30 giugno
RIFORMA
FISCO
Beati i
ricchi: saranno più ricchi
GALAPAGOS
Berlusconi non molla e
agli alleati di governo manda a dire che la riduzione della pressione fiscale è
cosa fatta. Almeno sulla carta. Già, perché il problema non è ridurre le
tasse, ma trovare le risorse necessarie a finanziare la riduzione. E qui le cose
si complicano. Anche perché una riduzione della pressione fiscale come vorrebbe
fare Berlusconi, seppure nell'ipotesi più ridotta, è estremamente costosa:
almeno 14 miliardi di euro, secondo uno studio pubblicato ieri dal Corriere
della sera. E trovare 28 mila miliardi di lire non è facile, visto che
bisognerà, oltretutto, sforbiciare la spesa pubblica con una manovra da 6-7
miliardi di euro per la seconda parte del 2004 per non inciampare nell'early
warning che la Ue è pronta a lanciare. La «riforma» fiscale messa a punto dai
tecnici di Tremonti per rispondere ai desideri e alle promesse elettorali di
Berlusconi è estremamente semplice. Si basa su due sole aliquote: 23% per i
reddito fino a 33 mila euro lodi l'anno e 33% per i redditi oltre i 33 mila
euro. In più una no tax area per i redditi fino a 7.500 euro lordi l'anno.
In realtà Berlusconi avrebbe voluto fare di più. Sempre
due aliquote, ma la prima del 23% da applicare a tutti i redditi fino a 100 mila
euro e la secondo (33%) per i redditi superiori ai circa 200 milioni di lire
all'anno. Ma chi ci guadagna e chi ci rimette con una riforma cosi? Lo studio
del professor Massimo Baldini dell'università di Modena, pubblicato ieri dal
Corrierone è estremamente chiaro e illuminante. Partiamo dai «poveracci»,
quelli con meno di 10 mila euro l'anno. Il risparmio fiscale sarà di 17
(diciassette) euro di media l'anno. Non va molto meglio per chi ha redditi
compresi tra i 10 e i 20 mila euro l'anno: in media vedranno la loro pressione
fiscale ridursi di 49 euro l'anno, ovvero 4 euro al mese. Per la classe di
imponibile che oscilla tra i 20 e i 30 mila euro l'anno, il risparmio medio per
contribuente sarà invece di 412 euro, cioè 35 euro al mese.
E' interessante notare che, secondo i dati fiscali, circa
il 90% dei contribuenti italiani ha redditi fino a 30 mila euro lordi l'anno, ma
a questa massa di contribuenti sono destinati meno di 3,8 miliardi di euro di
tagli fiscali su un totale di 14 miliardi. All'inverso emerge che la
riforma di Berlusconi premierà soprattutto chi guadagna più di 30 mila euro
l'anno: si tratta di circa il 10% della popolazione che si approprierà di tagli
fiscali per più di 10 miliardi di euro, poco meno del 75% della cifra totale
destinata ai tagli di imposte.
Il risparmio medio, infatti, sale da 1.223 euro per i
redditi compresi tra i 30 e i 40 mila euro, a 4.401 euro per quelli tra i 70 e
gli 80 mila euro per toccare i 7.559 euro di media per quelli compresi tra i 100
e i 110 mila euro. Meglio di tutti, in termini percentuali e assoluti, va a chi
ha redditi superiori ai 110 mia euro l'anno: risparmieranno in media 15.514 euro
di Irpef. Da notare che per alleggerire la pressione fiscale di chi percepisce
redditi superiori ai 110 mila euro costerà all'erario 3,258 miliadi di euro,
poco meno di quanto costerà alleggerire la pressione fiscale per i 9/10 dei
contribuenti a più basso reddito.
Una riduzione della pressione fiscale simile a quella
esposta non farebbe che peggiorare la distribuzione dei redditi e ingesserebbe
definitivamente le classi sociali. In pratica sarebbe la seconda puntata della
riforma fiscale avviata con l'abolizione dell'imposta sulle successioni e le
donazioni. Oltretutto servirebbe a poco da un punto di vista economico: per i
redditi più bassi, infatti, la capacità di spesa, cioè di consumo,
crescerebbe impercettibilmente (pochi euro al mese) e non contribuirebbe al
rilancio della domanda. E. invece, tutto da dimostrare la teoria berlusconiana
che il maggiore risparmio dei redditi più alti si trasformi automaticamente in
investimento: la quota di risparmio (sul reddito) degli italiani è infatti tra
le più alte del mondo, mentre gli investimenti ristagnano.
Berlusconi preso tra tre
fuochi
Tra
giovedì e venerdì vertice della verità per la Casa delle libertà. Ma An, Udc
e Lega (Calderoli e Maroni hanno visto il premier ieri mattina) irrigidiscono le
proprie posizioni e attaccano apertamente anche la proposta di taglio delle
tasse di Silvio Berlusconi
GIOVANNA PAJETTA
Le danze si aprono con gli
amici più cari. Giulio Tremonti, che arriva a palazzo Grazioli di buon mattino
e poi, a ruota, i leghisti Maroni e Calderoli. Ma se quello che era l'«asse
padano» si incontra, è solo per qualche minuto. Perché da ieri ognuno va per
conto suo, nella speranza che poi alla fine ci sia qualcuno che parli per tutti.
Fin dai primi passi infatti l'annunciata fase due del governo della Casa delle
libertà pare infatti una fotocopia di ciò che abbiamo visto finora. In peggio,
per Silvio Berlusconi, visto che la batosta elettorale è servita solo a
irrigidire ciascuno. La Lega si arrocca sul federalismo e minaccia elezioni
anticipate, l'Udc butta un macigno sul piatto e chiede nientemeno che un impegno
formale dei leader per tornare al proporzionale, An pretende più soldi per il
sud, con o senza ministero apposito. Poi, tutti e tre assieme sparano sull'unica
carta cara a Forza Italia, ovvero la riduzione delle tasse. Il sistema delle due
aliquote, di cui si è cominciato a parlare sui giornali, viene definito infatti
«iniquo e ingiusto» dal centrista Volontè e bocciato senza appello dal
nazional alleato Alemanno. Ma il vero guaio, ancor prima dei singoli scogli, sta
nel nocchiero, nella debolezza ormai conclamata di chi dovrebbe tirare le fila.
Tanto che il cavaliere, quando i giornalisti a sera lo assediano, si rifugia
nell'unica mossa che gli alleati hanno volentieri lasciato nelle sue mani. «Stiamo
decidendo di fare un consiglio de ministri, magari anche sabato mattina -
annuncia da Bruxelles - Per approvare un provvedimento che il ministro Tremonti
possa portare all'Ecofin di lunedì». Un pacchetto di tagli e entrate, veri o
finti che siano, che eviti all'Italia la bocciatura dei partner europei. Per il
resto, a parte qualche battuta sulla «generosità di Forza Italia verso gli
alleati», tutto è rimandato al rebus del vertice di maggioranza. Ancora da
fissare, ma da tenersi comunque o giovedì o venerdì sera. Ma se Berlusconi si
chiude nel silenzio, gli alleati sparano cannonate una dopo l'altra.
Dopo un'ora e mezza di colloquio a palazzo Grazioli, il
leghista Calderoli è tutto un sorriso. Dice che a lui il premier è parso «estremamente
determinato e con le idee molto chiare». All'apprezzamento segue però
l'ultimatum. La riforma federalista deve essere approvata a Montecitorio entro
fine di settembre, ripete il dirigente del Carroccio, «e se l'obiettivo viene
meno, bisognerà andare a votare». E Berlusconi cosa ha risposto? chiedono i
cronisti. «Come al solito lui è molto convincente - dice con un sorrisetto
Calderoli - Al momento quindi siamo soddisfatti delle parole, ma attendiamo i
fatti». L'Udc, dopo l'intervista con cui Marco Follini ha spiegato che solo il
ritorno al proporzionale può salvare l'Italia, fa sapere che la sua non è
un'uscita estemporanea, e riunisce giovedì mattina il suo ufficio politico. An,
per non essere da meno, convoca due riunioni. Una, questa mattina, della neonata
Consulta economica del partito, per stilare una sorta di Dpef alternativo a
quello di Tremonti. Quella decisiva però, il coordinamento di An, si terrà
domani.
E' proprio Gianfranco Fini del resto a dover giocare la
partita più complicata. A differenza degli altri, che si attestano su riforme
di principio (federalismo e proporzionale), il leader di An è impegnato in un
braccio di ferro che, dietro la parola d'ordine «più competitività e sviluppo
del sud», vuole ridisegnare i poteri all'interno dell'esecutivo. Magari cedendo
qualcosa, addirittura agli acerrimi nemici leghisti. Come temono fortemente i
centristi, che avrebbero buttato sul piatto la riforma elettorale anche per la
paura di essere schiacciati nell'angolo.
A tarda sera, il tam tam dice che forse sulla vicenda del
fisco si troverà una mediazione, che in fondo il premier potrebbe modificare
quelle due aliquote che troppo sfacciatamente privilegiano le tasche di ricchi e
super ricchi. Ma poco cambia. Perché i nodi veri, sempre che si voglia restare
ai contenuti della spaventosa rissa in corso, sono altri. Il federalismo da
prendere o lasciare della Lega (su cui ora il premier sostiene che «l'accordo
è stato raggiunto») o la bandiera del proporzionale di chi, come l'Udc, ha
ormai una gran voglia di lasciare la Casa che brucia. E che ancor più brucerà,
se Silvio Berlusconi non tirerà fuori qualche coniglio dal cappello.
Signori,
è il momento di indebitarsi
Il governo pensa di inserire nel
prossimo Dpef una misura per le ipoteche sulla casa in proprietà. Impegnarsi
l'abitazione per avere soldi freschi da spendere e quindi rilanciare i consumi e
l'economia. Pedrizzi (An) dice subito sì. Bersani (Ds): è l'incitamento
all'allarme sociale
P. A.
L'idea non è nuova. Era già stata
lanciata e bruciata l'anno scorso: un sistema di incentivi che favorisca
l'ipoteca sulla casa in proprietà per rilanciare i consumi. Chi ha una casa, è
il ragionamento su cui sta lavorando il governo, deve smetterla di pensarla come
un patrimonio immobile. Deve metterla in gioco, con un'ipoteca appunto, che gli
permetta di avere soldi freschi da spendere subito. Qui e ora. La proposta è
riemersa ieri su un giornale a tiratura nazionale, il Quotidiano nazionale
per l'appunto (Il giorno), che pubblica un articolo a pagina tre in cui
si spiega per filo e per segno l'idea di un pool di esperti del governo. Tra gli
ispiratori della proposta ci sarebbe anche Gianfranco Polillo, capo del
dipartimento economico di Palazzo Chigi. Lo stesso Polillo aveva già pubblicato
sul Sole 24ore (23 maggio) un suo intervento in cui spiegava che
la casa è in fondo una ricchezza da monetizzare, come già si fa in tanti altri
paesi. Il paradosso dell'Italia, secondo Polillo, è quello di avere un grande
debito pubblico, inferiore solo a quello del Giappone, ma un indebitamento
privato estremamente contenuto, il più basso tra i paesi del G7. «Da un lato -
scrive Polillo sul Sole 24ore - uno stato spendaccione, dall'altro
famiglie e imprese formichine, che spendono poco e risparmiano molto». Bisogna
quindi cominciare a equilibrare la situazione riducendo il peso del risparmio
per aumentare lo spazio del consumo, anche indebitandoci. «Ipotecate le vostre
case - gli ha fatto eco il quotidiano nazionale di ieri - farà bene al
portafoglio». Si tratta di mettere in campo un nuovo «vincolo di secondo grado
sulla rivalutazione degli immobili per generare liquidità». Che cosa ci stanno
a fare altrimenti tutte queste case in proprietà? E' noto infatti che ormai
oltre il 70% degli italiani è diventato proprietario della sua casa, magari
indebitandosi con i mutui. Vedendo poi le cose nel loro complesso, c'è anche da
notare - dicono sempre gli esperti - che nel 2003 i consumi, secondo i dati
Istat, sono cresciuti in media del 3,8%, mentre i risparmi del 5,8%. Il popolo
dei risparmiatori avrebbe anche scelto di fuggire dai bond e dalla borsa per
rifugiarsi nel classico bene solido, il mattone. Da qui l'esplosione degli
acquisti e il rilancio dell'idea degli esperti di Palazzo Chigi. Per ora si
tratta solo di un'idea. Ma potrebbe diventare qualcosa di più consistente.
Un certo interesse si registra in casa Alleanza nazionale. Ieri, dopo una presa
di posizione molto critica dell'ex ministro diessino Pier Luigi Bersani, è
intervenuto a sostegno della proposta Riccardo Pedrizzi, presidente della
commissione finanze e tesoro del senato. «L'ipotesi di prevedere nel Dpef un
progetto relativo alle ipoteche sulle case di proprietà - ha dichiarato
Pedrizzi - può essere una misura utile per sostenere il credito al consumo e
convincere le famiglie a essere meno prudenti negli acquisti, rimuovendo
l'incertezza sul loro reddito disponibile nell'immediato e nel futuro». Altro
che allarme sociale, come aveva appena detto Bersani. Una buona misura per
rilanciare l'economia e metterci al passo con gli altri paesi che sono tutti
molto più indebitati di noi: non solo gli Usa, maestri di indebitamento, ma
anche la Germania, la Francia, il Regno Unito, la Spagna.
Bersani si era invece stupito che la proposta bocciata l'anno scorso potesse
essere riesumata. «Ancora una volta - dice Bersani - credo che si debba
consigliare cautela al ministro Tremonti, troppo affascinato da immaginiche
scorciatoie». Tremonti - è il suggerimento del responsabile economico dei Ds -
pensi piuttosto a mettere nel Dpef un progetto serio per la casa in affitto la
cui carenza provoca un acuto disagio sociale e forti diseconomie e rigidità nel
sistema economico. Pedrizzi però, oltre a confermare l'esistenza della proposta
nel pacchetto in discussione per il Dpef che il governo sta accelerando in vista
della scadenza del 5 luglio (Bruxelles che decide sull'early warning), ha voluto
polemizzare con Bersani, difendendo l'idea dell'ipoteca.Ma se Pedrizzi conferma
e rilancia non è detto che poi il documento di programmazione recepisca la
proposta. Ieri, dopo una prima reazione positiva di An, si sono registrati molti
dubbi nell'ambito della compagine governativa. Per Tarolli (udc) è ancora
troppo presto per parlare delle manovre che rilancino davvero l'economia. «Mi
rifiuto - ha detto seccamente all'agenzia Radiocor Ivo Tarolli - di fare
dichiarazioni su singole anticipazioni che non so nemmeno se corrispondano al
vero».
Il mistero delle posizioni nel governo si chiarirà presto. E' certo però che
è ormai cominciata la rincorsa all'idea risolutiva in un momento di crisi
economica e di crisi generalizzata dei conti pubblici. Nel governo non tutti la
vedono allo stesso modo e perfino negli stessi ministeri ci potrebbe essere un
bel dibattito. L'anno scorso l'idea dell'ipoteca sulla casa è stata battuta,
così come sono state battute altre idee e proposte. Non è stata per esempio
presa in considerazione la proposta del viceministro dell'economia, Mario
Baldassari, di aumentare gli incentivi fiscali per le ristrutturazioni delle
abitazioni. L'idea era stata bocciata perché avrebbe ridotto il gettito
fiscale. E in vista della mitica operazione riduzione delle tasse per tutti non
suonava bene, anche se era motivata con il miglioramento della qualità della
vita e dello stimolo al consumo.
24 giugno
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I lavori a Villa Certosa |
22 giugno
Montezemolo
resuscita il dialogo
Il presidente
di Confindustria rilancia la concertazione: «Il dialogo rafforza la ripresa.
Con i sindacati possiamo cercare una posizone comune». L'ira di Maroni: «Non
assecondo nostalgie» Patto sulla devolution Segnali di fumo dopo l'attacco di
Confindustria. Maroni: «Per il federalismo siamo pronti a sacrificare anche
Tremonti»
ANDREA COLOMBO
Colpo su colpo. Non
passa giorno senza che il nuovo presidente della Fiat e di Confindustria non
vibri la sua mazzata contro il governo. L'occasione di ieri è stata l'assemblea
di Assolombarda, da dove Montezemolo ha esordito assicurando: «Non intendo
dettare io obiettivi e condizioni che competono al governo». Peccato che
aggiunga un «però» grosso come un grattacielo: «Intendo però far sentire la
nostra voce perché non si può pensare che le imprese non siano preoccupate».
Tanta preoccupazione si traduce in un monito, rivolto al governo, che equivale
alla richiesta perentoria di cambiare completamente strada. «E' sempre più
diffusa da noi - dichiara il presidente degli industriali - la convinzione che
il dialogo rafforzi lo scenario della ripresa economica». Poi, casomai il
messagio non fosse già chiaro, specifica ulteriormente. Si rivolge ai sindacati
e afferma: «Penso che possiamo cercare una posizione comune sui problemi della
nostra economia, da sottoporre al governo». E poi: «E' importante che si
riavvii la ricerca di intese. Col sindacato abbiamo ripreso a parlare
individuando terreni di discussione e un'agenda per lo sviluppo. Sono contento
dell'inizio di questo dialogo, ma non basta». Per finire prende di mira anche
l'ala meno malleabile dei sindacati stessi: «Vedo risorgere vecchi modi di
contrattare e desideri di rivalsa che non ci portano lontano. Non mi interessa
sapere se dobbiamo fare concertazione o dialogo sociale o contrattazione.
L'importante è riavviare la ricerca di intese».
La sterzata, rispetto alla Confindustria berlusconiana di Antonio d'Amato, non
potrebbe essere più drastica. Quello di Montezemolo è un invito tondo a
rilanciare la concertazione in squisito stile Carlo Azeglio Ciampi. E se il
nuovo presidente aggiunge che il pronunciamento di Confindustria «vuol essere
un contributo alle istituzioni e quindi in primo luogo al governo, di qualunque
colore esso sia», lo fa in omaggio alle regole del galateo, non a quelle della
schiettezza. La critica è infatti affilata e precisa. Non a caso a supportare
per primi il discorso sono stati un leader dell'opposizione come Piero Fassino e
un esponente di maggioranza ipercritico nei confronti del governo come il
presidente udc della commissione attività produttive Bruno Tabacci.
Non ha gradito invece per nulla l'affondo il ministro del welfare Maroni, anche
lui presente all'assemblea degli industriali lombardi. Il suo commento è
gelido: «Se c'è qualche nostalgia per un ritorno a un sistema di veti o di
tavoli di seri A o di serie B, io non intendo assecondarla». Poi il mnistro
leghista passa al contrattacco, impugnando come vessillo non solo la riforma del
mercato del lavoro, ma anche il suo artefice, quel Marco Biagi ucciso dalle Br e
considerato quindi dal governo un martire. Maroni si confessa preoccupato per «le
resistenze fortissime all'attuazione della legge Biagi da parte di alcuni
esponenti del sindacato. Resistenze così forti che hanno indotto alcuni
imprenditori a non riconoscere questo istituto e anzi a escluderlo da alcuni
importanti contratti». Il ministro parla di resistenze sindacali, ma il
messaggio è rivolto agli industriali: «Non si può chiedere al governo di fare
riforme importanti e poi, di fronte alle resistenze di un sindacato, accettare
di non applicarle». E' un appello lineare e diametralmente opposto all'invito
di Montezemolo. E' una chiamata alla resistenza contro il ritorno della
concertazione. E un simile scambio di colpi, a pochi giorni dallo scontro sul
federalismo, basta a rivelare quanto la «verifica» in atto non riguardi
affatto solo la maggioranza politica, ma anche, e anzi a maggior ragione, il
blocco sociale che si era solidificato nel 2001 intorno a Berlusconi. E che oggi
non esiste più.
«Riforma»
prima delle ferie
Il
governo accelera sulle pensioni. Saranno cambiate entro luglio. Fini: se serve,
chiederemo la fiducia in parlamento. Nuovo no dei sindacati e delle opposizioni.
Domani la segreteria di Cgil, Cisl, Uil. Oggi la delega in commissione
P. A.
La riforma delle pensioni sarà legge prima della chiusura estiva del
parlamento. Parola di Gianfranco Fini, vicepresidente del consiglio e di Roberto
Maroni, il ministro del welfare che darà il nome alla riforma che allungherà
l'età pensionabile e sposterà il tfr nei fondi pensione, equiparando i fondi
contrattuali di categoria ai piani previdenziali individuali delle
assicurazioni. La riforma, ha spiegato ieri Maroni, ci viene chiesta dall'Europa
(anzi l'abbiamo già promessa all'Europa) e dallo stato dei nostri conti
pubblici. «Un altro rinvio sarebbe semplicemente assurdo». La riforma deve
essere varata subito, gli ha fatto eco Fini, che ha ricordato le modifiche già
apportate, come il sistema del silenzio-assenso per il trasferimento del tfr ai
fondi pensione, secondo le richieste dei sindacati confederali. La riforma deve
diventare legge, dunque, anche a suon di fiducia. Prima dell'estate.
All'annuncio della fiducia molti sindacalisti e politici delle forze di
opposizione si sono pronunciati contro. Secondo Paolo Ferrero, di Rifondazione
comunista, il governo sta cercando la rissa e la troverà. Luciano Violante,
capogruppo diessino alla camera, ha detto di aver visto morire molti governi di
fiducia. Gli ha risposto, indignato, lo stesso vicepremier Fini: Violante pensi
ai suoi governi di centrosinistra - ha detto - che hanno abusato della fiducia
molto di più di noi. Intanto mentre il ministro Alemanno, uno degli esponenti
della «destra sociale» prova a riaprire un qualche dialogo con i sindacati
(«facciano proposte costruttive»), Bruno Tabacci, presidente della commissione
attività produttive della camera, scommette sulle buone condizioni per arrivare
all'approvazione parlamentare della delega previdenziale già varata dal senato.
Rocco Buttiglione, ministro per le politiche comunitarie che nell'ultimo periodo
aveva giocato la parte del dialogante (insieme ad Alemanno), ieri ha detto che
non è scontata la richiesta di fiducia da parte del governo. Quello che è
certo, però, è che bisogna chiudere subito. «Noi - ha dichiarato ieri
Buttiglione a Radio Radicale - abbiamo detto all'Europa di averla già fatta e
abbiamo trattato sulla base della convinzione generale che l'avessimo già
fatta, se scoprono che invece non l'abbiamo fatta potremmo avere qualche grave
difficoltà». E i sindacati, quelli con cui bisognava riaprire una grande
stagione di concertazione? «Abbiamo già dato», è la risposta di Buttiglione,
alcune proposte sono state accolte, ora bisogna chiudere.
Nonostante le battute del ministro Alemanno sulla necessità di tenere aperta
qualche finestra con i sindacati, l'aria è che si chiuda. Oggi la riforma
riprenderà il suo cammino in commissione alla camera. Si dovrà decidere il
calendario che sarà dunque all'insegna dell'accelerazione. I sindacati
confederali si preparano a dare battaglia nuovamente. Domani si riuniranno le
segreterie confederali di Cgil, Cisl, Uil. Nell'incontro unitario è scontato il
giudizio negativo sulla riforma e sui peggioramenti che ha subito al senato. Non
è scontato, per ora, l'esito della decisione sulle forme di lotta. «Abbiamo
posizioni condivise - ha detto ieri Morena Piccinini della segreteria
confederale della Cgil - non ci è chiaro però ancora che cosa abbia in mente
il governo. In ogni caso se passa dovremmo mobilitarci subito perché il tempo
stringerà sui decreti attuativi». Tutti e tre i sindacati sono d'accordo nel
bocciare i punti della riforma che riguardano lo scalone del 2008,
l'equiparazione dei fondi e la mancanza di novità sui contributi dei lavoratori
autonomi. Questi ultimi chiedono, attraverso la Confsal, che si avvii un tavolo
dedicato solo a loro.
La strada della richiesta di fiducia viene comunque bocciata da tutti i
partiti dell'opposizione. Secondo Enrico Letta, responsabile economico della
Margherita, se il governo Berlusconi perseverasse con la fiducia imboccherebbe
una strada sbagliata. Letta si augura che sulle pensioni il governo abbia un
ripensamento. «La riforma così com'è - ha spiegato ieri a Verona - non porta
né risparmi, né equità». Ci potrebbe essere - è la speranza di Letta - una
possibile riapertura di dialogo per migliorare la legge.
Le aperture del governo sembrano però a questo punto abbastanza improbabili.
Oltre alle dichiarazioni di Fini, Maroni, Buttiglione, ieri anche il
sottosegretario Sacconi l'ha girata in sfida. «Non credo - ha detto Sacconi -
che ci possa essere uno sciopero prima dell'approvazione della riforma». Ancora
più drastico il presidente dell'Assolombarda, Michele Perini. Se non ci
penserà il parlamento, la riforma delle pensioni italiane sarà fatta dal Fondo
monetario internazionale. E il Fmi farà una riforma molto più dura di quella
predisposta dal ministro Maroni.
17 giugno
Soldati italiani a Nassirya
ROMA - Prigionieri iracheni
ammassati in gabbie di ferro in condizioni igieniche molto precarie,
militari italiani che sorvegliano persone distese sulla sabbia del deserto,
carabinieri e arabi che parlano mentre alcune persone sono distese in terra
con le mani ammanettate dietro la schiena. Sono alcune delle foto che l'Unac,
l'Unione nazionale arma dei carabinieri (un'associazione privata che
riunisce militari in servizio e non), ha pubblicato sul proprio sito (Unionecarabinieri.it)
e che, secondo l'associazione, sono state fornite dai militari rientrati
dall'Iraq.
"Foto - è scritto nel sito - scattate dai carabinieri, che ce le hanno
consegnate, che erano certamente state inviate anche ai comandi arma e
difesa in Italia. Si denota un ammassamento in situazioni igieniche
precarie, con segni di torture sui detenuti. Il tutto a conoscenza degli
italiani, che hanno scattato le foto. A dimostrazione che tutti, anche gli
italiani, sapevano e riferivano".
Le venti immagini, afferma l'Unac, fanno parte di circa 200 scatti
consegnati all'associazione, che "testimoniano le condizioni disumane
in cui erano tenuti i prigionieri" nel carcere iracheno di Nassiriya.
Le foto sono divise in due sequenze da 10.
Nella prima si vedono alcuni carabinieri che parlottano con alcuni arabi in
una strada isolata in mezzo al deserto. Nella sequenza vi sono immagini di
iracheni distesi in terra e ammanettati. Un'altra foto è scattata
dall'interno di quello che sembrerebbe essere un mezzo in dotazione al
contingente italiano mentre uno scatto riprende quello che sembra un
carabiniere (l'uomo è di spalle e indossa una divisa blu) che con casco e
scudo blocca a terra una persona con il volto coperto.
Nella seconda sequenza, il carcere. Ci sono delle gabbie di ferro, poste
all'interno di un edificio fatiscente. Dentro decine di uomini, molti in
mutande e maglietta ed uno, in particolare, a torso nudo che si copre il
volto e con vistose escoriazioni sul petto. In nessuna delle foto del
carcere si vedono militari italiani.
15 giugno
ELEZIONI
La
fine del mondo
MARIUCCIA CIOTTA
Dove ha sbagliato il
cavaliere? È andato in guerra, ha dettato legge a sua favore, non ha tagliato
le tasse, ha fallito, lui grande comunicatore, la campagna elettorale culminata
con il boomerang mediatico degli sms, ha deluso gli italiani inebriati all'idea
di un'Italia ricca e moderna... Sì, anche. Ma la sconfitta di Berlusconi sta
nel disfacimento globale di un mondo che ha indicato come traguardo della
felicità occidentale l'espansione di se stesso. L'accumulo di oggetti senza
fascino, la produzione di un superfluo triste che non è ricchezza ma vuoto
sguardo delle merci. Non c'è progresso né gioia nell'eliminazione di ogni
espressione umana della fantasia e dell'ingegno, nell'azzeramento della funzione
critica. Gli ipermercati come Wall Mart sono diventati prigioni del consumo,
annullamento della varietà dell'offerta, autoritari luoghi della coazione a
ripetere. A Los Angeles - capitale del lusso - si piange per la chiusura della
libreria storica Midnight Special di Santa Monica non solo perché era
tra le poche alternative ai grandi circuiti ma perché esprimeva una babele di
impulsi, vetrina di parole e immagini, pluralismo e eccezione. Nessuno più
vuole vedere i kolossal confezionati sull'omologazione al ribasso del gusto di
Hollywood, le major pagano la loro politica di ottimizzazione del prodotto, e
infatti a Cannes trionfa il documentario scintillante di Michael Moore dove la
politica torna a essere un esercizio di mente e di cuore, di risate,
indignazione e azione. La bellezza e il suo godimento richiedono curiosità,
cultura, amore per la diversità. Questo mondo di Bush e Berlusconi,
dell'occidente tutto è basato sulla moltiplicazione di standard, di format
televisivi, di gipponi inquinanti, di catene commerciali, di monopolio totale.
È il consumatore, paradossalmente, ad aver bocciato la las vegas del primo
mondo senza più il gusto del gioco. Lo spettacolo che ci hanno offerto è
lugubre, ed è pagato dal prezzo della vita di migliaia di persone cadute nelle
guerre fatte per garantire spazi di mercato e di risorse. Sono i loro corpi,
pezzi di esseri umani sparsi nel nostro immaginario, collezioni di morte, a
dominare ora i banchi di virtuali supermercati. È inutile che lo sforzo dei
paesi ricchi, del laburista Blair caduto in corsa (o di uno Schroeder tagliatore
di welfare) insista sulla necessità della produzione di quella paccottiglia del
benessere. I consumatori non la vogliono comprare più. Vogliono che l'agosto
sia caldo ma che non faccia morire migliaia di nonni, vogliono che non ci siano
day-after e che i «gas di Kyoto» non buchino la terra. Non vogliono avere come
vicini di casa i bambini morti dell'Africa. E non ci sarà pubblicità che vinca
il disgusto per la proliferazione di beni come mostruosi ornamenti del
quotidiano.
Questa rivoluzione underground di massa, Berlusconi e i suoi alleati non l'hanno
vista. Procedono ancora con la fiducia di una modernità dissolta nella
scontentezza. L'audience è un concetto senza più forza propulsiva. Al suo
posto ci sono individui che hanno scoperto una relazione di libertà e di
rispetto reciproco.
Perdono i supporter del liberismo perché la loro scorta di promesse elettorali
è marcita. Il venditore porta a porta si è visto sbattere in faccia il suo
repertorio di merci. La felicità è un'altra cosa.
Lo «sboom» del
nero
Lavoro sommerso, le colpe di imprese e governo. Lo
studio Cgil
ANTONIO SCIOTTO
Dai contadini del dopoguerra agli edili in nero del mitico boom anni
`60, passando per gli irregolari della recessione Settanta-Ottanta fino agli
invisibili di oggi, gli sfruttati della globalizzazione: spedizionieri,
commessi, operatori dei call center, agenti finanziari e immobiliari. Non più
impiegati solo in industria e agricoltura, ma diffusissimi soprattutto nel
commercio e nel terziario, spesso travestiti da «atipici» pur essendo
subordinati a tutti gli effetti. Il lavoro sommerso ha tantissime facce, ma non
è un residuato del passato quanto piuttosto uno dei perni fondamentali
dell'impresa italiana di oggi, che su esso si basa per sopravvivere a bassi
costi e infima qualità. E se non si inverte la rotta - «missione» fallita
dall'attuale governo - aumenterà a dismisura già nei prossimi anni. E' questa,
in sintesi, la tesi del libro Lavoro nero e qualità dello sviluppo, di
Alessandro Genovesi, responsabile politiche attive del lavoro Cgil (edito da
Ediesse, prefazione di Guglielmo Epifani). Innanzitutto i dati, ottenuti
incrociando i rapporti di diversi istituti, dall'Istat all'Inps, dall'Inail allo
Svimez e all'Oil. Le posizioni lavorative sommerse in Italia sono oggi 6 milioni
152 mila, in termini economici producono il 20% del Pil (percentuale che secondo
le proiezioni può salire al 25-26% già nel 2005). Il 74% del valore è
prodotto dal terziario. Nel totale sono compresi i lavoratori in nero, ovvero
mai dichiarati, e i «grigi»: irregolari per diversi motivi, o dipendenti
camuffati da atipici. Quattro i miliardi di euro evasi ogni anno al fisco (Irpeg
e Irpef), 16 miliardi sottratti a Inps e Inail. «Solo per restare all'Inps -
spiega Genovesi - ogni anno non viene versata una cifra pari all'1,5% del Pil:
il che vuol dire che il famoso 0,7% che il governo vuole racimolare tagliando le
pensioni, si potrebbe recuperare anche solo facendo emergere metà dell'evasione
contributiva». E' lo stesso governo, però, che proprio sull'emersione ha fatto
flop: come spiega il libro, alla chiusura del 2003, con la fine degli
effetti del provvedimento di emersione lanciato da Tremonti nei primi 100 giorni
dell'esecutivo (legge 383), sono state totalizzate solo 1.029 domande di
emersione e regolarizzati 3.854 lavoratori. Su 6 milioni di sommersi, è un vero
successo.
Da un altro studio compiuto da Capitalia sui bilanci delle imprese negli anni
`98-2000, si può vedere inoltre confutata la tesi (difesa negli ultimi anni da
governo e Confindustria) secondo cui le aziende si immergono nel nero per l'alto
costo del lavoro: «Nei tre anni - spiega Genovesi - si vede che la maggiore
spesa sui fatturati è data dai consumi (tra il 55 e il 59%), il 19% è
assorbito da logistica, burocrazia e infrastrutture e solo il 13% dal costo del
lavoro. Dunque gli imprenditori scelgono il nero per risparmiare su diversi
fattori, ed è vero poi che riescono a tirare di più e senza limiti sul costo
del lavoro». E' necessario dunque non solo investire su qualità e innovazione,
ma anche ricondurre nelle regole milioni di persone attraverso la riunificazione
dei cicli produttivi, frammentati da appalti, terziarizzazioni, precarietà.
Basti pensare che mentre negli ultimi 6 anni le irregolarità riscontrate dai
servizi ispettivi nel lavoro dipendente e autonomo sono cresciute di meno di un
punto percentuale, dal `99 al 2003 c'è stato un boom degli irregolari
nell'atipico (+6% apprendisti, +11% interinali, +8% partite Iva, +7% co.co.co.,
+13% associati in partecipazione).
11 giugno
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Gino Strada |
7 giugno
USA
E GETTA
L'operaio
è precario
Il
lavoro non è più un diritto «Atipici» per far risparmiare le imprese
ANTONIO SCIOTTO
Il rapporto sui diritti
globali della Cgil ha un ampio capitolo dedicato al lavoro. L'ultimo anno, in
Italia, è stato segnato da due fenomeni generali: il declino dell'industria,
con la valanga di licenziamenti e scioperi; la precarizzazione sempre più
marcata, riguardante soprattutto i giovani, ma ormai dilagante anche tra le
generazioni adulte. Precarizzazione già ampiamente avviata dal pacchetto Treu,
realizzato e difeso da quelle forze che nel centrosinistra oggi compongono il Triciclo,
ma che ha avuto grandissimo impulso dall'approvazione della cosiddetta legge «Biagi»
(tecnicamente, legge 30 e decreto attuativo 276) da parte dell'attuale governo.
Il lavoro è stato sostanzialmente mercificato, non più concepito come un
diritto della persona, ma come una variabile dei costi aziendali: è dunque
opportuno, secondo questa visione, approntare dei pacchetti «usa e getta» che
costino meno possibile, in modo da essere «competitivi». Un esempio eloquente
lo offre il «lavoro a chiamata»: non a caso, lo sfortunato che ci si imbatte
viene definito «lavoratore squillo». Secondo la legge 30 e i decreti
attuativi, l'azienda chiama il lavoratore - e dunque lo retribuisce - solo
quando serve. Per il resto, viene tenuto in «stand by», cioè come un
elettrodomestico che non si usa ma ha comunque la spia rossa accesa.
L'alimentazione minima, in questo caso, non è l'elettricità, ma un'indennità
in denaro, che il governo ha fissato nel 20% della retribuzione.
Un altro esempio di lavoro «usa e getta» è rappresentato
dal largo uso che le aziende ormai fanno delle cosiddette «esternalizzazioni»,
favorite da un altro articolo della legge 30, che prevede la cessione veloce di
un ramo d'azienda (si può dall'oggi al domani creare un dipartimento interno
che prima non esisteva, dichiararne l'autonomia e dunque cederlo). Potrò
affidare delle commesse alla nuova società che ha acquistato il mio vecchio
ramo, salvo trovarne una più conveniente: a questo punto, si scatena una
battaglia a chi abbassa più i costi, e scattano i licenziamenti quando le
commesse vengono perse. Un altro modo originale per «affittare» quelli che una
volta avevo all'interno come dipendenti è lo staff leasing, ovvero
l'affitto a tempo indeterminato di squadre di manodopera. Come faccio? E'
semplice: cedo a un'agenzia di lavoro interinale i lavoratori che non voglio più
tenere sul groppone, e poi li riprendo dentro, ma stavolta non più alle mie
dirette dipendenze. Quando non ne avrò più bisogno, rescindo il contratto con
l'agenzia.
D'altra parte le aziende non cercano altro: lavoro
dipendente nei modi in cui viene svolto (orari e turni rigidi, gerarchie, capi),
estrema flessibilità nei contratti e nelle retribuzioni (il compenso dei
co.co.co. e degli attuali collaboratori a progetto non è agganciato ad alcun
contratto nazionale, e dunque è libero; i contributi pensionistici sono al
17%). Che fine faranno gli attuali 2 milioni e mezzo di co.co.co.? In pochi
casi, come ricorda il rapporto, sono riusciti a farsi riconoscere il rapporto
subordinato, ma per il resto si trovano esposti all'applicazione della legge
Biagi, e dunque a una precarietà permanente. C'è chi suggerisce al
centrosinistra di abrogare la legge 30, una volta al governo. Ottimo consiglio,
ma è troppo chiedere di abrogare anche il pacchetto Treu?
Il
crollo dei diritti
Dalla
retromarcia del welfare state, alla violazione dei diritti umani; dal ruolo
perverso della guerra, alle scelte contro l'ambiente. Rapporto annuale sui
diritti globali (Ediesse-Cgil), alla seconda edizione
PAOLO ANDRUCCIOLI
Il compito dei rapporti è
produrre dei bilanci, degli strumenti di lavoro e di ricerca e magari di attività
politica. E se si scelgono i diritti
fondamentali come indicatori di
base, si ottiene (purtroppo) una fotografia del mondo alquanto preoccupante. Una
scena in cui aumentano le diseguaglianze e la povertà (550 milioni di uomini e
donne che vivono con meno di un dollaro al giorno) e dove continuano a essere
negati molti diritti della persona (le torture e Guantanamo sono solo casi
estremi); l'ambiente viene calpestato ogni giorno, nonostante il trionfo
mediatico delle nuove culture «verdi» e dove, perfino nei luoghi di massimo
sviluppo economico, vengono tuttora negati i diritti sindacali e sociali, che
comunque vengono giocati nella competizione mondializzata per mettere l'uno
contro l'altro i nuovi segmenti dei mercati del lavoro. Un mondo dove la salute
non è più un diritto come ci aveva insegnato il Novecento, ma un prodotto che
si vende negli uffici delle grandi compagnie di assicurazione private. Il Rapporto
sui diritti globali (Ediesse, la
casa editrice della Cgil), curato dall'Associazione SocietàINformazione di
Sergio Segio, e promosso dalla Cgil, in collaborazione con l'Arci, Antigone,
Cnca (Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza) e Legambiente, è
già alla sua seconda edizione. Era partito l'anno scorso un po' in sordina e
sta crescendo in corso d'opera. Così il nuovo Rapporto
(1047 pagine, finite di stampare a maggio) sceglie di mettere al centro i
diritti fondamentali, utilizzandoli quindi come indicatori dello stato di salute
delle società in cui viviamo. Il rapporto, ha spiegato ieri Sergio Segio che ha
coordinato anche questa edizione, vuole essere una «pietra d'inciampo, il
nostro contributo alla memoria del presente». Il termine viene traslato
dall'esperienza tedesca: in Germania sono state infatte collocate in molte città
3000 Stolpersteine,
pietre su cui fare inciampare gli occhi e la memoria, con i nomi delle persone
uccise dal nazismo. La fotografia dello stato attuale dei diritti, dunque, come
«inciampo» per indirizzare le politiche.
Guglielmo Epifani, il segretario generale della Cgil che
firma l'introduzione al Rapporto, spiega che il bilancio degli ultimi dodici
mesi è negativo perché lo stato dei diritti in Italia e nel mondo è
peggiorato. Il segretario della Cgil ci tiene in particolar modo a sottolineare
il fallimento delle trattative sul commercio mondiale. Il flop di Cancun ha
lasciato aperta la strada a una politica di scambi commerciali ineguale e
fondata sull'assenza di regole. Dati preoccupanti, nel bilancio dei diritti,
riguardano quindi ovviamente anche la stessa Europa, che non ha ancora una base
costituzionale comune, ma anche il nostro paese, dove «le scelte del governo -
sono ancora le parole di Epifani - hanno allargato la fase della stagnazione
produttiva, vanificato le prospettive di ripresa e indebolito il tessuto sociale
e produttivo».
Titti Di Salvo, della segreteria confederale della Cgil, ha
spiegato ieri l'impianto, la struttura del nuovo Rapporto annuale sui diritti.
In particolare ha voluto mettere in evidenza la scelta di dividere il lavoro in
quattro grandi capitoli (diritti economico-sindacali, diritti sociali, diritti
umani, civili e politici, diritti globali ed ecologico-ambientali) e di ripetere
per ogni sezione la stessa struttura. Dopo l'esposizione dei temi centrali e le
prospettive, vengono cioè proposte delle schede di lettura, una cronologia
e le parole chiave. Nella parte riguardante i «nuovi lavori e i nuovi
diritti», potrete così trovare le schede sui Cococo, i contenuti della legge
30, la contrattazione collettiva per le collaborazioni. Tra le parole chiave di
questa parte spiccano ovviamente gli «atipici», i «call center», il «capitalista
personale», il sistema del «job on call» e via dicendo. Molto ricca tutta la
parte che riguarda il welfare, dalle pensioni alla sanità, passando per le
politiche sociali, mentre nella sezione diritti umani (terzo capitolo) si
possono trovare invece gli effetti devastanti della guerra, i conflitti per le
materie prime, l'estremismo islamico, ma nelle schede ci sono riferimenti anche
alle mine antiuomo, al nuovo boom delle armi, passando per le varie missioni di
«peacekeeping» e «peacebuilding».
Nella quarta e ultima sezione, quella sui diritti globali
ed ecologico-ambientali si fa il punto sugli effetti reali dei processi di
globalizzazione, con schede sulla disoccupazione, la comunicazione e
informazione globali, il quarto Forum sociale mondiale, il vertice di Cancun e
la crisi del Wto. Non mancano tra le schede planetarie quella sull'accesso ai
farmaci e perfino un primo bilancio «in chiaroscuro» del governo Lula in
Brasile.
Per Stefano Anastasia (Antigone), il Rapporto è stato
anticipatore della situazione che ha fatto emergere le torture in Iraq, mentre
per Tom Benetollo (Arci) il lavoro è soprattutto uno stimolo ai partiti e alla
politica tradizionale perché si rimetta in sintonia con la società. Teresa
Marzocchi (Cnca) e Maurizio Gubbiotti (Legambiente) hanno inve spiegato i nessi
tra i diritti del lavoro e quelli sociali e ambientali. Titti Di Salvo ha spinto
fino alle estreme conseguenze la critica allo sviluppo economico basato sulla
competizione dei prezzi. Invece di perdere la gara con i paesi con il più basso
costo del lavoro, bisognerebbe cominciare a esportare i diritti nel mondo. Una
frase che nella Cgil, sindacato dei diritti, è suonata bene, ma che in
qualsiasi consesso finanziario avrebbe fatto gridare allo scandalo.
3 giugno
Buone
abitudini
GABRIELE
POLO
E'al potere per brogli elettorali. Straccia il diritto internazionale con
bugie di distruzione di massa e torture, getta a mare quattro secoli di cultura
politica praticando la guerra preventiva e così facendo distrugge diritti e
costituzioni nel suo stesso campo. Mette in stato d'assedio qualunque città
visiti. E, infine, rovescia l'anniversario della liberazione di Roma nel suo
contrario, pur di mandare in onda uno spot elettorale berlusconiano. Tra le
presenze annunciate a Roma il 4 giugno, quella davvero illegittima è
rappresentata da George W. Bush. Al suo cospetto una strada bloccata o un
giovane incatenato a un monumento sono atti da inserire nei manuali d'educazione
civica (se ancora esistono). Ma ormai si corre il rischio di abituarsi a tutto o
quasi, come alla degenerazione del compleanno repubblicano in festa d'armigeri
per far gioire l'inquilino del Quirinale e dotare di ferreo spessore l'orgoglio
nazionale. Ci si abitua anche a forze politiche che declinano l'opposizione in
assenteismo e invitano a starsene a casa, un po' come il Craxi che agli elettori
consigliava il mare.
O forse non è così, forse le abitudini non sono poi così cattive o
rassegnate. Lo abbiamo visto anche ieri, in una parata che per svolgersi ha
dovuto blindarsi e chiudersi; nelle manifestazioni di dissenso fronteggiate da
forze dell'ordine troppo nervose, istigate da un governo in difficoltà e per
questo ancor più pericoloso. Lo vedremo domani, quando saremo in tanti a
manifestare - in vario modo - contro Bush e la sua (nostra) guerra, per fargli
capire che è persona indesiderata. Messaggio doveroso, a prescindere
dall'ultimo messaggio delle brigate verdi, le cui sollecitazioni a manifestare
contro Bush non ci riguardano. Non esserci, starsene a casa o - invitare ad
assentarsi rappresenterebbe una resa, una violazione del diritto all'agire
pubblico, cioè dei fondamenti di una democrazia. Chi, tra i partiti
dell'opposizione, invita i propri iscritti ed elettori a non scendere in piazza
espone chi ci sarà al grave pericolo della solitudine, che è una pessima
consigliera. E mette la giornata nelle mani di governo, polizia e carabinieri.
Che sono la vera incognita di domani, essendone, istituzionalmente, i principali
responsabili.
Da tempo il movimento contro la guerra ha saputo sorprendere per la sua capacità
di sfuggire alle trappole senza perdere la propria radicalità, per aver
respinto le logiche militari anche quando queste cercavano di investirlo. Sono
le buone abitudini, quelle da non perdere.
Per la morte del soldato Scieri
NE’ GIUSTIZIA NE’ FUNERALI DI STATO
di Agostino Spataro
In tempi di eroismo a buon mercato, il mondo sembra essere in attesa di un super-eroe capace di ristabilire un ordine nel sistema di valori che giustificano le onorificenze militari e civili.
Mai, prima di questa guerra irachena , la propaganda bellica e politica aveva fatto un così facile ricorso all’eroismo, forse perché a corto di argomenti convincenti.
L’eroismo, dunque, come valore diffuso, da attribuire preferibilmente ai caduti. Non ci sono eroi vivi che possono raccontare come è andata.
Come ho già avuto modo di scrivere, dopo l’attentato di Nassiriya, i caduti di questa guerra (in gran parte siciliani e meridionali), sono, prima di tutto, vittime del lavoro che manca nel Meridione e delle ristrettezze tipiche delle famiglie monoreddito.
Perciò non stupisce che tale propaganda non ha considerato eroica la morte del giovane parà
Emanuele Scieri, 23 anni, da Siracusa, avvenuta non in Iraq ma in Italia, all’interno della caserma Gamarra di Pisa, a causa di un gravissimo atto di “nonnismo”.
Una morte assurda e archiviata, anche se la procura militare di La Spezia non esclude “possa essere ricondotta nella forma dell’omicidio colposo o preterintenzionale alla responsabilità di determinati soggetti dei quali comunque non è stata possibile l’identificazione”.
Non sono bastate, dunque, tre inchieste e le clamorose denunce della stampa per individuare i responsabili dell’atroce delitto, per rendere giustizia alla famiglia del povero Emanuele e per rasserenare l’opinione pubblica rimasta molto turbata dall’episodio.
Insomma, mentre la magistratura italiana indaga per individuare (e processare) i responsabili stranieri delle morti in Iraq, in Italia si archiviano le inchieste per questo atroce (per quanto “colposo”) omicidio, avvenuto in territorio nazionale, all’interno di una caserma dell’Esercito italiano.
Si archivia- quasi ammette il procuratore militare di La Spezia- per mancanza di testimonianze, di collaborazione, per una sorta di malinteso solidarismo cameratesco.
Fra la magistratura inquirente e l’ambiente militare interessato dal delitto è stato eretto un muro di omertà (non c’è altro termine) che certo stride con le tradizioni di lealtà e di giustizia delle forze armate repubblicane. Eppure non si è trattato del classico secchio d’escrementi, ma di qualcosa di terribile e di atroce. Una morte violenta, drammaticamente vissuta dal povero parà siciliano, provocata- come si paventa nell’inchiesta- da qualcuno che, per gioco, avrebbe “indotto” Scieri a gettarsi da un pilone alto almeno dieci metri e, per risultare più convincente, quel “nonno” ignoto (solo uno?), sempre per gioco, gli ha fracassato le dita delle mani, disperatamente aggrappate ad un sostegno in un estremo sforzo di salvezza. Che scena edificante!
“Fu e come fu fu”, si potrebbe dire mutuando un lugubre motto che connota i comportamenti omertosi ingiustamente attribuiti ai soli siciliani.
Tutto archiviato, dunque. Formalmente è a posto la farisaica falsa coscienza di chi facilmente s’indigna per chi muore in terra d’occupazione e tace per una morte atroce avvenuta in casa propria.
E così, per il povero Emanuele Scieri, da Siracusa, né giustizia né funerali di Stato.
1 giugno
|
Senza
governo
GALAPAGOS
Antonio Fazio ha «scaricato» il governo. A pochi giorni
dall'assemblea della Confindustria che ha preso le distanze da Berlusconi, il
governatore, ha sbattuto la porta in faccia all'esecutivo. Le critiche di Fazio
non lasciano spazi per un ripensamento: in tre anni si è passati
dall'evocazione del «nuovo miracolo economico possibile» a una critica
puntigliosa dell'operato del governo. Certo, Bankitalia annuncia che nel 2004 il
pil potrebbe crescere dell'1%, che le imprese sono un po' meno pessimiste e
hanno ripreso a investire. Ma le «buone» notizie si fermano qui. Tutto il
resto è una analisi puntuale dei fallimenti della politica economica. Rischiosa
perfino la legge Biagi: in assenza di sviluppo potrebbe trasformarsi in una «trappolone»
per i lavoratori flessibilizzati. Quella delineata da Fazio è l'immagine di un
paese in declino. Sembrava di sentir parlare la Cgil: la produttività che
decresce, le esportazioni che crollano (solo il 3% della quota mondiale rispetto
al 4,5% di pochi anni fa). L'Italia ormai è esportatrice solo di prodotti
maturi ma con sul collo il fiato dei paesi in via di sviluppo. Manca la
tecnologia, la ricerca è assente.
Poi i conti pubblici: un disastro. A fine
anno il deficit potrebbe raggiungere il 3,5% del pil. Nel prossimo anno il 4%.
Il tutto non per scelta, ma per lassismo. Risultato: serve una manovra
correttiva. E mancano (o vanno a rilento) gli investimenti in infrastrutture,
mentre l'occupazione, che pure seguita a crescere, è lavoro di sussistenza, a
basso valore aggiunto. Lo dimostra l'enorme numero di imprese con un solo
dipendente-imprenditore nate in questi anni.
«Compito prioritario della politica
economica nell'attuale difficile contesto - spiega il governatore - è il
contenimento del volume di risorse assorbito dal settore pubblico»:
contenimento significa realizzare dei surplus per far crescere l'avanzo primario
(crollato al 2,2%, contro il 5,2% ereditato del centro sinistra) perché solo
così si riuscirà a intaccare la mole del debito che incombe sui conti pubblici
sotto forma di spesa per interessi destinati a aumentare con il prossimo aumento
dei tassi. Insomma, spazi per ridurre la pressione fiscale, sono «pochini».
Poi un altro attacco al governo: il prossimo Dpef deve essere finalizzato al
risanamento e concordato con le parti sociali che sono state abolite dal lessico
e dalla pratica del governo.
Sul ruolo della banca centrale per la
questione della difesa del risparmio Fazio si è difeso e attaccato giocando di
rimessa. Ha riferito degli elogi ricevuti al suo operato e alla struttura dalle
banca dalla Bce e dal Fmi. Poi ha tirato un po' le orecchie alle banche. Debbono
imparare a spiegare bene i rischi dell'investimento ai risparmiatori: solo così
si eviteranno altri casi Parmalat. Il sistema bancario (al centro della
relazione per la capacità propulsiva e il nuovo ruolo che può assumere per lo
sviluppo) si è detto d'accordo. Di più: il presidente di Banca Intesa, Bazoli,
parlando a nome dei «signori partecipanti» non ha esitato a denunciare i
rischi «di ingerenza della politica» insiti nella legge sul risparmio del
governo.
Nel 2000 il governatore «salutò» il
centro-sinistra con una relazione durissima. Nel 2001 l'esaltazione di
Berlusconi. Oggi la conferma di una nuova svolta con «Considerazioni finali»
politicamente di centro, da conservatore illuminato, anche se di questi tempi
descrivere relisticamente la situazione può apparire «rivoluzionario». La
sinistra ha apprezzato le parole di Fazio, ma deve stare attenta a non
bruciarsi: il governatore può essere un «compagno di strada», nulla più. E
non solo per l'insistenza con la quale ha riproposto il «completamento» della
riforma delle pensioni o quella sanitaria. Accontentarsi può essere grave anche
per gli esiti elettorali di qui a dieci giorni.
31 maggio
Una
lettera-editoriale all'indomani del discorso congressuale
Una lunga serie di critiche alla politica del premier
Il
Foglio attacca Berlusconi
"Non ci fidiamo più di lei"
"Lei rifiuta di comprendere l'altra parte del Paese"
E anche il dubbio "che lei possa fare qualcosa" per cambiare
ROMA - "Gentile presidente, le diciamo perchè non ci fidiamo più
di lei e che cosa questo significa". Comincia così un lungo editoriale
che 'Il Foglio' in cui il quotidiano diretto da Giuliano Ferrara muove una
serie di aspre critiche nei confronti di Silvio Berlusconi, all'indomani
dell'apertura del congresso di Assago.
"Lei - scrive 'Il Foglio' - non guida il Paese entro una misura minima di
ordine politico, e la sua coalizione e perfino il suo movimento le si
sottraggono o le si sottomettono, ma non fanno luce, non producono un
linguaggio nuovo, non sono ancorati a null'altro che non sia un rapporto
nevrotico con la sua capricciosa personalità. Lei ha prodotto una classe
dirigente cui continua a mancare, salvo rarissime eccezioni, l'amore per la
cultura e per la politica stessa, cioè una cura minima del senso di marcia di
un'opera che dovrebbe essere collettiva e pensante ma risulta invece in
moltitudine sparsa a caccia di varie ed effimere convenienze".
"Lei, gentile presidente - prosegue l'editoriale - continua a nutrire
l'illusione che si possa stare in politica da imprenditore curando di
diventare sempre più ricchi e sempre più indifferenti alla soluzione di un
gigantesco conflitto di interessi che i suoi nemici attaccano per le ragioni
sbagliate, e con la coda di paglia, ma per che i suoi amici non ossequienti
esiste, ed esiste anche per lei".
"Lei pensa che si possa annunciare la riforma delle pensioni e la
rivoluzione fiscale promesse lasciando che con il tempo tutto si insabbi e si
rimpicciolisca fino all'invisibilità. Lei pensa che la riforma della
giustizia sia l'aspetto vano ed astratto della concreta e sacrosanta battaglia
per bloccare coloro che le scaraventano addosso personalmente la giustizia
politica: gli altri, e i loro diritti civili, vengono tanto dopo che non si
vedono più. Lei pensa che si possa tirare avanti con la neutralizzazione
dell'informazione e della discussione pubblica, lasciando più o meno ai suoi
avversari le loro caselle, eliminandone alcune con cesure goffe,
conquistandone altre nella logica della solita blandizie verso il potere, non
producendo niente di serio e di nuovo".
"Lei pensa che tutto le sia dovuto, che
gli alleati siano azionisti di minoranza della sua azienda, che gli amici
siano famigli o strumenti che le idee contano solo se si traducano in scoop
vincenti nel mercato dell'immagine personale del leader".
"Lei rifiuta categoricamente di comprendere l'altra parte del Paese nelle
sue sfumature e diversità, e ritiene che basti staccare la cedola
dell'incomunicabilità e della reciproca delegittimazione ideologica, magari
teorizzando l'amore contro l'odio: così tutto si semplifica in modo
avvilente, le istituzioni si irrigidiscono in una contesa corporativa di un
tedio bestiale e la società non è scossa e rivoluzionata da idee nuove e
dalla passione di governare, persuadere, spiazzare, sorprendere".
Dopo questo elenco di critiche, 'Il Foglio' osserva che "oltre una certa
soglia la sua simpatia, il suo genio e talento personale, la sua cocciutagine
e libertà di tono, anche nelle peggiori gaffe, diventano un materiale povero,
una ripetizione coatta di automatismi senza più senso".
"Siamo stati cantori del berlusconismo e della sua autoironia e di fronte
alle sue vanità o al grottesco culto spirituale del Capo ci siamo anche
compiaciuti che lei andava accettato così com'è. Ora non ci fidiamo più di
lei e della fiducia allegra, ma non assoluta, che in lei abbiamo riposto per
tanti anni. Dopo esserci battuti a lungo e con tenacia (battaglia vinta) per
una persona avventurosa che era una politica e insieme la riforma possibile
della politica, abbiamo poi aspettato una politica al di là della persona, ma
invano".
"Se la cosa la interessa, ma è dubitabile, veda che si può fare. I
tempi sono così grami che il sostegno alla sua opera non ha alternative, e
forse questo a lei può bastare, per quello che conta. Noi vorremmo anche
poterla apprezzare, l'Opera. Ma è tardi, sempre più tardi".
Libertà è informazione
Ecco il testo dell'appello di Libertà e Giustizia sulla crisi dell'emittenza pubblica. Sotto, lo spazio per aderire
Libertà e Giustizia seriamente preoccupata per l’ulteriore occupazione degli spazi di libera informazione della Rai alla vigilia della campagna elettorale che vedrà coinvolti tutti i cittadini italiani per le elezioni europee e una gran parte di essi per le amministrative chiama gli elettori a prendere coscienza di questa degenerazione del sistema democratico.
Denuncia che in nessun Paese democratico del mondo in nessun momento della nostra storia recente si è verificato il monopolio totale del mezzo televisivo di massa nelle mani del capo del governo in carica.
Il cittadino libero è il cittadino informato, in grado di distinguere bugie e verità, sogni e promesse da soluzioni possibili e concrete.
Libertà e Giustizia si rivolge alla parte non servile della stampa italiana e a quella internazionale affinché denuncino in tutte le sedi possibili l’anomalia del nostro Paese.
Invia il presente appello ai presidenti di Camera e Senato e al Presidente della Repubblica affinché, posta la gravità della situazione, prendano tutte le iniziative istituzionali atte a ripristinare un sistema di governo legittimo della Rai e a garantire e tutelare l’imparzialità e la regolarità della campagna elettorale.