IL COMMENTO
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George W. Bush |
Se oggi, 14 mesi dopo la
"liberazione" questo segreto vergognoso è venuto a galla, lo
dobbiamo a un sergente sconvolto da quel che vedeva, che ha contrabbandato
fuori dal Abu Grahib foto proibite e dalla pronta inchiesta degli uffici
legali della Us Army che hanno ottenuto la rimozione della generalessa
comandante, Janice e la cacciata di cinque suoi subordinati, nella
dimostrazione che i meccanismi dell'informazione e della legalità ancora
reggono, nonostante gli sforzi del potere per piegarli alla proprio volontà.
Ma le torture nella vecchia "Villa Triste" di Saddam, proprio quelle
azioni che l'invasione avrebbe dovuto cancellare, dimostrano un'altra, ancora
più acida verità. Che in ogni guerra senza quartiere come questa, in ogni
scontro che assuma il sapore dello"scontro di civiltà" sempre le
truppe occupanti sono esposte al rischio della rabbia e della vendetta più
feroce. m scatenata dalla frustrazione dall'impotenza. "Non posso credere
che i miei soldati abbiano fatto questa cose" ha mormorato il generale
Kimmit vedendo le foto che gli mostrava il giornalista Dan Rather. Ora ci
crede.
Di questi inevitabili orrori, nulla è arrivato a Washington, in quella Casa
Bianca dove la grottesca rappresentazione dell'interrogatorio che non era un
interrogatorio si svolgeva ieri mattina, sul palcoscenico del teatro
dell'assurdo bushiano. Per rispondere alla blanda fatica della commissione,
Bush si era fatto affiancare, come nelle scuole della nostra infanzia, da un
padre o da chi ne fa le veci, da Dick Cheney, il suo tutore e maestro, anche
se l'incontro non avveniva sotto giuramento, non era una deposizione, non sarà
messo a verbale nè registrato su nastri video o audio, tutto per poter
negare, smentire, ritrattare domani. "Una cordiale chiacchierata"
l'ha definita lui alla fine, "un utile incontro per meglio proteggere
l'America dal terrorismo".
Insomma un breakfast tra signore in salotto, ad ascoltare Bush, caffè e
ciambelle servite nell'argenteria ufficiale e nelle porcellane di casa, mentre
altri dieci marines morivano in Iraq, le cannoniere volanti C130 Spectre
tornavano a battere Falluja con cannoni da 105 mm abbandonando ogni finzione
"chirurgica" e a Bagdad il carcere delle torture vomitava i suoi
segreti.
Mentre il presidente riceveva i dieci commissari seduto davanti al caminetto
dello Studio Ovale con Cheney per coprirgli le spalle, il termometro dei
sondaggi pubblicati poche ore prima dal New York Times e dalla Cbs tv,
avvertiva che il sostegno popolare della nazione a questa guerra di
occupazione sta sciogliendosi. Un'opinione pubblica che aveva appoggiato la
guerra "al terrorismo" e alle "armi di distruzioni di
massa", come l'invasione dell'Iraq era stata presentata, con percentuali
fino al 75%, e ancora la approvava con il 63% al momento della cattura di
Saddam in dicembre, oggi è ridotta per la prima volta a una minoranza, al
47%.
Se la battaglia di Falluja, che il prudente Henry Kissinger ha definito
"il punto di svolta" della guerra dovesse trascinarsi ancora a
lungo, questa slavina del consenso potrebbe riversarsi contro lo stesso Bush
che ancora non ne paga, grazie alla inconsistente evanescenza dell'avversario
John Kerry, il prezzo nei sondaggi elettorali. Qualcosa, nel fronte interno
ammirevolmente e ostinatamente compatto finora attorno alla guerra si sta
incrinando. Mostrano crepe i grandi media indipendenti, rompendo l'omertà
patriottica, abbandonando gli eufemismi e gli ottimismi "politically
correct" usati dai propagandisti di Bush, rivelando il caso della
generalessa torturatrice, soprattutto restituendo un volto e un nome alle
fredde statistiche dei caduti e feriti.
Cnn e Washington Post pubblicano ormai regolarmente il ruolino dei morti,
ormai arrivati a 740, gli effettivi di un battaglione intero inghiottito al
fronte, il massimo numero di soldati americani uccisi dopo il Vietnam.
"Nightline", una delle trasmissioni giornalistiche più rispettate e
serie della seconda serata condotta da Ted Koppel, dedicherà un'intera
puntata, lunedì sera, ai "fallen", ai caduti, lasciando scorrere in
silenzio quelle facce di giovani uomini e donne sacrificati sull'altare della
tronfia "teologia della liberazione" e degli interessi della destra
estrema che proprio Cheney, la "governante" che il padre mise
accanto al figlio inesperto quando entrò alla Casa Bianca, incarna.
CGIL, CISL e UIL hanno incontrato il dg di viale
Mazzini Cattaneo
Per le Confederazioni è una decisione preoccupante e sbagliata
Primo
maggio in differita
Sindacati contro la Rai
ROMA
- Il Direttore generale della Rai Flavio Cattaneo non ha convinto i sindacati.
Che dopo un incontro a viale Mazzini esprimono il loro profondo dissenso sulla
decisione di trasmettere
in differita (di 20 minuti) il concerto del primo maggio.
Un dissenso che si intende chiaramente dal tono - glaciale - del comunicato
emesso dalle confederazioni dopo l'incontro. "Cgil, Cisl e Uil - si legge -
prendono
atto della non volontà censoria da parte dell'azienda verso le manifestazioni
sindacali organizzate in occasione della festa dei lavoratori. E prendono altresì
atto della differita tecnica di 15/20 minuti del concerto di piazza San Giovanni
e rifiutano la presenza di propri rappresentanti a qualsivoglia cabina di regia
che possa vagliare la messa in onda del concerto".
Ma quello che Cgil, Cisl e Uil
contestano è l'approccio scelto dalla Rai alla questione. Non è un caso che il
comunicato delle confederazioni si concluda dicendo che non è condivisibile
"la scelta di attribuire a un grande e consolidato evento musicale, che
coinvolge centinaia di migliaia di giovani, una caratterizzazione politica che
travalica quanto normalmente è accaduto nelle precedenti edizioni del
concerto".
DEMOCRAZIA
Corpi
del reato
IDA DOMINIJANNI
Braccialetti elettronici per controllare i bambini in spiaggia. Chip
sottopelle per braccare ovunque persone scomparse, criminali pericolosi,
detenuti in libertà provvisoria. Altri chip sottopelle al posto di una carta di
credito nel portafogli, per poter comprare ogni cosa senza perdite di tempo.
Etichette intelligenti per contrassegnare e controllare merci, animali, gruppi
di persone. Certo, non siamo tutti kamikaze; ma come i kamikaze siamo tutti, in
fatto o in potenza, corpi-cyborg. Natura impastata di tecnologia, biologia
prolungata nelle protesi, linguaggio potenziato dai mezzi di comunicazione,
relazionalità trasferita nella connessione in rete. Ma se arriva a toccare il
corpo, di che qualità è il mutamento in cui siamo immersi? La politica
dovrebbe porsi ogni tanto questa domanda, ma non lo fa. Dalla postazione
privilegiata in cui si trova a operare, sul bordo fra privato e pubblico e fra
tecnologia, diritto e istituzioni, il garante della privacy segnala non da oggi,
ma oggi con più forza di ieri, che si tratta di un mutamento radicale, in
quanto investe la stessa base antropologica delle nostre società. L'individuo -
corpo, linguaggio e relazioni - non è più quello che stava alla base della
costruzione politica moderna. E se cambia quella base, tutta la piramide ne
risente: rappresentanza, diritti, funzioni dello stato. E infatti non uno di
questi campi resta immune - è il caso di dire - dall'annuale discorso di
Stefano Rodotà sullo stato della tutela della privacy, che ogni anno diventa un
rivelatore dello stato della nostra (e altrui) democrazia. Dal corpo individuale
al corpo sociale, infatti, il passo è breve. E infatti si tratta di tutelare
tanto il corpo individuale quanto il corpo sociale dalle pretese eccessive che
l'odierna alleanza di saperi e poteri - ovvero di tecnologie, funzioni di
controllo statuale, cinismo dei mercati - accampano su entrambi. Il catalogo è
sempre lo stesso - telecamere e microchip sparsi per ogni dove; raccolta e
conservazione oltre il necessario di dati personali; rilevazione di dati
biometrici; riproduzione involontaria in rete di biografie, curricula, opere,
fatti e misfatti personali -, ma di anno in anno potenziato da un'astuzia
tecnica o da un abuso politico o da una mira economica in più. E dall'accadere
dei fatti, ovviamente, dai più grandi ai più piccoli. Dalla lotta al
terrorismo, che tende a sacrificare al criterio dell'efficienza le garanzie di
libertà, trasformando interi spezzoni di popolazione in potenziali sospetti,
alle elezioni prossime venture, un'occasione fra le altre per sperimentare l'uso
di sms, indirizzari di posta elettronica, elenchi telefonici per fare pubblicità
elettorale con le stesse tecniche con cui si fa pubblicità commerciale. Sì che
le funzioni di sorveglianza che sono nelle mani dello stato si uniscono alle
possibilità della comunicazione che sono nelle mani dei potentati privati in
un'unica tendenza, che ha il nome scomodo ma realistico di deriva totalitaria
della democrazia. «Difendendo la persona - scandisce Rodotà - si difendono
valori fondamentali dei sistemi democratici, che non possono essere limitati o
sacrificati o senza avviare pericolose derive di tipo totalitario». Le quali
non vengono, o non solo, dall'integralismo islamico, ma dall'interno di
democrazie disposte a immolare i propri principi sull'altare della sicurezza e
del controllo. Suonano rassicuranti in proposito le parole del presidente della
camera, quando dice che cedere quote di libertà in cambio di sicurezza sarebbe
un baratto «in prima battuta accettabile ma potenzialmente assai pericoloso».
Ma è evidente che l'intensità e la qualità del mutamento in corso spingono
oltre la difesa delle garanzie di cui le democrazie novecentesche si sono
dotate. La situazione tecnopolitica del tempo, dice Rodotà, «impone ormai una ricostruzione
di libertà e diritti aderente all'ambiente tecnologico». E a quello
politico. Come dire che in materia di libertà fermi non possiamo restare: o si
va avanti, o si precipita indietro.
Povertà,
15 milioni sul lastrico
L'Eurispes: raddoppiano le famiglie
italiane a rischio. Molte non hanno soldi per mangiare
ORSOLA CASAGRANDE
TORINO
Sempre più povere. E' questo il desolante risultato dello studio
commissionato a Eurispes da Donneuropee Federcasalinghe e presentato ieri a
Torino. Dalla ricerca emerge infatti che ai 2 milioni e mezzo di famiglie già
definite povere (per un totale di circa 8 milioni di persone) devono aggiungersi
altri 2 milioni e quattrocentomila (cioè altri 7 milioni e mezzo di persone) di
nuclei familiari a rischio di povertà. Il quadro diventa ancora più drammatico
se si considera che tra le famiglie povere, nel 2002, il 33.3% delle famiglie
con un solo genitore, il 21.1% delle coppie con due figli e il 33.9% delle
coppie con tre o più figli, non sempre hanno avuto i soldi per comprare il cibo
necessario, per pagare le bollette e per le cure mediche. Insomma il rapporto
Eurispes getta ombre assai cupe sul futuro delle famiglie italiane. Anche perché
le cause, come ha sottolineato il presidente dell'Eurispes Gian Maria Fara, «sono
da ricercare tra l'altro nel progressivo smantellamento del welfare, nella
caduta verticale della qualità dei servizi dalla sanità ai trasporti, nella
trasformazione del mercato del lavoro, nell'impoverimento dei ceti medi».
Federcasalinghe mette insieme i dati e sottolinea con la sua presidente Federica
Rossi Gasparrini, che «è in atto una vera e propria discriminazione nei
confronti delle famiglie con figli e in particolare di quelle monoreddito.
D'altra parte - aggiunge Rossi Gasparrini - in Italia soltanto lo 0.9% del Pil
è destinato alle politiche familiari contro un 3% di Francia e Germania».
Federcasalinghe ha deciso di commissionare il dossier per «avere una fotografia
della famiglia del dopo 2000 e in particolare dei suoi bisogni». I risultati
contrastano fortemente con quanti si fermano a ritenere poveri soltanto i 2
milioni e mezzo di famiglie che vivono al di sotto della soglia di povertà. Per
intervenire in maniera efficace ed aggredire la povertà infatti sarebbe meglio
tenere in considerazione, dice l'associazione, anche il crescente numero di
famiglie a rischio di povertà.
Analizzando un po' più in profondità i dati del rapporto si conferma per
esempio un fatto: i sussidi monetari attualmente in vigore a sostegno delle
famiglie risultano del tutto inadeguati al mantenimento dei figli. In Italia
infatti uno dei principali strumenti a sostegno della famiglia è quello di
natura fiscale (le varie detrazioni Irpef per familiari a carico). Ma è
evidente che se l'arrivo del primo figlio comporta mediamente una diminuzione
del reddito a disposizione tra il 18 e il 45% e una spesa aggiuntiva compresa
tra i 500 e gli 800 euro mensili, il sostegno che sarebbe necessario è assai
maggiore di quello effettivamente offerto. I dati poi variano molto se si
prendono in considerazione l'età e la collocazione geografica. Così, se al
nord la povertà interessa l'11.6% delle famiglie con cinque o più componenti,
al sud la percentuale sale vertiginosamente raggiungendo il 32.4%.
Un buco nero è quello dei servizi per la prima infanzia. O meglio della loro
carenza. I servizi privati infatti coprono a livello nazionale oltre un quinto
dell'offerta complessiva: 604 asili su 3008 sono infatti gestiti da privati. In
alcune regioni e province autonome, poi, l'incidenza del privato sul complesso
degli asili nido è particolarmente rilevante. Bastino gli esempi della
provincia autonoma di Bolzano (43.7%), del Veneto (52.2%), della Calabria (45%)
e della Campania (52.9%). Naturalmente gli elevati costi dei servizi privati
impedisce di fatto a molte famiglie di considerarle una reale alternativa al
pubblico. Le famigerate liste d'attesa del resto rimangono lunghissime, sia tra
i privati che nel pubblico: un terzo dei bambini italiani è in lista d'attesa
per entrare in un asilo nido. Le regioni più carenti sono il Trentino Alto
Adige dove la percentuale dei bambini in stand-by sfiora il 60% e la Liguria con
il 55.8% di domande non accolte. Non stanno meglio la Valle d'Aosta dove la
percentuale arriva al 51.7%. In queste tre regioni il numero di bambini che
attendono di andare all'asilo supera quello delle domande accolte.
Ieri si è fatto anche il punto sul progetto di sportello telematico di
informazione sociale che la provincia di Torino per prima ha messo in funzione.
Gli sportelli (ce ne sono ventuno territoriali più un portale internet con
operatori messi a disposizione dalla stessa Federcasalinghe) offrono risposte e
consigli su temi che vanno dalla famiglia, ai giovani, dagli anziani
all'handicap alla tossicodipendenza.
26 aprile
|
Storia
di Nelson, dato in pasto ai leoni perché nero
Il
caso Shishane infiamma il Sudafrica. L' accusa: è stato il suo ex padrone
bianco |
A
dieci anni dalla fine dell' apartheid un padre di tre figli è stato
picchiato a sangue e gettato con le mani legate oltre il recinto. I suoi
assassini forse sono rimasti a guardare |
Farina
Michele |
DAL
NOSTRO INVIATO HOEDSPRUIT (Sudafrica) - La bara di Nelson Shishane era leggera.
Il giorno del funerale, il 14 marzo, i suoi tre bambini potevano sollevarla.
Dentro c' erano un teschio, un pezzo di gamba, un dito. I leoni che hanno
mangiato Nelson non hanno lasciato altro. Solo un brandello insanguinato, la
maglietta che indossava il giorno in cui è scomparso, il 31 gennaio. La polizia
ha ritrovato i resti sotto quel cespuglio in fondo alla radura, l' 8 febbraio.
Nel grande recinto ci sono tre leoni. Whity, il maschio anziano. E due femmine.
Tre leoni bianchi assonnati nella luce del mattino. «Diventano attivi di notte»,
dice Nico al volante del gippone, pistola alla cintura. Il Makwalo White Lion
Project è un allevamento dalle parti di Hoedspruit, 400 chilometri a Nord-Est
di Johannesburg. Nico vive qui da un paio di anni. Prima stava a Pretoria, era
nell' esercito. «Ora vige un razzismo al contrario. Per noi bianchi promozioni
bloccate. Per i neri posti di comando senza merito». Nico ha un lodge per
turisti poco lontano. Per arrotondare lavora all' allevamento. I leoni bianchi
sono una rarità e un affare: l' ultimo l' hanno venduto a Londra per 50 mila
euro. Al Makwalo ne hanno una quarantina, maschi e femmine selezionati per l'
accoppiamento. Come mangiano? «Carne dai mattatoi. Gliela buttiamo oltre la
rete: 45 chili alla settimana». La prima notte di febbraio, dalla rete che
separa il recinto dalla strada sterrata, qualcuno ha lanciato una razione
imprevista di cibo. Bisogna vederli, i leoni bianchi, quando fa buio. Hanno un
colore lunare. Si muovono rapidi. Forse Nelson Shishane, che non aveva ancora
compiuto 40 anni, li ha visti arrivare. Nel momento in cui l' hanno buttato
oltre la rete, dice al Corriere la Superintendente della polizia Ronel Otto,
«è probabile che il signor Shishane fosse ancora vivo». A Nico non importa.
«Questa storia l' hanno costruita per mettere sotto accusa i bianchi nel
periodo delle elezioni. La verità è che l' hanno ammazzato i neri». La
polizia non lo esclude: un litigio tra membri di tribù diverse. Nico è sicuro:
«Nel giro di quindici giorni Mark tornerà libero». Mark Scott-Crossley, 35
anni, bianco, padre single di un ragazzo di 11 anni, era il datore di lavoro di
Nelson. La sua proprietà dista 25 chilometri dai leoni bianchi. Guardie armate
ne impediscono l' accesso. Hanno un' impresa di costruzioni, stavano ultimando
il lodge di famiglia che doveva aprire ai turisti nel maggio 2004. Mark è stato
arrestato l' 8 febbraio con tre dipendenti neri. Accusa: omicidio. Due sono
fratelli. Il terzo Robert Mnisi, 34 anni, ha confessato ed è stato rilasciato.
E' il principale testimone, vive protetto dalla polizia. C' era anche lui, la
notte in cui Nelson finì in pasto ai leoni con le mani legate dietro la
schiena. A raccontarlo è il pubblico ministero Willy Makwela, 32 anni, seduto a
una scrivania del tribunale di Phalaborwa, una cinquantina di chilometri più a
nord. All' udienza preliminare, un mese fa, centinaia di neri inferociti hanno
manifestato fuori dell' aula. I cartelli dicevano: «Kill the Boers», e «Castrate
the Boers». Uccidete i bianchi, castrate i boeri. Il caso Shishane ha
infiammato la campagna elettorale. Una storia cupa alla Mississippi Burning. «Limpopo
Burning». Il fiume che dà nome alla regione scorre più a Nord. Questa è una
zona di lodge e riserve private a ridosso del Kruger National Park. Nelson
Shishane era stato licenziato lo scorso novembre dopo un litigio con il capo.
Prima lavorava per il fratello di Mark, faceva il giardiniere a Johannesburg.
Uno di città, che nell' angolo più rurale del Sudafrica (l' unica zona dove al
referendum del ' 92 la maggioranza dei bianchi disse no alle riforme per la fine
dell' apartheid) aveva alzato troppo la testa. «Ha osato sporgere denuncia alla
polizia - dice il magistrato Makwela - accusando il capo di avergli bruciato dei
vestiti». Nell' ultimo giorno della sua vita, Nelson torna alla fattoria per
ritirare le ultime cose: un paio di pentolini. Scott-Crossley non c' è, sta al
Matumi Lodge per una riunione sulla scuola del figlio. «E' stato qui fino alle
10 di sera - dice la proprietaria Elsie Rosslee -. Una persona tranquilla, Mark.
Non alza mai la voce». Secondo l' accusa, lo avvertono dell' arrivo di Nelson.
«Pestatelo, io vengo più tardi», dice al telefono. Il pestaggio prosegue
quando arriva il padrone. Poi Nelson viene portato su un pick-up al recinto dei
leoni. La recinzione è alta oltre due metri. «I leoni possono anche saltarla»,
sostiene Nico. Ogni tanto qualcuno scappa. Ma non ne hanno bisogno: il cibo
glielo buttano dentro. Questa volta la carne arriva dal cassone di un
fuoristrada: i quattro uomini gettano Shishane oltre il filo spinato. Poi si
accendono una sigaretta e restano a guardare come si sbrana un uomo. All'
allevamento si accorgono che c' è qualcosa di strano quando gli animali
disdegnano il cibo. Sono sazi. Intanto gli amici di Nelson, che dopo il
licenziamento abitava in una catapecchia di lamiera nel villaggio di Khiyela,
danno l' allarme. La sua amica Mavis dice che dopo lui pensava di tornare a
casa, a Brits, 500 chilometri di distanza: «Non vedeva i suoi figli da molto
tempo». L' ultima notizia è di questi giorni. La polizia ha trovato mozziconi
di sigaretta davanti alla rete dei leoni. «La settimana scorsa abbiamo
effettuato l' esame del Dna sui tre fermati per un confronto con la saliva delle
sigarette - dice l' agente Otto -. Aspettiamo i risultati per avere la prova che
gli uomini rimasero davvero a guardare il banchetto dei leoni». Gli accusati
negano tutto. Il magistrato Makwela tira fuori da un cassetto la memoria con cui
Mark Scott-Crossley ha chiesto (invano) la libertà condizionata. Si dipinge
come un buon datore di lavoro, che «offre più del dovuto ai suoi dipendenti»,
più del salario minimo di 40 rand al giorno (5 euro). Unica macchia: il furto
di un pneumatico nell' 86 per cui fu condannato «a tre colpi di frusta». Così
era sotto l' apartheid, quando un bianco era chiamato «baas» (padrone) e un
nero «kaffir». Sono passati dieci anni e in questo pezzo di Sudafrica bianchi
e neri sono ancora due mondi separati. Una ventenne bionda che lavora al Makwalo
(e che non vuole dire il suo nome) ha paura: «Mia madre insegnante è stata
costretta a lasciare la scuola. Indagava su un caso di stupro ai danni di una
ragazza cieca. I bidelli neri l' hanno minacciata di morte». La paura è «che
ci portino via la terra». Ma in dieci anni di democrazia, solo il 3% della
terra ha cambiato proprietario. Il 10% dei bianchi controlla ancora l' 85% delle
zolle coltivabili. Il governo ha un piano più incisivo che prevede l'
esproprio. «Se lo fanno sarà guerra», dice Nico, che ce l' ha con i
sudafricani di radici inglesi. «Soutpiel», li chiamano i boeri. «Uccelli
salati»: «Perché tengono un piede qui, uno a Londra, e il resto (in mezzo
alle gambe) in mare. Noi invece abbiamo solo questa terra». Nessuno gliel' ha
ancora tolta. In questa zona quanti espropri sono avvenuti? «Nessuno, per ora»,
risponde il presidente del distretto che comprende Hoedspruit, Maluleke Caswell,
dell' Anc, il partito di governo, che qui ha ottenuto il 95% dei voti. «Ci sono
una ventina di casi in cui le nostre comunità si sono rivolte allo Stato per
riottenere le terre che i bianchi ci hanno rubato cento anni fa». Ma in molte
tenute i neri hanno ancora paura e sono trattati da schiavi. E se si rivolgono a
un tribunale trovano spesso giudici bianchi. «In questi anni in Sudafrica sono
stati uccisi 1500 farmer bianchi», dice la ragazza bionda davanti al recinto
dei leoni albini. La Superintendente Otto sostiene invece che «nel Limpopo le
violenze a sfondo razziale sono diminuite. Però sono qui dall' 87: un caso
Shishane non era mai accaduto prima». A finire nelle fauci dei leoni «sono i
clandestini mozambicani che cercano di entrare in Sudafrica attraversando il
Kruger Park». Anche quando ci riescono, i guai non sono finiti. Due mesi fa a
Nelspruit, più a Sud, un giudice bianco ha condannato, si fa per dire, un
proprietario terriero bianco che aveva ucciso un lavoratore nero mozambicano,
Jotham Mandlate, legandolo all' auto e trascinandolo sotto le ruote per 60
metri. Gerrit Maritz ha avuto una multa di 4 mila euro e una pena (sospesa) di
due anni di galera. Quattromila euro, tanto valeva la vita di Jotham Mandlate,
un decimo di un leone albino. All' allevamento di Makwalo anche il vecchio Whity
si anima quando fa buio. Le sue leonesse corrono lungo la rete. Tre fantasmi
lunari. Chissà se Nelson Shishane li ha visti arrivare. Michele Farina Le
indagini L' ACCUSA Secondo l' accusa l' uomo è stato prima pestato a sangue da
alcuni dipendenti del suo ex datore di lavoro, poi, su ordine di Scott-Crossley,
gettato in pasto ai leoni. L' esame del Dna di alcune sigarette trovate davanti
al recinto permetterà di stabilire se gli assassini hanno assistito al
banchetto La vittima I FATTI Nelson Shishane, nero, padre di tre figli, lavorava
nella tenuta di Mark Scott-Crossley, bianco, fino a novembre scorso, quando fu
licenziato dal suo padrone in seguito a un diverbio. E' morto il 1° febbraio
divorato da tre leoni albini: qualcuno lo ha gettato oltre la rete con le mani
legate
23 aprile
Modello
Fiat
ROSSANA ROSSANDA
Straccioni e forcaioli come sempre - che altro si può dire del padronato
Fiat, o delle banche che gli stanno alle costole, nella vertenza di Melfi? E'
uno stabilimento chiave, essenziale nel sistema del just
in time, che abolisce magazzini e scorte, è il secondo complesso per
produttività in tutta Europa, ma la Fiat pretende di tenere i cinquemila
dipendenti a salari più bassi dal 15 al 25 per cento rispetto a quelli delle
altre sue produzioni, a ritmi più serrati e in settimane di lavoro di sei
giorni. E quando, dopo anni d'un contratto capestro firmato come Fiat-Sata, i
lavoratori di Melfi chiedono di essere portati al livello contrattuale degli
altri, manco gli risponde. E quando, esasperati, organizzano la protesta gli
scaraventa addosso la polizia con caschi e manganelli. Questo è successo ieri
mattina. Siamo nel 2004, ci si riempie la bocca di globalizzazione e
competitività ma gli eredi dell'Avvocato dirigono la manodopera come un fattore
micragnoso di cento anni fa. Pensano che con la gente della Basilicata si può
far quel che si vuole, è una regione meridionale povera, hanno reclutato i
lavoratori su un vastissimo territorio perché siano distanti a due ore di
viaggio, e con mezzi propri, e per strade sgangherate dove gli incidenti sono la
regola, in modo che restino divisi fuori come dentro i grandi spazi del
complesso. Non importa che siano stanchi morti, che le punizioni piovano a
migliaia (novemila in cinque anni), che molti se ne vadano perché non reggono,
cosa che non succede in questa misura in nessun altro luogo, ma meglio
disperdere il know how puntando sui
disoccupati dei dintorni piuttosto che pagare i propri dipendenti a prezzo
normale e per orari normali. Così pensa la nostra classe dirigente che si
vantava di aver fatto dell'Italia la quinta potenza industriale del mondo.
E' una dirigenza non solo arrogante, è anche stupida. Non deve essersi pagata
neppure qualche sociologo abbastanza intelligente da spiegarle che nel
mezzogiorno è un errore credere che la mancanza di una lunga tradizione di
lotte significhi eterna rassegnazione. La Fiat ha tirato troppo la corda e ora
si trova davanti a una protesta che si è infiammata di colpo su esigenze
elementari e decenza avrebbe dovuto prevenire. E' la Rsu, l'organismo di
fabbrica, che è partita bloccando gli accessi a uno stabilimento nel quale la
comunicazione interna è difficile. La direzione ha creduto di aggirarla
accordandosi con le malleabili Fim-Cisl e Uil nonché terrorizzando i lavoratori
di Mirafiori, sospesi fra una cassa integrazione e un'altra, finché alcuni di
loro non hanno scritto a Melfi supplicandola di smettere perché: il nostro
lavoro è nelle vostre mani. Come se non fossero tutti e due nelle mani della
famiglia di Torino. La stampa scritta e parlata non ha mancato di precipitarsi a
deprecare la scarsa coscienza globale degli operai e a predicare la libertà di
crumiraggio. Tutto sbagliato. Melfi ha tenuto, diecimila persone hanno
circondato il complesso l'altro ieri, e la Fiat come, suppongo, il prefetto di
Potenza hanno perduto la testa mandando la polizia a sciogliere i presidi.
Incauta mossa. Domani sciopereranno tutti i metalmeccanici d'Italia e vedremo
chi la spunta. E fin quando il governo potrà fingere di tenersene fuori. E fin
quando l'opposizione esiterà a entrare in campo su una questione di equità
salariale e normativa così elementare. Non siamo ancora la pallida imitazione
degli Stati Uniti della destra repubblicana.
22 aprile
Terrore
profondo
GABRIELE POLO
Le autobombe di Bassora che fanno strage di bambini
sono solo l'atto più recente di un'esposizione universale del terrore. Non sarà
l'ultimo. L'Iraq sembra diventato una mostra impazzita delle forme di conflitto
del '900: autobombe e kamikaze, proteste di piazza, rivolte e loro repressione,
attacchi militari e sequestri di ostaggi (assassinati o rilasciati dopo
trattativa), si concentrano in uno stesso luogo in un andirivieni apparentemente
privo di senso, soprattutto senza una logica politica. O, almeno, così ci
appare, incapaci di capire fino in fondo che l'esercizio della forza - in chiave
militare - è diventato la forma della politica del XXI secolo. E trarne le
dovute conseguenze per costruire una nuova politica, perdendoci invece in
paranoie tragiche («avanti fino alla vittoria» e all'eliminazione
dell'avversario) o ridicole («con i terroristi non si tratta», salvo poi
trattare). Persino chi ha denunciato fin dall'inizio il salto di paradigma
rappresentato dall'11 settembre e la follia dell'avventura bellica di Bush
fatica a comprendere pienamente il significato dell'espressione «guerra
permanente». Cioè di guerre (ufficiali e «informali») che non tollerano
alcun terreno di mediazione politica, che si alimentano di se stesse e dei loro
integralismi ideologici - religiosi o mercantili - in un modernissimo remake dei
conflitti europei del `600. La guerra irachena - ma dovremmo dire mediorientale
- può anche essere letta, da una parte e dall'altra, attraverso i consueti
canoni degli interessi economici (il petrolio), strategici (l'avamposto
americano), identitari (la liberazione dei luoghi santi dell'Islam),
nazionalistici (la cacciata dell'occupante). Ma è una lettura parziale,
insufficiente. Più a fondo non c'è lo scontro di civiltà propagandato da
destra, bensì una logica distruttiva: nessuno può uscirne vincitore assoluto,
ma le parti (anche quelle che si combattono dentro i due schieramenti) si
affrontano per esserci, più che per prevalere. Il risultato però non è «a
saldo zero», sono i massacri.
In questo stravolgimento generale anche le parole rischiano
di perdere il loro senso. Resistenza da noi ha un significato preciso, si
accompagna ai valori costitutivi di una democrazia rappresentativa che ha
affondato le proprie radici nell'onda lunga dell'89 francese (ed è per noi
naturale celebrarla il prossimo 25 aprile in chiave pacifista chiedendo il
ritiro delle truppe). In Iraq ha solo un significato «tecnico», militare:
sappiamo contro cosa si resiste ma non per cosa. E non basta la resistenza a
un'occupazione militare illegittima per qualificare il senso di quel termine.
Anche il «come» si resiste è conseguente alle sue finalità. E in Iraq
dimostra l'assenza totale di autonomia dalle logiche di chi si combatte, diventa
parte costituente della guerra preventiva. La distinzione è solo sul terreno
della disparità tecnologica, nel divario militare che separa l'esercito più
potente del mondo dai «barbari». Termine che suggeriremmo di evitare, se non
altro per i precedenti storici che hanno sempre visto i barbari conquistare,
alla fine, gli imperi. Anche a costo di seminare morte e terrore.
Assedio
operaio alla Fiat di Melfi
Terza giornata
di blocchi contro i ritmi troppo intensi. Fabbrica ferma. Massiccia presenza di
forze dell'ordine. Azienda sempre più nervosa. Prove di dialogo sindacale
Tensioni incrociate e crescenti a Melfi. Per tutto ieri
il blocco degli operai allo stabilimento Fiat ha retto, ma si è sfiorato lo
scontro tra lavoratori e poliziotti in tenuta antisommossa. Che nel primo
pomeriggio hanno preso controllo di uno dei cinque presidi, senza comunque che
ci fossero incidenti. La protesta, durissima, va avanti da giorni. In
discussione ci sono le condizioni di lavoro, in particolare i turni. I 5 mila di
Melfi lavorano infatti secondo il modello velocizzato di catena di montaggio.
Che si chiama Tmc2 e in due parole significa: turni massacranti (ad esempio due
settimane consecutive di notti, anche per le donne) e paga bassa.
Il blocco dello stabilimento lucano sta provocando effetti
a catena: a Mirafiori, la Fiat ha messo in libertà i lavoratori dell'ultimo
turno di ieri e del primo di oggi: «I pezzi da Melfi non arrivano, potete
andare a casa». È probabile che la produzione rimanga ferma tutta la giornata.
L'azienda, secondo la Fiom, ha cercato apertamente la
provocazione: «Sta telefonando - denuncia il segretario generale Rinaldini - ai
singoli lavoratori per invitarli a entrare nello stabilimento». Due pullman
carichi di 100 capi-giovani responsabili di reparto, quindi assai sensibili ai
richiami dell'azienda - hanno cercato di forzare il blocco. Dicevano di volersi
mettere al lavoro, ma sono poi stati costretti a rinunciare e tornare a casa. «Nessuno
dei lavoratori nel presidio ha fatto nulla - dice Lello Raffo, Fiom - eppure i
bus hanno fatto retromarcia e i capi hanno denunciato chissà quali
intimidazioni».
Qualche ora dopo, la Fiat ha utilizzato addirittura un
elicottero per trasportare dei pezzi da Melfi allo stabilimento Sevel di
Pomigliano, dove si producono i furgoncini Ducato. PerRaffo è un comportamento
al limite dell'incredibile: l'azienda non ha bisogno di usare elicotteri, «ha
un modo molto più semplice per risolvere il problema: convocare l'incontro
chiesto dai lavoratori».
Ma il nervosismo che ha percorso la giornata ha anche
causato un riavvicinamento nelle posizioni dei sindacati. almeno dopo che Fim e
Uilm hanno rinunciato al proposito di indire una «contromanifestazione» in
difesa degli operai che vogliono lavorare. Un segnale di distensione, cui ne è
seguito un altro: per oggi alle 18 è prevista un incontro comune per discutere
sulla situazione dello stabilimento.
Nessun avvicinamento invece sul fronte della Fiat.
L'azienda per tutta la giornata è rimasta muta, dopo che martedì aveva
confermato la sua indisponibilità a un confronto con la vaghissima spiegazione
che «mancano le condizioni». I sindacati si sono appellati al governo, perché
spinga l'azienda a sedersi al tavolo.
16 aprile
Da Berlusconi a Fini a De Michelis, invasione di manifesti 6x3
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15 aprile
La stretta
del Ponte
Frassoni e Fava organizzano il voto del
parlamento europeo per evitare lo scempio
Grandi operazioni Ultime manovre intorno al Ponte, vanto del governo. Oggi il
bando, tra sette giorni il voto del parlamento europeo
GUGLIELMO RAGOZZINO
Oggi la Gazzetta ufficiale
pubblicherà il bando per il general contractor del Ponte sullo Stretto. Lo
rende noto Pietro Ciucci, amministratore delegato della società Stretto di
Messina. L'importo base di gara è di 4,4 miliardi di euro e nel caso vi sia
davvero una gara tra concorrenti reali, per scegliere il vincitore conta il
prezzo, il valore estetico e tecnico; e poi i tempi, l'importo del
prefinanziamento, la maggior quota delle imprese affidatarie. Come ovvio, pur in
un bando così improvvisato, non vi è alcun cenno ai problemi ambientali.
Pietro Lunardi, il ministro responsabile parla di «ennesima conferma» e di «successo»
della legge obiettivo. In altre parole il ministro se le canta e se le suona. Ma
è improbabile che qualcuno sia tanto sconsiderato da rispondere all'appello. Il
Tunnel sotto la Manica ha mangiato sette volte il capitale; e neppure il Golden
Gate Bridge sta tanto bene in salute, tanto che prevede di perdere 130 milioni
di dollari nei prossimi cinque anni. La decisione di pubblicare il bando
risponde però a una assai seria tempistica europea. Il 22 aprile , tra una
settimana, il parlamento europeo, nella sua ultima seduta utile (la chiusura sarà
il 7 maggio), voterà la lista Ten delle nuove opere per la rete di trasporto
transeuropea. Forse, Ponte compreso. Nella precedente votazione - come si
ricorderà - il Ponte sullo stretto di Messina era stato depennato con un
emendamento votato da verdi, socialisti europei, sinistra unitaria e una parte
dei liberali che aveva ottenuto 231 voti contro 198 a favore del Ponte.
Il Ponte era stato inserito, come per ovviare a una dimenticanza, nella linea
tutta ferroviaria Berlino-Palermo. Berlino-Palermo era il primo dei 29 progetti
che avevano il compito di ridisegnare il sistema dei trasporti terrestri nella
grande Europa nel primo quarto del secolo. Al momento di nominare il Ponte negli
appositi comitati si era aggiunta la parolina road (Rail/road bridge over the Strait of Messina-Palermo 2015), in
modo surrettizio. Una strada ferrata con un Ponte anche stradale, monumentale
però. Giusto quindi rimettere le cose a posto e cancellare il Ponte dai
progetti europei. Il Parlamento europeo ha poteri assai limitati, in un
triangolo i cui lati forti sono la Commissione (Prodi) e il Consiglio, cioè i
governi. Prima i governi, in sede tecnica (Coreper, comitato dei rappresentanti
permanenti presso l'Ue) e poi gli incontri informali delle tre parti hanno in
buona sostanza confermato la presenza del Ponte anche stradale nel progetto
ferroviario. E l'esito del voto non sarà tale da rovesciare il Ponte nelle
acque ribollenti dello stretto immaginario Messina-Palermo.
Son però tutt'altro che pessimisti i parlamentari Monica Frassoni capogruppo
dei verdi e Claudio Fava dei ds-pse che hanno tenuto ieri una conferenza stampa
nella sede del Wwf romano per fare un quadro della situazione. Entrambi
prevedono che il voto del parlamento di Strasburgo, in uno dei suoi atti finali
di legislatura, sarà di nuovo una bocciatura del Ponte. Il regolamento richiede
però una maggioranza assoluta del parlamento per rovesciare la volontà dei
governi e i 314 voti necessari, corrispondono a circa 2/3 dei parlamentari che
si ritiene parteciperanno alla seduta. Un limite difficile da raggiungere. E'
molto importante però mettere un'altra volta di fronte agli europei che la
scelta del Ponte è un errore tecnico, ambientale, economico e finanziario.
Il Ponte, hanno ripetuto Frassoni e Fava, e così anche Stefano Lenzi del Wwf,
è una struttura paradossale. Ci sarà (?) tra una decina di anni e nel
frattempo serviranno i trasporti marittimi per andare da una parte all'atra in
modo comodo. Trasporti che poi dovranno essere cancellati affinché il Ponte non
abbia concorrenza. Nel 2030 dovranno infatti passare sul Ponte 100mila
autoveicoli al giorno per mettere almeno in pareggio l'opera monumentale; le
previsioni più ottimistiche ne prevedono 18mila. In queste condizioni che sono
ben note ai banchieri di ogni estrazione, ai fondi d'investimento e in genere ai
possibili finanziatori dell'opera, è del tutto improbabile che si formi un
consorzio di finanziatori.
Lo stato italiano si dovrà accollare l'intera spesa, proprio come nel caso
dell'alta velocità che vede l'Italia sotto accusa davanti all'Europa. Senza
considerare i guasti ambientali; senza considerare che il Ponte insisterebbe in
un territorio carente di autostrade e ferrovie adeguate e quindi difficilmente
raggiungibile (tra l'altro i collegamenti ferroviari al Ponte non sono previsti,
non hanno finanziamenti e non hanno ottenuto la valutazione di impatto
ambientale). I governi hanno fatto avanzare i progetti (probabilmente 29, ma il
numero non è sicuro) in una commissione presieduta dall'antico commissario Ue
alla concorrenza Van Miert. Il rappresentante italiano, tanto per fare un
esempio, è Ercole Incalza, già amministratore delegato della Tav, l'alta
velocità, e ora consigliere stretto del ministro Pietro Lunardi. Tra di loro,
sono d'accordo. Ma gli altri?
Azienda Italia
400 mila baby al lavoro
Sono 250 milioni nel mondo, un bambino su
sei. Ma anche nel nostro paese il lavoro minorile non arretra: colpa della
miseria, della dispersione scolastica , del degrado sociale. Un'indagine della
Cgil studia il fenomeno sul campo e svela le responsabilità del governo
BEPPE MARCHETTI
ROMA
Hanno le mani piccole e svelte, i muscoli tenui, gli occhi vispi un po'
adombrati dalla stanchezza. Stanno nei campi o nel buio d'uno scantinato, in
fabbrica o nel fondo d'una miniera. Sono sporchi, talvolta feriti, parlano con
fatica. Molti neanche sanno cos'è una scuola. Lavorano: per necessità o perché
costretti. Dai genitori, nel caso peggiore. Sono 250 milioni, dice
l'Organizzazione internazionale per il lavoro (Oil); ma la stima è molto cauta,
sicuramente da rivedere al rialzo. Ogni sei bambini, al mondo ce n'è uno che
lavora. Nell'Africa subsahariana sono uno su tre. In Asia almeno 127 milioni.
Bimbi come Iqbal, che veniva dal Pakistan e a quattro anni è stato venduto a un
fabbricante di tappeti. Incatenato a un telaio, di fianco il magro conforto di
qualche coetaneo. Un giorno Iqbal ha conosciuto un sindacalista, scoperto di
avere dei diritti. Ne ha avuto abbastanza di catene e telai: ha cominciato a
studiare, sognava di diventare avvocato. Stava correndo con la sua bici,
spensierato come un dodicenne, quando gli hanno sparato. Era il 16 aprile del
1995: quasi nove anni fa. Iqbal è diventato un simbolo ma ha perso la vita.
Così a Iqbal hanno dedicato scuole, associazioni, movimenti. Anche in Italia,
dove il lavoro minorile esiste eccome. L'ha ricordato ieri la Cgil, presentando
una ricerca realizzata dall'Ires (il suo istituto di ricerca). I dati sindacali
sono messi a confronto con quelli dell'Istat (che solo dal 2001 ha cominciato a
occuparsi di lavoro minorile) e disegnano una situazione grave e poco nota: in
Italia lavorano 400 mila bambini, tra l'8 e il 9% del totale. Nella metà dei
casi fanno tempo pieno (8 ore o più) e guadagnano dai 200 ai 500 euro.
L'anomalia del nostro paese si spiega innanzi tutto con altri numeri: in Italia
il 17% dei bambini è povero, il 43% dei giovani non ha un diploma. In entrambi
i casi è un primato negativo in Europa.
Ma la ricerca della Cgil, soprattutto, considera le tre realtà metropolitane di
Milano, Roma e Napoli. Città diversissime, come annota Anna Teselli,
ricercatrice dell'Ires. A Roma, per esempio, i minori al lavoro hanno le
fattezze di bimbi immigrati dai paesi dell'est (spesso anche da soli, cioè
senza famiglia): stanno per strada, lavano i vetri delle auto o mendicano. O
quelli dei piccoli cinesi, impiegati nella microimpresa di famiglia. A Napoli i
minori sono italiani, occupati per lo più in casa. O presi nella morsa dei clan
territoriali, invischiati nella microcriminalità. A Milano, infine, il rischio
prevalente è l'esclusione sociale dei minori «nullafacenti»: quelli cioè che
crescono senza lavorare né studiare e si trovano ai margini. Qui è anche alta
la dispersione scolastica: il 28%. Spesso, insomma, si ripropongono anche tra i
minori le dinamiche del mondo adulto. Ma in realtà ciascuna delle storie
raccontate dai ricercatori è individuale. E molte meritano di essere
raccontate.
Veronica ha 15 anni, da 8 è orfana
di padre. Vive a Napoli, in una casa affollata di gente: 15 persone, tra
fratelli, madre e parenti. Da quella casa, Veronica (il nome è di fantasia) non
è mai uscita fino ai 13 anni. Costretta da obblighi familiari - è la
primogenita, doveva badare agli 11 fratelli, occuparsi della casa - non ha
potuto andare a scuola. A leggere e scrivere ha imparato da sola, nei pochi
ritagli di tempo.
Claudio ha 12 anni, lui a scuola ci va.
Vive a Roma: alle lezioni non manca quasi mai, ma non fa i compiti. Che non sia
un monello come tanti lo capisce un'insegnante. Nota le mani sempre arrossate,
screpolate. Chiede il perché. Claudio risponde: «Do una mano a mio padre, ha
un ristorante». Lui non ci vede nulla di male: è normale, pensa. Anche se
passa ore a lavare i piatti, e le mani rosse sono solo l'ultimo dei problemi.
Non riesce a studiare, non può fare i compiti. In qualche modo finisce le
medie, ma subito dopo lascia la scuola. Non può continuare: ha pile di piatti
da lavare.
A Umberto studiare non piace proprio.
Ha 14 anni e alla scuola preferisce la fabbrica di plastica dove lavora. «Lavoro
molto e sono diligente, affidabile», spiega con una punta di orgoglio. Non lo
fa per necessità: la famiglia non è ricca, ma non avrebbe bisogno del suo
contributo. La sua è una scelta: vuole guadagnare per essere autonomo, avere il
cellulare e il motorino. Un domani comprarsi un'auto, il suo vero sogno. Vive a
Milano e forse questo non è un caso.
Lavoro minorile e scuola, il legame è ovvio e strettissimo. Per questo ieri le
critiche della Cgil si sono appuntate soprattutto sulla riforma dell'istruzione.
«È incredibile - secondo il presidente dell'Ires Agostino Megale - che la
prima cosa fatta da questo governo sia stata ridurre l'obbligo scolastico». E
il segretario Guglielmo Epifani aggiunge altre responsabilità a carico del
governo: aver diffuso una situazione di povertà e non aver combattuto il lavoro
nero. «Ci hanno spiegato - dice Epifani - che quello che finora s'era fatto
contro l'economia sommersa non andava bene, che bisognava cambiare tutto. Beh,
aspettiamo ancora i primi risultati». Contro il lavoro minorile la Cgil ha
pronte 15 proposte: «Le presenteremo al governo, se vorrà ascoltarci.
Altrimenti parleremo all'Unione europea.>>
13 aprile
GUERRE
Arrivano
i nostri
DOMENICO STARNONE
Andiamoci cauti con
l'aggettivo possessivo «nostro». Facciamone un uso parco e oculato, perché di
là, per quella parolina, stanno passando e passeranno misfatti sempre più
numerosi contro il genere umano. Troppe cose vengono spacciate per nostre: la
nostra civiltà, la nostra religione, le nostre radici, il nostro paese, la
nostra patria, il nostro stato, il nostro governo, i nostri soldati. Impariamo a
rigettare l'aggettivo. Addestriamoci a chiederci: nostre di chi, di quale noi?
Per allenarci cominciamo dalla pasqua. Questa è una pasqua di morte violenta,
senza nemmeno l'ombra della resurrezione. La resurrezione anzi è così sbiadita
che stenta a funzionare persino come metafora. L'Africa non accenna a risorgere,
non risorge l'Iraq . Della pasqua perdura solo la sua premessa funerea: la vita
aggredita, costretta nelle galere, umiliata, torturata, distrattamente o
calcolatamente tolta. Perdura lo sterminio degli agnelli, il sangue a rivoli
degli indifesi. Perdurano festevolmente i cesari d'ogni risma, le loro corti
grasse, i loro centurioni, le soldatesche. Ma resurrezione niente, liberazione
niente. Dai cieli chiusi e sorvegliati ci si aspetta al peggio un aereo kamikaze
da turismo.
E' questa la nostra pasqua? Se la città santa è blindata, se persino la
metafora della resurrezione è strozzata dalla militarizzazione, perché
prenderci in giro? La festa del tempo nuovo, della forza vitale e primaverile,
è ormai come intasata dalla morte. S'è persa la speranza di resurrezione, si
macella e basta.
Ricordiamoci allora che non c'è pace pasquale se non nella finzione della tv,
che il governo della macelleria non è nostro, che i soldati che macellano non
sono i nostri, che non è nostro né il comando né l'obbedienza. Sscegliamoceli,
i nostri, non li subiamo per pigrizia, per persuasione occulta, per autorità.
Il comando è di Bush, di Berlusconi, di Blair, di tutti quelli che, assiepati
dietro una potenza di fuoco capace di annientare il pianeta, per dare una
lezione ai califfi in pectore hanno dissennatamente deciso di moltiplicarne il
seguito invadendo paesi e massacrando gli inermi, i disperati mal nutriti, male
armati. L'obbedienza è dei soldati che, partiti liberatori o pacificatori in
divisa e armi e il miraggio di qualche soldo in più, si sono trovati inchiodati
alla loro funzione primaria, buscarsi la paga uccidendo, versare sangue in modo
che poi il sangue ricada su tutti noi e per reazione ci imbesti più di quanto
non siamo già imbestiati, in un movimento all'infinito.
Altro che pasqua, dunque, altro che civiltà del Dio biblico, del Cristo. Il
meglio di quella festa e di quella tradizione è disperso, ridotto a favola di
gioia e di liberazione per i bambini e gli ingenui, i primi a essere massacrati.
La pasqua non è più passaggio, ma permanenza nell'orrore. E' ridotta allo
spettacolo adrenalinico e molto redditizio della carne martoriata, come in
Passion di Mel Gibson, film che non poteva essere pensato che oggi: torture,
sangue e, per finale, non il trionfo del buon pastore ma di un buon barbiere.
Il nostro tempo è questo? Noi apparteniamo a questa necessità di assassinio
che dà allo stomaco, siamo i mandanti, siamo i complici, siamo i finanziatori?
No. Certamente questi aspiranti governatori mondiali, alleati o in rissa tra
loro, non sono nostri. Sicuramente non sono nostri nemmeno questi soldati. Non
è nostro un mondo permanentemente in emergenza, votatato all'apocalisse
purificatrice. Ciò che è nostro, invece, non fa rumore e salva. Nostri sono
quelli che attraversano le strade insanguinate di Falluja a rischio della vita
per portare medicinali. Nostri sono quelli che ogni giorno subiscono o
fronteggiano gli effetti della smania di distruzione. Nostri sono gli ingenui
che credono alla confederazione di tutti gli esseri umani contro chi fa sonni
satolli e tranquilli di strapotere sopra arsenali da non dormirci la notte.
Quelli sono i nostri.
9 aprile
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Silvio Berlusconi a Porta a Porta |
La prestazione tv di ieri - in effetti - è
andata peggio persino di quella con la Moratti sulla riforma della scuola,
prova per gli spettatori già durissima. Lunardi era un arredo, ha preso la
parola dopo un'ora e venti minuti dall'inizio del programma e non se n'è
accorto nessuno. Per il resto del tempo si è limitato a sedere composto
mentre Berlusconi col pennarello rosso ridisegnava sulla lavagna tracciati di
strade, autostrade e ferrovie di un paese ideale e per il momento inesistente:
ogni tanto dei servizi realizzati dalla redazione di Porta a Porta spiegavano
come la variante di valico Firenze Bologna sia praticamente pronta (49
chilometri in galleria, per la fortuna di chi ha imprese adatte all'uopo) e
come la Salerno Reggio Calabria stia per diventare un paradiso da cui saranno
eliminate, appunto, le curve pericolose sempre con l'accorgimento delle
gallerie. A "Batti e ribatti", la nuova trasmissione di Pierluigi
Battista - fascia oraria blindata fra il Tg1 e "Affari tuoi" di
Bonolis, sei minuti, per cambiare canale bisogna proprio volerlo fare ed
essere molto veloci - la puntata con Berlusconi è stata la peggiore della
settimana: 26,8 di share, peggio di Cè, di Rutelli e di Furio Colombo, ma
soprattutto peggio del tg che la precedeva (29,6) e rovinosamente peggio di
Bonolis che seguiva (34,8). I telespettatori, in quel caso, sono stati
velocissimi a cambiare e ricambiare.
Che la gente cambi canale quando compare in video il volto del presidente del
Consiglio è una circostanza che ha a che vedere con l'assuefazione, spiegano
alla Rai nei solerti uffici stampa: l'effetto novità è svanito, la rilevanza
istituzionale della figura si logora con la frequenza delle apparizioni. E però
c'è una data precisa a partire dalla quale gli ascolti hanno cominciato a
franare al ritmo di sei punti alla volta: è stato quando Berlusconi è andato
ancora da Vespa a dire che l'impoverimento del Paese è "una percezione
fallace degli italiani".
I milioni di persone che percepiscono mensilmente il fallace impoverimento
hanno passato la settimana successiva a scrivere ai giornali, telefonare agli
amici e a dirsi per strada che tipo di percezione vorrebbero infliggere al
premier, potendo. Si sono sentiti insomma nella situazione psicologica di
"bersaglio", spiega Alessandro Amadori, ricercatore sociale e di
mercato a capo della Coesis research: "C'è stato un passaggio dalla
comunicazione all'indottrinamento. Anche nella vendita il consumatore si
accorge quando c'è una pressione eccessiva, e reagisce col rifiuto".
Tipo quando ti vogliono vendere un aspirapolvere e insistono tanto che fiuti
la fregatura.
Amadori ha da qualche tempo costituito un gruppo di osservatori composto da
200 persone alle quali chiede di seguire Berlusconi in tv e di fornire un
giudizio. Racconta che già dalla puntata con la Moratti aveva rilevato
"un forte calo della valutazione comunicativa", il voto su
Berlusconi era passato da 7 a 6. Ieri ha avuto la sua prima insufficienza: 5.
"Molta gente ha spiegato di non avercela fatta a seguire fino in fondo la
trasmissione, ha cambiato canale. Dà fastidio il suo tentativo troppo
esplicito di persuadere. Manca il contraddittorio, non c'è dialogo. I
parametri tecnici di efficacia comunicativa di Berlusconi sono ancora
efficaci, ma non crea più sintonia con l'elettorato. E' l'inizio di una fase,
dovuta a sovraesposizione e monodirezionalita: è troppo prevedibile,
controllato, rituale. In statistica si direbbe che non ci sono gradi di libertà".
In tv si dice che "va sotto". La serata ieri l'ha vinta "La
fattoria", con la moglie di Al Bano e il figlio di Anthony Quinn.
L'incubo di Bush (6 aprile)
Lo sfascio (1° aprile)