Archivio Giugno 2004

30 giugno

RIFORMA FISCO
Beati i ricchi: saranno più ricchi
GALAPAGOS
Berlusconi non molla e agli alleati di governo manda a dire che la riduzione della pressione fiscale è cosa fatta. Almeno sulla carta. Già, perché il problema non è ridurre le tasse, ma trovare le risorse necessarie a finanziare la riduzione. E qui le cose si complicano. Anche perché una riduzione della pressione fiscale come vorrebbe fare Berlusconi, seppure nell'ipotesi più ridotta, è estremamente costosa: almeno 14 miliardi di euro, secondo uno studio pubblicato ieri dal Corriere della sera. E trovare 28 mila miliardi di lire non è facile, visto che bisognerà, oltretutto, sforbiciare la spesa pubblica con una manovra da 6-7 miliardi di euro per la seconda parte del 2004 per non inciampare nell'early warning che la Ue è pronta a lanciare. La «riforma» fiscale messa a punto dai tecnici di Tremonti per rispondere ai desideri e alle promesse elettorali di Berlusconi è estremamente semplice. Si basa su due sole aliquote: 23% per i reddito fino a 33 mila euro lodi l'anno e 33% per i redditi oltre i 33 mila euro. In più una no tax area per i redditi fino a 7.500 euro lordi l'anno.

In realtà Berlusconi avrebbe voluto fare di più. Sempre due aliquote, ma la prima del 23% da applicare a tutti i redditi fino a 100 mila euro e la secondo (33%) per i redditi superiori ai circa 200 milioni di lire all'anno. Ma chi ci guadagna e chi ci rimette con una riforma cosi? Lo studio del professor Massimo Baldini dell'università di Modena, pubblicato ieri dal Corrierone è estremamente chiaro e illuminante. Partiamo dai «poveracci», quelli con meno di 10 mila euro l'anno. Il risparmio fiscale sarà di 17 (diciassette) euro di media l'anno. Non va molto meglio per chi ha redditi compresi tra i 10 e i 20 mila euro l'anno: in media vedranno la loro pressione fiscale ridursi di 49 euro l'anno, ovvero 4 euro al mese. Per la classe di imponibile che oscilla tra i 20 e i 30 mila euro l'anno, il risparmio medio per contribuente sarà invece di 412 euro, cioè 35 euro al mese.

E' interessante notare che, secondo i dati fiscali, circa il 90% dei contribuenti italiani ha redditi fino a 30 mila euro lordi l'anno, ma a questa massa di contribuenti sono destinati meno di 3,8 miliardi di euro di tagli  fiscali su un totale di 14 miliardi. All'inverso emerge che la riforma di Berlusconi premierà soprattutto chi guadagna più di 30 mila euro l'anno: si tratta di circa il 10% della popolazione che si approprierà di tagli fiscali per più di 10 miliardi di euro, poco meno del 75% della cifra totale destinata ai tagli di imposte.

Il risparmio medio, infatti, sale da 1.223 euro per i redditi compresi tra i 30 e i 40 mila euro, a 4.401 euro per quelli tra i 70 e gli 80 mila euro per toccare i 7.559 euro di media per quelli compresi tra i 100 e i 110 mila euro. Meglio di tutti, in termini percentuali e assoluti, va a chi ha redditi superiori ai 110 mia euro l'anno: risparmieranno in media 15.514 euro di Irpef. Da notare che per alleggerire la pressione fiscale di chi percepisce redditi superiori ai 110 mila euro costerà all'erario 3,258 miliadi di euro, poco meno di quanto costerà alleggerire la pressione fiscale per i 9/10 dei contribuenti a più basso reddito.

Una riduzione della pressione fiscale simile a quella esposta non farebbe che peggiorare la distribuzione dei redditi e ingesserebbe definitivamente le classi sociali. In pratica sarebbe la seconda puntata della riforma fiscale avviata con l'abolizione dell'imposta sulle successioni e le donazioni. Oltretutto servirebbe a poco da un punto di vista economico: per i redditi più bassi, infatti, la capacità di spesa, cioè di consumo, crescerebbe impercettibilmente (pochi euro al mese) e non contribuirebbe al rilancio della domanda. E. invece, tutto da dimostrare la teoria berlusconiana che il maggiore risparmio dei redditi più alti si trasformi automaticamente in investimento: la quota di risparmio (sul reddito) degli italiani è infatti tra le più alte del mondo, mentre gli investimenti ristagnano.


 Berlusconi preso tra tre fuochi
Tra giovedì e venerdì vertice della verità per la Casa delle libertà. Ma An, Udc e Lega (Calderoli e Maroni hanno visto il premier ieri mattina) irrigidiscono le proprie posizioni e attaccano apertamente anche la proposta di taglio delle tasse di Silvio Berlusconi
GIOVANNA PAJETTA
Le danze si aprono con gli amici più cari. Giulio Tremonti, che arriva a palazzo Grazioli di buon mattino e poi, a ruota, i leghisti Maroni e Calderoli. Ma se quello che era l'«asse padano» si incontra, è solo per qualche minuto. Perché da ieri ognuno va per conto suo, nella speranza che poi alla fine ci sia qualcuno che parli per tutti. Fin dai primi passi infatti l'annunciata fase due del governo della Casa delle libertà pare infatti una fotocopia di ciò che abbiamo visto finora. In peggio, per Silvio Berlusconi, visto che la batosta elettorale è servita solo a irrigidire ciascuno. La Lega si arrocca sul federalismo e minaccia elezioni anticipate, l'Udc butta un macigno sul piatto e chiede nientemeno che un impegno formale dei leader per tornare al proporzionale, An pretende più soldi per il sud, con o senza ministero apposito. Poi, tutti e tre assieme sparano sull'unica carta cara a Forza Italia, ovvero la riduzione delle tasse. Il sistema delle due aliquote, di cui si è cominciato a parlare sui giornali, viene definito infatti «iniquo e ingiusto» dal centrista Volontè e bocciato senza appello dal nazional alleato Alemanno. Ma il vero guaio, ancor prima dei singoli scogli, sta nel nocchiero, nella debolezza ormai conclamata di chi dovrebbe tirare le fila. Tanto che il cavaliere, quando i giornalisti a sera lo assediano, si rifugia nell'unica mossa che gli alleati hanno volentieri lasciato nelle sue mani. «Stiamo decidendo di fare un consiglio de ministri, magari anche sabato mattina - annuncia da Bruxelles - Per approvare un provvedimento che il ministro Tremonti possa portare all'Ecofin di lunedì». Un pacchetto di tagli e entrate, veri o finti che siano, che eviti all'Italia la bocciatura dei partner europei. Per il resto, a parte qualche battuta sulla «generosità di Forza Italia verso gli alleati», tutto è rimandato al rebus del vertice di maggioranza. Ancora da fissare, ma da tenersi comunque o giovedì o venerdì sera. Ma se Berlusconi si chiude nel silenzio, gli alleati sparano cannonate una dopo l'altra.

Dopo un'ora e mezza di colloquio a palazzo Grazioli, il leghista Calderoli è tutto un sorriso. Dice che a lui il premier è parso «estremamente determinato e con le idee molto chiare». All'apprezzamento segue però l'ultimatum. La riforma federalista deve essere approvata a Montecitorio entro fine di settembre, ripete il dirigente del Carroccio, «e se l'obiettivo viene meno, bisognerà andare a votare». E Berlusconi cosa ha risposto? chiedono i cronisti. «Come al solito lui è molto convincente - dice con un sorrisetto Calderoli - Al momento quindi siamo soddisfatti delle parole, ma attendiamo i fatti». L'Udc, dopo l'intervista con cui Marco Follini ha spiegato che solo il ritorno al proporzionale può salvare l'Italia, fa sapere che la sua non è un'uscita estemporanea, e riunisce giovedì mattina il suo ufficio politico. An, per non essere da meno, convoca due riunioni. Una, questa mattina, della neonata Consulta economica del partito, per stilare una sorta di Dpef alternativo a quello di Tremonti. Quella decisiva però, il coordinamento di An, si terrà domani.

E' proprio Gianfranco Fini del resto a dover giocare la partita più complicata. A differenza degli altri, che si attestano su riforme di principio (federalismo e proporzionale), il leader di An è impegnato in un braccio di ferro che, dietro la parola d'ordine «più competitività e sviluppo del sud», vuole ridisegnare i poteri all'interno dell'esecutivo. Magari cedendo qualcosa, addirittura agli acerrimi nemici leghisti. Come temono fortemente i centristi, che avrebbero buttato sul piatto la riforma elettorale anche per la paura di essere schiacciati nell'angolo.

A tarda sera, il tam tam dice che forse sulla vicenda del fisco si troverà una mediazione, che in fondo il premier potrebbe modificare quelle due aliquote che troppo sfacciatamente privilegiano le tasche di ricchi e super ricchi. Ma poco cambia. Perché i nodi veri, sempre che si voglia restare ai contenuti della spaventosa rissa in corso, sono altri. Il federalismo da prendere o lasciare della Lega (su cui ora il premier sostiene che «l'accordo è stato raggiunto») o la bandiera del proporzionale di chi, come l'Udc, ha ormai una gran voglia di lasciare la Casa che brucia. E che ancor più brucerà, se Silvio Berlusconi non tirerà fuori qualche coniglio dal cappello.


25 giugno

Signori, è il momento di indebitarsi
Il governo pensa di inserire nel prossimo Dpef una misura per le ipoteche sulla casa in proprietà. Impegnarsi l'abitazione per avere soldi freschi da spendere e quindi rilanciare i consumi e l'economia. Pedrizzi (An) dice subito sì. Bersani (Ds): è l'incitamento all'allarme sociale
P. A.
L'idea non è nuova. Era già stata lanciata e bruciata l'anno scorso: un sistema di incentivi che favorisca l'ipoteca sulla casa in proprietà per rilanciare i consumi. Chi ha una casa, è il ragionamento su cui sta lavorando il governo, deve smetterla di pensarla come un patrimonio immobile. Deve metterla in gioco, con un'ipoteca appunto, che gli permetta di avere soldi freschi da spendere subito. Qui e ora. La proposta è riemersa ieri su un giornale a tiratura nazionale, il Quotidiano nazionale per l'appunto (Il giorno), che pubblica un articolo a pagina tre in cui si spiega per filo e per segno l'idea di un pool di esperti del governo. Tra gli ispiratori della proposta ci sarebbe anche Gianfranco Polillo, capo del dipartimento economico di Palazzo Chigi. Lo stesso Polillo aveva già pubblicato sul Sole 24ore (23 maggio) un suo intervento in cui spiegava che la casa è in fondo una ricchezza da monetizzare, come già si fa in tanti altri paesi. Il paradosso dell'Italia, secondo Polillo, è quello di avere un grande debito pubblico, inferiore solo a quello del Giappone, ma un indebitamento privato estremamente contenuto, il più basso tra i paesi del G7. «Da un lato - scrive Polillo sul Sole 24ore - uno stato spendaccione, dall'altro famiglie e imprese formichine, che spendono poco e risparmiano molto». Bisogna quindi cominciare a equilibrare la situazione riducendo il peso del risparmio per aumentare lo spazio del consumo, anche indebitandoci. «Ipotecate le vostre case - gli ha fatto eco il quotidiano nazionale di ieri - farà bene al portafoglio». Si tratta di mettere in campo un nuovo «vincolo di secondo grado sulla rivalutazione degli immobili per generare liquidità». Che cosa ci stanno a fare altrimenti tutte queste case in proprietà? E' noto infatti che ormai oltre il 70% degli italiani è diventato proprietario della sua casa, magari indebitandosi con i mutui. Vedendo poi le cose nel loro complesso, c'è anche da notare - dicono sempre gli esperti - che nel 2003 i consumi, secondo i dati Istat, sono cresciuti in media del 3,8%, mentre i risparmi del 5,8%. Il popolo dei risparmiatori avrebbe anche scelto di fuggire dai bond e dalla borsa per rifugiarsi nel classico bene solido, il mattone. Da qui l'esplosione degli acquisti e il rilancio dell'idea degli esperti di Palazzo Chigi. Per ora si tratta solo di un'idea. Ma potrebbe diventare qualcosa di più consistente.

Un certo interesse si registra in casa Alleanza nazionale. Ieri, dopo una presa di posizione molto critica dell'ex ministro diessino Pier Luigi Bersani, è intervenuto a sostegno della proposta Riccardo Pedrizzi, presidente della commissione finanze e tesoro del senato. «L'ipotesi di prevedere nel Dpef un progetto relativo alle ipoteche sulle case di proprietà - ha dichiarato Pedrizzi - può essere una misura utile per sostenere il credito al consumo e convincere le famiglie a essere meno prudenti negli acquisti, rimuovendo l'incertezza sul loro reddito disponibile nell'immediato e nel futuro». Altro che allarme sociale, come aveva appena detto Bersani. Una buona misura per rilanciare l'economia e metterci al passo con gli altri paesi che sono tutti molto più indebitati di noi: non solo gli Usa, maestri di indebitamento, ma anche la Germania, la Francia, il Regno Unito, la Spagna.

Bersani si era invece stupito che la proposta bocciata l'anno scorso potesse essere riesumata. «Ancora una volta - dice Bersani - credo che si debba consigliare cautela al ministro Tremonti, troppo affascinato da immaginiche scorciatoie». Tremonti - è il suggerimento del responsabile economico dei Ds - pensi piuttosto a mettere nel Dpef un progetto serio per la casa in affitto la cui carenza provoca un acuto disagio sociale e forti diseconomie e rigidità nel sistema economico. Pedrizzi però, oltre a confermare l'esistenza della proposta nel pacchetto in discussione per il Dpef che il governo sta accelerando in vista della scadenza del 5 luglio (Bruxelles che decide sull'early warning), ha voluto polemizzare con Bersani, difendendo l'idea dell'ipoteca.Ma se Pedrizzi conferma e rilancia non è detto che poi il documento di programmazione recepisca la proposta. Ieri, dopo una prima reazione positiva di An, si sono registrati molti dubbi nell'ambito della compagine governativa. Per Tarolli (udc) è ancora troppo presto per parlare delle manovre che rilancino davvero l'economia. «Mi rifiuto - ha detto seccamente all'agenzia Radiocor Ivo Tarolli - di fare dichiarazioni su singole anticipazioni che non so nemmeno se corrispondano al vero».

Il mistero delle posizioni nel governo si chiarirà presto. E' certo però che è ormai cominciata la rincorsa all'idea risolutiva in un momento di crisi economica e di crisi generalizzata dei conti pubblici. Nel governo non tutti la vedono allo stesso modo e perfino negli stessi ministeri ci potrebbe essere un bel dibattito. L'anno scorso l'idea dell'ipoteca sulla casa è stata battuta, così come sono state battute altre idee e proposte. Non è stata per esempio presa in considerazione la proposta del viceministro dell'economia, Mario Baldassari, di aumentare gli incentivi fiscali per le ristrutturazioni delle abitazioni. L'idea era stata bocciata perché avrebbe ridotto il gettito fiscale. E in vista della mitica operazione riduzione delle tasse per tutti non suonava bene, anche se era motivata con il miglioramento della qualità della vita e dello stimolo al consumo.



24 giugno

La rivelazione del Cesis. Il presidente del Consiglio utilizzerebbe il resort in Sardegna in caso di inagibilità di Palazzo Chigi
"Il bunker di Villa Certosa
sede d'emergenza del governo"

PINO CORRIAS
I lavori a Villa Certosa
TEMPIO PAUSANIA - Diavolo di un Berlusconi. Dovesse mai rendersi inagibile Palazzo Chigi, e magari l'intera Italia continentale, Villa Certosa, Costa Smeralda di Sardegna, potrebbe diventare la sede vicaria della Presidenza del Consiglio. Ecco spiegati i lavori. La loro urgenza. La loro secretazione. La loro insindacabilità. Parola di Emilio Del Mese, segretario generale del Cesis, il comitato esecutivo per i servizi segreti.

E' l'ultima, sorprendente versione, fornita davanti ai membri del Copaco (il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti). Abusivi oppure no - il lago artificiale, il teatro finto greco di granito, la bat-caverna con il tunnel - Berlusconi ne uscirà comunque indenne. Non solo per questa faccenda della sicurezza nazionale. Anche perché Villa La Certosa, la sola Grande Opera realizzata a tempo di record dal Cavaliere, 2 mila e 500 metri di casa, 50 ettari di parco, 2 mila cactus, 6 piscine, l'agrumeto e tutto il resto è roba sua sì, ma in modo specialissimo. Ufficialmente è tutto intestato alla Idra Immobiliare, società fondata nel 1977 con 5 consiglieri di amministrazione, 3 sindaci. E un unico inquilino.

L'inquilino non paga affitto. L'inquilino non ha responsabilità dirette su ciò che si fa e si disfa intorno a lui. L'inquilino va e viene. L'inquilino a volte non vorrebbe neppure fare i lavori. Specialmente quelli nella caverna a mare. Lo costringono, dunque, per ragioni di sicurezza, i responsabili del Cesis. Lo costringe il ministro dei Lavori Pubblici Pietro Lunardi. Lo costringe (addirittura) la sua propria carica di presidente del Consiglio dei ministri.

Intoccabile. Bel colpo di scena qui al secondo piano del Tribunale di Tempio Pausania, entroterra di Gallura, uffici della procura della Repubblica, stanze del procuratore Valerio Cicalò, e del sostituto Giovanni Porqueddu. Qui sono arrivati gli esposti degli ambientalisti, le denunce di Ds e Margherita, decine di lettere di protesta. La Procura ha aperto l'inchiesta lo scorso 11 maggio. L'ha congelata nelle due settimane di campagna elettorale ("meglio non alimentare polemiche"). L'ha riavviata ora per mettere un po' d'ordine nel guazzabuglio che si è addensato sul mare blu di Punta Lada, dove, dal mese di maggio, si è scatenata questa guerra di cantieri forse autorizzati, forse abusivi, ma comunque molto fotografati e infine secretati in via di urgenza dagli uffici di Lunardi e dagli uffici del Cesis che in comune hanno pochissimo, tranne la presidenza di Silvio Berlusconi.

Ce ne fosse bisogno, il gioco degli specchi non si ferma qui. Va almeno moltiplicato per il doppio riverbero del ministro Lunardi che agisce, in questa storia, con mano pubblica e competenze private. Essendo "il più grande esperto di tunnel" secondo la definizione di Silvio Berlusconi, compare come costruttore, firma il progetto, lo realizza, e per l'appunto compare come ministro, autorizzandolo (prima) e secretandolo (poi). "Un po' troppo" dice Stefano Deliperi, responsabile degli Amici della Terra di Cagliari. "Nemmeno Ceausescu ai tempi d'oro delle sue mille sale da bagno".

Lo scoglio è prima di tutto il segreto. Raccontano, qui in Procura, di quando 20 giorni fa sono comparsi gli avvocati di Berlusconi, l'infaticabile Nicolò Ghedini in testa, con la coda stellare di carte, autorizzazioni, licenze, con date che si accavallano alle denunce, che non coincidono con l'effettivo inizio dei lavori, che si moltiplicano di competenza in competenza, uffici del Comune di Olbia, uffici della tutela del Paesaggio di Sassari, uffici degli assessorati regionali, Guardia costiera, forestale, Capitaneria, ministeri. Compresi dei godibili carteggi tra la presidenza del Consiglio e l'inquilino della Immobiliare Idra. Tra il ministro Lunardi e il costruttore Lunardi. In cima alla pila (però) l'altolà del "Segreto di Stato". Prevale il segreto o prevale l'inchiesta? I magistrati possono oppure no leggere le carte, compreso il famoso decreto di secretazione, violare i 500 metri di interdizione alla navigazione, approdare sulla scogliera che è terra demaniale, ispezionare i cantieri, confrontare le foto aeree? Il quesito ha un solo precedente. Affiorò in circostanze ben più drammatiche, durante l'inchiesta per la strage di Bologna, (2 agosto 1980) e quella volta vinse il segreto.

In questa seconda versione (tragedia evaporata in farsa) si tratta di accertare se il lago artificiale alimentato dall'acqua potabile della diga del Liscia, finti scogli e papere come a Milano 2, e se l'anfiteatro da 400 posti, prossima inaugurazione curata da Tony Renis, abbiano attinenza con la sicurezza del presidente del Consiglio, dei suoi familiari e dei suoi eventuali ospiti. Se la caverna tra gli scogli del Golfo di Marinella, che due dozzine di operai stanno ingrandendo, rimodellando, perforando sia un "approdo sicuro" per barche di Stato, oppure un nuovo giocattolo dell'inquilino. Qualunque sarà la decisione del tribunale, Silvio Berlusconi ne verrà appena sfiorato. Continuerà a pagare tutto " di tasca propria", come tiene a ripetere, comprese notevoli bollette, 150 mila euro solo per l'acqua potabile lo scorso anno. Perché (formalmente) ne risponderanno i cinque rappresentanti dell'immobiliare Idra. Due di loro hanno le deleghe maggiori. Si chiamano Salvatore Sciascia e Giuseppe Scabini. Vengono dai tempi remoti delle inchieste (e delle condanne) ai funzionari Fininvest: Sciascia responsabile dei servizi fiscali, Scabini del comparto estero. Ombre di un'altra era che riaffiorano. Anche se stavolta con il segreto di Stato e le braghette da bagno sulla riva della sede vicaria di Palazzo Chigi.

22 giugno

Montezemolo resuscita il dialogo
Il presidente di Confindustria rilancia la concertazione: «Il dialogo rafforza la ripresa. Con i sindacati possiamo cercare una posizone comune». L'ira di Maroni: «Non assecondo nostalgie» Patto sulla devolution Segnali di fumo dopo l'attacco di Confindustria. Maroni: «Per il federalismo siamo pronti a sacrificare anche Tremonti»
ANDREA COLOMBO
Colpo su colpo. Non passa giorno senza che il nuovo presidente della Fiat e di Confindustria non vibri la sua mazzata contro il governo. L'occasione di ieri è stata l'assemblea di Assolombarda, da dove Montezemolo ha esordito assicurando: «Non intendo dettare io obiettivi e condizioni che competono al governo». Peccato che aggiunga un «però» grosso come un grattacielo: «Intendo però far sentire la nostra voce perché non si può pensare che le imprese non siano preoccupate». Tanta preoccupazione si traduce in un monito, rivolto al governo, che equivale alla richiesta perentoria di cambiare completamente strada. «E' sempre più diffusa da noi - dichiara il presidente degli industriali - la convinzione che il dialogo rafforzi lo scenario della ripresa economica». Poi, casomai il messagio non fosse già chiaro, specifica ulteriormente. Si rivolge ai sindacati e afferma: «Penso che possiamo cercare una posizione comune sui problemi della nostra economia, da sottoporre al governo». E poi: «E' importante che si riavvii la ricerca di intese. Col sindacato abbiamo ripreso a parlare individuando terreni di discussione e un'agenda per lo sviluppo. Sono contento dell'inizio di questo dialogo, ma non basta». Per finire prende di mira anche l'ala meno malleabile dei sindacati stessi: «Vedo risorgere vecchi modi di contrattare e desideri di rivalsa che non ci portano lontano. Non mi interessa sapere se dobbiamo fare concertazione o dialogo sociale o contrattazione. L'importante è riavviare la ricerca di intese».

La sterzata, rispetto alla Confindustria berlusconiana di Antonio d'Amato, non potrebbe essere più drastica. Quello di Montezemolo è un invito tondo a rilanciare la concertazione in squisito stile Carlo Azeglio Ciampi. E se il nuovo presidente aggiunge che il pronunciamento di Confindustria «vuol essere un contributo alle istituzioni e quindi in primo luogo al governo, di qualunque colore esso sia», lo fa in omaggio alle regole del galateo, non a quelle della schiettezza. La critica è infatti affilata e precisa. Non a caso a supportare per primi il discorso sono stati un leader dell'opposizione come Piero Fassino e un esponente di maggioranza ipercritico nei confronti del governo come il presidente udc della commissione attività produttive Bruno Tabacci.

Non ha gradito invece per nulla l'affondo il ministro del welfare Maroni, anche lui presente all'assemblea degli industriali lombardi. Il suo commento è gelido: «Se c'è qualche nostalgia per un ritorno a un sistema di veti o di tavoli di seri A o di serie B, io non intendo assecondarla». Poi il mnistro leghista passa al contrattacco, impugnando come vessillo non solo la riforma del mercato del lavoro, ma anche il suo artefice, quel Marco Biagi ucciso dalle Br e considerato quindi dal governo un martire. Maroni si confessa preoccupato per «le resistenze fortissime all'attuazione della legge Biagi da parte di alcuni esponenti del sindacato. Resistenze così forti che hanno indotto alcuni imprenditori a non riconoscere questo istituto e anzi a escluderlo da alcuni importanti contratti». Il ministro parla di resistenze sindacali, ma il messaggio è rivolto agli industriali: «Non si può chiedere al governo di fare riforme importanti e poi, di fronte alle resistenze di un sindacato, accettare di non applicarle». E' un appello lineare e diametralmente opposto all'invito di Montezemolo. E' una chiamata alla resistenza contro il ritorno della concertazione. E un simile scambio di colpi, a pochi giorni dallo scontro sul federalismo, basta a rivelare quanto la «verifica» in atto non riguardi affatto solo la maggioranza politica, ma anche, e anzi a maggior ragione, il blocco sociale che si era solidificato nel 2001 intorno a Berlusconi. E che oggi non esiste più.


«Riforma» prima delle ferie
Il governo accelera sulle pensioni. Saranno cambiate entro luglio. Fini: se serve, chiederemo la fiducia in parlamento. Nuovo no dei sindacati e delle opposizioni. Domani la segreteria di Cgil, Cisl, Uil. Oggi la delega in commissione
P. A.
La riforma delle pensioni sarà legge prima della chiusura estiva del parlamento. Parola di Gianfranco Fini, vicepresidente del consiglio e di Roberto Maroni, il ministro del welfare che darà il nome alla riforma che allungherà l'età pensionabile e sposterà il tfr nei fondi pensione, equiparando i fondi contrattuali di categoria ai piani previdenziali individuali delle assicurazioni. La riforma, ha spiegato ieri Maroni, ci viene chiesta dall'Europa (anzi l'abbiamo già promessa all'Europa) e dallo stato dei nostri conti pubblici. «Un altro rinvio sarebbe semplicemente assurdo». La riforma deve essere varata subito, gli ha fatto eco Fini, che ha ricordato le modifiche già apportate, come il sistema del silenzio-assenso per il trasferimento del tfr ai fondi pensione, secondo le richieste dei sindacati confederali. La riforma deve diventare legge, dunque, anche a suon di fiducia. Prima dell'estate. All'annuncio della fiducia molti sindacalisti e politici delle forze di opposizione si sono pronunciati contro. Secondo Paolo Ferrero, di Rifondazione comunista, il governo sta cercando la rissa e la troverà. Luciano Violante, capogruppo diessino alla camera, ha detto di aver visto morire molti governi di fiducia. Gli ha risposto, indignato, lo stesso vicepremier Fini: Violante pensi ai suoi governi di centrosinistra - ha detto - che hanno abusato della fiducia molto di più di noi. Intanto mentre il ministro Alemanno, uno degli esponenti della «destra sociale» prova a riaprire un qualche dialogo con i sindacati («facciano proposte costruttive»), Bruno Tabacci, presidente della commissione attività produttive della camera, scommette sulle buone condizioni per arrivare all'approvazione parlamentare della delega previdenziale già varata dal senato. Rocco Buttiglione, ministro per le politiche comunitarie che nell'ultimo periodo aveva giocato la parte del dialogante (insieme ad Alemanno), ieri ha detto che non è scontata la richiesta di fiducia da parte del governo. Quello che è certo, però, è che bisogna chiudere subito. «Noi - ha dichiarato ieri Buttiglione a Radio Radicale - abbiamo detto all'Europa di averla già fatta e abbiamo trattato sulla base della convinzione generale che l'avessimo già fatta, se scoprono che invece non l'abbiamo fatta potremmo avere qualche grave difficoltà». E i sindacati, quelli con cui bisognava riaprire una grande stagione di concertazione? «Abbiamo già dato», è la risposta di Buttiglione, alcune proposte sono state accolte, ora bisogna chiudere.

Nonostante le battute del ministro Alemanno sulla necessità di tenere aperta qualche finestra con i sindacati, l'aria è che si chiuda. Oggi la riforma riprenderà il suo cammino in commissione alla camera. Si dovrà decidere il calendario che sarà dunque all'insegna dell'accelerazione. I sindacati confederali si preparano a dare battaglia nuovamente. Domani si riuniranno le segreterie confederali di Cgil, Cisl, Uil. Nell'incontro unitario è scontato il giudizio negativo sulla riforma e sui peggioramenti che ha subito al senato. Non è scontato, per ora, l'esito della decisione sulle forme di lotta. «Abbiamo posizioni condivise - ha detto ieri Morena Piccinini della segreteria confederale della Cgil - non ci è chiaro però ancora che cosa abbia in mente il governo. In ogni caso se passa dovremmo mobilitarci subito perché il tempo stringerà sui decreti attuativi». Tutti e tre i sindacati sono d'accordo nel bocciare i punti della riforma che riguardano lo scalone del 2008, l'equiparazione dei fondi e la mancanza di novità sui contributi dei lavoratori autonomi. Questi ultimi chiedono, attraverso la Confsal, che si avvii un tavolo dedicato solo a loro.

La strada della richiesta di fiducia viene comunque bocciata da tutti i partiti dell'opposizione. Secondo Enrico Letta, responsabile economico della Margherita, se il governo Berlusconi perseverasse con la fiducia imboccherebbe una strada sbagliata. Letta si augura che sulle pensioni il governo abbia un ripensamento. «La riforma così com'è - ha spiegato ieri a Verona - non porta né risparmi, né equità». Ci potrebbe essere - è la speranza di Letta - una possibile riapertura di dialogo per migliorare la legge.

Le aperture del governo sembrano però a questo punto abbastanza improbabili. Oltre alle dichiarazioni di Fini, Maroni, Buttiglione, ieri anche il sottosegretario Sacconi l'ha girata in sfida. «Non credo - ha detto Sacconi - che ci possa essere uno sciopero prima dell'approvazione della riforma». Ancora più drastico il presidente dell'Assolombarda, Michele Perini. Se non ci penserà il parlamento, la riforma delle pensioni italiane sarà fatta dal Fondo monetario internazionale. E il Fmi farà una riforma molto più dura di quella predisposta dal ministro Maroni.

 

17 giugno

Sul sito dell'Unac una ventina di immagini di prigionieri
degli italiani. "Foto mandate dai militari tornati dall'Iraq"
L'Unione carabinieri denuncia
"Ecco le carceri di Nassiriya"

Soldati italiani a Nassirya

ROMA - Prigionieri iracheni ammassati in gabbie di ferro in condizioni igieniche molto precarie, militari italiani che sorvegliano persone distese sulla sabbia del deserto, carabinieri e arabi che parlano mentre alcune persone sono distese in terra con le mani ammanettate dietro la schiena. Sono alcune delle foto che l'Unac, l'Unione nazionale arma dei carabinieri (un'associazione privata che riunisce militari in servizio e non), ha pubblicato sul proprio sito (Unionecarabinieri.it) e che, secondo l'associazione, sono state fornite dai militari rientrati dall'Iraq.

"Foto - è scritto nel sito - scattate dai carabinieri, che ce le hanno consegnate, che erano certamente state inviate anche ai comandi arma e difesa in Italia. Si denota un ammassamento in situazioni igieniche precarie, con segni di torture sui detenuti. Il tutto a conoscenza degli italiani, che hanno scattato le foto. A dimostrazione che tutti, anche gli italiani, sapevano e riferivano".

Le venti immagini, afferma l'Unac, fanno parte di circa 200 scatti consegnati all'associazione, che "testimoniano le condizioni disumane in cui erano tenuti i prigionieri" nel carcere iracheno di Nassiriya. Le foto sono divise in due sequenze da 10.

Nella prima si vedono alcuni carabinieri che parlottano con alcuni arabi in una strada isolata in mezzo al deserto. Nella sequenza vi sono immagini di iracheni distesi in terra e ammanettati. Un'altra foto è scattata dall'interno di quello che sembrerebbe essere un mezzo in dotazione al contingente italiano mentre uno scatto riprende quello che sembra un carabiniere (l'uomo è di spalle e indossa una divisa blu) che con casco e scudo blocca a terra una persona con il volto coperto.
Nella seconda sequenza, il carcere. Ci sono delle gabbie di ferro, poste all'interno di un edificio fatiscente. Dentro decine di uomini, molti in mutande e maglietta ed uno, in particolare, a torso nudo che si copre il volto e con vistose escoriazioni sul petto. In nessuna delle foto del carcere si vedono militari italiani.

15 giugno

ELEZIONI
La fine del mondo
MARIUCCIA CIOTTA
Dove ha sbagliato il cavaliere? È andato in guerra, ha dettato legge a sua favore, non ha tagliato le tasse, ha fallito, lui grande comunicatore, la campagna elettorale culminata con il boomerang mediatico degli sms, ha deluso gli italiani inebriati all'idea di un'Italia ricca e moderna... Sì, anche. Ma la sconfitta di Berlusconi sta nel disfacimento globale di un mondo che ha indicato come traguardo della felicità occidentale l'espansione di se stesso. L'accumulo di oggetti senza fascino, la produzione di un superfluo triste che non è ricchezza ma vuoto sguardo delle merci. Non c'è progresso né gioia nell'eliminazione di ogni espressione umana della fantasia e dell'ingegno, nell'azzeramento della funzione critica. Gli ipermercati come Wall Mart sono diventati prigioni del consumo, annullamento della varietà dell'offerta, autoritari luoghi della coazione a ripetere. A Los Angeles - capitale del lusso - si piange per la chiusura della libreria storica Midnight Special di Santa Monica non solo perché era tra le poche alternative ai grandi circuiti ma perché esprimeva una babele di impulsi, vetrina di parole e immagini, pluralismo e eccezione. Nessuno più vuole vedere i kolossal confezionati sull'omologazione al ribasso del gusto di Hollywood, le major pagano la loro politica di ottimizzazione del prodotto, e infatti a Cannes trionfa il documentario scintillante di Michael Moore dove la politica torna a essere un esercizio di mente e di cuore, di risate, indignazione e azione. La bellezza e il suo godimento richiedono curiosità, cultura, amore per la diversità. Questo mondo di Bush e Berlusconi, dell'occidente tutto è basato sulla moltiplicazione di standard, di format televisivi, di gipponi inquinanti, di catene commerciali, di monopolio totale. È il consumatore, paradossalmente, ad aver bocciato la las vegas del primo mondo senza più il gusto del gioco. Lo spettacolo che ci hanno offerto è lugubre, ed è pagato dal prezzo della vita di migliaia di persone cadute nelle guerre fatte per garantire spazi di mercato e di risorse. Sono i loro corpi, pezzi di esseri umani sparsi nel nostro immaginario, collezioni di morte, a dominare ora i banchi di virtuali supermercati. È inutile che lo sforzo dei paesi ricchi, del laburista Blair caduto in corsa (o di uno Schroeder tagliatore di welfare) insista sulla necessità della produzione di quella paccottiglia del benessere. I consumatori non la vogliono comprare più. Vogliono che l'agosto sia caldo ma che non faccia morire migliaia di nonni, vogliono che non ci siano day-after e che i «gas di Kyoto» non buchino la terra. Non vogliono avere come vicini di casa i bambini morti dell'Africa. E non ci sarà pubblicità che vinca il disgusto per la proliferazione di beni come mostruosi ornamenti del quotidiano.

Questa rivoluzione underground di massa, Berlusconi e i suoi alleati non l'hanno vista. Procedono ancora con la fiducia di una modernità dissolta nella scontentezza. L'audience è un concetto senza più forza propulsiva. Al suo posto ci sono individui che hanno scoperto una relazione di libertà e di rispetto reciproco.

Perdono i supporter del liberismo perché la loro scorta di promesse elettorali è marcita. Il venditore porta a porta si è visto sbattere in faccia il suo repertorio di merci. La felicità è un'altra cosa.



 Lo «sboom» del nero
Lavoro sommerso, le colpe di imprese e governo. Lo studio Cgil
ANTONIO SCIOTTO
Dai contadini del dopoguerra agli edili in nero del mitico boom anni `60, passando per gli irregolari della recessione Settanta-Ottanta fino agli invisibili di oggi, gli sfruttati della globalizzazione: spedizionieri, commessi, operatori dei call center, agenti finanziari e immobiliari. Non più impiegati solo in industria e agricoltura, ma diffusissimi soprattutto nel commercio e nel terziario, spesso travestiti da «atipici» pur essendo subordinati a tutti gli effetti. Il lavoro sommerso ha tantissime facce, ma non è un residuato del passato quanto piuttosto uno dei perni fondamentali dell'impresa italiana di oggi, che su esso si basa per sopravvivere a bassi costi e infima qualità. E se non si inverte la rotta - «missione» fallita dall'attuale governo - aumenterà a dismisura già nei prossimi anni. E' questa, in sintesi, la tesi del libro Lavoro nero e qualità dello sviluppo, di Alessandro Genovesi, responsabile politiche attive del lavoro Cgil (edito da Ediesse, prefazione di Guglielmo Epifani). Innanzitutto i dati, ottenuti incrociando i rapporti di diversi istituti, dall'Istat all'Inps, dall'Inail allo Svimez e all'Oil. Le posizioni lavorative sommerse in Italia sono oggi 6 milioni 152 mila, in termini economici producono il 20% del Pil (percentuale che secondo le proiezioni può salire al 25-26% già nel 2005). Il 74% del valore è prodotto dal terziario. Nel totale sono compresi i lavoratori in nero, ovvero mai dichiarati, e i «grigi»: irregolari per diversi motivi, o dipendenti camuffati da atipici. Quattro i miliardi di euro evasi ogni anno al fisco (Irpeg e Irpef), 16 miliardi sottratti a Inps e Inail. «Solo per restare all'Inps - spiega Genovesi - ogni anno non viene versata una cifra pari all'1,5% del Pil: il che vuol dire che il famoso 0,7% che il governo vuole racimolare tagliando le pensioni, si potrebbe recuperare anche solo facendo emergere metà dell'evasione contributiva». E' lo stesso governo, però, che proprio sull'emersione ha fatto flop: come spiega il libro, alla chiusura del 2003, con la fine degli effetti del provvedimento di emersione lanciato da Tremonti nei primi 100 giorni dell'esecutivo (legge 383), sono state totalizzate solo 1.029 domande di emersione e regolarizzati 3.854 lavoratori. Su 6 milioni di sommersi, è un vero successo.

Da un altro studio compiuto da Capitalia sui bilanci delle imprese negli anni `98-2000, si può vedere inoltre confutata la tesi (difesa negli ultimi anni da governo e Confindustria) secondo cui le aziende si immergono nel nero per l'alto costo del lavoro: «Nei tre anni - spiega Genovesi - si vede che la maggiore spesa sui fatturati è data dai consumi (tra il 55 e il 59%), il 19% è assorbito da logistica, burocrazia e infrastrutture e solo il 13% dal costo del lavoro. Dunque gli imprenditori scelgono il nero per risparmiare su diversi fattori, ed è vero poi che riescono a tirare di più e senza limiti sul costo del lavoro». E' necessario dunque non solo investire su qualità e innovazione, ma anche ricondurre nelle regole milioni di persone attraverso la riunificazione dei cicli produttivi, frammentati da appalti, terziarizzazioni, precarietà. Basti pensare che mentre negli ultimi 6 anni le irregolarità riscontrate dai servizi ispettivi nel lavoro dipendente e autonomo sono cresciute di meno di un punto percentuale, dal `99 al 2003 c'è stato un boom degli irregolari nell'atipico (+6% apprendisti, +11% interinali, +8% partite Iva, +7% co.co.co., +13% associati in partecipazione).



 
11 giugno

Gino Strada racconta la sua verità: la trattativa
di Emergency la soluzione vicina, il finale a sorpresa
"Comprati per 9 milioni di dollari poi il finto blitz per liberarli"
"Non so chi ha tirato fuori i soldi. So i nomi dei mediatori
che, mi viene detto, li hanno maneggiati"
Gino Strada
ROMA - Gino Strada, con la sua Emergency, è stato uno dei canali di trattativa "in chiaro" per la liberazione degli ostaggi. Nelle prime tre settimane di maggio, Strada, con sua figlia Cecilia e Tommaso Notarianni, ha negoziato a Bagdad con quattro fonti irachene. Ripartendone con una certezza. Che Agliana, Cupertino e Stefio sarebbero stati liberati "senza condizioni". Oggi dice: "Ci è stato detto che quando la vicenda era ormai risolta, qualcuno ha pagato 9 milioni di dollari... Che gli ostaggi sono stati di fatto consegnati agli americani".

Chi ha pagato?
"Non so chi ha tirato fuori i soldi. So i nomi dei mediatori che, mi viene detto, li hanno maneggiati. Non ho difficoltà a farli, perché Emergency non è un servizio segreto e quel che ha fatto lo ha fatto in modo trasparente. Abbiamo lavorato per la liberazione degli ostaggi con la stessa logica con cui lavoriamo nei nostri ospedali. Siamo stati testimoni diretti di una storia che ha incrociato il nostro cammino. E ora che gli ostaggi sono sani e salvi posso raccontarla".

Chi ha maneggiato i 9 milioni?
"Un uomo di nome Salih Mutlak. Personaggio noto a Bagdad per essersi arricchito con il contrabbando nei dieci anni di embargo. Un nome che ho sentito la prima volta ad Amman, in Giordania".

Cosa seppe ad Amman?
"Incontrai Jabbar Al Kubaissi, un ex esiliato con cui Emergency aveva avuto rapporti in passato. Gli spiegai che Emergency non era disposta a trattare il rilascio degli ostaggi, ma lo riteneva un atto dovuto come gesto di riconoscenza umanitario per aver curato 300 mila iracheni negli anni dell'embargo. Kubaissi convenne sulle mie richieste. Mi fece capire che la testa "politica" del gruppo dei sequestratori sarebbe stata disposta ad un rilascio senza condizioni nelle mani di pacifisti italiani. Ma aggiunse che c'era un problema. Qualcuno tra i carcerieri era sensibile alle sirene del denaro. E che questo canale di trattativa era nelle mani di tale Salih Mutlak. Sapemmo, una volta a Bagdad, che Mutlak aveva rapporti con Abdulsalam Kubaissi, religioso del Consiglio degli Ulema, e che con lui aveva lavorato alla liberazione degli ostaggi giapponesi".

A Bagdad avete incontrato questo Mutlak?
"Ovviamente no. La nostra linea era opposta. Nessuna trattativa economica. Cercammo interlocutori in grado di parlare alla componente politica di chi gestiva il sequestro. Per tutte e tre le settimane della nostra permanenza a Bagdad, i nostri contatti furono un imam di Bagdad, l'imam di Falluja, il fratello di Jabbar Kubaissi, Ibraim, medico di Abu Ghraib, e un terzo uomo, di cui non faccio il nome perché oggi rischia la sua vita".

Erano in contatto diretto con i sequestratori?
"Questo è quello che capimmo. E ritengo di non essermi sbagliato".

Vi diedero delle prove dell'esistenza in vita degli ostaggi?
"No. All'inizio ci proposero di utilizzare dei video da mandare ad Al Jazeera come canale di comunicazione. Ma rifiutammo".

Dunque non è vostro il biglietto che Stefio mostrava nel video del 31 maggio e mai mandato in onda da Al Jazeera.
"Non mi risulta fosse nostro".

Torniamo alle vostre fonti a Bagdad.
"L'ultima settimana di maggio, dopo aver ricevuto assicurazioni che i sequestratori avevano deciso il rilascio degli ostaggi, con tempi e modi che non ci furono indicati, decisi di rientrare in Italia. Vivevo da tre settimane in un residence e l'aria si era fatta pesante. Per dodici giorni, fino a sabato scorso, 5 giugno, non seppi più nulla. Poi, quel sabato, ricevetti una telefonata dal nostro rappresentante a Bagdad".

Cosa le disse?
"L'imam di Falluja aveva comunicato che la questione era risolta. Di attendere una liberazione imminente".

Cosa che è avvenuta.

"Certo. Ma non nei tempi ipotizzati dall'Imam. Martedì 8, nelle stesse ore in cui il nostro rappresentante a Bagdad parlava con l'imam per aver qualche notizia sugli ostaggi, Agliana, Cupertino e Stefio venivano liberati. Cademmo dal pero. Chiedemmo spiegazioni. Cosa era successo?".

Già, cosa era successo?
"Ci è stato detto che i 9 milioni incassati da Mutlak avevano convinto una parte del gruppo a trasferire gli ostaggi dalla prigione di Ramadi ad Abu Ghraib e a consegnarli agli americani con un finto blitz inscenato in una casa di Zaitun street. La strada dove ha provato ad avvicinarsi ieri il vostro cronista prima che provassero a sequestrarlo. Un testimone che abbiamo raggiunto, tale Fahad, ci ha confermato di aver visto la presa in consegna di Agliana, Cupertino, Stefio e del polacco la mattina dell'8 giugno".

Il polacco sostiene di essere stato liberato a Ramadi. E gli ostaggi italiani di non essere stati trasferiti di prigione negli ultimi giorni precedenti il blitz. Sono circostanze che non tornano.
"Io ho appena raccontato quel che so...".

7 giugno

USA E GETTA
L'operaio è precario
Il lavoro non è più un diritto «Atipici» per far risparmiare le imprese
ANTONIO SCIOTTO
Il rapporto sui diritti globali della Cgil ha un ampio capitolo dedicato al lavoro. L'ultimo anno, in Italia, è stato segnato da due fenomeni generali: il declino dell'industria, con la valanga di licenziamenti e scioperi; la precarizzazione sempre più marcata, riguardante soprattutto i giovani, ma ormai dilagante anche tra le generazioni adulte. Precarizzazione già ampiamente avviata dal pacchetto Treu, realizzato e difeso da quelle forze che nel centrosinistra oggi compongono il Triciclo, ma che ha avuto grandissimo impulso dall'approvazione della cosiddetta legge «Biagi» (tecnicamente, legge 30 e decreto attuativo 276) da parte dell'attuale governo. Il lavoro è stato sostanzialmente mercificato, non più concepito come un diritto della persona, ma come una variabile dei costi aziendali: è dunque opportuno, secondo questa visione, approntare dei pacchetti «usa e getta» che costino meno possibile, in modo da essere «competitivi». Un esempio eloquente lo offre il «lavoro a chiamata»: non a caso, lo sfortunato che ci si imbatte viene definito «lavoratore squillo». Secondo la legge 30 e i decreti attuativi, l'azienda chiama il lavoratore - e dunque lo retribuisce - solo quando serve. Per il resto, viene tenuto in «stand by», cioè come un elettrodomestico che non si usa ma ha comunque la spia rossa accesa. L'alimentazione minima, in questo caso, non è l'elettricità, ma un'indennità in denaro, che il governo ha fissato nel 20% della retribuzione.

Un altro esempio di lavoro «usa e getta» è rappresentato dal largo uso che le aziende ormai fanno delle cosiddette «esternalizzazioni», favorite da un altro articolo della legge 30, che prevede la cessione veloce di un ramo d'azienda (si può dall'oggi al domani creare un dipartimento interno che prima non esisteva, dichiararne l'autonomia e dunque cederlo). Potrò affidare delle commesse alla nuova società che ha acquistato il mio vecchio ramo, salvo trovarne una più conveniente: a questo punto, si scatena una battaglia a chi abbassa più i costi, e scattano i licenziamenti quando le commesse vengono perse. Un altro modo originale per «affittare» quelli che una volta avevo all'interno come dipendenti è lo staff leasing, ovvero l'affitto a tempo indeterminato di squadre di manodopera. Come faccio? E' semplice: cedo a un'agenzia di lavoro interinale i lavoratori che non voglio più tenere sul groppone, e poi li riprendo dentro, ma stavolta non più alle mie dirette dipendenze. Quando non ne avrò più bisogno, rescindo il contratto con l'agenzia.

D'altra parte le aziende non cercano altro: lavoro dipendente nei modi in cui viene svolto (orari e turni rigidi, gerarchie, capi), estrema flessibilità nei contratti e nelle retribuzioni (il compenso dei co.co.co. e degli attuali collaboratori a progetto non è agganciato ad alcun contratto nazionale, e dunque è libero; i contributi pensionistici sono al 17%). Che fine faranno gli attuali 2 milioni e mezzo di co.co.co.? In pochi casi, come ricorda il rapporto, sono riusciti a farsi riconoscere il rapporto subordinato, ma per il resto si trovano esposti all'applicazione della legge Biagi, e dunque a una precarietà permanente. C'è chi suggerisce al centrosinistra di abrogare la legge 30, una volta al governo. Ottimo consiglio, ma è troppo chiedere di abrogare anche il pacchetto Treu?


 Il crollo dei diritti
Dalla retromarcia del welfare state, alla violazione dei diritti umani; dal ruolo perverso della guerra, alle scelte contro l'ambiente. Rapporto annuale sui diritti globali (Ediesse-Cgil), alla seconda edizione
PAOLO ANDRUCCIOLI
Il compito dei rapporti è produrre dei bilanci, degli strumenti di lavoro e di ricerca e magari di attività politica. E se si scelgono i diritti fondamentali come indicatori di base, si ottiene (purtroppo) una fotografia del mondo alquanto preoccupante. Una scena in cui aumentano le diseguaglianze e la povertà (550 milioni di uomini e donne che vivono con meno di un dollaro al giorno) e dove continuano a essere negati molti diritti della persona (le torture e Guantanamo sono solo casi estremi); l'ambiente viene calpestato ogni giorno, nonostante il trionfo mediatico delle nuove culture «verdi» e dove, perfino nei luoghi di massimo sviluppo economico, vengono tuttora negati i diritti sindacali e sociali, che comunque vengono giocati nella competizione mondializzata per mettere l'uno contro l'altro i nuovi segmenti dei mercati del lavoro. Un mondo dove la salute non è più un diritto come ci aveva insegnato il Novecento, ma un prodotto che si vende negli uffici delle grandi compagnie di assicurazione private. Il Rapporto sui diritti globali (Ediesse, la casa editrice della Cgil), curato dall'Associazione SocietàINformazione di Sergio Segio, e promosso dalla Cgil, in collaborazione con l'Arci, Antigone, Cnca (Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza) e Legambiente, è già alla sua seconda edizione. Era partito l'anno scorso un po' in sordina e sta crescendo in corso d'opera. Così il nuovo Rapporto (1047 pagine, finite di stampare a maggio) sceglie di mettere al centro i diritti fondamentali, utilizzandoli quindi come indicatori dello stato di salute delle società in cui viviamo. Il rapporto, ha spiegato ieri Sergio Segio che ha coordinato anche questa edizione, vuole essere una «pietra d'inciampo, il nostro contributo alla memoria del presente». Il termine viene traslato dall'esperienza tedesca: in Germania sono state infatte collocate in molte città 3000 Stolpersteine, pietre su cui fare inciampare gli occhi e la memoria, con i nomi delle persone uccise dal nazismo. La fotografia dello stato attuale dei diritti, dunque, come «inciampo» per indirizzare le politiche.

Guglielmo Epifani, il segretario generale della Cgil che firma l'introduzione al Rapporto, spiega che il bilancio degli ultimi dodici mesi è negativo perché lo stato dei diritti in Italia e nel mondo è peggiorato. Il segretario della Cgil ci tiene in particolar modo a sottolineare il fallimento delle trattative sul commercio mondiale. Il flop di Cancun ha lasciato aperta la strada a una politica di scambi commerciali ineguale e fondata sull'assenza di regole. Dati preoccupanti, nel bilancio dei diritti, riguardano quindi ovviamente anche la stessa Europa, che non ha ancora una base costituzionale comune, ma anche il nostro paese, dove «le scelte del governo - sono ancora le parole di Epifani - hanno allargato la fase della stagnazione produttiva, vanificato le prospettive di ripresa e indebolito il tessuto sociale e produttivo».

Titti Di Salvo, della segreteria confederale della Cgil, ha spiegato ieri l'impianto, la struttura del nuovo Rapporto annuale sui diritti. In particolare ha voluto mettere in evidenza la scelta di dividere il lavoro in quattro grandi capitoli (diritti economico-sindacali, diritti sociali, diritti umani, civili e politici, diritti globali ed ecologico-ambientali) e di ripetere per ogni sezione la stessa struttura. Dopo l'esposizione dei temi centrali e le prospettive, vengono cioè proposte delle schede di lettura, una cronologia e le parole chiave. Nella parte riguardante i «nuovi lavori e i nuovi diritti», potrete così trovare le schede sui Cococo, i contenuti della legge 30, la contrattazione collettiva per le collaborazioni. Tra le parole chiave di questa parte spiccano ovviamente gli «atipici», i «call center», il «capitalista personale», il sistema del «job on call» e via dicendo. Molto ricca tutta la parte che riguarda il welfare, dalle pensioni alla sanità, passando per le politiche sociali, mentre nella sezione diritti umani (terzo capitolo) si possono trovare invece gli effetti devastanti della guerra, i conflitti per le materie prime, l'estremismo islamico, ma nelle schede ci sono riferimenti anche alle mine antiuomo, al nuovo boom delle armi, passando per le varie missioni di «peacekeeping» e «peacebuilding».

Nella quarta e ultima sezione, quella sui diritti globali ed ecologico-ambientali si fa il punto sugli effetti reali dei processi di globalizzazione, con schede sulla disoccupazione, la comunicazione e informazione globali, il quarto Forum sociale mondiale, il vertice di Cancun e la crisi del Wto. Non mancano tra le schede planetarie quella sull'accesso ai farmaci e perfino un primo bilancio «in chiaroscuro» del governo Lula in Brasile.

Per Stefano Anastasia (Antigone), il Rapporto è stato anticipatore della situazione che ha fatto emergere le torture in Iraq, mentre per Tom Benetollo (Arci) il lavoro è soprattutto uno stimolo ai partiti e alla politica tradizionale perché si rimetta in sintonia con la società. Teresa Marzocchi (Cnca) e Maurizio Gubbiotti (Legambiente) hanno inve spiegato i nessi tra i diritti del lavoro e quelli sociali e ambientali. Titti Di Salvo ha spinto fino alle estreme conseguenze la critica allo sviluppo economico basato sulla competizione dei prezzi. Invece di perdere la gara con i paesi con il più basso costo del lavoro, bisognerebbe cominciare a esportare i diritti nel mondo. Una frase che nella Cgil, sindacato dei diritti, è suonata bene, ma che in qualsiasi consesso finanziario avrebbe fatto gridare allo scandalo.


3 giugno

Buone abitudini
GABRIELE POLO
E'al potere per brogli elettorali. Straccia il diritto internazionale con bugie di distruzione di massa e torture, getta a mare quattro secoli di cultura politica praticando la guerra preventiva e così facendo distrugge diritti e costituzioni nel suo stesso campo. Mette in stato d'assedio qualunque città visiti. E, infine, rovescia l'anniversario della liberazione di Roma nel suo contrario, pur di mandare in onda uno spot elettorale berlusconiano. Tra le presenze annunciate a Roma il 4 giugno, quella davvero illegittima è rappresentata da George W. Bush. Al suo cospetto una strada bloccata o un giovane incatenato a un monumento sono atti da inserire nei manuali d'educazione civica (se ancora esistono). Ma ormai si corre il rischio di abituarsi a tutto o quasi, come alla degenerazione del compleanno repubblicano in festa d'armigeri per far gioire l'inquilino del Quirinale e dotare di ferreo spessore l'orgoglio nazionale. Ci si abitua anche a forze politiche che declinano l'opposizione in assenteismo e invitano a starsene a casa, un po' come il Craxi che agli elettori consigliava il mare.

O forse non è così, forse le abitudini non sono poi così cattive o rassegnate. Lo abbiamo visto anche ieri, in una parata che per svolgersi ha dovuto blindarsi e chiudersi; nelle manifestazioni di dissenso fronteggiate da forze dell'ordine troppo nervose, istigate da un governo in difficoltà e per questo ancor più pericoloso. Lo vedremo domani, quando saremo in tanti a manifestare - in vario modo - contro Bush e la sua (nostra) guerra, per fargli capire che è persona indesiderata. Messaggio doveroso, a prescindere dall'ultimo messaggio delle brigate verdi, le cui sollecitazioni a manifestare contro Bush non ci riguardano. Non esserci, starsene a casa o - invitare ad assentarsi rappresenterebbe una resa, una violazione del diritto all'agire pubblico, cioè dei fondamenti di una democrazia. Chi, tra i partiti dell'opposizione, invita i propri iscritti ed elettori a non scendere in piazza espone chi ci sarà al grave pericolo della solitudine, che è una pessima consigliera. E mette la giornata nelle mani di governo, polizia e carabinieri. Che sono la vera incognita di domani, essendone, istituzionalmente, i principali responsabili.

Da tempo il movimento contro la guerra ha saputo sorprendere per la sua capacità di sfuggire alle trappole senza perdere la propria radicalità, per aver respinto le logiche militari anche quando queste cercavano di investirlo. Sono le buone abitudini, quelle da non perdere.



Per la morte del soldato Scieri

NE’ GIUSTIZIA NE’ FUNERALI DI STATO

 di Agostino Spataro

 In tempi di eroismo a buon mercato, il mondo sembra essere in attesa di un super-eroe capace di ristabilire un ordine nel sistema di valori che giustificano le onorificenze militari e civili.  

Mai, prima di questa guerra irachena , la propaganda bellica e politica aveva fatto un così facile ricorso all’eroismo, forse perché a corto di argomenti convincenti.

L’eroismo, dunque, come valore diffuso, da attribuire preferibilmente ai caduti. Non ci sono eroi  vivi che possono raccontare come è andata.

Come ho già avuto modo di scrivere, dopo l’attentato di Nassiriya, i caduti di questa guerra (in gran parte siciliani e meridionali), sono, prima di tutto, vittime del lavoro che manca nel Meridione e delle ristrettezze  tipiche delle famiglie monoreddito.

Perciò non stupisce che tale propaganda non ha considerato eroica la morte del giovane parà

Emanuele Scieri, 23 anni, da Siracusa, avvenuta non in Iraq ma in Italia, all’interno della caserma Gamarra di Pisa, a causa di un gravissimo atto di “nonnismo”.

Una morte assurda e archiviata, anche se la procura militare di La Spezia non esclude “possa essere ricondotta nella forma dell’omicidio colposo o preterintenzionale alla responsabilità di determinati soggetti dei quali comunque non è stata possibile l’identificazione”.

Non sono bastate, dunque, tre inchieste e le clamorose denunce della stampa per individuare i responsabili dell’atroce delitto, per rendere giustizia alla famiglia del povero Emanuele e per rasserenare l’opinione pubblica rimasta molto turbata dall’episodio.

Insomma, mentre la magistratura italiana indaga per individuare (e processare) i responsabili stranieri delle morti in Iraq, in Italia si archiviano le inchieste per questo atroce (per quanto “colposo”) omicidio, avvenuto in territorio nazionale, all’interno di una caserma dell’Esercito italiano.      

Si archivia- quasi ammette il procuratore militare di La Spezia- per mancanza di testimonianze, di collaborazione, per una sorta di malinteso solidarismo cameratesco.

Fra la magistratura inquirente e l’ambiente militare interessato dal delitto è stato eretto un muro di omertà (non c’è altro termine) che certo stride con le tradizioni di lealtà e di giustizia delle forze armate repubblicane. Eppure non si è trattato del classico secchio d’escrementi, ma di qualcosa di terribile e di atroce. Una morte violenta, drammaticamente vissuta dal povero parà siciliano, provocata- come si paventa nell’inchiesta-  da qualcuno che, per gioco, avrebbe “indotto” Scieri a gettarsi da un pilone alto almeno dieci metri e, per risultare più convincente, quel “nonno” ignoto (solo uno?), sempre per gioco, gli ha fracassato le dita delle mani, disperatamente aggrappate ad un sostegno in un estremo sforzo di salvezza. Che scena edificante!

“Fu e come fu fu”, si potrebbe dire mutuando un lugubre motto che connota i comportamenti omertosi ingiustamente attribuiti ai soli siciliani.

Tutto archiviato, dunque. Formalmente è a posto la farisaica falsa coscienza di chi facilmente s’indigna per chi muore in terra d’occupazione e tace per una morte atroce avvenuta in casa propria.

E così, per il povero Emanuele Scieri, da Siracusa, né giustizia né funerali di Stato.

                                                 

1 giugno 

TERRATERRA
I «non allineati» dei farmaci

MARINA FORTI 

Il problema è quello, annoso, del sistema dei brevetti che «droga» il prezzo dei farmaci, fino a renderli troppo costosi per i sistemi sanitari (e i pazienti) dei paesi del Sud del mondo. La notizia è che un gruppo di otto paesi ha deciso di lanciare una strategia comune per controbilanciare le posizioni dei paesi ricchi nel dibattito internazionale sui farmaci. Si tratta di Brasile, India, Cina, Thailandia, Sudafrica, Russia Nigeria e Uganda: durante l'ultima assemblea generale dell'Organizzazione mondiale per la sanità (Oms), la settimana scorsa a Ginevra, i rispettivi ministri della sanità hanno deciso di formare un gruppo per la lotta all'Aids. Stanno preparando una dichiarazione congiunta, da diffondere al prossimo Congresso Mondiale sull'Aids, a Bangkok (Thailandia) in luglio. Il ministro brasiliano della sanità, Humberto Costa, ha spiegato che insieme, gli otto paesi «possono far sentire la propria voce nell'elaborazione di una politica mondiale di lotta all'Aids» - leggiamo in una nota di stampa brasiliana fatta circolare da Medici senza Frontiere.

Le idee di fondo sono circolate durante quel primo incontro a Ginevra: gli otto paesi vogliono lanciare una strategia per creare una nuova generazione di persone libere dall'Aids, che significa non solo curare ma lanciare campagne di prevenzione per fermare la diffusione del virus Hiv - dunque garantire l'accesso a farmaci e a cure preventive. Gli otto paesi vogliono avviare uno scambio di informazioni sulle strategia di cura all'Aids, mettere in cantiere iniziative di cooperazione tecnica, e soprattutto muoversi in modo coordinato nel caso di rottura del brevetto di un farmaco prodotto da una azienda farmaceutica multinazionale.

La questione è molto concreta. I farmaci antiretrovirali hanno ormai allungato e reso meno penosa la vita dei malati di Aids nel mondo ricco, ma restano fuori portata per gran parte del resto del mondo, e il motivo principale è che coperti da brevetto hanno costi proibitivi. Si prenda ad esempio la terapia combinata di Stamudina, Nevirapina e Lamidruvina, una delle più diffuse: con i farmaci «di marca» può costare da 7mila a 11mila dollari all'anno per paziente, mentre una delle più importanti case farmaceutiche indiane, la Cipla, produce i tre farmaci «generici» combinati in una sola pastiglia, il Triomune, che esporta al costo di 350 dollari l'anno per paziente: la differenza sta tutta e solo nelle royalties che prende il detentore del brevetto. Il fatto è che se un paese decide di produrre i suoi «generici», ove ne sia capace, o di comprarli da ditte che li producono, la reazione è assicurata: cause legali, cause presso l'Organizzazione mondiale del commercio, o addirittura forme di pressione preventiva - gli Stati uniti ad esempio hanno cominciato a condizionare i loro aiuti a paesi poveri ad accordi bilaterali in cui questi si impegnano a non invocare le norme del Wto che permettono (sia pure con mille limiti) di comprare «generici» in caso di grave minaccia alla salute pubblica.

Il ministro brasiliano fa notare che il gruppo potrà meglio resistere alla pressione delle aziende farmaceutiche e dei governi dei paesi ricchi, in caso di rottura di un brevetto. «Formato da paesi che sommano un gran numero di consumatori, il gruppo potrebbe ridurre la capacità di pressione dal parte dei paesi ricchi», ha dichiarato Costa. Non solo: Cina e India sono anche i due primi produttori di farmaci generici al mondo (seguite da Brasile e Thailandia). Il Brasile poi è il paese che negli anni `90 ha registrato il maggiore successo nella battaglia per fermare la diffusione dell'Aids, sia perché ha deciso di produrre i suoi «generici» (sfruttando il periodo di grazia concesso dal Wto prima di dover rispettare i brevetti), sia soprattutto perché ha distribuito farmaci, preservativi ed educazione preventiva attraverso un sistema sanitario basato sull'accesso universale. In altre parole, il «gruppo degli 8» per la battaglia all'Aids unisce capacità tecnologica e una certa idea della salute pubblica.


Senza governo
GALAPAGOS
Antonio Fazio ha «scaricato» il governo. A pochi giorni dall'assemblea della Confindustria che ha preso le distanze da Berlusconi, il governatore, ha sbattuto la porta in faccia all'esecutivo. Le critiche di Fazio non lasciano spazi per un ripensamento: in tre anni si è passati dall'evocazione del «nuovo miracolo economico possibile» a una critica puntigliosa dell'operato del governo. Certo, Bankitalia annuncia che nel 2004 il pil potrebbe crescere dell'1%, che le imprese sono un po' meno pessimiste e hanno ripreso a investire. Ma le «buone» notizie si fermano qui. Tutto il resto è una analisi puntuale dei fallimenti della politica economica. Rischiosa perfino la legge Biagi: in assenza di sviluppo potrebbe trasformarsi in una «trappolone» per i lavoratori flessibilizzati. Quella delineata da Fazio è l'immagine di un paese in declino. Sembrava di sentir parlare la Cgil: la produttività che decresce, le esportazioni che crollano (solo il 3% della quota mondiale rispetto al 4,5% di pochi anni fa). L'Italia ormai è esportatrice solo di prodotti maturi ma con sul collo il fiato dei paesi in via di sviluppo. Manca la tecnologia, la ricerca è assente.

Poi i conti pubblici: un disastro. A fine anno il deficit potrebbe raggiungere il 3,5% del pil. Nel prossimo anno il 4%. Il tutto non per scelta, ma per lassismo. Risultato: serve una manovra correttiva. E mancano (o vanno a rilento) gli investimenti in infrastrutture, mentre l'occupazione, che pure seguita a crescere, è lavoro di sussistenza, a basso valore aggiunto. Lo dimostra l'enorme numero di imprese con un solo dipendente-imprenditore nate in questi anni.

«Compito prioritario della politica economica nell'attuale difficile contesto - spiega il governatore - è il contenimento del volume di risorse assorbito dal settore pubblico»: contenimento significa realizzare dei surplus per far crescere l'avanzo primario (crollato al 2,2%, contro il 5,2% ereditato del centro sinistra) perché solo così si riuscirà a intaccare la mole del debito che incombe sui conti pubblici sotto forma di spesa per interessi destinati a aumentare con il prossimo aumento dei tassi. Insomma, spazi per ridurre la pressione fiscale, sono «pochini». Poi un altro attacco al governo: il prossimo Dpef deve essere finalizzato al risanamento e concordato con le parti sociali che sono state abolite dal lessico e dalla pratica del governo.

Sul ruolo della banca centrale per la questione della difesa del risparmio Fazio si è difeso e attaccato giocando di rimessa. Ha riferito degli elogi ricevuti al suo operato e alla struttura dalle banca dalla Bce e dal Fmi. Poi ha tirato un po' le orecchie alle banche. Debbono imparare a spiegare bene i rischi dell'investimento ai risparmiatori: solo così si eviteranno altri casi Parmalat. Il sistema bancario (al centro della relazione per la capacità propulsiva e il nuovo ruolo che può assumere per lo sviluppo) si è detto d'accordo. Di più: il presidente di Banca Intesa, Bazoli, parlando a nome dei «signori partecipanti» non ha esitato a denunciare i rischi «di ingerenza della politica» insiti nella legge sul risparmio del governo.

Nel 2000 il governatore «salutò» il centro-sinistra con una relazione durissima. Nel 2001 l'esaltazione di Berlusconi. Oggi la conferma di una nuova svolta con «Considerazioni finali» politicamente di centro, da conservatore illuminato, anche se di questi tempi descrivere relisticamente la situazione può apparire «rivoluzionario». La sinistra ha apprezzato le parole di Fazio, ma deve stare attenta a non bruciarsi: il governatore può essere un «compagno di strada», nulla più. E non solo per l'insistenza con la quale ha riproposto il «completamento» della riforma delle pensioni o quella sanitaria. Accontentarsi può essere grave anche per gli esiti elettorali di qui a dieci giorni.

31 maggio

Una lettera-editoriale all'indomani del discorso congressuale
Una lunga serie di critiche alla politica del premier
Il Foglio attacca Berlusconi
"Non ci fidiamo più di lei"
"Lei rifiuta di comprendere l'altra parte del Paese"
E anche il dubbio "che lei possa fare qualcosa" per cambiare

ROMA - "Gentile presidente, le diciamo perchè non ci fidiamo più di lei e che cosa questo significa". Comincia così un lungo editoriale che 'Il Foglio' in cui il quotidiano diretto da Giuliano Ferrara muove una serie di aspre critiche nei confronti di Silvio Berlusconi, all'indomani dell'apertura del congresso di Assago.

"Lei - scrive 'Il Foglio' - non guida il Paese entro una misura minima di ordine politico, e la sua coalizione e perfino il suo movimento le si sottraggono o le si sottomettono, ma non fanno luce, non producono un linguaggio nuovo, non sono ancorati a null'altro che non sia un rapporto nevrotico con la sua capricciosa personalità. Lei ha prodotto una classe dirigente cui continua a mancare, salvo rarissime eccezioni, l'amore per la cultura e per la politica stessa, cioè una cura minima del senso di marcia di un'opera che dovrebbe essere collettiva e pensante ma risulta invece in moltitudine sparsa a caccia di varie ed effimere convenienze".

"Lei, gentile presidente - prosegue l'editoriale - continua a nutrire l'illusione che si possa stare in politica da imprenditore curando di diventare sempre più ricchi e sempre più indifferenti alla soluzione di un gigantesco conflitto di interessi che i suoi nemici attaccano per le ragioni sbagliate, e con la coda di paglia, ma per che i suoi amici non ossequienti esiste, ed esiste anche per lei".

"Lei pensa che si possa annunciare la riforma delle pensioni e la rivoluzione fiscale promesse lasciando che con il tempo tutto si insabbi e si rimpicciolisca fino all'invisibilità. Lei pensa che la riforma della giustizia sia l'aspetto vano ed astratto della concreta e sacrosanta battaglia per bloccare coloro che le scaraventano addosso personalmente la giustizia politica: gli altri, e i loro diritti civili, vengono tanto dopo che non si vedono più. Lei pensa che si possa tirare avanti con la neutralizzazione dell'informazione e della discussione pubblica, lasciando più o meno ai suoi avversari le loro caselle, eliminandone alcune con cesure goffe, conquistandone altre nella logica della solita blandizie verso il potere, non producendo niente di serio e di nuovo".

"Lei pensa che tutto le sia dovuto, che gli alleati siano azionisti di minoranza della sua azienda, che gli amici siano famigli o strumenti che le idee contano solo se si traducano in scoop vincenti nel mercato dell'immagine personale del leader".

"Lei rifiuta categoricamente di comprendere l'altra parte del Paese nelle sue sfumature e diversità, e ritiene che basti staccare la cedola dell'incomunicabilità e della reciproca delegittimazione ideologica, magari teorizzando l'amore contro l'odio: così tutto si semplifica in modo avvilente, le istituzioni si irrigidiscono in una contesa corporativa di un tedio bestiale e la società non è scossa e rivoluzionata da idee nuove e dalla passione di governare, persuadere, spiazzare, sorprendere".

Dopo questo elenco di critiche, 'Il Foglio' osserva che "oltre una certa soglia la sua simpatia, il suo genio e talento personale, la sua cocciutagine e libertà di tono, anche nelle peggiori gaffe, diventano un materiale povero, una ripetizione coatta di automatismi senza più senso".

"Siamo stati cantori del berlusconismo e della sua autoironia e di fronte alle sue vanità o al grottesco culto spirituale del Capo ci siamo anche compiaciuti che lei andava accettato così com'è. Ora non ci fidiamo più di lei e della fiducia allegra, ma non assoluta, che in lei abbiamo riposto per tanti anni. Dopo esserci battuti a lungo e con tenacia (battaglia vinta) per una persona avventurosa che era una politica e insieme la riforma possibile della politica, abbiamo poi aspettato una politica al di là della persona, ma invano".

"Se la cosa la interessa, ma è dubitabile, veda che si può fare. I tempi sono così grami che il sostegno alla sua opera non ha alternative, e forse questo a lei può bastare, per quello che conta. Noi vorremmo anche poterla apprezzare, l'Opera. Ma è tardi, sempre più tardi".

 

Libertà è informazione

Ecco il testo dell'appello di Libertà e Giustizia sulla crisi dell'emittenza pubblica. Sotto, lo spazio per aderire

Libertà e Giustizia seriamente preoccupata per l’ulteriore occupazione degli spazi di libera informazione della Rai alla vigilia della campagna elettorale che vedrà coinvolti tutti i cittadini italiani per le elezioni europee e una gran parte di essi per le amministrative chiama gli elettori a prendere coscienza di questa degenerazione del sistema democratico.

Denuncia che in nessun Paese democratico del mondo in nessun momento della nostra storia recente si è verificato il monopolio totale del mezzo televisivo di massa nelle mani del capo del governo in carica.

Il cittadino libero è il cittadino informato, in grado di distinguere bugie e verità, sogni e promesse da soluzioni possibili e concrete.

Libertà e Giustizia si rivolge alla parte non servile della stampa italiana e a quella internazionale affinché denuncino in tutte le sedi possibili l’anomalia del nostro Paese.

Invia il presente appello ai presidenti di Camera e Senato e al Presidente della Repubblica affinché, posta la gravità della situazione, prendano tutte le iniziative istituzionali atte a ripristinare un sistema di governo legittimo della Rai e a garantire e tutelare l’imparzialità e la regolarità della campagna elettorale.