nelle scuole della nostra infanzia, da un padre o da chi ne fa le veci, da Dick Cheney, il suo tutore e maestro, anche se l'incontro non avveniva sotto giuramento, non era una deposizione, non sarà messo a verbale nè registrato su nastri video o audio, tutto per poter negare, smentire, ritrattare domani. "Una cordiale chiacchierata" l'ha definita lui alla fine, "un utile incontro per meglio proteggere l'America dal terrorismo".

Insomma un breakfast tra signore in salotto, ad ascoltare Bush, caffè e ciambelle servite nell'argenteria ufficiale e nelle porcellane di casa, mentre altri dieci marines morivano in Iraq, le cannoniere volanti C130 Spectre tornavano a battere Falluja con cannoni da 105 mm abbandonando ogni finzione "chirurgica" e a Bagdad il carcere delle torture vomitava i suoi segreti.

Mentre il presidente riceveva i dieci commissari seduto davanti al caminetto dello Studio Ovale con Cheney per coprirgli le spalle, il termometro dei sondaggi pubblicati poche ore prima dal New York Times e dalla Cbs tv, avvertiva che il sostegno popolare della nazione a questa guerra di occupazione sta sciogliendosi. Un'opinione pubblica che aveva appoggiato la guerra "al terrorismo" e alle "armi di distruzioni di massa", come l'invasione dell'Iraq era stata presentata, con percentuali fino al 75%, e ancora la approvava con il 63% al momento della cattura di Saddam in dicembre, oggi è ridotta per la prima volta a una minoranza, al 47%.

Se la battaglia di Falluja, che il prudente Henry Kissinger ha definito "il punto di svolta" della guerra dovesse trascinarsi ancora a lungo, questa slavina del consenso potrebbe riversarsi contro lo stesso Bush che ancora non ne paga, grazie alla inconsistente evanescenza dell'avversario John Kerry, il prezzo nei sondaggi elettorali. Qualcosa, nel fronte interno ammirevolmente e ostinatamente compatto finora attorno alla guerra si sta incrinando. Mostrano crepe i grandi media indipendenti, rompendo l'omertà patriottica, abbandonando gli eufemismi e gli ottimismi "politically correct" usati dai propagandisti di Bush, rivelando il caso della generalessa torturatrice, soprattutto restituendo un volto e un nome alle fredde statistiche dei caduti e feriti.

Cnn e Washington Post pubblicano ormai regolarmente il ruolino dei morti, ormai arrivati a 740, gli effettivi di un battaglione intero inghiottito al fronte, il massimo numero di soldati americani uccisi dopo il Vietnam.

"Nightline", una delle trasmissioni giornalistiche più rispettate e serie della seconda serata condotta da Ted Koppel, dedicherà un'intera puntata, lunedì sera, ai "fallen", ai caduti, lasciando scorrere in silenzio quelle facce di giovani uomini e donne sacrificati sull'altare della tronfia "teologia della liberazione" e degli interessi della destra estrema che proprio Cheney, la "governante" che il padre mise accanto al figlio inesperto quando entrò alla Casa Bianca, incarna.

( 30 aprile 2004 )

 

CGIL, CISL e UIL hanno incontrato il dg di viale Mazzini Cattaneo
Per le Confederazioni è una decisione preoccupante e sbagliata
Primo maggio in differita
Sindacati contro la Rai

ROMA - Il Direttore generale della Rai Flavio Cattaneo non ha convinto i sindacati. Che dopo un incontro a viale Mazzini esprimono il loro profondo dissenso sulla decisione di trasmettere in differita (di 20 minuti) il concerto del primo maggio.

Un dissenso che si intende chiaramente dal tono - glaciale - del comunicato emesso dalle confederazioni dopo l'incontro. "Cgil, Cisl e Uil - si legge - prendono
atto della non volontà censoria da parte dell'azienda verso le manifestazioni sindacali organizzate in occasione della festa dei lavoratori. E prendono altresì atto della differita tecnica di 15/20 minuti del concerto di piazza San Giovanni e rifiutano la presenza di propri rappresentanti a qualsivoglia cabina di regia che possa vagliare la messa in onda del concerto".

Ma quello che Cgil, Cisl e Uil contestano è l'approccio scelto dalla Rai alla questione. Non è un caso che il comunicato delle confederazioni si concluda dicendo che non è condivisibile "la scelta di attribuire a un grande e consolidato evento musicale, che coinvolge centinaia di migliaia di giovani, una caratterizzazione politica che travalica quanto normalmente è accaduto nelle precedenti edizioni del concerto".
 

 DEMOCRAZIA
Corpi del reato
IDA DOMINIJANNI
Braccialetti elettronici per controllare i bambini in spiaggia. Chip sottopelle per braccare ovunque persone scomparse, criminali pericolosi, detenuti in libertà provvisoria. Altri chip sottopelle al posto di una carta di credito nel portafogli, per poter comprare ogni cosa senza perdite di tempo. Etichette intelligenti per contrassegnare e controllare merci, animali, gruppi di persone. Certo, non siamo tutti kamikaze; ma come i kamikaze siamo tutti, in fatto o in potenza, corpi-cyborg. Natura impastata di tecnologia, biologia prolungata nelle protesi, linguaggio potenziato dai mezzi di comunicazione, relazionalità trasferita nella connessione in rete. Ma se arriva a toccare il corpo, di che qualità è il mutamento in cui siamo immersi? La politica dovrebbe porsi ogni tanto questa domanda, ma non lo fa. Dalla postazione privilegiata in cui si trova a operare, sul bordo fra privato e pubblico e fra tecnologia, diritto e istituzioni, il garante della privacy segnala non da oggi, ma oggi con più forza di ieri, che si tratta di un mutamento radicale, in quanto investe la stessa base antropologica delle nostre società. L'individuo - corpo, linguaggio e relazioni - non è più quello che stava alla base della costruzione politica moderna. E se cambia quella base, tutta la piramide ne risente: rappresentanza, diritti, funzioni dello stato. E infatti non uno di questi campi resta immune - è il caso di dire - dall'annuale discorso di Stefano Rodotà sullo stato della tutela della privacy, che ogni anno diventa un rivelatore dello stato della nostra (e altrui) democrazia. Dal corpo individuale al corpo sociale, infatti, il passo è breve. E infatti si tratta di tutelare tanto il corpo individuale quanto il corpo sociale dalle pretese eccessive che l'odierna alleanza di saperi e poteri - ovvero di tecnologie, funzioni di controllo statuale, cinismo dei mercati - accampano su entrambi. Il catalogo è sempre lo stesso - telecamere e microchip sparsi per ogni dove; raccolta e conservazione oltre il necessario di dati personali; rilevazione di dati biometrici; riproduzione involontaria in rete di biografie, curricula, opere, fatti e misfatti personali -, ma di anno in anno potenziato da un'astuzia tecnica o da un abuso politico o da una mira economica in più. E dall'accadere dei fatti, ovviamente, dai più grandi ai più piccoli. Dalla lotta al terrorismo, che tende a sacrificare al criterio dell'efficienza le garanzie di libertà, trasformando interi spezzoni di popolazione in potenziali sospetti, alle elezioni prossime venture, un'occasione fra le altre per sperimentare l'uso di sms, indirizzari di posta elettronica, elenchi telefonici per fare pubblicità elettorale con le stesse tecniche con cui si fa pubblicità commerciale. Sì che le funzioni di sorveglianza che sono nelle mani dello stato si uniscono alle possibilità della comunicazione che sono nelle mani dei potentati privati in un'unica tendenza, che ha il nome scomodo ma realistico di deriva totalitaria della democrazia. «Difendendo la persona - scandisce Rodotà - si difendono valori fondamentali dei sistemi democratici, che non possono essere limitati o sacrificati o senza avviare pericolose derive di tipo totalitario». Le quali non vengono, o non solo, dall'integralismo islamico, ma dall'interno di democrazie disposte a immolare i propri principi sull'altare della sicurezza e del controllo. Suonano rassicuranti in proposito le parole del presidente della camera, quando dice che cedere quote di libertà in cambio di sicurezza sarebbe un baratto «in prima battuta accettabile ma potenzialmente assai pericoloso». Ma è evidente che l'intensità e la qualità del mutamento in corso spingono oltre la difesa delle garanzie di cui le democrazie novecentesche si sono dotate. La situazione tecnopolitica del tempo, dice Rodotà, «impone ormai una ricostruzione di libertà e diritti aderente all'ambiente tecnologico». E a quello politico. Come dire che in materia di libertà fermi non possiamo restare: o si va avanti, o si precipita indietro.


Povertà, 15 milioni sul lastrico
L'Eurispes: raddoppiano le famiglie italiane a rischio. Molte non hanno soldi per mangiare
ORSOLA CASAGRANDE
TORINO
Sempre più povere. E' questo il desolante risultato dello studio commissionato a Eurispes da Donneuropee Federcasalinghe e presentato ieri a Torino. Dalla ricerca emerge infatti che ai 2 milioni e mezzo di famiglie già definite povere (per un totale di circa 8 milioni di persone) devono aggiungersi altri 2 milioni e quattrocentomila (cioè altri 7 milioni e mezzo di persone) di nuclei familiari a rischio di povertà. Il quadro diventa ancora più drammatico se si considera che tra le famiglie povere, nel 2002, il 33.3% delle famiglie con un solo genitore, il 21.1% delle coppie con due figli e il 33.9% delle coppie con tre o più figli, non sempre hanno avuto i soldi per comprare il cibo necessario, per pagare le bollette e per le cure mediche. Insomma il rapporto Eurispes getta ombre assai cupe sul futuro delle famiglie italiane. Anche perché le cause, come ha sottolineato il presidente dell'Eurispes Gian Maria Fara, «sono da ricercare tra l'altro nel progressivo smantellamento del welfare, nella caduta verticale della qualità dei servizi dalla sanità ai trasporti, nella trasformazione del mercato del lavoro, nell'impoverimento dei ceti medi». Federcasalinghe mette insieme i dati e sottolinea con la sua presidente Federica Rossi Gasparrini, che «è in atto una vera e propria discriminazione nei confronti delle famiglie con figli e in particolare di quelle monoreddito. D'altra parte - aggiunge Rossi Gasparrini - in Italia soltanto lo 0.9% del Pil è destinato alle politiche familiari contro un 3% di Francia e Germania».

Federcasalinghe ha deciso di commissionare il dossier per «avere una fotografia della famiglia del dopo 2000 e in particolare dei suoi bisogni». I risultati contrastano fortemente con quanti si fermano a ritenere poveri soltanto i 2 milioni e mezzo di famiglie che vivono al di sotto della soglia di povertà. Per intervenire in maniera efficace ed aggredire la povertà infatti sarebbe meglio tenere in considerazione, dice l'associazione, anche il crescente numero di famiglie a rischio di povertà.

Analizzando un po' più in profondità i dati del rapporto si conferma per esempio un fatto: i sussidi monetari attualmente in vigore a sostegno delle famiglie risultano del tutto inadeguati al mantenimento dei figli. In Italia infatti uno dei principali strumenti a sostegno della famiglia è quello di natura fiscale (le varie detrazioni Irpef per familiari a carico). Ma è evidente che se l'arrivo del primo figlio comporta mediamente una diminuzione del reddito a disposizione tra il 18 e il 45% e una spesa aggiuntiva compresa tra i 500 e gli 800 euro mensili, il sostegno che sarebbe necessario è assai maggiore di quello effettivamente offerto. I dati poi variano molto se si prendono in considerazione l'età e la collocazione geografica. Così, se al nord la povertà interessa l'11.6% delle famiglie con cinque o più componenti, al sud la percentuale sale vertiginosamente raggiungendo il 32.4%.

Un buco nero è quello dei servizi per la prima infanzia. O meglio della loro carenza. I servizi privati infatti coprono a livello nazionale oltre un quinto dell'offerta complessiva: 604 asili su 3008 sono infatti gestiti da privati. In alcune regioni e province autonome, poi, l'incidenza del privato sul complesso degli asili nido è particolarmente rilevante. Bastino gli esempi della provincia autonoma di Bolzano (43.7%), del Veneto (52.2%), della Calabria (45%) e della Campania (52.9%). Naturalmente gli elevati costi dei servizi privati impedisce di fatto a molte famiglie di considerarle una reale alternativa al pubblico. Le famigerate liste d'attesa del resto rimangono lunghissime, sia tra i privati che nel pubblico: un terzo dei bambini italiani è in lista d'attesa per entrare in un asilo nido. Le regioni più carenti sono il Trentino Alto Adige dove la percentuale dei bambini in stand-by sfiora il 60% e la Liguria con il 55.8% di domande non accolte. Non stanno meglio la Valle d'Aosta dove la percentuale arriva al 51.7%. In queste tre regioni il numero di bambini che attendono di andare all'asilo supera quello delle domande accolte.

Ieri si è fatto anche il punto sul progetto di sportello telematico di informazione sociale che la provincia di Torino per prima ha messo in funzione. Gli sportelli (ce ne sono ventuno territoriali più un portale internet con operatori messi a disposizione dalla stessa Federcasalinghe) offrono risposte e consigli su temi che vanno dalla famiglia, ai giovani, dagli anziani all'handicap alla tossicodipendenza.



26 aprile

I passi coraggiosi di don Giovanni

  STRETTAMENTE PERSONALE

 Biagi Enzo

 Sfogliando i miei disordinatissimi ritagli, trovo una corrispondenza su Le Monde di Jean-Jacques Bozonnet dal titolo allettante: «Silvio Berlusconi è una operazione dello Spirito Santo?». Debbo ammettere che è una eventualità che non avevo mai preso in considerazione. In occasione del decimo anniversario della fondazione di Forza Italia Berlusconi ha letto un articolo celebrativo di don Gianni Baget Bozzo, un prete da cui non andrei mai a confessarmi. Nel testo del reverendo si legge che l' entrata in politica del Cavaliere era stata una ispirazione dello Spirito Santo, compromettendo così Dio col mio amico Emilio Fede, non solo, ma il sacerdote considera il capo del governo come un «avvenimento spirituale». A che ora la messa? L' arcivescovo di Genova, superiore gerarchico di Baget Bozzo, lo ha convocato perché desse spiegazioni, in quanto don Gianni aveva preso l' impegno di astenersi da qualunque attività editoriale a favore di un partito politico e, nel caso, di chiedere il permesso al suo vescovo prima di partecipare a qualunque manifestazione pubblica. Il religioso era già stato sospeso a divinis, niente messa, nessun sacramento e niente veste talare. Ma lui, che crede in Gesù e in Carlo Marx, si era presentato in una lista di Bari del partito socialista. Nell' agosto del 1994 l' incontro fatale con Silvio Berlusconi: «Alleluja! Ecco il nuovo Messia!». I preti di solito non aderiscono ai partiti politici perché non sono tutti don Sturzo con la vocazione magari per la politica ma con la rassegnazione per l' esilio. È vero che bisogna distinguere: sono nato in un villaggio dell' Appennino tosco-emiliano (d' inverno 35 abitanti), e la piazza è intitolata a un compaesano, medaglia d' oro alla memoria: don Giovanni Fornasini, parroco a Marzabotto. Era libero, ma quando seppe che i tedeschi stavano uccidendo i suoi parrocchiani, tornò indietro per morire con la sua gente. Tracciò nell' aria un segno di croce e disse: «Assolvo chi muore e chi uccide». Con lui mi sarei confessato, con don Gianni Baget Bozzo mi sembrerebbe di andare a un comizio.

 

 

 

Storia di Nelson, dato in pasto ai leoni perché nero

Il caso Shishane infiamma il Sudafrica. L' accusa: è stato il suo ex padrone bianco

A dieci anni dalla fine dell' apartheid un padre di tre figli è stato picchiato a sangue e gettato con le mani legate oltre il recinto. I suoi assassini forse sono rimasti a guardare

Farina Michele

DAL NOSTRO INVIATO HOEDSPRUIT (Sudafrica) - La bara di Nelson Shishane era leggera. Il giorno del funerale, il 14 marzo, i suoi tre bambini potevano sollevarla. Dentro c' erano un teschio, un pezzo di gamba, un dito. I leoni che hanno mangiato Nelson non hanno lasciato altro. Solo un brandello insanguinato, la maglietta che indossava il giorno in cui è scomparso, il 31 gennaio. La polizia ha ritrovato i resti sotto quel cespuglio in fondo alla radura, l' 8 febbraio. Nel grande recinto ci sono tre leoni. Whity, il maschio anziano. E due femmine. Tre leoni bianchi assonnati nella luce del mattino. «Diventano attivi di notte», dice Nico al volante del gippone, pistola alla cintura. Il Makwalo White Lion Project è un allevamento dalle parti di Hoedspruit, 400 chilometri a Nord-Est di Johannesburg. Nico vive qui da un paio di anni. Prima stava a Pretoria, era nell' esercito. «Ora vige un razzismo al contrario. Per noi bianchi promozioni bloccate. Per i neri posti di comando senza merito». Nico ha un lodge per turisti poco lontano. Per arrotondare lavora all' allevamento. I leoni bianchi sono una rarità e un affare: l' ultimo l' hanno venduto a Londra per 50 mila euro. Al Makwalo ne hanno una quarantina, maschi e femmine selezionati per l' accoppiamento. Come mangiano? «Carne dai mattatoi. Gliela buttiamo oltre la rete: 45 chili alla settimana». La prima notte di febbraio, dalla rete che separa il recinto dalla strada sterrata, qualcuno ha lanciato una razione imprevista di cibo. Bisogna vederli, i leoni bianchi, quando fa buio. Hanno un colore lunare. Si muovono rapidi. Forse Nelson Shishane, che non aveva ancora compiuto 40 anni, li ha visti arrivare. Nel momento in cui l' hanno buttato oltre la rete, dice al Corriere la Superintendente della polizia Ronel Otto, «è probabile che il signor Shishane fosse ancora vivo». A Nico non importa. «Questa storia l' hanno costruita per mettere sotto accusa i bianchi nel periodo delle elezioni. La verità è che l' hanno ammazzato i neri». La polizia non lo esclude: un litigio tra membri di tribù diverse. Nico è sicuro: «Nel giro di quindici giorni Mark tornerà libero». Mark Scott-Crossley, 35 anni, bianco, padre single di un ragazzo di 11 anni, era il datore di lavoro di Nelson. La sua proprietà dista 25 chilometri dai leoni bianchi. Guardie armate ne impediscono l' accesso. Hanno un' impresa di costruzioni, stavano ultimando il lodge di famiglia che doveva aprire ai turisti nel maggio 2004. Mark è stato arrestato l' 8 febbraio con tre dipendenti neri. Accusa: omicidio. Due sono fratelli. Il terzo Robert Mnisi, 34 anni, ha confessato ed è stato rilasciato. E' il principale testimone, vive protetto dalla polizia. C' era anche lui, la notte in cui Nelson finì in pasto ai leoni con le mani legate dietro la schiena. A raccontarlo è il pubblico ministero Willy Makwela, 32 anni, seduto a una scrivania del tribunale di Phalaborwa, una cinquantina di chilometri più a nord. All' udienza preliminare, un mese fa, centinaia di neri inferociti hanno manifestato fuori dell' aula. I cartelli dicevano: «Kill the Boers», e «Castrate the Boers». Uccidete i bianchi, castrate i boeri. Il caso Shishane ha infiammato la campagna elettorale. Una storia cupa alla Mississippi Burning. «Limpopo Burning». Il fiume che dà nome alla regione scorre più a Nord. Questa è una zona di lodge e riserve private a ridosso del Kruger National Park. Nelson Shishane era stato licenziato lo scorso novembre dopo un litigio con il capo. Prima lavorava per il fratello di Mark, faceva il giardiniere a Johannesburg. Uno di città, che nell' angolo più rurale del Sudafrica (l' unica zona dove al referendum del ' 92 la maggioranza dei bianchi disse no alle riforme per la fine dell' apartheid) aveva alzato troppo la testa. «Ha osato sporgere denuncia alla polizia - dice il magistrato Makwela - accusando il capo di avergli bruciato dei vestiti». Nell' ultimo giorno della sua vita, Nelson torna alla fattoria per ritirare le ultime cose: un paio di pentolini. Scott-Crossley non c' è, sta al Matumi Lodge per una riunione sulla scuola del figlio. «E' stato qui fino alle 10 di sera - dice la proprietaria Elsie Rosslee -. Una persona tranquilla, Mark. Non alza mai la voce». Secondo l' accusa, lo avvertono dell' arrivo di Nelson. «Pestatelo, io vengo più tardi», dice al telefono. Il pestaggio prosegue quando arriva il padrone. Poi Nelson viene portato su un pick-up al recinto dei leoni. La recinzione è alta oltre due metri. «I leoni possono anche saltarla», sostiene Nico. Ogni tanto qualcuno scappa. Ma non ne hanno bisogno: il cibo glielo buttano dentro. Questa volta la carne arriva dal cassone di un fuoristrada: i quattro uomini gettano Shishane oltre il filo spinato. Poi si accendono una sigaretta e restano a guardare come si sbrana un uomo. All' allevamento si accorgono che c' è qualcosa di strano quando gli animali disdegnano il cibo. Sono sazi. Intanto gli amici di Nelson, che dopo il licenziamento abitava in una catapecchia di lamiera nel villaggio di Khiyela, danno l' allarme. La sua amica Mavis dice che dopo lui pensava di tornare a casa, a Brits, 500 chilometri di distanza: «Non vedeva i suoi figli da molto tempo». L' ultima notizia è di questi giorni. La polizia ha trovato mozziconi di sigaretta davanti alla rete dei leoni. «La settimana scorsa abbiamo effettuato l' esame del Dna sui tre fermati per un confronto con la saliva delle sigarette - dice l' agente Otto -. Aspettiamo i risultati per avere la prova che gli uomini rimasero davvero a guardare il banchetto dei leoni». Gli accusati negano tutto. Il magistrato Makwela tira fuori da un cassetto la memoria con cui Mark Scott-Crossley ha chiesto (invano) la libertà condizionata. Si dipinge come un buon datore di lavoro, che «offre più del dovuto ai suoi dipendenti», più del salario minimo di 40 rand al giorno (5 euro). Unica macchia: il furto di un pneumatico nell' 86 per cui fu condannato «a tre colpi di frusta». Così era sotto l' apartheid, quando un bianco era chiamato «baas» (padrone) e un nero «kaffir». Sono passati dieci anni e in questo pezzo di Sudafrica bianchi e neri sono ancora due mondi separati. Una ventenne bionda che lavora al Makwalo (e che non vuole dire il suo nome) ha paura: «Mia madre insegnante è stata costretta a lasciare la scuola. Indagava su un caso di stupro ai danni di una ragazza cieca. I bidelli neri l' hanno minacciata di morte». La paura è «che ci portino via la terra». Ma in dieci anni di democrazia, solo il 3% della terra ha cambiato proprietario. Il 10% dei bianchi controlla ancora l' 85% delle zolle coltivabili. Il governo ha un piano più incisivo che prevede l' esproprio. «Se lo fanno sarà guerra», dice Nico, che ce l' ha con i sudafricani di radici inglesi. «Soutpiel», li chiamano i boeri. «Uccelli salati»: «Perché tengono un piede qui, uno a Londra, e il resto (in mezzo alle gambe) in mare. Noi invece abbiamo solo questa terra». Nessuno gliel' ha ancora tolta. In questa zona quanti espropri sono avvenuti? «Nessuno, per ora», risponde il presidente del distretto che comprende Hoedspruit, Maluleke Caswell, dell' Anc, il partito di governo, che qui ha ottenuto il 95% dei voti. «Ci sono una ventina di casi in cui le nostre comunità si sono rivolte allo Stato per riottenere le terre che i bianchi ci hanno rubato cento anni fa». Ma in molte tenute i neri hanno ancora paura e sono trattati da schiavi. E se si rivolgono a un tribunale trovano spesso giudici bianchi. «In questi anni in Sudafrica sono stati uccisi 1500 farmer bianchi», dice la ragazza bionda davanti al recinto dei leoni albini. La Superintendente Otto sostiene invece che «nel Limpopo le violenze a sfondo razziale sono diminuite. Però sono qui dall' 87: un caso Shishane non era mai accaduto prima». A finire nelle fauci dei leoni «sono i clandestini mozambicani che cercano di entrare in Sudafrica attraversando il Kruger Park». Anche quando ci riescono, i guai non sono finiti. Due mesi fa a Nelspruit, più a Sud, un giudice bianco ha condannato, si fa per dire, un proprietario terriero bianco che aveva ucciso un lavoratore nero mozambicano, Jotham Mandlate, legandolo all' auto e trascinandolo sotto le ruote per 60 metri. Gerrit Maritz ha avuto una multa di 4 mila euro e una pena (sospesa) di due anni di galera. Quattromila euro, tanto valeva la vita di Jotham Mandlate, un decimo di un leone albino. All' allevamento di Makwalo anche il vecchio Whity si anima quando fa buio. Le sue leonesse corrono lungo la rete. Tre fantasmi lunari. Chissà se Nelson Shishane li ha visti arrivare. Michele Farina Le indagini L' ACCUSA Secondo l' accusa l' uomo è stato prima pestato a sangue da alcuni dipendenti del suo ex datore di lavoro, poi, su ordine di Scott-Crossley, gettato in pasto ai leoni. L' esame del Dna di alcune sigarette trovate davanti al recinto permetterà di stabilire se gli assassini hanno assistito al banchetto La vittima I FATTI Nelson Shishane, nero, padre di tre figli, lavorava nella tenuta di Mark Scott-Crossley, bianco, fino a novembre scorso, quando fu licenziato dal suo padrone in seguito a un diverbio. E' morto il 1° febbraio divorato da tre leoni albini: qualcuno lo ha gettato oltre la rete con le mani legate

 

23 aprile

Modello Fiat
ROSSANA ROSSANDA
Straccioni e forcaioli come sempre - che altro si può dire del padronato Fiat, o delle banche che gli stanno alle costole, nella vertenza di Melfi? E' uno stabilimento chiave, essenziale nel sistema del just in time, che abolisce magazzini e scorte, è il secondo complesso per produttività in tutta Europa, ma la Fiat pretende di tenere i cinquemila dipendenti a salari più bassi dal 15 al 25 per cento rispetto a quelli delle altre sue produzioni, a ritmi più serrati e in settimane di lavoro di sei giorni. E quando, dopo anni d'un contratto capestro firmato come Fiat-Sata, i lavoratori di Melfi chiedono di essere portati al livello contrattuale degli altri, manco gli risponde. E quando, esasperati, organizzano la protesta gli scaraventa addosso la polizia con caschi e manganelli. Questo è successo ieri mattina. Siamo nel 2004, ci si riempie la bocca di globalizzazione e competitività ma gli eredi dell'Avvocato dirigono la manodopera come un fattore micragnoso di cento anni fa. Pensano che con la gente della Basilicata si può far quel che si vuole, è una regione meridionale povera, hanno reclutato i lavoratori su un vastissimo territorio perché siano distanti a due ore di viaggio, e con mezzi propri, e per strade sgangherate dove gli incidenti sono la regola, in modo che restino divisi fuori come dentro i grandi spazi del complesso. Non importa che siano stanchi morti, che le punizioni piovano a migliaia (novemila in cinque anni), che molti se ne vadano perché non reggono, cosa che non succede in questa misura in nessun altro luogo, ma meglio disperdere il know how puntando sui disoccupati dei dintorni piuttosto che pagare i propri dipendenti a prezzo normale e per orari normali. Così pensa la nostra classe dirigente che si vantava di aver fatto dell'Italia la quinta potenza industriale del mondo.

E' una dirigenza non solo arrogante, è anche stupida. Non deve essersi pagata neppure qualche sociologo abbastanza intelligente da spiegarle che nel mezzogiorno è un errore credere che la mancanza di una lunga tradizione di lotte significhi eterna rassegnazione. La Fiat ha tirato troppo la corda e ora si trova davanti a una protesta che si è infiammata di colpo su esigenze elementari e decenza avrebbe dovuto prevenire. E' la Rsu, l'organismo di fabbrica, che è partita bloccando gli accessi a uno stabilimento nel quale la comunicazione interna è difficile. La direzione ha creduto di aggirarla accordandosi con le malleabili Fim-Cisl e Uil nonché terrorizzando i lavoratori di Mirafiori, sospesi fra una cassa integrazione e un'altra, finché alcuni di loro non hanno scritto a Melfi supplicandola di smettere perché: il nostro lavoro è nelle vostre mani. Come se non fossero tutti e due nelle mani della famiglia di Torino. La stampa scritta e parlata non ha mancato di precipitarsi a deprecare la scarsa coscienza globale degli operai e a predicare la libertà di crumiraggio. Tutto sbagliato. Melfi ha tenuto, diecimila persone hanno circondato il complesso l'altro ieri, e la Fiat come, suppongo, il prefetto di Potenza hanno perduto la testa mandando la polizia a sciogliere i presidi.

Incauta mossa. Domani sciopereranno tutti i metalmeccanici d'Italia e vedremo chi la spunta. E fin quando il governo potrà fingere di tenersene fuori. E fin quando l'opposizione esiterà a entrare in campo su una questione di equità salariale e normativa così elementare. Non siamo ancora la pallida imitazione degli Stati Uniti della destra repubblicana.

 

22 aprile

Terrore profondo
GABRIELE POLO
Le autobombe di Bassora che fanno strage di bambini sono solo l'atto più recente di un'esposizione universale del terrore. Non sarà l'ultimo. L'Iraq sembra diventato una mostra impazzita delle forme di conflitto del '900: autobombe e kamikaze, proteste di piazza, rivolte e loro repressione, attacchi militari e sequestri di ostaggi (assassinati o rilasciati dopo trattativa), si concentrano in uno stesso luogo in un andirivieni apparentemente privo di senso, soprattutto senza una logica politica. O, almeno, così ci appare, incapaci di capire fino in fondo che l'esercizio della forza - in chiave militare - è diventato la forma della politica del XXI secolo. E trarne le dovute conseguenze per costruire una nuova politica, perdendoci invece in paranoie tragiche («avanti fino alla vittoria» e all'eliminazione dell'avversario) o ridicole («con i terroristi non si tratta», salvo poi trattare). Persino chi ha denunciato fin dall'inizio il salto di paradigma rappresentato dall'11 settembre e la follia dell'avventura bellica di Bush fatica a comprendere pienamente il significato dell'espressione «guerra permanente». Cioè di guerre (ufficiali e «informali») che non tollerano alcun terreno di mediazione politica, che si alimentano di se stesse e dei loro integralismi ideologici - religiosi o mercantili - in un modernissimo remake dei conflitti europei del `600. La guerra irachena - ma dovremmo dire mediorientale - può anche essere letta, da una parte e dall'altra, attraverso i consueti canoni degli interessi economici (il petrolio), strategici (l'avamposto americano), identitari (la liberazione dei luoghi santi dell'Islam), nazionalistici (la cacciata dell'occupante). Ma è una lettura parziale, insufficiente. Più a fondo non c'è lo scontro di civiltà propagandato da destra, bensì una logica distruttiva: nessuno può uscirne vincitore assoluto, ma le parti (anche quelle che si combattono dentro i due schieramenti) si affrontano per esserci, più che per prevalere. Il risultato però non è «a saldo zero», sono i massacri.

In questo stravolgimento generale anche le parole rischiano di perdere il loro senso. Resistenza da noi ha un significato preciso, si accompagna ai valori costitutivi di una democrazia rappresentativa che ha affondato le proprie radici nell'onda lunga dell'89 francese (ed è per noi naturale celebrarla il prossimo 25 aprile in chiave pacifista chiedendo il ritiro delle truppe). In Iraq ha solo un significato «tecnico», militare: sappiamo contro cosa si resiste ma non per cosa. E non basta la resistenza a un'occupazione militare illegittima per qualificare il senso di quel termine. Anche il «come» si resiste è conseguente alle sue finalità. E in Iraq dimostra l'assenza totale di autonomia dalle logiche di chi si combatte, diventa parte costituente della guerra preventiva. La distinzione è solo sul terreno della disparità tecnologica, nel divario militare che separa l'esercito più potente del mondo dai «barbari». Termine che suggeriremmo di evitare, se non altro per i precedenti storici che hanno sempre visto i barbari conquistare, alla fine, gli imperi. Anche a costo di seminare morte e terrore.

 

Assedio operaio alla Fiat di Melfi
Terza giornata di blocchi contro i ritmi troppo intensi. Fabbrica ferma. Massiccia presenza di forze dell'ordine. Azienda sempre più nervosa. Prove di dialogo sindacale
Tensioni incrociate e crescenti a Melfi. Per tutto ieri il blocco degli operai allo stabilimento Fiat ha retto, ma si è sfiorato lo scontro tra lavoratori e poliziotti in tenuta antisommossa. Che nel primo pomeriggio hanno preso controllo di uno dei cinque presidi, senza comunque che ci fossero incidenti. La protesta, durissima, va avanti da giorni. In discussione ci sono le condizioni di lavoro, in particolare i turni. I 5 mila di Melfi lavorano infatti secondo il modello velocizzato di catena di montaggio. Che si chiama Tmc2 e in due parole significa: turni massacranti (ad esempio due settimane consecutive di notti, anche per le donne) e paga bassa.

Il blocco dello stabilimento lucano sta provocando effetti a catena: a Mirafiori, la Fiat ha messo in libertà i lavoratori dell'ultimo turno di ieri e del primo di oggi: «I pezzi da Melfi non arrivano, potete andare a casa». È probabile che la produzione rimanga ferma tutta la giornata.

L'azienda, secondo la Fiom, ha cercato apertamente la provocazione: «Sta telefonando - denuncia il segretario generale Rinaldini - ai singoli lavoratori per invitarli a entrare nello stabilimento». Due pullman carichi di 100 capi-giovani responsabili di reparto, quindi assai sensibili ai richiami dell'azienda - hanno cercato di forzare il blocco. Dicevano di volersi mettere al lavoro, ma sono poi stati costretti a rinunciare e tornare a casa. «Nessuno dei lavoratori nel presidio ha fatto nulla - dice Lello Raffo, Fiom - eppure i bus hanno fatto retromarcia e i capi hanno denunciato chissà quali intimidazioni».

Qualche ora dopo, la Fiat ha utilizzato addirittura un elicottero per trasportare dei pezzi da Melfi allo stabilimento Sevel di Pomigliano, dove si producono i furgoncini Ducato. PerRaffo è un comportamento al limite dell'incredibile: l'azienda non ha bisogno di usare elicotteri, «ha un modo molto più semplice per risolvere il problema: convocare l'incontro chiesto dai lavoratori».

Ma il nervosismo che ha percorso la giornata ha anche causato un riavvicinamento nelle posizioni dei sindacati. almeno dopo che Fim e Uilm hanno rinunciato al proposito di indire una «contromanifestazione» in difesa degli operai che vogliono lavorare. Un segnale di distensione, cui ne è seguito un altro: per oggi alle 18 è prevista un incontro comune per discutere sulla situazione dello stabilimento.

Nessun avvicinamento invece sul fronte della Fiat. L'azienda per tutta la giornata è rimasta muta, dopo che martedì aveva confermato la sua indisponibilità a un confronto con la vaghissima spiegazione che «mancano le condizioni». I sindacati si sono appellati al governo, perché spinga l'azienda a sedersi al tavolo.

 

16 aprile

Da Berlusconi a Fini a De Michelis, invasione di manifesti 6x3
L'Ulivo non ha scelto volti in primo piano, ma slogan sulla crisi
Europee, va in piazza
la campagna delle facce
Il premier non guarda negli occhi l'elettore
Fabris: del leader di An l'idea più convincente
di ALESSANDRA LONGO
ROMA - Li avete visti anche voi: ci guardano dall'alto, affollano i tabelloni pubblicitari nei punti strategici, si materializzano in pieno centro, agli incroci che contano, sulle consolari, sulle tangenziali. Europee 2004: ovvero la campagna elettorale delle facce, anzi dei faccioni sei per tre, sparati in primo piano, impossibili da non vedere quando ti fermi al semaforo, quando sei imbottigliato in mezzo al traffico.

Ecco i maxi volti di Fini, Follini, Di Pietro, Occhetto, Bobo Craxi, Gianni De Michelis, montature di occhiali, calvizie, rughe d'espressione, ingigantite, dilatate ad effetto... Enfasi sull'individuo, meno sul partito, quasi nulla sul programma.

Giampaolo Fabris, sociologo, registra così il fenomeno: "La trovo una forma di narcisismo provinciale. Devo dire che a volte gli effetti sono grotteschi come nel caso di Antonio Di Pietro e Achille Occhetto. La loro sembra la foto di un matrimonio nella classica cornice d'argento... ".

Silvio Berlusconi ha fatto scuola. Ricordate? Fu lui, già nel 1994, a personalizzare l'offerta politica, non più il voto ad un partito, ma la scelta di una faccia, la sua. Rideva, fissava gli elettori promettendo mirabilia. Nel 2001, presidente imprenditore, presidente innovatore, presidente operaio... Adesso eccolo, messo di tre quarti, sul lato sinistro del cartellone, ad occhi bassi, senza sorriso, cravatta a pois, due righe di comunicazione per dire che in questi anni di governo ha diminuito le tasse, ha creato più lavoro, ha regalato le dentiere ai poveri... No, non scruta i suoi potenziali interlocutori. Se ne sono accorti quei ragazzacci dei Triciclisti, un gruppo di giovani blogger (autori di diari online) vicini alla Lista Unitaria: "Perché Berlusconi nei nuovi manifesti non ci guarda più in faccia?". Si sono anche risposti a modo loro: "Forse si vergogna perché sa che quel che dice non è vero".
A proposito di Lista Unitaria: per il momento, niente faccioni. In questo caso lo sforzo è quello di far passare il messaggio della coalizione ("Finalmente insieme") o di aggredire, anche ruvidamente, un problema, per esempio la drammatica perdita di potere d'acquisto degli italiani: "Arriverai a fine mese?". Claudio Velardi, già braccio destro di D'Alema a Palazzo Chigi ed esperto di comunicazione politica, trova che "in un momento come questo la gente abbia bisogno di sentire parole che contengano un minimo di verità, siano in consonanza con la condizione vera di tanti elettori. I giochini dei pubblicitari mal si attagliano alla situazione".

Sta di fatto che i faccioni vanno forte. Ecco Gianfranco Fini, anche lui in primo piano, lenti da vista al titanio, camicia quadrettata, cravatta blu, disegnini arancio. Il messaggio è breve: "Un solo interesse. Gli italiani". Ovvero: se mi votate, farò i vostri interessi, non i miei. Dice Fabris: "In questo caso l'esibizione del faccione è giustificata dalla notorietà, anche televisiva, di Fini. E il messaggio è intelligente. E' un chiaro siluro a Berlusconi ma formalmente suona corretto".

Il sondaggista Nicola Piepoli evoca "un processo di mimesi": "In "Gargantua e Pantagruel" il montone si getta in acqua e le pecore gli vanno dietro...". Gli alleati e gli avversari inseguono il Cavaliere, già imperatore degli spazi pubblicitari, sul suo terreno.

Tra le new entries dei faccioni, anche Marco Follini, leader Udc. Nel suo sei per tre, sfoggia un sorriso rassicurante, centrista, gli occhialetti tondi da bravo ragazzo. Dietro di lui, due bambini giocano a palla. La scritta: "Con il futuro dei nostri figli io c'entro". Io c'entro, tu estremista: lì sta il giochino... Fabris rabbrividisce. E peggio si sente di fronte ai due maxi protagonisti della lista OcchettoDi Pietro. Insieme prendono tutto il manifesto: Achille, sereno, una corta barba bianca, Tonino il sorriso a tutto denti: "Con noi metti al sicuro il tuo voto".

"I leader sono diventati, agli occhi della gente, più affidabili del simbolo di partito", spiega Maurizio Pessato della Swg. Sono le regole della "personalizzazione della politica", di una comunicazione che il sociologo Vanni Codeluppi definisce "elementare, arretrata, poco inventiva", rispetto a certi messaggi commerciali, raffinati e complessi. "Non sono indispensabili facce nuove, ma idee chiare", garantisce dal suo sei per tre Gianni De Michelis, garofano all'occhiello. Bobo Craxi, sfondo rosso, imperversa, pure lui, su Milano e dintorni.

Fiutata l'aria che tira, il negozio "Clima Center" di Roma, specializzato in climatizzazioni civili e industriali, ha tappezzato la capitale con i suoi cartelloni. Ecco due sosia di Berlusconi e D'Alema. La promessa è bipartisan: "Con noi starete freschi".

15 aprile

La stretta del Ponte
Frassoni e Fava organizzano il voto del parlamento europeo per evitare lo scempio
Grandi operazioni Ultime manovre intorno al Ponte, vanto del governo. Oggi il bando, tra sette giorni il voto del parlamento europeo
GUGLIELMO RAGOZZINO
Oggi la Gazzetta ufficiale pubblicherà il bando per il general contractor del Ponte sullo Stretto. Lo rende noto Pietro Ciucci, amministratore delegato della società Stretto di Messina. L'importo base di gara è di 4,4 miliardi di euro e nel caso vi sia davvero una gara tra concorrenti reali, per scegliere il vincitore conta il prezzo, il valore estetico e tecnico; e poi i tempi, l'importo del prefinanziamento, la maggior quota delle imprese affidatarie. Come ovvio, pur in un bando così improvvisato, non vi è alcun cenno ai problemi ambientali. Pietro Lunardi, il ministro responsabile parla di «ennesima conferma» e di «successo» della legge obiettivo. In altre parole il ministro se le canta e se le suona. Ma è improbabile che qualcuno sia tanto sconsiderato da rispondere all'appello. Il Tunnel sotto la Manica ha mangiato sette volte il capitale; e neppure il Golden Gate Bridge sta tanto bene in salute, tanto che prevede di perdere 130 milioni di dollari nei prossimi cinque anni. La decisione di pubblicare il bando risponde però a una assai seria tempistica europea. Il 22 aprile , tra una settimana, il parlamento europeo, nella sua ultima seduta utile (la chiusura sarà il 7 maggio), voterà la lista Ten delle nuove opere per la rete di trasporto transeuropea. Forse, Ponte compreso. Nella precedente votazione - come si ricorderà - il Ponte sullo stretto di Messina era stato depennato con un emendamento votato da verdi, socialisti europei, sinistra unitaria e una parte dei liberali che aveva ottenuto 231 voti contro 198 a favore del Ponte.

Il Ponte era stato inserito, come per ovviare a una dimenticanza, nella linea tutta ferroviaria Berlino-Palermo. Berlino-Palermo era il primo dei 29 progetti che avevano il compito di ridisegnare il sistema dei trasporti terrestri nella grande Europa nel primo quarto del secolo. Al momento di nominare il Ponte negli appositi comitati si era aggiunta la parolina road (Rail/road bridge over the Strait of Messina-Palermo 2015), in modo surrettizio. Una strada ferrata con un Ponte anche stradale, monumentale però. Giusto quindi rimettere le cose a posto e cancellare il Ponte dai progetti europei. Il Parlamento europeo ha poteri assai limitati, in un triangolo i cui lati forti sono la Commissione (Prodi) e il Consiglio, cioè i governi. Prima i governi, in sede tecnica (Coreper, comitato dei rappresentanti permanenti presso l'Ue) e poi gli incontri informali delle tre parti hanno in buona sostanza confermato la presenza del Ponte anche stradale nel progetto ferroviario. E l'esito del voto non sarà tale da rovesciare il Ponte nelle acque ribollenti dello stretto immaginario Messina-Palermo.

Son però tutt'altro che pessimisti i parlamentari Monica Frassoni capogruppo dei verdi e Claudio Fava dei ds-pse che hanno tenuto ieri una conferenza stampa nella sede del Wwf romano per fare un quadro della situazione. Entrambi prevedono che il voto del parlamento di Strasburgo, in uno dei suoi atti finali di legislatura, sarà di nuovo una bocciatura del Ponte. Il regolamento richiede però una maggioranza assoluta del parlamento per rovesciare la volontà dei governi e i 314 voti necessari, corrispondono a circa 2/3 dei parlamentari che si ritiene parteciperanno alla seduta. Un limite difficile da raggiungere. E' molto importante però mettere un'altra volta di fronte agli europei che la scelta del Ponte è un errore tecnico, ambientale, economico e finanziario.

Il Ponte, hanno ripetuto Frassoni e Fava, e così anche Stefano Lenzi del Wwf, è una struttura paradossale. Ci sarà (?) tra una decina di anni e nel frattempo serviranno i trasporti marittimi per andare da una parte all'atra in modo comodo. Trasporti che poi dovranno essere cancellati affinché il Ponte non abbia concorrenza. Nel 2030 dovranno infatti passare sul Ponte 100mila autoveicoli al giorno per mettere almeno in pareggio l'opera monumentale; le previsioni più ottimistiche ne prevedono 18mila. In queste condizioni che sono ben note ai banchieri di ogni estrazione, ai fondi d'investimento e in genere ai possibili finanziatori dell'opera, è del tutto improbabile che si formi un consorzio di finanziatori.

Lo stato italiano si dovrà accollare l'intera spesa, proprio come nel caso dell'alta velocità che vede l'Italia sotto accusa davanti all'Europa. Senza considerare i guasti ambientali; senza considerare che il Ponte insisterebbe in un territorio carente di autostrade e ferrovie adeguate e quindi difficilmente raggiungibile (tra l'altro i collegamenti ferroviari al Ponte non sono previsti, non hanno finanziamenti e non hanno ottenuto la valutazione di impatto ambientale). I governi hanno fatto avanzare i progetti (probabilmente 29, ma il numero non è sicuro) in una commissione presieduta dall'antico commissario Ue alla concorrenza Van Miert. Il rappresentante italiano, tanto per fare un esempio, è Ercole Incalza, già amministratore delegato della Tav, l'alta velocità, e ora consigliere stretto del ministro Pietro Lunardi. Tra di loro, sono d'accordo. Ma gli altri?

 

Azienda Italia 400 mila baby al lavoro
Sono 250 milioni nel mondo, un bambino su sei. Ma anche nel nostro paese il lavoro minorile non arretra: colpa della miseria, della dispersione scolastica , del degrado sociale. Un'indagine della Cgil studia il fenomeno sul campo e svela le responsabilità del governo
BEPPE MARCHETTI
ROMA

Hanno le mani piccole e svelte, i muscoli tenui, gli occhi vispi un po' adombrati dalla stanchezza. Stanno nei campi o nel buio d'uno scantinato, in fabbrica o nel fondo d'una miniera. Sono sporchi, talvolta feriti, parlano con fatica. Molti neanche sanno cos'è una scuola. Lavorano: per necessità o perché costretti. Dai genitori, nel caso peggiore. Sono 250 milioni, dice l'Organizzazione internazionale per il lavoro (Oil); ma la stima è molto cauta, sicuramente da rivedere al rialzo. Ogni sei bambini, al mondo ce n'è uno che lavora. Nell'Africa subsahariana sono uno su tre. In Asia almeno 127 milioni. Bimbi come Iqbal, che veniva dal Pakistan e a quattro anni è stato venduto a un fabbricante di tappeti. Incatenato a un telaio, di fianco il magro conforto di qualche coetaneo. Un giorno Iqbal ha conosciuto un sindacalista, scoperto di avere dei diritti. Ne ha avuto abbastanza di catene e telai: ha cominciato a studiare, sognava di diventare avvocato. Stava correndo con la sua bici, spensierato come un dodicenne, quando gli hanno sparato. Era il 16 aprile del 1995: quasi nove anni fa. Iqbal è diventato un simbolo ma ha perso la vita.

Così a Iqbal hanno dedicato scuole, associazioni, movimenti. Anche in Italia, dove il lavoro minorile esiste eccome. L'ha ricordato ieri la Cgil, presentando una ricerca realizzata dall'Ires (il suo istituto di ricerca). I dati sindacali sono messi a confronto con quelli dell'Istat (che solo dal 2001 ha cominciato a occuparsi di lavoro minorile) e disegnano una situazione grave e poco nota: in Italia lavorano 400 mila bambini, tra l'8 e il 9% del totale. Nella metà dei casi fanno tempo pieno (8 ore o più) e guadagnano dai 200 ai 500 euro. L'anomalia del nostro paese si spiega innanzi tutto con altri numeri: in Italia il 17% dei bambini è povero, il 43% dei giovani non ha un diploma. In entrambi i casi è un primato negativo in Europa.

Ma la ricerca della Cgil, soprattutto, considera le tre realtà metropolitane di Milano, Roma e Napoli. Città diversissime, come annota Anna Teselli, ricercatrice dell'Ires. A Roma, per esempio, i minori al lavoro hanno le fattezze di bimbi immigrati dai paesi dell'est (spesso anche da soli, cioè senza famiglia): stanno per strada, lavano i vetri delle auto o mendicano. O quelli dei piccoli cinesi, impiegati nella microimpresa di famiglia. A Napoli i minori sono italiani, occupati per lo più in casa. O presi nella morsa dei clan territoriali, invischiati nella microcriminalità. A Milano, infine, il rischio prevalente è l'esclusione sociale dei minori «nullafacenti»: quelli cioè che crescono senza lavorare né studiare e si trovano ai margini. Qui è anche alta la dispersione scolastica: il 28%. Spesso, insomma, si ripropongono anche tra i minori le dinamiche del mondo adulto. Ma in realtà ciascuna delle storie raccontate dai ricercatori è individuale. E molte meritano di essere raccontate.

Veronica ha 15 anni, da 8 è orfana di padre. Vive a Napoli, in una casa affollata di gente: 15 persone, tra fratelli, madre e parenti. Da quella casa, Veronica (il nome è di fantasia) non è mai uscita fino ai 13 anni. Costretta da obblighi familiari - è la primogenita, doveva badare agli 11 fratelli, occuparsi della casa - non ha potuto andare a scuola. A leggere e scrivere ha imparato da sola, nei pochi ritagli di tempo.

Claudio ha 12 anni, lui a scuola ci va. Vive a Roma: alle lezioni non manca quasi mai, ma non fa i compiti. Che non sia un monello come tanti lo capisce un'insegnante. Nota le mani sempre arrossate, screpolate. Chiede il perché. Claudio risponde: «Do una mano a mio padre, ha un ristorante». Lui non ci vede nulla di male: è normale, pensa. Anche se passa ore a lavare i piatti, e le mani rosse sono solo l'ultimo dei problemi. Non riesce a studiare, non può fare i compiti. In qualche modo finisce le medie, ma subito dopo lascia la scuola. Non può continuare: ha pile di piatti da lavare.

A Umberto studiare non piace proprio. Ha 14 anni e alla scuola preferisce la fabbrica di plastica dove lavora. «Lavoro molto e sono diligente, affidabile», spiega con una punta di orgoglio. Non lo fa per necessità: la famiglia non è ricca, ma non avrebbe bisogno del suo contributo. La sua è una scelta: vuole guadagnare per essere autonomo, avere il cellulare e il motorino. Un domani comprarsi un'auto, il suo vero sogno. Vive a Milano e forse questo non è un caso.

Lavoro minorile e scuola, il legame è ovvio e strettissimo. Per questo ieri le critiche della Cgil si sono appuntate soprattutto sulla riforma dell'istruzione. «È incredibile - secondo il presidente dell'Ires Agostino Megale - che la prima cosa fatta da questo governo sia stata ridurre l'obbligo scolastico». E il segretario Guglielmo Epifani aggiunge altre responsabilità a carico del governo: aver diffuso una situazione di povertà e non aver combattuto il lavoro nero. «Ci hanno spiegato - dice Epifani - che quello che finora s'era fatto contro l'economia sommersa non andava bene, che bisognava cambiare tutto. Beh, aspettiamo ancora i primi risultati». Contro il lavoro minorile la Cgil ha pronte 15 proposte: «Le presenteremo al governo, se vorrà ascoltarci. Altrimenti parleremo all'Unione europea.>>

 

13 aprile

GUERRE
Arrivano i nostri
DOMENICO STARNONE
Andiamoci cauti con l'aggettivo possessivo «nostro». Facciamone un uso parco e oculato, perché di là, per quella parolina, stanno passando e passeranno misfatti sempre più numerosi contro il genere umano. Troppe cose vengono spacciate per nostre: la nostra civiltà, la nostra religione, le nostre radici, il nostro paese, la nostra patria, il nostro stato, il nostro governo, i nostri soldati. Impariamo a rigettare l'aggettivo. Addestriamoci a chiederci: nostre di chi, di quale noi? Per allenarci cominciamo dalla pasqua. Questa è una pasqua di morte violenta, senza nemmeno l'ombra della resurrezione. La resurrezione anzi è così sbiadita che stenta a funzionare persino come metafora. L'Africa non accenna a risorgere, non risorge l'Iraq . Della pasqua perdura solo la sua premessa funerea: la vita aggredita, costretta nelle galere, umiliata, torturata, distrattamente o calcolatamente tolta. Perdura lo sterminio degli agnelli, il sangue a rivoli degli indifesi. Perdurano festevolmente i cesari d'ogni risma, le loro corti grasse, i loro centurioni, le soldatesche. Ma resurrezione niente, liberazione niente. Dai cieli chiusi e sorvegliati ci si aspetta al peggio un aereo kamikaze da turismo.

E' questa la nostra pasqua? Se la città santa è blindata, se persino la metafora della resurrezione è strozzata dalla militarizzazione, perché prenderci in giro? La festa del tempo nuovo, della forza vitale e primaverile, è ormai come intasata dalla morte. S'è persa la speranza di resurrezione, si macella e basta.

Ricordiamoci allora che non c'è pace pasquale se non nella finzione della tv, che il governo della macelleria non è nostro, che i soldati che macellano non sono i nostri, che non è nostro né il comando né l'obbedienza. Sscegliamoceli, i nostri, non li subiamo per pigrizia, per persuasione occulta, per autorità. Il comando è di Bush, di Berlusconi, di Blair, di tutti quelli che, assiepati dietro una potenza di fuoco capace di annientare il pianeta, per dare una lezione ai califfi in pectore hanno dissennatamente deciso di moltiplicarne il seguito invadendo paesi e massacrando gli inermi, i disperati mal nutriti, male armati. L'obbedienza è dei soldati che, partiti liberatori o pacificatori in divisa e armi e il miraggio di qualche soldo in più, si sono trovati inchiodati alla loro funzione primaria, buscarsi la paga uccidendo, versare sangue in modo che poi il sangue ricada su tutti noi e per reazione ci imbesti più di quanto non siamo già imbestiati, in un movimento all'infinito.

Altro che pasqua, dunque, altro che civiltà del Dio biblico, del Cristo. Il meglio di quella festa e di quella tradizione è disperso, ridotto a favola di gioia e di liberazione per i bambini e gli ingenui, i primi a essere massacrati. La pasqua non è più passaggio, ma permanenza nell'orrore. E' ridotta allo spettacolo adrenalinico e molto redditizio della carne martoriata, come in Passion di Mel Gibson, film che non poteva essere pensato che oggi: torture, sangue e, per finale, non il trionfo del buon pastore ma di un buon barbiere.

Il nostro tempo è questo? Noi apparteniamo a questa necessità di assassinio che dà allo stomaco, siamo i mandanti, siamo i complici, siamo i finanziatori?

No. Certamente questi aspiranti governatori mondiali, alleati o in rissa tra loro, non sono nostri. Sicuramente non sono nostri nemmeno questi soldati. Non è nostro un mondo permanentemente in emergenza, votatato all'apocalisse purificatrice. Ciò che è nostro, invece, non fa rumore e salva. Nostri sono quelli che attraversano le strade insanguinate di Falluja a rischio della vita per portare medicinali. Nostri sono quelli che ogni giorno subiscono o fronteggiano gli effetti della smania di distruzione. Nostri sono gli ingenui che credono alla confederazione di tutti gli esseri umani contro chi fa sonni satolli e tranquilli di strapotere sopra arsenali da non dormirci la notte. Quelli sono i nostri.



9 aprile

Record negativo di ascolti per il Porta a Porta con Lunardi
L'Ulivo: "Una stella in declino, i suoi comizi non pagano più"
Pubblico stanco, fascino addio
Ora Berlusconi fa flop in tv
L'inizio del declino quando affermò
che l'impoverimento è "percezione fallace"
di CONCITA DE GREGORIO
Silvio Berlusconi
a Porta a Porta
SOLO gli analisti attentissimi e i maniaci dell'audience potranno esaminare i diagrammi minuto per minuto e stabilire con feticistica certezza se il punto più basso si sia raggiunto quando Silvio Berlusconi ha promesso di eliminare dalle strade le curve pericolose ("meno curve per tutti") o quando ha annunciato i progressi nel collegamento tra Kiev e la Transiberiana.

Tutti gli altri nel frattempo sappiano, all'ingrosso, che la puntata di "Porta a porta" in cui il premier accompagnava Lunardi come da qualche tempo fa coi suoi ministri è andata malissimo: record negativo di ascolti, un milione 700 mila spettatori, 17 e 19 di share contro una media della trasmissione del 21. Quando nel 2001 firmò sempre da Vespa il "Contratto con gli italiani", che ogni volta cita come fosse una cosa seria, gli ascoltatori erano 3 milioni e 600 mila e la percentuale di ascolti del 35,3 per cento. Gli prestavano attenzione, allora. In tre anni: Berlusconi dimezzato.

Per uno che campa di tv è un lutto serio, e difatti ieri la grave circostanza ha tenuto banco a palazzo Chigi e alla Camera quanto le stragi di civili in Iraq: Frattini in aula a difendere la posizione dell'Italia, forzisti in Transatlantico a chiosare la debacle televisiva. Opposizione contraria al mantenimento del contingente a Nassiriya e soddisfatta della sconfitta tv. Per la Margherita Giorgio Merlo, deputato in vigilanza Rai: "Gli italiani si sono stufati delle sue apparizioni tv e dei proclami senza seguito. E' una stella in declino, gli italiani non hanno l'anello al naso". Giuseppe Giulietti, ds: "Il comizio non paga più, Berlusconi va ammirato per come si è difeso dall'affetto dei giornalisti presenti: gli spunti più critici sono venuti da lui".

La prestazione tv di ieri - in effetti - è andata peggio persino di quella con la Moratti sulla riforma della scuola, prova per gli spettatori già durissima. Lunardi era un arredo, ha preso la parola dopo un'ora e venti minuti dall'inizio del programma e non se n'è accorto nessuno. Per il resto del tempo si è limitato a sedere composto mentre Berlusconi col pennarello rosso ridisegnava sulla lavagna tracciati di strade, autostrade e ferrovie di un paese ideale e per il momento inesistente: ogni tanto dei servizi realizzati dalla redazione di Porta a Porta spiegavano come la variante di valico Firenze Bologna sia praticamente pronta (49 chilometri in galleria, per la fortuna di chi ha imprese adatte all'uopo) e come la Salerno Reggio Calabria stia per diventare un paradiso da cui saranno eliminate, appunto, le curve pericolose sempre con l'accorgimento delle gallerie. A "Batti e ribatti", la nuova trasmissione di Pierluigi Battista - fascia oraria blindata fra il Tg1 e "Affari tuoi" di Bonolis, sei minuti, per cambiare canale bisogna proprio volerlo fare ed essere molto veloci - la puntata con Berlusconi è stata la peggiore della settimana: 26,8 di share, peggio di Cè, di Rutelli e di Furio Colombo, ma soprattutto peggio del tg che la precedeva (29,6) e rovinosamente peggio di Bonolis che seguiva (34,8). I telespettatori, in quel caso, sono stati velocissimi a cambiare e ricambiare.

Che la gente cambi canale quando compare in video il volto del presidente del Consiglio è una circostanza che ha a che vedere con l'assuefazione, spiegano alla Rai nei solerti uffici stampa: l'effetto novità è svanito, la rilevanza istituzionale della figura si logora con la frequenza delle apparizioni. E però c'è una data precisa a partire dalla quale gli ascolti hanno cominciato a franare al ritmo di sei punti alla volta: è stato quando Berlusconi è andato ancora da Vespa a dire che l'impoverimento del Paese è "una percezione fallace degli italiani".

I milioni di persone che percepiscono mensilmente il fallace impoverimento hanno passato la settimana successiva a scrivere ai giornali, telefonare agli amici e a dirsi per strada che tipo di percezione vorrebbero infliggere al premier, potendo. Si sono sentiti insomma nella situazione psicologica di "bersaglio", spiega Alessandro Amadori, ricercatore sociale e di mercato a capo della Coesis research: "C'è stato un passaggio dalla comunicazione all'indottrinamento. Anche nella vendita il consumatore si accorge quando c'è una pressione eccessiva, e reagisce col rifiuto". Tipo quando ti vogliono vendere un aspirapolvere e insistono tanto che fiuti la fregatura.

Amadori ha da qualche tempo costituito un gruppo di osservatori composto da 200 persone alle quali chiede di seguire Berlusconi in tv e di fornire un giudizio. Racconta che già dalla puntata con la Moratti aveva rilevato "un forte calo della valutazione comunicativa", il voto su Berlusconi era passato da 7 a 6. Ieri ha avuto la sua prima insufficienza: 5. "Molta gente ha spiegato di non avercela fatta a seguire fino in fondo la trasmissione, ha cambiato canale. Dà fastidio il suo tentativo troppo esplicito di persuadere. Manca il contraddittorio, non c'è dialogo. I parametri tecnici di efficacia comunicativa di Berlusconi sono ancora efficaci, ma non crea più sintonia con l'elettorato. E' l'inizio di una fase, dovuta a sovraesposizione e monodirezionalita: è troppo prevedibile, controllato, rituale. In statistica si direbbe che non ci sono gradi di libertà". In tv si dice che "va sotto". La serata ieri l'ha vinta "La fattoria", con la moglie di Al Bano e il figlio di Anthony Quinn.

L'incubo di Bush  (6 aprile)

Lo sfascio   (1° aprile)